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Capitolo I
La guerra era finita e in Italia si respirava un’altra aria. Il
rumore delle bombe, degli aerei e dei carri armati aveva
lasciato il posto alle nuove canzonette. Murolo e Carosone
avevano riportato agli antichi splendori la musica popolare
napoletana. Nilla Pizzi e tutta la folta schiera di cantanti di
musica leggera non avevano portato alcuna novità. Tony
Dallara e Domenico Modugno uscirono dagli schemi.
Dall’America l’eco del rock & roll suonò come un rombo.
Nel giro di poco tempo i nuovi rocker italiani proposero quella
musica a milioni di persone. Soprattutto ai giovani che
finalmente avevano qualcosa di nuovo da ascoltare. In tutto il
paese non si ascoltava altro che la musica rock di Celentano,
Gaber e tutti quelli che si cimentavano nell’esecuzione del
rock.
A Montegallo, un paesino in provincia di Ascoli Piceno,
nelle Marche, quella nuova forma musicale giunse come un
colpo in faccia. Tutti i ragazzini iniziarono ad appropriarsi
degli strumenti che possedevano i nonni e i genitori. Iniziarono
a copiare le gesta dei grandi della musica italiana e straniera
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che giungeva nei bar tramite i jukebox. In alcune case
attraverso i 33 e i 45 giri.
La famiglia Volpe viveva nella periferia del paese.
Impiegato comunale lui, insegnante di scuola elementare lei.
Appassionati di musica avevano una nutrita collezione di
dischi, catalogata in ordine alfabetico e genere musicale.
Questa passione per la musica da parte dei coniugi si rifletté
su uno dei due figli. Domenico. Aveva sempre ascoltato i vari
dischi insieme ai genitori e iniziato a canticchiare quelle opere
nelle varie feste scolastiche.
Aveva deciso di imparare la chitarra, convinto, un giorno, di
poter suonare con un gruppo rock. Passava ore e ore a imparare
tutti i segreti dello strumento. La sua vita era fatta di accordi
maggiori, minori e di assoli che avrebbero fatto parte delle sue
prime composizioni. Voleva diventare un rocker. Questa
convinzione lo portò a vestirsi in maniera molto trasgressiva
per l’ambiente in cui viveva. In linea con la moda portata
avanti dai musicisti più famosi.
Non era un ragazzo alto. Al di sotto della media dei suoi
coetanei. Si lasciava spesso prendere in giro, anche se, quello
dell’altezza, era l’ultimo dei suoi problemi. Non si era mai
preoccupato dell’apparenza tanto che in quel modo di vestire ci
trovava più una sfida con se stesso che verso una popolazione
legata a mode tradizionaliste.
Per lui suonare la chitarra era molto più difficile. Quelle
mani tozze facevano fatica a stringere il manico dello
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strumento. Passava intere giornate a trovare il modo giusto per
poter suonare al meglio.
Quando si presentò per la prima volta agli amici con la
chitarra in braccio ci fu un momento di ilarità che dovette
riderci sopra per non cadere nel baratro dello sconforto.
Vedere un minuto ragazzo tenere in braccio un’enorme
chitarra che lo copriva quasi fino al collo avrebbe fatto ridere
anche lui. Trovava la forza nella musica e metteva il resto in
secondo piano.
A ogni festa era l’invitato d’eccezione. Sapeva riproporre le
canzoni che si ascoltavano nei dischi e viveva ormai come un
jukebox umano. Passò parecchi anni della giovinezza a
proporre e riproporre il repertorio musicale di quegli anni.
La moda del momento aveva spinto altri suoi amici a
imparare a suonare gli strumenti come la batteria, la chitarra e
il basso. Qualcuno si spinse persino a cantare. Nella stessa
classe si ritrovarono in cinque con la passione per la musica e
tutti con uno strumento diverso da suonare. Parlavano sempre e
solo di musica e più di una volta si trovarono d’accordo sul
genere e sul modo di suonare.
Spesso fra di loro si scambiavano informazioni riguardanti
gli ultimi dischi in uscita e, appena avevano l’opportunità di
comprarli, si chiudevano in qualche stanza ad ascoltarli.
Nessuno aveva frequentato scuole musicali e solo ascoltando il
pezzo potevano capire gli accordi, il ritmo della batteria e la
linea melodica vocale.
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Dopo mesi di esercitazioni e di ascolti decisero che era il
momento di fare qualcosa che potesse spingerli fuori
dall’apatia che il paesino proponeva giornalmente. Si divisero i
ruoli. Quando toccò decidere chi dovesse suonare la chitarra
solista concordarono che il ruolo spettasse a Domenico. Non fu
lui a chiederlo e a rivendicarlo. Fu datogli dalla band perché
aveva iniziato a suonare per primo e quindi con qualche
nozione in più.
La felicità per la nascita della band li inebriava. Li esaltava
l’idea di poter finalmente suonare in un vero gruppo musicale
come facevano i propri idoli. Una cantina fuori paese divenne
la sala prove. Non appena finirono i lavori di ristrutturazione e
di arredamento, posizionarono gli strumenti e iniziarono a
suonare il rock & roll. Passavano giornate intere chiusi in
quella stanza provando le canzoni che ascoltavano alla radio,
nei jukebox e dai vinili.
La carriera del gruppo iniziò con le prime esibizioni
scolastiche e per questo ci fu la necessità di attribuire un nome
alla band. La scelta fu difficile. Passarono due giorni senza
suonare. Si chiusero in cantina a proporre una quantità
esagerata di nomi. Giunsero alla conclusione di chiamare la
band Il Gruppo. Ne andavano fieri. Credevano che quel nome
racchiudesse lo spirito di quello che avevano creato. Erano
riusciti ad arrangiare un vasto repertorio di cover e qualche loro
composizione da far ascoltare in giro per la provincia
Ascolana. Cullavano il sogno di poter riuscire nell’impresa di
diventare famosi come i grandi gruppi rock.
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Era l’agosto del ’59. Il padre di Domenico arrivò a casa
mentre tutti stavano pranzando. Si girò verso il figlio e gli
chiese se insieme alla band avessero voluto esibirsi in
occasione della sagra del tartufo. A Domenico non sembrava
vera quell’affermazione. Suo padre gli e la ripropose in
maniera più dettagliata. Gli si bloccò il cibo in gola tanto che
dovettero aiutarlo nel riprendere aria. Guardò suo padre con gli
occhi pieni di soddisfazione accettando l’invito. Sapeva che
anche gli altri sarebbero stati d’accordo con lui. Non finì
neanche di pranzare. Si lanciò come un razzo a casa degli altri
componenti dirigendosi velocemente in sala prove. Volevano
farsi trovare pronti nella loro prima esibizione davanti a
centinaia di persone.
Il giorno dell’esibizione arrivò con tutto il calore dell’estate.
Era tutto pronto. L’enorme palco costruito per l’occasione.
L’impianto audio. Le luci. La piazza da cornice per quella che
sarebbe diventata la serata d’esordio de Il Gruppo. Erano seduti
in un angolo vestiti tutti uguali. Avevano visto in alcune riviste
come si vestivano i rocker. Avevano racimolato vestiti eleganti
che portarono dalla sarta del paese che li aggiustò su misura. Si
presentarono eleganti. In nero. Pronti a redigere in maniera
definitiva la scaletta dei brani.
L’unica preoccupazione della band era il risicato inglese che
erano riusciti a imparare qua e là. Nessuno nel paese conosceva
l’inglese e l’ignoranza verso quel tipo di musica risultò essere
l’unica ancora di salvezza.
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Tutto iniziò per il verso giusto. Al quattro della batteria
iniziarono a suonare la prima canzone della scaletta.
Proseguirono spediti con piccoli intermezzi fra un brano e
l’altro. Arrivarono alla fine della serata che mancava circa un
quarto d’ora alla chiusura. La preoccupazione per la mancanza
di altri brani li catapultò in uno stato di ansia e di frustrazione
che diventò una trappola. Per circa un minuto si guardarono
negli occhi senza sapere cosa fare. All’improvviso Domenico
decise che era il momento di mettere in atto tutto lo studio
effettuato fino a quel momento. Si avvicinò con calma verso gli
altri ragazzi impartendo l’ordine di eseguire un ritmo lento
basato su tre accordi. Il batterista diede il quattro. Non appena
l’altro chitarrista e il bassista finirono il primo giro di accordi
iniziò a far vibrare le corde della chitarra. L’urlo delle corde si
espanse per tutta la piazza lasciando gli spettatori sbigottiti
davanti a tale spettacolo. Suonò con il capo sempre chino verso
il manico dello strumento. Senza guardare cosa stesse
succedendo. La magia doveva ancora accadere. All’ultimo giro
di accordi legò una scala pentatonica e al suono dell’ultima
nota alzò il capo come per dire “ecco a voi ora fischiateci
pure”. Non fu così che finì la serata. Il pubblico iniziò ad
applaudirli talmente forte che sembrava cadesse il palco da
sotto i piedi. Fu una serata magica e da lì in poi ne seguirono
altre.
Il Gruppo divenne famoso nella provincia. Il nome di
Domenico Volpe riecheggiava nelle bocche e nelle
conversazioni di tutti gli appassionati di musica. Era diventato
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una star. Tutti lo riconoscevano e tutti correvano per andare a
vedere il suo concerto. Per assistere all’ultimo grande assolo di
chitarra. Ci scherzava molto su questa cosa. Non si sentiva una
rockstar tantomeno voleva stare davanti al resto del gruppo.
Erano partiti tutti insieme. Con la stessa passione. Quel poco di
sapere, messo al servizio del gruppo, non poteva farlo
diventare pretesto per diventare l’unico vero protagonista.
Era una situazione nata per caso ma ripetuta in ogni
concerto. Questo servì per iniziare a guadagnare anche i primi
soldi. La gente andava a vedere il gruppo. I locali li pagavano.
Ogni notte, quando si metteva a letto, passava ore e ore a
immaginare una carriera da musicista. Sognava palchi enormi e
folle di persone che osannavano lui e il gruppo. Gli restava solo
l’immaginazione. Uscire da una provincia del centro Italia e in
un periodo come quello del dopoguerra sarebbe stata
un’impresa impossibile.
L’estate stava terminando. Avevano suonato per tutta la
provincia. Il nome della band era ormai sulla bocca di tutti. A
coronare quella magnifica esperienza ci pensò uno dei loro
genitori che, per tutto l’inverno, era riuscito a strappare un bel
po’ di serate in giro per i locali. Avrebbero affrontato una fase
di studio, scuola e sala prove.
Era passato qualche mese da quando avevano iniziato a
suonare. La band era migliorata notevolmente, tanto che
avevano varcato anche i confini della regione. Suonarono in
Umbria e in Emilia-Romagna.
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La sua figura simboleggiava la band. Il suo ego iniziò a
crescere a dismisura da ritenere stretto quel luogo e quelle
origini per l’ascesa nel mondo della musica che conta.
Passava intere nottate a fissare il soffitto. Voleva trovare
fortuna altrove. Viaggiava spesso con la fantasia. Immaginava
platee grandissime che osannavano il chitarrista italiano capace
di far vibrare le corde della chitarra come nessun altro.
Da quando aveva iniziato a suonare aveva pensato bene di
conservare minuziosamente tutti i guadagni perché sicuro che
gli sarebbero serviti per il grande salto di qualità.
L’idea iniziale era quella di comprare una nuova chitarra, un
nuovo amplificatore e quegli strumenti chiamati pedali effetto.
Sfogliava ogni giorno una rivista musicale acquistata durante
un’esibizione in Emilia Romagna. Lì era molto più facile
trovare questo tipo di riviste perché la scena musicale era molto
più attrezzata e fornita. Era rimasto folgorato da un modello
Fender Stratocaster di ultima creazione. Non aveva mai letto
una rivista musicale e da questa iniziò a imparare altri aspetti
dello strumento che fino ad allora gli erano sconosciuti. Aveva
iniziato a suonare con una Gibson ereditata dal nonno. L’aveva
comprata durante una campagna militare in America insieme
con un amplificatore di una marca poco conosciuta, ma
perfettamente funzionante. Era tutto quello che possedeva. Era
cosciente che per ambire a una carriera doveva per forza
comprare roba nuova e di qualità.
Dopo l’ennesima serata con la band capì che era ora di
cambiare la strumentazione. Dopo aver avvisato i suoi genitori
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della decisione presa, saltò sul primo treno locale diretto nel
capoluogo per una giornata di compere.
Il negozio sito quasi nel centro della città era immenso. La
musica rock aveva portato entusiasmo anche a livello
economico. Aprire un negozio del genere era più un
investimento che un rischio.
Non avrebbe impiegato tanto nella scelta degli accessori.
Sognava quella chitarra. Quell’amplificatore e quel pedale
effetto. Il distorsore. Oggetto che gli avrebbe permesso di dare
una chiave più forte e dinamica agli assoli. Da musicista non
perse l’occasione di provare ogni marca di chitarra e di
amplificatore tanto che impiegò quasi due ore nell’acquisto
degli strumenti. Non tralasciò niente. Chitarra e rispettiva
custodia. Amplificatore. Pedale effetto. Cavi per collegare la
chitarra al pedale e il pedale all’amplificatore. Il ritorno a casa
fu un aspettare ansioso il momento in cui avrebbe potuto
montare tutto per suonarci.
I primi accordi che aveva imparato furono il Do maggiore, il
La minore e il Sol maggiore. Nel provare e riprovare quegli
accordi decise di scriverci sopra un testo poetico che divenne la
prima canzone scritta. Se ne vergognava tantissimo. Nel giro di
pochi anni ne dimenticò tutto. Strappò il quaderno su cui era
scritta per non averne più traccia.
La fretta di poter provare i nuovi strumenti lo spinse
direttamente in sala prove. Gli altri stavano organizzando il
tour che da lì a poco li avrebbe riportati in giro per la regione.
Erano le stesse città. Le stesse piazze. Le stesse feste dei mesi
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precedenti. Per loro significava bissare il successo dell’estate
precedente. La “consacrazione”.
I musicisti restarono sbalorditi nel vedere tutto
quell’apparato elettronico. Lo abbracciarono soddisfatti. Si
resero conto che poteva essere finalmente il momento buono
per poter diventare qualcuno.
Iniziarono a buttare giù nuove idee per le loro canzoni.
Domenico aveva con sé il quaderno dove appuntava ogni
pensiero che avrebbe poi potuto congiungere in un unico testo.
Erano parole che esprimevano quella voglia di scoprire il
mondo, di viaggiare, di realizzare i sogni. I suoi sogni e quelli
che vedeva negli occhi dei suoi amici.
Aveva appena finito di stilare un testo su una base di quattro
accordi. Presentò l’opera in sala prove con l’approvazione
generale. Con la voglia di poterci costruire un’intera sezione
musicale. Diede le direttive necessarie. Al cantante il senso del
testo. Al batterista le battute delle strofe. Al chitarrista ritmico
e al bassista il giro di accordi. Aveva man mano imparato a
leggere e scrivere la musica. Gli altri suonavano senza nessuna
conoscenza teorica. Avevano imparato la musica ascoltando i
grandi gruppi e copiandone le opere. Era necessario, per una
band nata dal nulla, imparare ascoltando le canzoni dei grandi
artisti. Per chi ne vuole fare un lavoro è importante imparare la
teoria musicale.
Impartito l’ordine di suonare dopo il quarto tocco di
bacchetta, il gruppo iniziò a riprodurre subito la canzone
proposta da Domenico. Soddisfatto e dopo aver appuntato
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qualche modifica, disse che poteva funzionare. Anche gli altri
erano consapevoli che stava venendo fuori un bel brano.
Avrebbe significato, per loro, la possibilità di risuonare un’altra
estate in giro per la provincia.
Filava liscio ed era orecchiabile ma tutti si accorsero che
mancava qualcosa. Per migliorarlo mancava l’assolo di
chitarra. Il successo della band era nato per quell’assolo che
Domenico aveva eseguito la serata d’esordio. Tutti lo
guardavano come per dirgli che sarebbe stato compito suo. Non
era convinto di inserire un fraseggio in una canzoncina come
quella appena creata. Ascoltando le varie produzioni del
periodo credeva fosse più consono lasciare il pezzo com’era
stato costruito. Non convinse del tutto i ragazzi che
cominciarono a insistere con più frequenza. Cedette alle
lusinghe. Fece suonare il resto del gruppo in modo da poter
studiare la scala da eseguire su quel giro di accordi. Dopo quasi
un’ora era pronto a suggellare il tanto voluto finale con un
assolo di venti secondi. Bloccò tutti. Fece un cenno al batterista
che intonò i quattro tocchi. Dopo aver riproposto l’ultima parte
della canzone, si avvicinò al pedale effetto e iniziò a eseguire la
scala musicale come chiusura della canzone. Toccò la prima
nota con tale eleganza che nella sala prove si respirò un’aria
magica. Il resto del gruppo restò folgorato dal suono che
emanava quella chitarra e quell’amplificatore. Da far venire la
pelle d’oca.
Ormai il primo brano della band era pronto. Provato e
riprovato. Aspettava solo di poter essere suonato in pubblico. Il
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tour del gruppo sarebbe iniziato da lì a qualche giorno. Nel
paese e nella stessa piazza che li aveva visti esordire l’estate
prima. Era il momento di far sapere al pubblico che Il Gruppo
aveva finalmente deciso di fare sul serio. La prima canzone
scritta da loro ne era la certificazione.
Molte lucciole, un venticello caldo e un giorno di metà
luglio fecero da teatro a quella che sarebbe diventata la vera
sorpresa della serata. Una nuova hit da canticchiare e per di più
da attribuire a un gruppo locale. L’esecuzione fu impeccabile.
Tutti rimasero sbalorditi. L’applauso scrosciante decretò il
successo. Non stavano nella pelle. Il pensiero di aver reso felici
i propri concittadini li faceva stare bene. Erano diventati le star
di Montegallo.
Le serate nelle altre piazze furono un successone di pubblico
e di riscontri positivi. La gente applaudiva durante l’esibizione
delle cover ma si esaltava dopo l’esecuzione del primo singolo
de Il Gruppo. Andava tutto a gonfie vele. Suonavano.
Venivano riconosciuti da tutti. Guadagnavano soldi e facevano
quello che avevano sognato di fare.
Ascoli Piceno non era Roma né Milano né Bologna. Anche
lì la nuova e crescente industria discografica aveva messo
radici. La Music Recording stava cercando gruppi da lanciare
nel panorama musicale nazionale.
Erano riusciti a strappare una serata in un locale fra i più
famosi di Ascoli Piceno. Per suonare lì avevano rinunciato a
un’altra serata ben retribuita in piazza. Sapevano che quello era
un locale molto frequentato. Se ti definivi un artista, un
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musicista, uno scrittore dovevi per forza frequentarlo. L’aria
fuori era tiepidissima. La gente passeggiava davanti al locale e
non ne voleva sapere di entrare. Continuavano a guardarsi in
faccia preoccupati e con la paura che potesse saltare una serata
tanto sognata quanto sudata. Il proprietario si avvicinò con
molta calma verso di loro. Li aveva notati intimoriti e
preoccupati. Da esperto qual era, non gli rivolse alcuna parola.
Li incitò a suonare. Restarono sorpresi da tale comportamento.
Risollevatisi di morale iniziarono a suonare la prima canzone
della scaletta. Magia della musica. Tutti iniziarono a entrare nel
locale. La serata continuò alla grande. Alcuni bis occuparono
molto del tempo a disposizione. Per loro era arrivato il
momento di eseguire quella che rappresentava la vera chicca
della serata. Il fiato si era accorciato per l’ansia. Per la paura di
sbagliare. Le cover erano state provate e suonate con più
frequenza. Il singolo da meno tempo. Il batterista decise che
era il momento di eseguire il brano. Dopo aver attirato
l’attenzione degli altri quattro, a colpi di bacchetta, Il Gruppo
iniziò a suonare il brano. La gente presente nel locale rimase
impietrita. Non conoscevano quella canzone. In un silenzio
catartico rimasero ad ascoltare il brano fino all’ultimo secondo.
Per Domenico era il momento giusto per mostrare le proprie
capacità. Nel momento in cui toccò a lui si investì di una
sicurezza mai avuta prima. Come nell’esordio abbassò la testa
concentrandosi solo ed esclusivamente sul manico della
chitarra. Doveva eseguire l’assolo finale. Gli sudavano le mani
e sentiva il cuore in gola. Alla fine riuscì a concludere la
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composizione. Nell’applauso generale si mise ad abbracciare il
resto della band. Erano tutti e cinque euforici. Soddisfatti.
Convinti che quell’esperienza aveva portato in loro la
consapevolezza di avere qualcosa da dire.
Avevano un’attrezzatura minima. Tre fusti di batteria e due
piatti. Gli amplificatori. Il basso e le chitarre che avrebbero
sistemato nelle rispettive custodie. Erano sereni.
All’improvviso, fra una battuta e l’altra, si sentirono chiamare
dal proprietario. Pensarono immediatamente che, nonostante
tutto, la serata non fosse andata bene. Gli e lo avrebbe
rinfacciato proprio in quel momento. Non fu così.
Il proprietario del locale presentò loro un talent scout che li
aveva visti e sentiti suonare. Voleva offrirgli la possibilità di
registrare un disco. Lo sbigottimento e la paura che fosse uno
scherzo li bloccò. Non appena il proprietario li tranquillizzò,
salì in loro una specie di risata idiota. Si sedettero a un tavolino
dove furono informati di quello che sarebbe successo se
avessero accettato l’offerta. Si concessero il tempo di una
discussione privata dove uscì fuori che erano tutti convinti e
d’accordo ma che dovevano comunque interpellare le proprie
famiglie. Si risedettero al tavolo decidendo di prendere un
appuntamento con il manager per la settimana seguente.
Il ritorno a casa fu magnifico. La macchina del padre di
Domenico era stracolma di strumenti e di entusiasmo. Per la
band si prospettava qualcosa di meraviglioso che avrebbe
sicuramente cambiato la loro vita.
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La mattina seguente riferirono la notizia ai genitori che
accettarono senza alcun problema mettendo una firma affettiva
sul progetto. Riunitisi in cantina iniziarono a capire e a studiare
il modo più corretto di presentarsi all’appuntamento.
La settimana passò velocemente. L’estate portava via con sé
le ore con tale velocità che se non ti affrettavi a fare qualcosa,
ti saresti ritrovato alla sera senza aver combinato niente e triste
per non aver goduto del sole e della gioia che porta la calda
stagione.
L’incontro era fissato per le dieci e mezzo nello studio del
manager. Si erano presentati davanti ai cancelli dell’etichetta
discografica con un’ora di anticipo. Domenico aveva guidato
con tale veemenza che ci volle mezz’ora affinché lo stomaco
degli altri si riprendesse dal trauma.
Le scale erano perfettamente lucide. Di marmo nero. Ben
definito nei suoi tagli. La porta dell’ufficio era lontana
ventisette gradini contati uno dopo l’altro da parte del
batterista. Si accomodarono ognuno su una sedia nera in pelle
posta davanti alla scrivania. Iniziarono a parlare col produttore.
Al gruppo venne spiegato che per il lato A avrebbero inciso
la loro canzone. Per il lato B avrebbero dovuto riproporre il
brano di uno degli autori messo sotto contratto dall’etichetta. Si
prospettava un giro di presentazione del disco e, se le cose
sarebbero andate per il verso giusto, avrebbero potuto
partecipare a qualche programma televisivo musicale.
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Suonò tutto corretto. Nessuno obiettò. Impiegarono un
attimo a firmare il contratto. Si erano legati, per quella
produzione, alla casa discografica.
La sala di registrazione era grandissima. In fondo alla sala
era posta la batteria. Enorme e maestosa. Una cassa. Un
rullante. Un timpano. Due tamburi. Il charleston e un’altra serie
di piatti messi a disposizione del batterista. La separava dal
resto del gruppo un grandissimo pannello trasparente. Sarebbe
servito per attutire il suono in modo da aver maggiore efficacia
nella registrazione. Leggermente più avanti erano posizionati il
resto degli strumenti collegati al grande mixer posto nell’altra
stanza. La stanza di regia. La sala per la registrazione della
voce era a fianco. Avrebbero iniziato le registrazioni il giorno
dopo.
Tornarono subito a Montegallo con direzione sala prove.
Dovevano provare il brano in modo da presentarsi preparati per
le prime registrazioni. Si guardavano con occhi increduli ma,
allo stesso tempo, colmi di felicità. Chi se lo sarebbe mai
aspettato tutto questo. Erano partiti per scherzo. Per rompere la
monotonia di un paesino che offriva pochissimo svago se non il
biliardo e il flipper del bar.
La sveglia suonò presto quel giorno. Un vestiario comodo
per non ingombrare l’esecuzione e via verso la realizzazione
del sogno.
I tecnici spiegarono tutto. Erano in evidente difficoltà. Il
produttore ne era consapevole e per questo decise di dedicare
loro due parole di sostegno. Li rassicurò. Ogni sbaglio faceva
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parte della procedura di registrazione. Non si sarebbero dovuti
preoccupare se ne avessero commesso qualcuno. Le prime due
ore passarono nel tentativo di stabilire che tipo di suono
avrebbero avuto gli strumenti. Nel frattempo presero
confidenza con le attrezzature. Dopo quattro tentativi il quinto
fu quello decisivo.
Dalla regia davano l’ok. La registrazione era venuta bene.
Nessun tipo di errore. Sarebbe stata valutata insieme alle altre
quattro. Nel frattempo furono spediti in una sala dove l’autore
dell’altro brano li avrebbe delucidati sulla canzone scritta da
lui. Domenico vedeva gli altri componenti in netta difficoltà.
Non era solito, per loro, parlare di teoria musicale tantomeno
costruire le canzoni su quelle basi. Fece un cenno loro di
annuire come se avessero capito. Dopo gli avrebbe spiegato
tutto.
Le registrazioni sarebbero riprese due giorni dopo. Ne
approfittarono per provare e per farsi spiegare da Domenico il
modo di eseguire il brano. Li conosceva bene, sapeva pregi e
difetti e sapeva come spiegare le varie parti della
composizione. Capirono al volo la sua spiegazione e in men
che non si dica riproposero il brano secondo le direttive
dell’autore.
Tutto nello studio di registrazione era rimasto intatto.
Avrebbero affrontato un’altra mattinata di registrazione
strumentale e poi un pomeriggio per farsi spiegare come
impostare la linea vocale dei brani.
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Certo che per loro tutte quelle lezioni erano qualcosa di
diverso. Avevano imparato le canzoni riproducendo fedelmente
quello che sentivamo nel disco. Nessuno aveva spiegato loro il
senso del canto, del contro canto o dei cori. Quel pomeriggio fu
istruttivo per tutto il gruppo. Impararono tutto quello che, il
giorno dopo, avrebbero utilizzato per la registrazione.
Le registrazioni vocali iniziarono nel peggiore dei modi.
Non per quanto riguardava la loro canzone ma per quella
dell’altro autore. Erano sfiniti. Dovettero prendersi mezz’ora di
pausa per distrarre la testa da quella sessione di registrazione
fallimentare.
Il produttore si avvicinò a loro spazientito ma sempre col
piglio di chi sa il fatto suo. Voleva arrivare a fine giornata con
un prodotto pronto. Li guardò in faccia spiegando che il canto
era sicuramente la parte più difficile della registrazione. Se
avessero ragionato da sala prove, più che da studio, avrebbero
finito di cantare entrambe le canzoni senza la paura di
sbagliare. Quel discorso fu profetico. Li risollevò di morale con
la certezza che quella sarebbe stata la tornata di registrazione
definitiva. Fu veramente così. In un colpo solo incisero le linee
vocali per le due canzoni con la gioia e la soddisfazione di tutto
lo staff.
Ora avrebbero dovuto solamente aspettare l’uscita del disco.
Di solito le grandi etichette discografiche non mostravano e
non spiegavano mai il percorso che avrebbe eseguito quella
bobina. Il produttore volle regalargli quell’esperienza perché
ritenuti meritevoli di quel premio. Assisterono alla creazione
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della copertina e alla registrazione su vinile dei brani. Fu
un’esperienza unica e servì da sollievo per il ritorno a casa.
Avevano trascorso una settimana che non si sarebbero mai
immaginati. Lo sognavano ma sapevano che sarebbe stato
difficile. Pieni di soddisfazione e con un po’ di presunzione
pensavano ormai in grande. Credevano fortemente che quella
sarebbe stata l’occasione che avrebbe cambiato loro la vita. In
parte quel pensiero era corretto.
Erano le otto di mattina quando a Domenico saltò in testa di
andare a fare un giro in città. Doveva comprare dei vestiti e
alcuni libri. Non era abituato a pensare in maniera egoistica.
Sapeva in cuor suo che era l’unico del gruppo a conoscere la
musica. Che avrebbe veramente voluto vivere suonando.
Cercava di concentrare l’attenzione sulla guida ma non riusciva
a non pensare a una soluzione per quella sua voglia. Non
avrebbe mai lasciato il gruppo tantomeno avrebbe riferito ai
ragazzi quei pensieri. Ritornava sempre a pensare
all’esperienza appena trascorsa e si rincuorava del fatto che
quella voglia l’avrebbe colmata con il resto della band.
Le vetrine dei negozi erano piene di vestiti. Giacche di ogni
tipo. Pantaloni all’ultima moda. Camicie a maniche lunghe o
corte. Voleva presentarsi al pubblico nella maniera più elegante
possibile. Decise di acquistare un completo nero che avrebbe
indossato a ogni serata con il gruppo.
La passeggiata verso la libreria fu la più emozionante di
sempre. Mentre fissava le vetrine dei negozi si fermò a quella
del negozio di musica. La visione fu celestiale. Non credeva ai
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suoi occhi. Li strofinò più di una volta per vedere se stesse
sognando o meno, ma non era così. Dentro il negozio era
esposto un manifesto che pubblicizzava il loro album. La
locandina indicava la data di uscita e il prezzo in lire.
Corse a comprare il libro e si diresse spedito verso
Montegallo per raccontare tutto al resto della band. Incontrò gli
altri ragazzi nel bar del paese. Si avvicinò a loro, li radunò a se
quasi come se stessero tramando qualcosa e gli spiegò ciò che
gli era capitato qualche ora prima. Ai ragazzi non parve vero
quello che usciva dalla sua bocca tanto che non vollero
crederci. Ci scherzarono sopra. Ognuno raccontò qualcosa per
prenderlo in giro. Rassegnato, ma euforico, partecipò allo
scherzo capendo che forse era meglio aspettare la definitiva
chiamata del produttore.
Erano ormai passati parecchi giorni dal giorno in cui vide
quel manifesto. Nessuno aveva dato cenni di avviso. Purtroppo
le cose non erano andate come dovevano andare. Il disco, alla
presentazione e nelle settimane seguenti, aveva venduto poco.
Il produttore aveva già deciso di intraprendere altre strade. Di
scoprire altri gruppi.
Inconsapevoli e ignari di tutto, continuarono a suonare in
giro e per i locali, riscuotendo sempre il solito clamore. Questa
volta con la consapevolezza che lo avrebbero fatto da gruppo
professionista.
Era una sera d’inoltrato inverno. Stavano discutendo sul
come mai nessuno li avesse chiamati per informarli
sull’andamento disco. Vicino al loro tavolino c’era un ragazzo
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che aveva comprato il disco. Ascoltò la loro discussione e
deluso disse ai musicisti che quello che avevano prodotto era
veramente scarso e decisamente lontano dallo stile del gruppo.
Quell’affermazione li immobilizzò. Non sapendo che dire e
cosa rispondere bloccarono il ragazzo chiedendo spiegazioni
più dettagliate. Con la scusa che il gruppo dalle critiche ne
avrebbe tratto sicuro vantaggio. Quello che si mostrò ai loro
occhi fu un colpo durissimo inferto dritto al cuore. Il ragazzo
pose le basi delle critiche sul fatto che il pezzo era, di sicuro, il
peggiore di tutti quelli che giravano per i jukebox. Domenico
volle approfondire di più chiedendogli di mostrargli il disco per
vedere realmente se si trattasse di loro. Il ragazzo non impiegò
che dieci minuti nell’andare a casa e ritornare nel locale. Mise
sul tavolo il disco. La storia magica de Il Gruppo si sgretolò in
mille pezzi. Notarono immediatamente che il produttore li
aveva presi in giro. Nel disco era finito un solo brano. Quello
dell’altro autore e non quello scritto da loro. Avevano capito
realmente come funzionasse l’industria discografica. Non era
per ragazzi ingenui come loro. La faccenda li avrebbe
penalizzati tantissimo. Se si era lamentato quel ragazzo
figuriamoci tutti gli altri.
La serata, nel bene o nel male, doveva proseguire. Il locale
iniziava a riempirsi. Questo non li rendeva entusiasti. Decisero
di non proporre i due brani. Avrebbero fatto solo cover e non
avrebbero mai più eseguito quelle registrazioni.
Il giorno dopo ogni concerto, era loro abitudine riunirsi in
sala prove per discutere sulle cose positive e negative della
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serata precedente. Anche per quell’occasione sarebbe successa
la stessa cosa. Non si sarebbe discusso di un tocco sbagliato di
batteria o di un fraseggio corto di chitarra rispetto alle battute
stabilite. Si sarebbe affrontato un discorso serissimo. La
delusione nei loro visi era tangibile. Nessuno accennava a un
sorriso. Non riuscivano a credere di trovarsi con in mano il
frutto di un lavoro non loro. Frutto della mente perversa di
gente senza scrupoli che vive sulle speranze di ragazzi che
sognano ad occhi aperti. L’armonia era stata intaccata dalla
vicenda. Nessuno aveva più voglia di proseguire nonostante i
continui tentativi di mantenere alto il morale da parte di
Domenico. Furono giorni durissimi. Provarono poco e per la
maggior parte delle volte male e in maniera discontinua. Il loro
sogno era giunto al capolinea. Nessuno credeva in questo a
parte Domenico.
Un lunedì mattina si realizzò quello che si era ipotizzato nei
giorni precedenti. Il Gruppo decise di sciogliersi. La tristezza si
insediò nei visi dei ragazzi e nei cuori di tutti. Con gli occhi
lucidi si prodigarono nella raccolta degli strumenti per
riportarseli a casa. Quanto era triste adesso ripercorrere la
strada che dalla sala prove riportava a casa. Questo si dicevano.
Brevi considerazioni accennavano a uscire dalla bocca di
qualcuno, tutto veniva messo a tacere dai ricordi belli vissuti
chiusi in quella cantina.
Il pomeriggio e la sera furono i più tristi. Domenico quel
pomeriggio invece di suonare aveva deciso di starsene steso sul
lettino. Lo sguardo fisso al soffitto e col pensiero di quanto
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dura potesse essere l’avventura musicale. Non era come la
immaginava. Si chiedeva se anche ai grandi della musica fosse
mai potuto succedere una cosa del genere. Non voleva smettere
di sognare. Aveva paura. Non voleva rinunciare a un ennesimo
tentativo. Aveva imparato a suonare bene la chitarra e aveva
acquistato una strumentazione di valore e che gli avrebbe
consentito di giocarsela con chiunque.
La Tv a casa sua fu una delle prime che giunse in paese.
Poteva seguire le vicende nazionali, di quanto stessero
riscuotendo successo quelli de “Il Clan” e non perdeva
nemmeno un festival di San Remo. Un giorno sentì parlare di
quella nuova tendenza Beat che dall’Inghilterra stava
conquistando il mondo tramite la musica di un gruppo
chiamato Beatles.
Era affascinato dall’Inghilterra. Dall’idea che lì si potesse
fare musica e che anche i discografici avrebbero permesso di
farlo tranquillamente. «La musica è arte e come tale deve
trovare sfogo in ogni luogo e in ogni essere che ha voglia di
mostrare qualcosa», si ribadiva mentalmente. Era più una frase
di circostanza che lo aiutava a sognare piuttosto che la
consapevolezza di riuscire nell’intento di vivere di musica.
Le idee confuse si mescolavano nella sua mente.
Mostravano chiaramente quella nazione non molto lontana, ma
nello stesso tempo sognata. Chi mai avrebbe avuto il coraggio
di abbandonare tutto e scappare lì? Forse un ragazzo di Milano,
di Roma, ma non un ragazzo di Montegallo. Non passava notte
che non sognasse quel volo verso Londra.
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Aveva racimolato qualche soldo durante le serate trascorse a
suonare col vecchio gruppo. Ne aveva speso la metà per
comprare le attrezzature nuove e metà avrebbero coperto le
spese di un futuro tour immaginato dopo l’incisione del primo
disco. Per cause assurde l’ultima ipotesi si sgretolò nel nulla.
Adesso doveva trovare un modo per investire quei soldi.
Londra era sempre un sogno che però poteva trasformarsi in
realtà. Doveva parlarne con i suoi. Provare a convincerli che lì
avrebbe potuto dare sfogo alla sua passione e alle sue idee.
La cena era delle più gustose. C’era di tutto sulla tavola. Suo
padre compiva gli anni e per regalo la madre gli aveva cucinato
le pietanze da lui predilette. Domenico gustava tutto con
piacere. Macinava in testa sempre l’idea di poter partire a
Londra ed escogitava il modo di poterlo proporre ai suoi. Fu
una tosse a richiamare l’attenzione. L’unico rumore udito
durante la cena. Il padre, che aveva sempre amato interloquire
con i propri figli, si accorse immediatamente che Domenico
avrebbe voluto dire qualcosa di molto importante. Era
doveroso richiamare l’attenzione di tutti.
Datagli la parola, il padre, si mise a compiere l’azione
precedentemente interrotta. Mangiare. Domenico iniziò col
parlare della cocente avventura della registrazione. Con alcune
frasi filosofiche aveva portato il discorso verso il nocciolo
principale. Zittì qualche secondo. Prese aria e poi, tutto d’un
fiato, lasciò volare via dalla bocca l’intera frase che si era
preparato per l’occasione:
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«Ho risparmiato qualche soldo. Ho voglia di diventare un
ottimo musicista e per farlo vorrei poter andare per un periodo
a Londra. Con il vostro consenso.»
Non fecero una piega. Risposero entrambi che avrebbero
dovuto pensarci e che avrebbe ricevuto una risposta
all’indomani. Con lo stomaco più leggero, ma con l’animo
sempre più turbato, si rimise a mangiare con la serenità di chi
sa di aver esposto il proprio pensiero in maniera garbata.
Qualsiasi risposta l’avrebbe accettata con molta tranquillità.
I suoi genitori aspettarono che tutti andassero a letto per
poter discutere sulla richiesta del figlio. La stanza era adiacente
alla sua e nel silenzio tombale avrebbe potuto ascoltare la loro
conversazione. La madre era molto perplessa. Ribadiva al
marito che un ragazzo di provincia non avrebbe mai potuto
sopportare il cambio radicale e drastico di vita in una metropoli
come Londra. Il padre, al contrario, credeva in lui. Sapeva che
se avesse elaborato una richiesta del genere era perché ci
credeva veramente. Convinse la madre a dare l’ok dicendo che,
alla fine, se avesse fallito, sarebbe ritornato in paese e si
sarebbe messo a lavorare senza alcun problema.
In dolce compagnia del buio non riusciva a chiudere gli
occhi. Già immaginava di trovarsi in giro per la città. Quella
città immaginaria che non aveva mai visto. Sognava di
ritrovarsi a stretto contatto con i maggiori artisti del momento.
Passò la notte in bianco. Sapeva la risposta ma la paura, che
avrebbero potuto cambiare idea, lo lasciò sveglio tutta la notte.
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Si avviò verso la cucina dove i genitori stavano preparando
la colazione. Dal buongiorno ricevuto, si accorse che la
soluzione presa era rimasta quella stabilita la sera prima.
Rimase distaccato fino a quando dalla bocca della madre non
uscì quell’affermazione tanto sperata:
«Con tuo padre abbiamo deciso di darti la possibilità di
andare a Londra e di inseguire i tuoi sogni.»
Saltò dalla sedia e corse ad abbracciare entrambi per
ringraziarli dell’opportunità concessagli.
La giornata si presentò lunghissima e piena di impegni.
Bisognava organizzare tutto. Il biglietto del treno per arrivare
fino a Roma. Il biglietto aereo per Londra. La valigia da
preparare. Contattare qualcuno per l’alloggio. L‘unica nota
negativa erano gli strumenti. Si prospettavano due soluzioni.
La prima era quella di portare solo la chitarra, ma si sarebbe
trovato poi in netta difficoltà senza amplificatore. La seconda
di vendere di nuovo tutto e di ricomprare altri strumenti una
volta arrivato nella City. Aveva comunque tutta la settimana
per organizzare quest’ultima faccenda. Quello che premeva di
più era organizzare il viaggio. L’unico modo per gestire tutto
era quello di appuntare su un foglio ogni passaggio
obbligatorio da compiere. Prese in mano carta e penna e iniziò
a scrivere tutto l’itinerario. Treno per Roma ore 10:00. Volo
per Londra ore 15:00. Arrivo alle ore 17:30. Era tutto pronto
per la partenza. C’era da risolvere l’incombenza strumenti.
Passarono due giorni prima che due ragazzi si convinsero a
comprare quegli strumenti messi in vendita. Erano stati appena
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comprati e la confortante spiegazione data a loro fu la nota
decisiva che spinse i giovani all’acquisto. Si era dovuto privare
di due gioielli musicali. A malincuore. Con le lacrime agli
occhi. Più volte si era ripetuto che per esaudire un sogno
avrebbe dovuto privarsi di un altro.
Doveva ancora fare la cosa più importante. Doveva avvisare
gli amici di questa nuova avventura. Avevano trascorso
momenti indimenticabili insieme. Anche grazie a loro aveva
fortemente cercato nella musica la strada da seguire per il suo
futuro.
Li incontrò al bar in piazza. Erano seduti al solito tavolino
con in mano quattro Coca Cola, rigorosamente in bottiglia di
vetro e cannuccia. Si sedette vicino a loro e, dopo aver
chiacchierato del più e del meno, disse cosa aveva deciso di
fare. I ragazzi si misero subito a scherzare. Succedeva sempre
così fra di loro. Uno diceva una cosa e gli altri subito erano
pronti a riderci sopra. Ritrovata la tranquillità si congratularono
con lui. Erano felicissimi di cosa gli stesse capitando perché
credevano fortemente in lui. Avevano suonato tanto insieme e a
lui dovevano molto per come si era sempre messo a
disposizione per impartire loro qualche consiglio musicale.
Non se n’era mai vantato. Aveva sempre messo la sua
conoscenza per il bene del gruppo e in segno di profonda
amicizia.
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Capitolo II
Una mattina fredda d’inverno gli offriva lo spunto per
restare a letto. Non poteva permettersi questo lusso. Da lì a
poche ore avrebbe preso l’aereo per dirigersi a Londra.
I suoi genitori lo accompagnarono fino alla stazione del
paese per prendere il treno. Si salutarono calorosamente. Stava
realizzando il suo sogno e il padre gli e lo fece presente. Gli si
leggeva in volto. Il fischio del capotreno fu come il fischio
d’inizio di una partita. Era sceso in campo e ora doveva
giocarsela. Arrivò in perfetto orario alla stazione facendo in
tempo a prendere un taxi che lo avrebbe portato all’aeroporto.
Era tutto nuovo per lui. Mai aveva visto un aeroporto. Mai
aveva visto un aereo. Mai aveva volato prima. La gita più
lunga che aveva fatto in vita sua fu quella con la parrocchia a
Perugia. Un viaggio dove, in un giorno, visitarono tutte le
cattedrali e le basiliche della città umbra.
Una voce da un megafono avvisava che i passeggeri del
volo Roma – Londra erano pregati di avvicinarsi al gate per
l’imbarco. Non stava nella pelle nonostante non sapeva cosa
avrebbe fatto una volta sceso in una nuova città. Senza un
amico. Senza un conoscente. Senza nessuno.
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L’asse iniziò a inclinarsi. Era il primo volo. Era tesissimo e
impaurito ma non voleva mostrare segni di cedimento. Restò
immobile per tutto il viaggio. Le mani stringevano il sedile.
L’unico pensiero che riusciva a formulare era come avrebbe
potuto tradurre il suo nome una volta giunto a destinazione.
Non aveva mai studiato inglese. Aveva imparato qualcosa
leggendo alcune riviste e alcuni libri.
Il sogno londinese. La speranza di riuscire a vivere di
musica. Di riuscire a diventare qualcuno. Passare
dall’anonimato di un paesino del centro Italia alle luci della
ribalta di una grande metropoli. Queste erano le sue aspettative
e le sue prerogative non appena mise piede all’aeroporto. Ad
aspettarlo non c’era nessuno. Il suo inglese spicciolo gli
complicava ulteriormente le cose. Anche cercare un autobus, la
metropolitana e un alloggio sapevano di impresa. Nella
forsennata ricerca, costellata da figuracce e da prese in giro,
riuscì a salire sulla metropolitana per fermarsi sulla Oxford
Street. Lì, vide un piccolo bar italiano dove entrò subito. Un
po’ per sentirsi a casa e soprattutto per chiedere indicazioni
esatte su come trovare una stanza per dormire. Si avvicinò al
bancone e ordinò un caffè. In Italia il caffè era ottimo. Ogni
barista sapeva come farlo. Era sempre un piacere berlo.
Insieme agli amici. Dopo pranzo. Dopo cena. Nel pomeriggio o
nelle rare mattine quando gli impegni musicali non
costringevano a fare tarda notte. Le tazze erano identiche a
quelle dei bar italiani. Le macchinette erano simili.
Maledettamente, non il gusto. Non sputò il caffè per non fare la
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solita brutta figura. Dovette chiedere al ragazzo se gentilmente
potesse macchiarlo con del latte freddo. Per Domenico non era
normale bere il caffè con il latte. Aggiungere un po’ di caffè
nel latte poteva funzionare. Non viceversa. Quello che si
concentrava in poche gocce di miscela non poteva perdersi con
l’aggiunta del latte.
La sua avventura londinese partì nel peggiore dei modi. Per
uno che beveva caffè in maniera sacrosanta, sarebbe stato
difficile abituarsi all’idea di doverlo bere diversamente. Bevuto
il caffè iniziò a parlare con chi stava dietro il bancone. Aldo.
Così si chiamava quel ragazzo che dalla provincia Milano
aveva deciso di trasferirsi a Londra. In cerca di fortuna. Gli
domandò come e dove avrebbe potuto trovare un alloggio.
Raccontò perché era giunto a Londra e che gli serviva una fissa
dimora per poter vivere nella città. Aldo fu disponibilissimo. Si
offrì di presentare Domenico al suo proprietario di casa per
riuscire a strappargli l’affitto della mansarda. Avrebbe finito il
turno da lì a dieci minuti. Tempo impiegato da Domenico per
guardarsi un po’ in giro e rendersi conto che stava realizzando
il suo sogno.
Il ragazzo abitava in un palazzo sulla Denmark St. a
neanche un miglio di distanza dal luogo di lavoro. Aldo chiese
del perché di quella scelta. Cosa avrebbe fatto? Sbalordito per
la bellezza della città e per l’aria nuova che respirava,
Domenico si liberò in un discorso come mai aveva fatto in vita
sua. Era timido. Impacciato. Non riusciva a terminare mai un
discorso perché spesso e volentieri ne perdeva il filo. Il più
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delle volte il disagio lo portava a chiudere le frasi senza un
senso logico. Svelò al ragazzo tutti i suoi sogni e tutte le sue
aspettative. Raccontò di come aveva affrontato il viaggio. Le
cause principali dell’abbandono di un paesino di provincia per
catapultarsi nella frenetica attività di una grande città. Il
ragazzo, ammaliato da tale discorso, rispose che era atterrato
nel posto giusto. Fu quell’accenno di sorriso che gli diede
sicurezza e lo fece sentire meno solo.
In Italia sorridono tutti. Gli amici. I vicini. Le ragazze ai
ragazzi. I bambini e gli anziani. Sorridono gli stranieri che ci
vanno in vacanza. A Londra non era così. Quanta gente vista
durante il breve tragitto e nessuno con un sorriso stampato in
viso. «Sarà uno di quei giorni no» pensò Domenico.
Svoltarono a sinistra per imboccare la Denmark St. quando,
per un attimo, gli mancò il respiro. Si trovò davanti ad una
miriade di negozi musicali. Il paradiso degli strumentisti. In
vita sua non aveva mai visto così tanti negozi dedicati alla
musica. Purtroppo doveva seguire Aldo. Intuendo che quella
sarebbe stata la strada dove avrebbe vissuto decise che, il
giorno dopo, avrebbe trovato il tempo necessario per entrare in
ogni singolo store.
Salirono verso il secondo piano del palazzo dove viveva il
proprietario dello stabile. Aldo li presentò. Domenico, non
capendo una parola di quelle che si scambiavano gli altri due
interlocutori, annuiva come se fosse d’accordo in tutto e per
tutto. Non era tutto così particolarmente perfetto. La mansarda
era disponibile ma aveva un piccolo problemino di
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infiltrazione. Per una città piovosa come Londra diventava un
problema serio. Rimase un po’ titubante ma quando gli
presentò il conto accettò senza nessun problema. Avrebbe
trovato il sistema di sistemare l’infiltrazione.
La mansarda era bellissima. Bassa ma estremamente
confortevole. Era dotata di tre stanze e un bagno piccolissimo
che avrebbe soddisfatto a pieno le esigenze di una sola persona.
Il salone era arredato con un divano, una poltrona e una vetrina
piena di tazze e cucchiaini. Erano l’eredità che la nonna del
proprietario aveva lasciato al nipote. La stanza per dormire
offriva un bel letto matrimoniale, un armadio e un comodino
già munito di lampada e sveglia. Restò ancora un poco a
conversare col ragazzo. Lo ringraziò per quello che aveva fatto
per lui. Fu Domenico a chiedergli il perché della sua partenza
dall’Italia per l’Inghilterra. Aldo fu breve. In Italia avrebbe
vissuto una vita di stenti. Nel suo paesino la guerra aveva
portato così tanta distruzione che mai e poi mai si sarebbe
potuto pensare a una rinascita. In Italia aveva lasciato la sua
famiglia ma non avrebbe potuto sopravvivere in quelle
condizioni.
La chiacchierata terminò lì. Aldo tornò al primo piano dello
stesso stabile invitando Domenico ad andare a trovarlo spesso
al bar. Si strinsero la mano. La porta si chiuse lasciandogli la
possibilità di sdraiarsi sul divano per dare quel meritato relax al
suo corpo stanco.
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Si era addormentato. Quando aprì gli occhi vide un piccolo
raggio di sole entrare dalle finestre. Li strofinò accorgendosi
che si erano fatte le otto di mattina. Del giorno dopo.
Aveva in mente di scendere in strada per andare a visitare
tutti quei negozi di strumenti. Doveva prima risolvere quel
piccolo problema di infiltrazione che aveva notato proprio nella
stanza da letto. Non aveva mai lavorato da quando aveva
terminato gli studi. Non sapeva metter mano in questo tipo di
impiego. Diede comunque uno sguardo per vedere se era
risolvibile. Prima di rassegnarsi all’idea di vivere di musica e
di reumatismi, fissò attentamente il muro notando che
l’infiltrazione non arrivava dall’alto. Era la parte sottostante
alla finestra quella maggiormente colpita dal problema. Si
spinse subito ad aprire e chiudere gli infissi capendo
immediatamente che il problema veniva proprio dall’imperfetta
chiusura degli stessi. Entrambi, chiudendosi, formavano un
piccolo spazio che permetteva all’acqua di infiltrarsi
all’interno. Si guardò in torno per trovare qualcosa che potesse
servire alla riparazione. Trovò nel bagno una mensola che gli
parse inutile quanto brutta da tenere lì. La portò nella stanza e
la adagiò sul marmo per vedere se s’incastrasse tra le due
pareti. Fortuna volle che quella mensola fosse perfettamente
combaciante con le pareti della finestra. Se tenuta in maniera
obliqua, poggiata ai vetri, avrebbe fatto scivolare l’acqua senza
farla penetrare nella stanza. Ovviamente avrebbe dovuto fare a
meno di aprire la finestra. Se quello era il prezzo che doveva
pagare per salvaguardare le sue ossa, allora avrebbe fatto
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volentieri a meno di respirare, nella stanza da letto, l’aria
londinese.
In Italia spesso e volentieri si poggiava con i gomiti sul
davanzale della finestra per respirare l’aria pulita del suo paese.
Per guardare, con sempre maggiore attenzione, il paesaggio che
gli si presentava davanti. Lo fissava. Lasciava che i pensieri ne
percorressero lo spazio per cercare nuove ispirazioni da
incidere su foglio.
La prima cosa buona che c’era da fare l’aveva fatta.
Avrebbe avuto un intero giorno da dedicare alle spese per
l’acquisto degli strumenti. Per suonare aveva bisogno di una
chitarra di un amplificatore e di un pedale effetto.
Camminò per tutta Denmark St. con gli occhi fissi sulle
vetrine dei numerosi negozi di strumenti musicali. Non aveva
mai visto così tanti strumenti in vita sua. Si trovò in netta
difficoltà nel decidere in quale entrare. Si fermò un istante.
Tirò un bel sospiro di sollievo e decise che la cosa migliore da
fare sarebbe stata quella di entrare in ogni negozio. C’era un
piccolissimo problema e non di poca rilevanza. Non sapeva
spiccicare una parola d’inglese. Non sarebbe mai riuscito a
farsi capire dal commesso anche per via di quella timidezza che
lo bloccava proprio sul più bello. Avrebbe passato più tempo a
spiegare cosa stesse cercando che non a provare la merce
cercata.
Si rese conto che il barista conosciuto il giorno prima e
inquilino dello stesso palazzo, avrebbe fatto al caso suo. Tornò
a casa aspettando, affacciato dalla finestra, che il ragazzo
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tornasse dal lavoro. Passò quasi un paio d’ore lì in attesa. Ore
che aveva speso a guardare affascinato tutta la strada che si
vedeva dalla finestra e quella miriade di negozi, di palazzi e di
locali.
Simpaticamente si mise a spiare anche i gesti abituali che
facevano i londinesi. Si accorse che quasi mai ridevano.
Andavano di fretta e avevano un colore pallidissimo. In due
giorni non aveva mai visto il sole se non a squarci e dietro dei
nuvoloni grigi.
In Italia la gente non era così triste. Si stava superando la
crisi post-bellica e tutti avevano un sorriso da regalare. Anche
quando uscivi in paese non potevi esimerti dal salutare
chiunque incrociasse il tuo sguardo o il tuo passo. Si era cortesi
con gli anziani. Con i più grandi. Con le ragazze. Si scherzava
anche con i ragazzini che per strada ne combinavano sempre
qualcuna.
La sagoma del ragazzo si faceva sempre più nitida. Quando
lo vide entrare nel portone del palazzo si mise a correre per
raggiungerlo. Sul pianerottolo. Una volta entrato non avrebbe
voluto disturbarlo dopo una dura giornata di lavoro. Si
salutarono a vicenda e con molto piacere. Aldo gli domandò se
avesse fatto due passi a piedi. Domenico gli rispose di sì ma
che era dovuto rientrare perché aveva riscontrato un problema.
La conoscenza nulla della lingua. Il ragazzo, anticipando la
richiesta di Domenico, si offrì volontario nell’aiutarlo a
imparare qualche cosa. Lo fece accomodare per iniziare da
subito. Domenico era euforico. Salì in casa per racimolare un
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foglio e una penna dirigendosi di nuovo nell’appartamento di
Aldo.
Sfortunatamente il ragazzo non basava il suo inglese su
conoscenze scolastiche, bensì sui classici modi di dire che
aveva appreso durante la sua permanenza. Iniziò col dire i
termini basilari quali “buongiorno”, “buon pomeriggio”,
“buonanotte”, “grazie”, “prego” e tantissime altre parole che
riuscì a immagazzinare subito. Il ragazzo arricchì il bagaglio di
Domenico con alcune frasi fatte che si usavano per chiedere
un’informazione riguardo a una strada o per chiedere qualcosa
una volta entrato nel negozio. La conversazione fu per
Domenico un vero e proprio testamento da seguire alla lettera.
La cosa migliore che avesse potuto suggerirgli fu quella di
andare al bar dove lavorava, anche per qualche ora. Avrebbe
ascoltato i discorsi fra inglesi mentre lui gli avrebbe fatto la
traduzione in modo da recepire meglio le nozioni apprese in
quel momento.
Finita la lezione pensò bene di ritornare a casa per ripassare
tutte quelle parole e quelle frasi di circostanza. Passò tutta la
notte a dire “good morning”, ”good afternoon”, “good night”,
“thanks”, “please” e tutte le altre frasi appena imparate.
La pioggia batteva leggera sulla mensola che aveva disposto
in maniera obliqua davanti ai vetri della finestra. Doveva
alzarsi e andare a trovare l’italiano al bar per imparare qualche
altra parola. Corse in bagno a lavarsi e si diresse veloce nel
locale. Si accomodò a un tavolino dietro quattro signori che
stavano animosamente discutendo mentre sorseggiavano un tè
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fumante. Domenico ordinò un caffè che aveva dovuto far
macchiare con latte freddo per via di quel sapore
insopportabile. Odiava il tè. Sin da piccolo era stato costretto a
berne in quantità assurde. Ai suoi genitori, ogni pomeriggio,
piaceva berne una tazza. Non ne aveva provato mai una goccia.
Se ne bagnava le labbra e poi si rifiutava di berlo perché lo
sentiva senza sapore. Amava il caffè. Sua nonna, di nascosto
dai suoi genitori, gli e ne lasciava sempre un fondo di tazzina
che gustava fino all’ultima goccia. Vedere quei signori bere il
tè già dalla mattina mise tristezza a Domenico.
Il barista si avvicinò con il vassoio. Sopra c’era la tazza di
caffè e una piccolissima brocca con dentro del latte freddo che
avrebbe versato nella bevanda. In Inghilterra non si usava
macchiare il caffè come succedeva in Italia. Il barista italiano,
quando si sentiva ordinare un caffè macchiato, provvedeva egli
stesso a versare il latte nella tazza. In quel bar londinese non
era così.
Domandò subito ad Aldo di cosa stessero parlando i signori
del tavolo accanto. Il ragazzo rispose che dibattevano sulle
possibilità che avrebbe avuto George Best di passare una
giornata da sobrio e senza una donna. Inizialmente non capì.
Non era a conoscenza di quel calciatore. Il barista dovette
spiegargli chi era e come viveva la vita extracalcistica.
George Best era il giocatore del momento. Un ragazzo in
grado di fare gol e assist e nello stesso tempo di bere fiumi di
vino e stare con centinaia di donne. Contento della spiegazione
chiese alcune dritte su delle frasi che aveva sentito pronunciare.
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Il ragazzo fu pronto e lesto nella spiegazione ma dovette
lasciarlo subito per andare a servire altri clienti che erano
entrati nel locale.
Per Domenico era giunto il momento di iniziare la
ricognizione dei negozi per poter finalmente acquistare gli
strumenti. Iniziò col primo. Appena pronunciò il buongiorno si
accorsero subito che era uno straniero. Iniziarono a guardarlo
con aria di sospetto. Non comprendeva questo modo di fare. Si
trovava in una città estera e per giunta sprovvisto di capacità
linguistiche. Doveva subire questi tipi di trattamenti e farsi
capire tra parole dette a vanvera e gesti. Doveva farsi portare
nella stanza delle chitarre dove avrebbe potuto provarle. La
risata fu generale quando si rivolse al commesso mimando
l’azione del suonare la chitarra. Il ragazzo capì che lo straniero
non avrebbe spiccicato una parola in inglese ma che sarebbe
stata sua intenzione provarne e magari comprarne una.
Fender Stratocaster o Gibson questo era il dilemma. Una più
maneggevole e duttile, l’altra per intenditori. Le aveva suonate
entrambe quando era il chitarrista de Il Gruppo e con entrambe
si era perfettamente adattato nel suonare il rock & roll.
Le prove dei due strumenti durarono per circa mezz’ora.
Sapeva che non l’avrebbe acquistata in quel preciso momento
ma, per curiosità, si fece dire il prezzo di entrambe prima di
dirigersi verso l’altro negozio. Così fece anche negli altri due
locali. Solite risate e stessi modelli di chitarra da provare.
Quello che cambiava, anche se di poco, era il prezzo.
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Fuori si era fatto buio. Prima di rientrare a casa decise che
doveva visitare un ultimo negozio. Entrò nel Regent Sounds
Studios. L’impatto fu esaltante. Migliore in assoluto per
allestimento e quantità di prodotti. Si distingueva dagli altri
perché chi andava a comprare lì poteva anche decidere di
ritornarci per usufruire dello studio di registrazione presente
nel negozio. La prova fu generale ma alla fine decise che una
Fender avrebbe fatto al caso suo. Era strano come un negozio
allestito in maniera diversa potesse condizionare nell’acquisto
di uno strumento.
Aveva bisogno di quello strumento e di inserirsi in quella
scena musicale britannica che prima dei Beatles e Rolling
Stones aveva assistito al successo degli Shadows. Naturalmente
avrebbe avuto bisogno di suonare in qualche gruppo emergente
che poteva permettergli di andare in giro per i locali. Le vetrine
di quei negozi erano anche colme zeppe di annunci da parte
delle band che cercavano musicisti. Ne copiò quattro che
avrebbe poi fatto leggere all’italiano conosciuto al bar.
Gli annunci dicevano tutti allo stesso modo: “Gruppo bluesrock cerca chitarrista per suonare nei locali”. Accortosi che una
delle band provava proprio nella sala prove vicino al suo
appartamento, decise che sarebbe valsa la pena andare a vedere
che tipi fossero e che intenzioni avessero. Domenico
s’incamminò subito per presentarsi alle prove. Appena giunto
al Marquee iniziò a chiedere, con gesti e qualche parola tirata a
caso, quale gruppo avesse messo l’annuncio. Si voltarono tre
ragazzi magrissimi. Capelli lunghissimi. Volto pallidissimo.
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Sguardo assente. L’italiano, colorito e con i capelli corti, si
accorse subito che avrebbe dovuto cambiare stile al più presto
prima di subire banali diciture e costanti prese in giro. Si
avvicinò a loro dicendo, sempre a gesti e con qualche parola
imparata in pochi giorni, che aveva letto l’annuncio. Era pronto
per provare.
I quattro entrarono in una sala già attrezzata di amplificatori
e di relativi strumenti nel caso qualcuno ne fosse sprovvisto.
Scodellò fuori dalla custodia nera la chitarra nuova e la collegò
al primo amplificatore che gli si presentò davanti. Nel
frattempo uno di loro si avvicinò a lui presentandosi:
«Ciao sono Brian.» Domenico per qualche secondo restò
impalato. Doveva trovare un nome inglese per non presentarsi
col nome di battesimo. Dopo averci riflettuto per qualche
secondo, riuscì a collegare gli unici saperi di tipo scolastico che
gli permisero di tradurre letteralmente il suo cognome.
Tradusse Volpe in Fox e collegò il nome a uno letto su un
cartellone dov’era rappresentato un uomo di nome Duncan.
Guardò Brian negli occhi e con fierezza gli rispose:
«Ciao! Sono Duncan Fox.» Si strinsero la mano e iniziarono
a provare.
Al quattro del batterista, il bassista e il cantante-chitarrista
iniziarono a intonare una composizione loro. Domenico restò
per un po’ ad ascoltare studiandone accordi, battute e melodia.
A una pausa vocale iniziò a fraseggiare e a costruire dei riff che
mandarono in visibilio i tre del gruppo. Quella prova suggellò
la certezza che quel ragazzo facesse al caso loro. La prova
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proseguì per un paio di ore dove, Domenico, imparò altri
quattro pezzi prodotti sempre dalla band.
La soddisfazione si leggeva nei volti sciupati e bianchissimi
dei ragazzi di Londra. Rivolgendosi all’italiano gli fecero
capire che avevano deciso di sceglierlo come membro ufficiale
della band. Era al settimo cielo. Non si sarebbe mai sognato
una cosa del genere. Tantomeno trovarsi a far parte di un
gruppo che invece di calcare i palchi e i locali della provincia
di Ascoli, avrebbe calcato i palchi dei più prestigiosi locali di
Londra.
Fuori dal locale c’era Aldo che lo aspettava per avere notizie
di come fosse andata la prova col gruppo. Fu uno sguardo
sbigottito quello che bloccò l'italiano.
«Il chitarrista italiano ha provato col gruppo di Brian
Jones!»
Domenico salutò i ragazzi prima di prendere la direzione
opposta. Notò che Aldo era perplesso e quasi incredulo rispetto
a ciò che aveva visto. Il barista, senza aspettare altro tempo,
rivolse subito la domanda al chitarrista:
«Ma ti sei reso conto che hai appena provato con un ex
componente dei Rolling Stones?» Domenico, sbigottito, rispose
che non sapeva chi fosse questo presunto componente del
famosissimo gruppo britannico. Alla risposta sincera l’italiano
rispose con un’altrettanto sincera ed educata risposta:
«È Brian Jones il componente dei Rolling Stones.»
Si fece spiegare chi fosse questo Brian Jones. Si fece dire
tutto sul suo gruppo.
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Aveva conosciuto proprio lui. Solo dopo qualche ora aveva
scoperto che era il chitarrista del gruppo rock più famoso
dell’Inghilterra. La notizia lo aveva reso euforico e nello stesso
tempo lo faceva sentire un idiota. Si rese conto che la sua
cultura musicale era troppo povera per poter affrontare la
nuova avventura.
Con i ragazzi si erano dati appuntamento da lì a tre giorni.
In quei tre giorni non passò un istante in cui non lesse qualsiasi
tipo di rivista musicale. Scoprì i problemi che affollavano la
mente di Brian e capì il perché si trovasse a provare con tre
sconosciuti anziché starsene in tournee con Mick Jagger e
Keith Richard. L’uso costante di droghe aveva reso Brian
estremamente vulnerabile e incapace di portare a termine ogni
tipo di attività. I concerti finivano con lui che suonava in
condizioni proibitive e le registrazioni si protraevano sempre
per le lunghe a causa delle sue costanti assenze.
Quel pomeriggio pioveva. Domenico decise che sarebbe
stato più opportuno aspettare all’interno del locale anziché
bagnarsi completamente restando sulla strada. Si sedette su una
poltroncina di pelle aspettando impazientemente l’arrivo degli
altri componenti. L’attesa fu lunga ed estenuante. Dopo circa
un’ora non si presentò nessuno. La domanda che
vorticosamente affollava la sua mente era se per caso avesse
sbagliato giorno e ora. Purtroppo non aveva sbagliato.
Semplicemente gli avevano dato buca. La collegò a quanto
aveva letto, nei giorni precedenti, sullo stato psicofisico di
Brian.
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Erano passate ormai due settimane da quando nessuno si era
presentato alle prove. Nonostante avesse continuato le ricerche
per vedere se i tre avessero cambiato sala prove, si trovò
sempre davanti ad un inutile ricerca. L’unica nota positiva di
questo girovagare per le sale-prova della città era quella che, in
più di un’occasione, si era trovato a suonare con dei gruppi e
che quei gruppi, in più di una circostanza, gli avevano offerto
la possibilità di suonare dal vivo. Prese in considerazione più di
una band e si trovò, tutto a un tratto, catapultato in una serie di
concerti live in giro per i locali della città. Quindici giorni,
quindici concerti. La notizia del chitarrista italiano in giro per
Londra arrivò fino ad Hartfield nel Sussex dove risiedeva il
fondatore dei Rolling Stones.
La solita giornata piovosa lo aveva spinto a sostare in un
locale della zona. Il locale era il classico bar dove vi lavorava
Aldo. Davanti aveva il classico caffè macchiato freddo e
qualche rivista musicale. Gli sarebbe servita per imparare
l’inglese e per riconoscere eventuali rockstar che si aggiravano
per le vie della City. A un tratto sentì poggiare, sulla spalla
destra, una mano fredda e tremante. Era quella di Brian. Si
strinsero la mano e una volta seduti uno di fronte all’altro
iniziarono a parlare. Scoprì man mano la vita frenetica e
balorda che conduceva Brian. Si era ritrovato a un tratto senza
fama e senza nient’altro. Voleva ricominciare a fare musica
ma, ogni volta che tentava di iniziare un nuovo progetto, finiva
per ricadere nel vortice della droga e di conseguenza
nell’impossibilità di proseguire nell’obiettivo.
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Domenico, con quel poco di inglese che aveva imparato,
spiegò come mai si era ritrovato a cercare fortuna a Londra.
Raccontò a Brian del fallimento discografico col primo disco e
di come l’avventura del gruppo si concluse in maniera
desolante e triste.
Brian, entrato ormai in confidenza con Domenico, gli svelò
retroscena sulla sua attività nei Rolling Stones. Odiava Keith
Richard e Mick Jagger. Li definì inutili e incapaci di scrivere
buona musica. Quella frase suonò più come elogio e si
dimostrò una vera e propria presa di posizione contro i due
personaggi che lo avevano allontanato.
Fattasi una certa ora decisero che era il momento di
salutarsi. All’improvviso Brian invitò Duncan nella sua villa
offrendogli un breve soggiorno. Avrebbero potuto continuare a
lavorare sui brani provati qualche settimana prima. Non parve
vero quello che le sue orecchie avevano appena recepito.
Accettò con molto piacere e disse a Brian che lo avrebbe
raggiunto nel fine settimana.
Luglio aveva iniziato a colorare le strade della grigia città.
Duncan si apprestava a trasferirsi, per il fine settimana, nella
villa del mitico Brian Jones. Ad Hartfield. Era una parrocchia
civile inglese nel distretto di Wealden nel west Sussex.
Una vegetazione verdissima decorava la villa che ospitava
una delle più famose rockstar del momento. Sul cancello
d’ingresso le iniziali B e J, in ferro battuto, firmavano
quell’immenso scenario. Su quelle pietre anche Mick Jagger e
Keith Richard avevano poggiato il loro piede. L’emozione
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saliva dai piedi fino ad arrivare alle mani. Le dita si
muovevano come in preda ad una scossa elettrica che neanche
nel più veloce e virtuoso assolo avevano raggiunto tale
velocità.
Lentamente e gustandosi il panorama, si avvicinava sempre
di più verso quella residenza mai immaginata neanche nei
sogni. Lo avrebbe ospitato per qualche giorno. In compagnia di
quel personaggio tanto eccentrico, quanto normale nella sua
vita lontano dai palchi e dalle pagine delle riviste. Vedeva la
punta del tetto spuntare fra la vegetazione. Si sentiva come un
bambino nella notte di Natale. Chiuse gli occhi come per
gustarsi solo alla fine l’immenso spettacolo. A un tratto sentì
un dolore fortissimo alla testa e niente più. Si risvegliò steso su
una sdraio sul bordo della piscina con un gruppo di operai che
erano giunti in suo soccorso. Aveva sbattuto la testa talmente
forte da svenire in quel modo. Appena entrato in casa
Domenico si accorse che sulla fronte aveva un livido che la
tagliava in due. Brian era stato già avvisato dell’accaduto ed
era sul divano che rideva come un coglione. Nel frattempo
Anna, la nuova fidanzata del chitarrista, gli aveva portato un
fazzoletto con dentro del ghiaccio da mettere sul livido. Il
weekend non iniziò nel migliore dei modi. Aveva un
bernoccolo sulla fronte e un forte mal di testa.
Nonostante tutto restò ugualmente nella villa con Brian.
Passarono molto tempo a discutere su come arrangiare alcuni
pezzi e spesso e volentieri passavano ore e ore a parlare di
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musica. L’unica cosa che lo inquietava, nella casa, era la
presenza di centinaia di bottiglie di alcolici. Di ogni genere.
La villeggiatura si allungò anche nella settimana successiva.
Avevano iniziato un discorso importante con Brian e dovevano
portarlo a conclusione. Entrambi volevano suonare. Ognuno
per esigenze diverse. Sempre con lo spirito di chi della musica
ne voleva fare il proprio mestiere. Brian in più di un’occasione
lo sorprese. Suonava un’infinità di strumenti e a tutti dedicava
la stessa passione e la stessa concentrazione. Domenico da
parte sua suonava solo la chitarra e fare i conti con quel tipo di
musicista lo fece sentire inizialmente inferiore. Capì che tutto
quello che stava facendo Brian era il frutto di anni di studio. Si
fece coraggio e iniziò lentamente a prendere confidenza sia
sullo strumento sia nella composizione.
Giovedì stava volando nella calma di un’estate nel pieno
della stagione. Seduti nel salone soggiornavano Domenico,
Brian, Anna e altri due ospiti. Si trattava del costruttore e
dell’amica dell’uomo. Mentre discutevano di come una band
potesse nascere e sciogliersi per una banalità, si ritrovò in un
cerchio pericoloso. Una decina di bottiglie giacevano sul
tavolino al centro del salone. Una specie di polvere, forse
zucchero, era stata meticolosamente distribuita a strisce sullo
stesso. Iniziò Brian a inspirare quella polvere e a bere un sorso
di whiskey. Poi toccò ad Anna compiere lo stesso gesto. Seguì
Frank e poi l’amica. Quando arrivò il turno di Duncan,
impaurito e del tutto inesperto, esclamò con molta ingenuità:
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«Perché lo zucchero non lo versiamo direttamente nel
liquido anziché assumerlo dal naso?» Qualche secondo di
silenzio e poi giù tutti a ridere. Quella sua considerazione
aveva portato allegria alla serata ma nello stesso tempo si era
ridicolizzato da solo. Anna capì immediatamente il suo
imbarazzo. Iniziò a spiegargli che quella polvere bianca non
era altro che cocaina. Droga. Domenico rimase allibito. In vita
sua non aveva mai visto una roba simile. Aveva letto da
qualche parte della marijuana e aveva visto qualche foto. Mai e
poi mai immaginava l’esistenza di altri tipi di sostanze
stupefacenti.
Arrossì. Iniziò a ridere anche lui. Per farsi perdonare decise
che avrebbe provato quella robaccia. Doveva diventare una
rockstar e se una rockstar del calibro di Brian assumeva quelle
sostanze, anche lui avrebbe dovuto farne uso.
Il movimento verso il tavolino durò pochissimi secondi.
All’improvviso notò l’alterazione che la sua vista e il suo
cervello stavano subendo. Sentiva le loro voci in lontananza.
Vedeva il lampadario girare sulla sua testa e faceva fatica a
parlare e a muovere gli arti. Con molta forza di volontà
s’incamminò verso la piscina. Brian, impaurito, lo seguì per la
preoccupazione che potesse succedergli qualcosa. Camminava
barcollando. Brian, dietro di lui, con lo stesso passo. Si fermò a
un tratto voltandosi di scatto verso l’amico. Aveva un sorriso
stampato in volto come non gli e lo aveva mai visto prima. Lo
stesso sorriso che si stampò in faccia a Duncan. Aveva abusato
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della stessa roba che tutte le rockstar consumano per vivere al
meglio la loro esperienza.
Era felicissimo. Il sogno inglese si era realizzato. Il
fondatore dei Rolling Stones aveva deciso di suonare con lui e
come per magia si era ritrovato nella sua villa. La voglia di
gridare era fortissima al contrario della forza fisica per farlo.
Da un ragazzo di ventisette anni, ingoiato dal peso del
successo, non ti aspetti molto. Deve crescere per via del ruolo
che ricopre nella società e ogni stravaganza equivale a critiche
pubbliche. Per questo motivo Brian nascondeva nella sua villa
tutta la sua giovinezza.
Duncan vide sparire Brian e riapparire dall’alto del
trampolino posto lungo un lato della piscina. Più volte tentò di
fermarlo ma vani furono i tentativi. Primo tuffo e subito il
secondo. Al terzo tentativo decise di rendere più accattivante il
tuffo. Il coglione, dopo la quantità di droga assunta e tutto
l’alcool circolante nelle sue vene, si sedette sul trampolino.
Duncan in preda ad un attacco di imbecillità totale ci salì
iniziando a saltellare. La tavola, oscillando, fece arrivare Brian
fino alla punta. A un tratto un’oscillazione molto più forte lo
lanciò in aria facendolo atterrare in acqua dopo un urlo forte di
pazzia. Brian finì sott’acqua affrontando una risalita difficile e
lenta. Duncan, che non si era accorto della difficoltà di Brian,
continuava a ridere della pazzia e della stravaganza del gesto.
All’improvviso si accorse che il coglione strafatto non aveva
ancora espresso giudizio e non aveva fatto nessun cenno.
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«Vaffanculo Brian. Rispondimi. Che cazzo ci fai in acqua
impalato e muto a fissare il cielo come un coglione?
Vaffanculo tu e il tuo carattere di merda. Rispondi gran figlio
di puttana. Vaffanculo! Io ritorno dentro.»
Brian non rispondeva. Galleggiava muto quasi come se
stesse meditando guardando il cielo. I suoi capelli formavano
intorno alla sua testa una specie di aureola. Consacravano
l’uomo e non lo demonizzavano come aveva fatto tutta la
critica musicale. Erano le dieci quando si era scocciato di
assistere alla meditazione di quel psicopatico. Decise che
piano, barcollando e con l’effetto della droga ormai alla fine, si
sarebbe diretto nella stanza per riposare in attesa di una nuova
giornata di prove. Si accorse che nel salone gli altri tre avevano
continuato a bere e a fare uso di cocaina. Domenico senza
disturbarli prese la scalinata posta nell’atrio e s’infilò nella
stanza.
Un suono di sirene squarciò il sonno dell’italiano. Pensò
fosse già giorno e, nonostante la situazione psicofisica non
fosse ancora migliorata, si alzò dal letto dirigendosi verso la
finestra per aprirla. Lo impaurì il fatto di vedere ancora buio.
Se la prese con la droga ma non era la vera causa. Si voltò
verso la piscina e vide un gruppo di agenti, di infermieri, Anna
e Frank tutti in cerchio attorno a Brian. Era impaurito e non
riusciva a rendersi conto dell’accaduto. Si catapultò fuori e
giunse in men che non si dica ai piedi della piscina. Sentì Anna
piangere straziata dal dolore. Continuava a chiamare Brian.
Vedeva Frank impaurito e vedeva Brian ancora steso a terra.
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Senza vita. I medici furono chiari fin da subito. Non c’era
nessuna speranza.
Rimase fermo per un istante, paralizzato, in preda al panico
ma cosciente che forse era stata colpa sua. Ricollegò in un
attimo la caduta in acqua di Brian e la lenta risalita dal fondo
della piscina. Non aveva mai saputo affrontare certe situazioni.
Di solito era impacciato e in altre circostanze avrebbe
raccontato tutto. Non poteva dire ai poliziotti che forse era stata
colpa sua. Era ritornato in camera senza che nessuno se ne
fosse accorto. Vedendolo arrivare proprio da lì avrebbe potuto
contare su un alibi perfetto per non essere indicato come
colpevole. L’istinto che tante volte gli aveva giocato brutti
scherzi gli fece compiere la scelta giusta. Come un fulmine si
avvicinò ad Anna stringendola forte al suo petto. La sentiva
piangere e ripetere il nome del fidanzato. Era ormai mezzanotte
quando Brian fu portato in ospedale. Lì ne fu decretata la
morte. Ritornarono tutti a letto esausti. Impauriti. Ognuno con
la coscienza sporca. In fin dei conti tutti avevano partecipato
alla morte di Brian. Gli altri tre perché lo avevano spinto a bere
e a drogarsi. Domenico perché, invece di toglierlo dall’acqua,
lo aveva immaginato pensieroso e meditante mentre il suo
cuore aveva smesso di battere un istante dopo la caduta in
piscina.
Il sole caldo dei primi giorni di Luglio si era poggiato sul
suo cuscino e gli riscaldava la guancia. I suoi occhi si aprivano
lentamente per non far compiere uno sbalzo esagerato alle
pupille. Aveva ancora un cerchio alla testa e ricordava solo
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qualche sfumatura della notte appena trascorsa. Ricordava di
aver perso un amico e che molto probabilmente la colpa
potesse essere sua. Non fece nient’altro che stare sdraiato sul
letto pensando a come si sarebbe dovuto comportare una volta
trovatosi davanti Anna.
Anna si era già preparata per raggiungere la salma in
ospedale. Si incrociarono proprio sul davanzale interno
all’ingresso. Senza scambiarsi molte parole si salutarono come
due persone sconosciute. Le chiese se volesse accompagnata
ma lei rispose che non era il caso. Chiese dell’accaduto e in
pochissime parole gli spiegò tutto:
«Brian non rientrava. Mi ero preoccupata. Aveva bevuto
molto e fatto un uso esagerato di droga. Quando sono uscita
fuori per cercarlo l’ho visto in acqua che galleggiava. Ho
provato a chiamarlo più di una volta e mi sono accorta che le
sue condizioni erano allarmanti. Ho chiamato subito Frank che
mi ha aiutato a toglierlo dalla piscina. Ho provato a rianimarlo
nonostante non desse segni di vita. Ho chiamato il pronto
soccorso e la polizia poco prima che tu scendessi dalla tua
stanza.»
Si salutarono con un addio. Lei uscì dalla villa. Lui rimise i
vestiti nella valigia e fece ritorno nel suo appartamento sulla
Denmark St.
Nessuno lo aveva visto e nessuno avrebbe collegato lui alla
morte di uno dei personaggi più popolari del momento.
Tutta la sciagura fu catalogata come “morte per incidente”.
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Capitolo III
Aveva varcato la soglia del suo appartamento. Era fresco e
sapeva di asciutto. Per tutto l’inverno aveva sopportato
quell’odore di muffa creatosi negli anni in cui era rimasto
chiuso. Il sole entrava dalla finestra della cucina e risplendeva
nello specchio della camera da letto. Provava una gioia
indescrivibile nel rivedere tutta quella luce. Aveva passato una
settimana infernale a stretto contatto con Brian Jones. Sempre
chiuso nel suo studio di registrazione e in casa durante quelle
notti balorde fatte di droga e alcool. Aveva bisogno di una
doccia rinfrescante. Di riappropriarsi di quel circuito musicale
che doveva servirgli per lanciarsi nella musica che conta. Prese
un asciugamano e si diresse in bagno. Aprì il rubinetto della
doccia e ci rimase per più di mezz’ora. Doveva lavarsi degli
eccessi. Ristabilire il contatto tra testa e mani e rimettersi sotto
con lo studio dello strumento e della musica. Diventare famosi
è un’alchimia di talento e duro lavoro.
Si stava avvicinando al letto quando sentì suonare il
campanello. Era Aldo. Con in mano una rivista gli mostrò la
notizia della morte del chitarrista dei Rolling Stones. Gli chiese
subito spiegazioni. Sapeva della sua permanenza a casa della
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rockstar. Lo fece accomodare per raccontargli tutto.
Ovviamente tutto quello che avrebbe voluto far credere.
«Raccontami tutto quello che è successo. Sono curioso di
sapere com’è andata veramente.»
«Ricordo poco o niente dell’accaduto. Avevamo passato una
serata a ubriacarci e a fare uso di sostanze stupefacenti. Mi
sono diretto verso la stanza in cui ero ospite e mi sono messo a
dormire. Mi hanno svegliato le sirene della polizia e
dell’ambulanza. Solo in quel momento ho visto tutto. Secondo
la descrizione degli agenti, Brian Jones si era tuffato in acqua
mentre il suo cuore cessava di battere per colpa dei continui
eccessi.»
«Quindi è stata una morte accidentale?»
«Sì.»
Finì così il colloquio. Aldo avrebbe voluto sapere particolari
più inquietanti che Duncan non osò dare. Non poteva
raccontare altro. Se n’era uscito innocente e pulito che non
poteva rischiare di mettere in giro altri particolari.
Quello che lo aveva aiutato era il curriculum non del tutto
impeccabile che Brian aveva nei confronti della legge. Era
stato salvato da un giudice che aveva simpatie per lui dopo che
qualcuno aveva lasciato nel suo appartamento un bel bottino di
droga. Forse per incastrarlo.
Avrebbe volentieri trascorso una giornata in giro per la città
ma una voglia irrefrenabile di musica gli fece cambiare idea.
Itinerario modificato. Caffè al bar da Aldo e poi dritto al
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Regent Sounds Studios con la speranza di trovare qualcuno con
cui suonare.
Un caldo sopportabile gli tenne compagnia lungo il tragitto.
Occupò un tavolino al di fuori del locale e ordinò il suo solito
caffè prima di entrare nello studio.
Una miriade di persone occupava le sale dello studio. Si
erano recate lì per visitare la sala dove aveva provato per
l’ultima volta Brian Jones. Duncan aveva la chitarra chiusa
nella sua custodia. Un gruppo di musicisti si accorse che anche
lui era andato lì per trovare una band. Si avvicinarono a lui e
dopo le dovute conoscenze si chiusero nella sala precedente a
quella dove aveva provato l’ultima volta Brian. Iniziarono a
dialogare. Duncan col suo pessimo inglese e gli altri con la
risata in punta di labbra. Capirono tutti che l’unico modo per
parlare era quello di collegare gli strumenti e iniziare a
suonare. Il tributo a Brian fu doveroso. Aveva imparato un paio
di canzoni che il chitarrista aveva arrangiato nei primi anni dei
Rolling Stones. Dopo averli eseguiti iniziarono a suonare
qualche produzione propria. Duncan spiegò, sempre col suo
pessimo inglese, l’idea che gli balenava in testa. Il batterista
capì al volo quello che doveva fare. Il resto della band si
allacciò al suo tempo senza nessun problema.
Le prove si protrassero per un paio di ore. Avevano provato
e riprovato quel brano che a parere unanime poteva funzionare.
Si strinsero la mano accordandosi sulle prove che avrebbero
sostenuto il giorno dopo. Si salutarono prendendo ognuno la
propria strada.
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Il ritorno a casa fu tranquillo. Aveva la schiena un po’
dolorante ma era colpa di una settimana passata a dormire
pochissimo. Pensò che fosse doveroso dare al corpo il giusto
riposo. Approfittò della bella giornata per mettersi a letto e
dormire qualche ora.
Davanti ad uno sfondo sfocato vedeva l’immagine di Brian
che lo chiamava. Gli chiedeva di aiutarlo. Di portarlo in salvo.
Aveva i capelli ancora sparsi come fossero un’aureola e solo i
blue jeans come vestiario. Gli notava un fisico filiforme e
ossuto. Due occhi incavati che facevano impressione.
Sobbalzò dal letto sudato e con una tachicardia pazzesca. Si
trattava solo di un brutto sogno. Non sarebbe stato facile
dimenticare l’accaduto. Per molto tempo ne avrebbe risentito
psicologicamente. Era incredibile quello che era successo e
ritornare a quei concitati momenti gli metteva ansia. Lo aveva
creduto pensante anziché morto. Un errore dovuto alla
distorsione della realtà che le droghe gli avevano provocato.
Poggiò nuovamente la testa sul cuscino senza dormire.
Pensava se quella di andare in Inghilterra fosse stata la scelta
giusta. Aveva iniziato a suonare e a farsi conoscere. Il nuovo
gruppo sembrava serio e promettente. La possibilità di suonare
in giro non mancava. Eppure era ancora turbato.
La sala prove era affollata da persone accorse in
pellegrinaggio per vedere dove il chitarrista aveva suonato
l’ultima volta. Vide da lontano il resto del gruppo che lo
aspettava fuori dalla porta per iniziare a provare. Philip, il
cantante del gruppo, aveva portato con sé un quaderno, dove
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aveva appuntato alcune sue composizioni. Duncan non ci
capiva niente ma la soddisfazione sui volti degli altri lo
confortò. Diede l’ok per provare quelle canzoni. Impararono le
note. La melodia e la dinamica. Ognuno mise del suo per
rendere il pezzo orecchiabile e nello stesso tempo molto rock.
Era l’impronta che seguiva la band.
Era passato ormai un mese da quando avevano iniziato a
suonare. Il batterista era riuscito a trovare in giro per i locali
una ventina di date che l’avrebbero tenuti occupati per tutto il
mese seguente. Gli ordini erano chiari. Prove di mattino e
concerto la sera. Non potevano permettersi di non provare.
Rischiare di fare brutte figure. Sul manifesto posavano tutti in
tenuta rigorosamente nera e con gli occhiali da sole a coprire
gli occhi. Erano una band in mezzo ad una miriade che
circolavano per la città eppure riuscivano a far divertire il
pubblico.
Il ricordo della prima serata ritornava sempre nella mente di
Duncan. Durante il concerto un pazzo scatenato si lanciò sul
palco e li abbracciò uno per uno ringraziandoli. Era ubriaco
fradicio. Puzzava e non si reggeva in piedi. Quel suo gesto però
aveva reso la serata magica e l’atmosfera nel locale cambiò
radicalmente. Dagli applausi si passò all’ovazione. Chiunque
passasse da quella zona restava incuriosito e non perdeva
l’occasione di entrare per vedere cosa stesse succedendo. Così
si trovarono in più di trecento in un locale che non ne avrebbe
potuto ospitare più di cento. Erano tutti accalcati e persino i
musicisti dovettero stringersi per poter suonare. Il pubblico si
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era ammassato persino ai lati del palchetto. Restarono
strabiliati e, nonostante la netta difficoltà di dover suonare in
così poco spazio, portarono a termine la serata.
Il proprietario contentissimo gli propose di suonare ogni
venerdì offrendo al gruppo un budget oneroso e la possibilità di
gestire loro il tempo per suonare. Accettarono senza neanche
pensarci due volte. Avevano strappato un contratto musicale
con un locale e questo avrebbe permesso ai ragazzi di restare
sempre presenti nella scena locale.
Il secondo concerto non si mostrò all’altezza del primo ma
nonostante tutto riempirono il locale. Anche in questo caso il
proprietario propose di suonare periodicamente. Scelsero il
mercoledì in modo da avere il giovedì di riposo.
Continuò la magica esperienza con lo stesso successo in tutti
i locali, dove suonarono per il resto del mini tour. Non
ricevettero altre proposte ma non importava. Due locali e le
promesse che i restanti li avrebbero ricontattati, bastavano al
gruppo per perseguire negli obiettivi che si erano prefissati.
Avrebbero dovuto cambiare i giorni di prova. Restavano
liberi il lunedì e il martedì perché il sabato e la domenica
poteva succedere che qualche locale li chiamasse per suonare.
Decisero che i primi due giorni della settimana erano dediti alle
prove. Era una situazione inverosimile ma appagante allo
stesso momento. Riuscivano a fare il pienone ogni mercoledì e
ogni venerdì. Le persone andavano a vederli con gusto e li
acclamavano a gran voce. Avevano mosso l’opinione pubblica
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verso di loro. Alcune interviste per alcune riviste di settore
suggellarono questo magnifico momento.
Era lunedì. Avevano trascorso la giornata chiusi in sala
prove a provare tutti i brani della scaletta. A un certo punto
decisero che era giunto il momento di fermarsi e di dialogare
un po’. Nel frattempo Duncan aveva arricchito il suo inglese.
Qualche parola gli usciva dalla bocca in maniera del tutto
maccheronica ma riusciva ugualmente a interloquire con il
resto del gruppo. Al cantante saltò in mente di inventare
qualcosa di eclatante per poter dare spettacolo. In quel
momento a nessuno venne in mente niente che potesse
accontentare la richiesta di Philip. S’impegnarono
nell’escogitare qualcosa e di proporlo nelle prove successive.
Duncan aveva la mente svuotata d’idee. Stava suonando e
studiando come un pazzo. In testa gli circolavano sempre e
solo le solite cose. Spartiti. Testi. Accordi. La notte sognava
cose assurde. Chitarre enormi, corde che non ne volevano
sapere di suonare, amplificatori muti e palchi che si aprivano
all’improvviso. Incubi. Soltanto incubi.
Gli strumenti erano posizionati sul piccolo palchetto che il
locale offriva. Come ormai succedeva da tempo dovevano
accontentarsi di uno spazio ancora più ridotto. Il proprietario
aveva pensato bene di creare qualche posto in più in modo che
le persone che fossero andate a vederli avrebbero avuto più
spazio per stare nel locale.
Sarebbe stato il solito concerto soffocante. Avrebbe buttato
litri e litri di sudore. Come al solito avrebbe preso qualche
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cazzotto in testa per colpa del bassista. Incurante del poco
spazio a disposizione aveva bisogno di fare quella maledetta e
fottuta giravolta del cazzo. Duncan si era promesso che gli e
l’avrebbe fatta pagare. Puntualmente l'eccitazione della serata
gli faceva passare la rabbia.
Iniziarono la serata con la solita scaletta e con la confusione
dovuta all'enorme quantità di persone arrivate nel locale per
vederli suonare. Aveva deciso di suonare quasi sul bordo del
parco per evitare l'ennesimo cazzotto in testa. Lo stronzo, quasi
facendolo apposta, gli si avvicinò lentamente. Come una
trottola iniziò a ruotare proprio vicino a lui. Gli buttò
un’occhiata ma non servì a niente. Passò qualche secondo
prima di sentire il botto. Si oscurò la vista e poi il nulla. La
fortuna fu quella di trovarsi sul bordo del palco. Nello
svenimento finì fra le braccia del pubblico che, in visibilio,
impazzì esaltando la situazione.
Terminato il concerto, i ragazzi iniziarono a raccontare a
Duncan cos’era successo dopo il suo svenimento. Descrissero
la scena in cui Philip, credendo che il gesto di Duncan fosse
spontaneo, si gettò fra la folla che, nell'entusiasmo, lo fece
fluttuare e nuotare per tutto il locale in un passamano generale.
Una scena mai vista prima che per colpa del bassista si era
perduto. Considerazioni della serata. Pubblico in visibilio.
Altro pienone. Ennesimo bernoccolo. Tornò a casa convinto
più che mai che al coglione avrebbe dovuto far pagare ogni
singolo colpo in testa.
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Giovedì era di riposo e decise di fare la solita passeggiata
lungo la Denmark St. con destinazione bar, per andare a trovare
Aldo e per bere un pessimo caffè macchiato freddo.
Aldo lo vide entrare accorgendosi subito del vistoso
bernoccolo che aveva in testa. Bloccò la risata per la paura di
una sua brusca reazione. Gli domandò cosa fosse successo.
Duncan spiegò l'accaduto. Riferì all’amico quello che si era
perso e di quanto avrebbe voluto fargliela pagare. Aldo aspettò
giusto un suo cenno di sorriso per scoppiare in una fragorosa
risata che bloccò l'intero locale. Tutti si girarono a guardare il
barista impegnato a ridere. Rosso. Quasi senza fiato. Furono
cinque minuti imbarazzanti.
Il caffè fumava caldo. Desiderava berne uno buono. Più di
una volta gli era venuta voglia di non macchiarlo con il latte
ma non riusciva a deglutire quell'orribile miscela. Tutti
bevevano il tè mentre lui lo odiava.
L'inverno portava pioggia. Solo pioggia. Nonostante tutto
riuscivano a provare e a suonare con costanza. Erano ormai
sulla bocca di tutti. Ogni loro serata era un tripudio di persone
che si accalcavano alle porte dei locali anche solo per sentirli.
Ne succedeva una ogni concerto. Ogni volta diventava
qualcosa di cult. Tutti copiavano le gesta del gruppo così in
poco tempo il frontman di ogni gruppo si buttava sulla folla
impazzita, qualche strumentista si agitava impazzito come una
trottola, ma nessuno finiva svenuto fra le braccia del pubblico
colpito dal manico del basso. Era solo ed esclusivamente
61
sfortuna di Duncan. Tutta colpa di quel coglione che gli e lo
faceva apposta.
Era giorno di prove. Come al solito s’incontravano davanti
allo studio e da lì entravano tutti insieme. Tutti i ragazzi che si
trovavano negli studi li guardavano ammirati. Gli chiedevano
consigli. Erano quattro giovani che per puro caso si trovavano
ricoperti dal successo. Senza particolari mezzi o progetti. Philip
si sentiva una star. Firmava autografi. Scattava foto con alcune
fans e si dimenava sculettando come un frocio in calore. Lo
guardavano stupiti, ma ridevano perché sapevano della sua
eclettica personalità. Si godevano appieno quel momento
magico.
Tutto sembrava perfettamente costruito ad arte eppure non
avevano manager. Non avevano contattato nessuno e anche se
la popolarità era circoscritta alla sola città, per loro voleva
significare tanto. Il momento giusto sarebbe arrivato. Ne erano
convinti. Per questo continuavano a provare e riprovare i loro
brani. Studiavano il modo di presentarsi. Di stare sul palco. Di
inventare qualcosa di eclatante.
Aveva iniziato a parlare l'inglese quasi correttamente.
Guardava la tv senza alcun problema e finalmente capiva quasi
tutto quello che dicevano. Non si parlava altro che del successo
planetario che stavano ottenendo i Beatles e i Rolling Stones.
Dall'America giungevano immagini riguardanti i grandi
musicisti che stavano stravolgendo gli stilemi classici della
musica. Il rock si mischiava col blues, con il funky, con la
musica d'autore. Woodstock aveva creato una nuova ondata per
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quanto riguardava i concerti dal vivo e tutta la categoria hippie
aveva trovato il tanto ricercato sfogo in quella manifestazione.
La droga che circolò in quei giorni superò quantitativi
inimmaginabili.
Stava cambiando canale dopo canale. Annoiato. In preda ad
una nostalgia che non gli era mai pervenuta prima. Lo incuriosì
uno speciale su uno dei più grandi chitarristi del momento. Si
parlava di Jimi Hendrix. L'americano dalla pelle scura. Colui
che faceva continuamente uso di sostanze stupefacenti. Lo
fecero balzare dalla poltrona alcune immagini forti dell'artista.
L'esordio in cui bruciò la sua chitarra sul palco del festival di
Monterey. La riproposizione dell'inno americano sul palco di
Woodstock. La sua fama di chitarrista eccelso era veritiera e lo
dimostravano alcune sue composizioni divenute subito
successi. Continuò a vedere la breve presentazione e intervista
dell'artista proprio mentre un sonno pesante lo avvolse.
Una forte pioggia batteva sulla mensola. Si accorse di aver
dormito molto ma si svegliò riposato come non gli succedeva
da mesi. Felice di avventurarsi in un nuovo giorno fatto di
musica. Fece una doccia rigenerante. Si assicurò che fosse tutto
in ordine e si diresse da Aldo per bere l’abituale caffè. Seduto
al solito posto, iniziò a viaggiare con la mente. Pensava a
quanto sarebbe stato emozionante poter viaggiare e fare musica
in giro per il mondo. Lo facevano tutte le grandi rockstar. I
gruppi più famosi. Si ripeteva continuamente quale fosse stato
il modo più semplice per organizzare qualcosa del genere. Con
il gruppo stavano suonando parecchio. Con continuità e con
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ottimi risultati. Le attrazioni che Philip preparava per ogni
concerto riscuotevano successo. Non pensava potessero essere
meno entusiasmanti delle sgambettate da manichino di Mick
Jagger, né meno entusiasmanti di quel dimenare la testa, per far
muovere le frangette, come facevano i Beatles.
Quali doti apprezzavano di più i fans dei Beatles? Il loro
stile da ragazzi semplici, tutti vestiti per bene, o quello scuotere
le frangette volendo dimostrarsi quasi teneri? Cosa
apprezzavano i fans dei Rolling Stones? Il loro essere
trasgressivi? Teppisti devoti alla vita sregolata e fuori dagli
schemi? Gli risultava strano tutto questo. Ogni volta che si
poneva queste domande, rifletteva su che tipo di pubblico
avrebbero potuto attirare con il gruppo. Philip aveva iniziato a
muoversi sculettando. Lui era impacciato e di certo non
esternava la bellezza in persona. Il resto del gruppo si
ubriacava e dormiva. I fans decretano il successo di una band. I
loro concerti erano sempre affollatissimi ma non riusciva a
capire cosa colpisse di loro a parte le canzoni. Era sicuro che il
salto di qualità gli e lo avrebbe dato sicuramente un disco.
Avevano bisogno di far sentire a tutti la loro musica. Lo disse
chiaramente al resto della band. Chi con più voglia e chi con
meno voglia acconsentirono alla sua richiesta. Il Rengent
Sounds Studios avrebbe permesso al gruppo di registrare il loro
primo disco. L'idea di ritornare a incidere lo rendeva euforico
ma, nello stesso tempo, gli riportava alla mente ricordi che un
po' strozzavano quella gioia.
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Decisero che nel fine settimana avrebbero iniziato con le
registrazioni. L'unico problema era quello di contattare qualche
casa discografica che volesse promuovere il disco puntando su
di loro. La ricerca fu alquanto difficile. Erano un buon gruppo
emergente. Non affermato a tal punto da suscitare in un
discografico la voglia di produrre il loro lavoro. Riuscirono
dopo tante ricerche a contattare una piccolissima etichetta e a
fissare appuntamento per un colloquio. Invitarono il manager al
loro usuale appuntamento del venerdì con la serata live.
Decisero che per quella serata avrebbero messo da parte le
eclatanti gesta. Avrebbero suonato, concentrati, sperando di
fare una buona impressione sul discografico. Philip annuì
positivamente. Sapeva che poteva essere la loro occasione. Se
mai fosse diventato una vera rockstar avrebbe finalmente
potuto vivere a modo suo.
Iniziarono con un’introduzione musicale perché volevano
dimostrare a tutti che riuscivano a essere bravi anche
tecnicamente. Proseguirono con alcune cover per giungere
finalmente alla presentazione del loro ultimo lavoro. Il brano
era una pura canzone rock. Iniziava forte e finiva ancora più
forte. Raggiungendo livelli di dinamicità mai raggiunti prima.
L’unico pericolo era quello di degenerare nella follia. Duncan
guardò Philip che si tratteneva nervosamente. Muoveva
forsennatamente le gambe come se stesse correndo da fermo e
muoveva le mani come in preda ad una crisi. Si era del tutto
disinteressato del pezzo di merda al basso. Il coglione ancora
non aveva mostrato cenni di cedimento. A un tratto, come se
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qualcuno avesse liberato la molla che lo teneva fermo, iniziò a
roteare su se stesso. In pochi secondi scatenò il panico. Col
manico del basso riuscì a far volare a terra le due aste che
sorreggevano i piatti della batteria. Duncan, incredulo, ci mise
un bel po' a focalizzare quanto stava succedendo. Mentre
riacquistava visione della realtà, si accorse che la trottola si
stava dirigendo verso di lui. Ci volle un attimo per ritrovarsi di
nuovo steso a terra colpito per l'ennesima volta. Passò l'intera
serata seduto su una sedia con del ghiaccio in testa per attutire
il trauma. Avrebbe dovuto fargliela pagare. Doveva meditare a
una vendetta. Non poteva lasciarlo impunito. Il bastardo ogni
fine concerto girava per il locale ridendo e scherzando come se
nulla fosse successo. Duncan arrivava a casa con una forte e
tremenda emicrania e subiva le risate di Aldo ogni qual volta
andava a trovarlo al bar. Con in testa un nuovo bernoccolo.
L'unica nota positiva della serata era la notizia che al
produttore era piaciuta la canzone e l'esibizione. Definendoli
come una rock band di pazzi, decise che avrebbe prodotto il
loro brano.
Scendendo le scale incontrò Aldo che aveva deciso di uscire
e farsi un giro per la città. Si sarebbe unito a lui perché una
bella passeggiata avrebbe sicuramente fatto bene alle ossa e
all'umore. Gli raccontò dell'ennesimo colpo ricevuto. Aveva
intenzione di rendere al bastardo tutto il male che gli aveva
procurato. Aldo inizialmente si mise a ridere. Una volta tornato
serio ribadì che una lezione avrebbe sicuramente giovato al
ragazzo. Percorsero tutta la Denmark St. soffermandosi davanti
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alle vetrine dei negozi. Saltellarono tra un locale e l'altro
bevendo una birra o un bicchierino di Whisky. Nella lunga
passeggiata aveva intravisto più di una volta lo stronzo. Si
aggirava nei paraggi. Lo disse ad Aldo che subito spiegò il suo
piano. Avrebbero dovuto girare al largo del suo raggio
d'azione. Nel momento in cui lo avrebbero notato da solo, si
sarebbero avvicinati a lui portandolo in uno dei tanti vicoli bui
per poi affondargli qualche pugno nello stomaco. Domenico
guardò Aldo esterrefatto. Non voleva arrivare a tanto. Gli
bastava solamente provocargli qualche caduta o qualche altro
danno che sembrasse più un incidente che una vera e propria
resa dei conti. Aldo tornò in sé dicendogli che forse era
davvero esagerato il suo piano. Un finto incontro casuale e una
spinta avrebbe potuto funzionare meglio. Notarono che l'essere
infame stava parlando con una ragazza al di fuori di un locale.
Lei sembrava alquanto infastidita. Lui ubriaco come al solito.
Stringeva in mano un bicchiere di birra. Duncan e Aldo si
avvicinarono lentamente. Con molta disinvoltura. Quasi a
sfiorarlo. Notarono che il ragazzo non si era accorto della loro
presenza. Ritornarono indietro e con un tocco impercettibile
Duncan spostò il braccio con cui il bassista teneva il bicchiere.
L'infame lasciò versare la birra sulla ragazza che si mise subito
a gridare. Richiamando l'attenzione del gruppo di amici con cui
era uscita. Ci vollero pochi minuti prima che quell'episodio
sfociasse in una rissa. Una decina di ragazzi lo chiusero in
cerchio e ne prese di tutti i tipi. Calci, pugni e testate. Si salvò
solo grazie all'intervento della polizia. Qualcuno fece arrivare
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anche un’ambulanza che lo portò in ospedale dove fu ristabilito
e dimesso. Duncan non sapeva se quella lezione fosse servita
per cambiare il suo carattere di merda. Di sicuro aveva ricevuto
lo stesso dolore fisico che provava lui ogni qual volta lo
stendeva a terra per colpa della sua stupida mania di ruotare sul
palco.
Era giornata di registrazione. Aspettavano tutti il bassista.
Con qualche minuto di ritardo si presentò all'appuntamento.
Era pieno di lividi e decisamente scosso. Lo accolsero con una
risata generale tanto da farlo innervosire. Mentre si
accingevano a entrare nello studio, raccontò quanto gli era
successo. Duncan ovviamente sapeva tutto. Agli altri suonò
come una cosa talmente comica che si rimisero a ridere come
dei pazzi.
La sala di registrazione era attrezzatissima. Non come quella
di Ascoli. Aveva di tutto. Gli vennero dati gli strumenti
migliori per registrare. La sessione durò all'incirca tre ore. Tre
ore in cui riuscirono a portare a termine l'incisione della base
ritmica del pezzo. Nel pomeriggio avrebbero affinato la
registrazione con l'incisione delle parti soliste. Philip impiegò
mezz'ora per incidere la linea vocale. Il resto del gruppo
impiegò un'altra mezz'ora per incidere i cori. L'ultimo era
rimasto Duncan con le sue parti di chitarra. Il produttore restò
convinto di tutte le particolarità solistiche, ma credeva
necessario l'utilizzo di un assolo di chitarra. Spiegò all’italiano
che nel rock era di fondamentale importanza. Come un
flashback ritornarono in mente alcuni momenti vissuti in sala
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prove a Montegallo. Quel momento in cui il resto de Il Gruppo
lo spinse a costruire un piccolo assolo di chitarra per chiudere
il loro primo brano. Dovette restare qualche ora in più per
ascoltare la registrazione. Doveva creare al meglio quella parte
di chitarra che avrebbe staccato, melodicamente, il secondo
chorus da quello finale. Le idee erano chiare. Venti secondi di
assolo. Veloce ma non esageratamente complesso. Mise le
cuffie. Fece un cenno al tecnico che fece partire la base e alzò
il volume dello strumento. Iniziò con una scala. Proseguì con
un bending che allacciò a un ultimo fraseggio blues. Terminò
con uno slide fino alla nota di chiusura. Registrazione perfetta
fra gli applausi del resto del gruppo e il compiacimento di tutto
lo staff. Avrebbero lavorato, nei giorni seguenti, al
miglioramento del suono e delle incisioni. Uscirono dallo
studio stanchi ma euforici. Entrarono nel locale vicino allo
studio e iniziarono a bere birra fino a uscirne ubriachi.
Il risveglio fu meno esaltante degli altri giorni. Aveva un
cerchio alla testa. La bocca di un sapore strano. I vestiti
addosso. Finì per inerzia sotto la doccia. Si diresse al bar per
fare colazione con un caffè rigenerante ai fini fisici. Non ai fini
puramente gustativi.
Camminò per tutto il tragitto a testa bassa e con lo sguardo
fisso a terra. Fino all'arrivo del bar riuscì a sfiorare un paio di
lampioni rischiando di sbatterci con la testa. Appena entrò nel
locale Aldo lo accolse come al solito. Con in mano un giornale
che gli lasciò subito sul tavolo. Duncan non lo lesse subito
perché aveva ancora quel fortissimo mal di testa. Quella
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sensazione di malessere che si accusa ogni qual volta si finisce
con l'ubriacarsi. Rialzò gli occhi non appena sentì il profumo
del caffè. Aldo si accostò subito al suo fianco chiedendogli se
avesse letto il giornale. Gli disse che ancora non ne aveva le
forze. L’avrebbe letto subito dopo aver bevuto il caffè. Aldo
ritornò a servire i clienti. Aveva notato sul suo volto l'aria di
chi si era appena svegliato dopo una sbornia. Duncan macchiò
il caffè con il solito latte freddo e aprì il giornale.
La notizia era scritta in prima pagina. Parlava della terza
edizione del festival rock dell'isola di Wight. Avrebbero
partecipato al festival gruppi e musicisti importanti come Jimi
Hendrix, gli Who, i Free, i Doors e tantissimi altri. Duncan
guardò Aldo mentre serviva gli altri clienti. Aveva capito che
voleva dirgli se ci sarebbero andati. Gli si avvicinò. Senza fare
uscire niente di bocca ad Aldo affermò: «si che ci andiamo al
festival.»
All’amico si stampò un sorriso in viso. Con un cenno face
capire a Duncan che ne avrebbero parlato a casa. La cosa che
veramente lo aveva colpito di quel festival era la possibilità di
vedere, dal vivo, quel ragazzo di colore che faceva cantare la
chitarra e spiazzava il pubblico con dimostrazioni di genio e
follia.
Aldo bussò alla porta di casa affannato e in preda all'estasi.
Ne aveva sentito parlare già dall'anno prima e voleva vivere
quell’esperienza a tutti i costi. Alcune persone gli e lo avevano
dipinto come il miglior festival di tutta Europa. Lui aveva già
programmato tutto. Era salito proprio per mostrare l'itinerario
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completo. Avrebbero preso l’autobus fino a Portsmouth, il
traghetto fino al distretto di Fishbourne e poi treno locale fino
all'Afton Down. In poco più di tre ore si sarebbero trovati in
quell'enorme distesa piena di gente amante del rock e della
libertà. Un itinerario perfetto e senza nessuna pecca. Bisognava
solo aspettare il 25 Agosto per avventurarsi verso
un’esperienza che li avrebbe sicuramente segnati.
L'estate volgeva al termine. La tanto aspettata data
finalmente arrivò. Nel frattempo il gruppo iniziava a vendere i
primi dischi. Fortunatamente si era ricomposto grazie alla
brutta avventura capitata al bassista.
Scesero in strada per raggiungere la stazione degli autobus
che era quasi mezzogiorno. Aldo aveva fatto scorta di
tramezzini. Duncan di birra. Il viaggio sarebbe stato breve. Il
pernottamento lungo e senza una dimora per riposare la notte.
Giunsero a Portsmouth nelle prime ore del pomeriggio.
Approdarono sull'isola quarantacinque minuti dopo e salirono
immediatamente sul treno locale con destinazione Afton Down.
La loro maggiore preoccupazione riguardava il soggiorno. Non
avevano prenotato nessun hotel. Avrebbero passato il resto
della giornata e della notte nella valle. In attesa che le luci di un
nuovo giorno portassero con sé lo splendore del rock.
Quello che però si presentò a loro fu un'immensa distesa già
stracolma di persone. Erano arrivate da chissà quale parte del
mondo e chissà quanti giorni prima. D'un tratto sparirono tutte
le preoccupazioni. Furono assaliti dai pensieri più folli.
Volevano trasgredire e fottersene della routine che ogni giorno
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li accompagnava. A dire il vero, l’unico che viveva una
metodica routine fatta di caffè, di tè e di tramezzini era Aldo.
Duncan tra una serata e l'altra viveva qualche esperienza
diversa. Il festival dell'isola di Wight andava ben oltre. Si
accamparono vicino a un gruppo di ragazzi inglesi che subito li
accolsero in un tripudio di tintinnii di bottiglie di birra e in
mezzo alla nebbia della cannabis. Nell'euforia generale iniziò a
circolare un quantitativo considerevole di alcolici e diverse fra
le più disparate categorie di droghe. Dalla cannabis fino agli
acidi. Duncan aveva avuto quella bruttissima esperienza con la
droga. Aldo non aveva mai affrontato certe situazioni, infatti,
mentre Duncan si accontentava di bere e di spararsi qualche
tiro di canna, Aldo si trovò immischiato in un circolo vizioso
fatto di allucinogeni di ogni tipo. Cercò più volte di dissuaderlo
invano. Spesse volte ricevendo dei pesanti vaffanculo. Capì che
avrebbe fatto meglio a farsi gli affari suoi. Avrebbe recuperato
la carcassa del suo amico solo a fine campagna.
La luce del mattino svegliò Duncan. Con il calore che gli
ultimi giorni dell'estate portavano con sé. Come gli succedeva
da un po' di tempo si alzava con un cerchio alla testa e con un
sapore sgradevole. Aldo dormiva ancora steso sull'erba e con in
bocca uno spinello spento. Aveva passato una notte fuori dagli
schemi e Duncan dubitava in un suo risveglio. Dormì per tutta
la mattinata. Duncan fece un giro di perlustrazione per vedere
se riusciva a beccare qualche rockstar. Anche solo per
stringergli la mano. La ricerca ebbe esito negativo. Una marea
di gente ubriaca e drogata faceva da scenario a una valle che da
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lì a poco avrebbe visto esibirsi alcuni dei più grandi musicisti
del momento. Il pomeriggio si dimostrò leggermente più vivo e
chiassoso. Lentamente si stavano riprendendo tutti dai fasti
della notte prima. Tutti aspettavano con impazienza e con
fibrillazione l'inizio del concerto.
Aldo si svegliò vicino sera dopo i continui calci di Duncan
che gli buttava per capire se fosse ancora vivo. Aprì gli occhi.
Fece appena in tempo a dire qualcosa d’incomprensibile che il
rumore delle casse li avvisò che stava iniziando la festa. Un
applauso sancì l'inizio della serata e di quei giorni di musica.
Passarono momenti indimenticabili. Aldo era sfinito.
Portava in viso e in corpo i segni di quei giorni vissuti
all'insegna della libertà più assoluta. Duncan stava decisamente
meglio di lui. Lasciava girare nella sua mente tutti i gruppi visti
su quel palco e i vari artisti. Quello che lo colpì maggiormente
fu Jimi Hendrix. Era tutto vero quello che si diceva in giro.
Faceva cantare la chitarra e la sua voce da bluesman, bassa e
rauca, riecheggiava fra i fraseggi rock-blues-funky.
Avevano da poco iniziato a suonare nei locali più importanti
della città. Cominciavano a intravedere la via del successo. La
gente li ascoltava. Comprava i loro dischi. Andava ai loro
concerti. Li riconoscevano per strada e iniziavano a firmare i
primi autografi. Cambiarono totalmente abitudini ma non
rinunciarono mai a provare al Regent Sounds Studios. Il ritorno
dal festival dell'isola lo aveva rigenerato anche sul piano
compositivo. Aveva potuto notare tantissime cose per quanto
riguardava l'uso dello strumento. Aveva così deciso di proporre
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al gruppo qualche modifica per quanto riguardava l'approccio
alle nuove composizioni della band.
L'incontro era fissato per il primo pomeriggio. Dovevano
provare la classica scaletta di brani da loro composti per la
serata del giorno dopo. Duncan aveva notato che il volto del
cantante era decisamente più concentrato e serio del solito.
Ricoperto da un alone di tristezza e di delusione che mai aveva
scalfito i suoi lineamenti. Philip li fece sedere tutti. Si lasciò
cadere sulla sedia anche lui. Attese un attimo. Il tempo di
respirare e di guardarli tutti fissi negli occhi prima di iniziare a
raccontare la decisione presa riguardo il proseguo della sua
avventura nel gruppo. Non aveva mai espresso una causa
effettiva della sua scelta. Vagava continuamente fra problemi
di tipo personale e problemi d’incompatibilità musicale. Erano
consapevoli che il loro bagaglio musicale e la direzione
stilistica presa dalla band non era consona alle sue
caratteristiche. L'impegno con cui aveva affrontato tutto il
viaggio, fino ad allora compiuto, aveva fatto credere in
un’inversione di vedute. Per Philip quella sarebbe stata l'ultima
giornata di prove.
Decisero tutti che non ne sarebbe neanche valsa la pena.
Forse una bella bevuta avrebbe lasciato intatti i rapporti.
Riposti gli strumenti nelle rispettive custodie, s’infilarono nel
primo pub per sbronzarsi fino a notte fonda. Passarono tutto il
tempo a raccontarsi del periodo stupendo trascorso insieme.
Le fortune si costruiscono col sudore e con la dedizione. Era
forse maledizione di Duncan. Doveva per forza di cose
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succedere qualcosa che interrompesse il sogno. Parlò
direttamente col manager di quanto accaduto. La delusione
accolse l’agente quanto accolse il gruppo. Il manager lo
rincuorò dicendogli che avrebbe fatto di tutto per trovare un
degno sostituto. Avrebbe organizzato una serie di provini per
valutare, in linea con il progetto, la voce migliore da affiancare
al resto della band. Lo informò che avrebbe richiesto un po' di
tempo e che avrebbe rimpiazzato il gruppo, per le restanti
serate, con un’altra band.
Uscì dagli uffici dell'etichetta discografica camminando
senza meta per la città. Tutto gli sembrava completamente
surreale. Gli sembrava di rivivere gli stessi momenti che in
Italia decretarono la fine della prima esperienza musicale. Si
fermò per riposare in un parco della città. Rivalutò, ancora una
volta, la sua permanenza a Londra. Si lasciò cadere su una
panchina quasi alla fine del parco. Sotto l'ombra di un albero.
Per ripararsi dal sole di quella bellissima mattinata. Aveva
poggiato la testa fra le mani sorreggendola con i gomiti
posizionati sulle gambe. A un tratto si sentì toccare e chiamare
da una voce delicata. Una ragazza biondissima gli domandò se
stesse bene. Se gli servisse aiuto. Le rispose che stava bene e
che era solo affranto e deluso. Così, senza nemmeno
conoscersi, iniziarono a parlare del più e del meno. Le raccontò
quello che gli era appena capitato. Era strano come nonostante
fosse uno straniero, in due circostanze difficili, trovò alcune
persone pronte ad ascoltare le sue confessioni. Parlò per più di
un’ora. Vedeva lei affascinata dal suo racconto e
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completamente concentrata nell'ascolto. Finito il suo sfogo
ebbe il coraggio di chiederle il nome. Da dove venisse. Che
cosa facesse a Londra. Lei rispose con molto imbarazzo che si
chiamava Monika Dannemman. Era una pattinatrice tedesca
che si trovava a Londra per stare insieme al proprio uomo. La
delusione di scoprire che fosse impegnata gli vietò di chiederle
come si chiamasse il suo compagno. Da una confessione, molto
intima della ragazza, scoprì che si trattava di Jimi Hendrix. Le
rise in faccia perché si sentì per un attimo preso in giro.
Pensava fosse il suo modo per risollevarlo di morale. La
ragazza cercò in più di un’occasione di fargli capire che non si
trattava di uno scherzo. Per convincerlo lo invitò a casa sua per
passare una serata insieme a lei e al suo Jimi. Monika gli chiese
come si chiamasse e Duncan, volendo restituire lo scherzo
disse:
«mi chiamo Flahertie Wilde»
«Come Oscar Wilde?» rispose lei.
Ducan, alla risposta della ragazza, iniziò a fantasticare.
«Esattamente! Sono un pronipote dello scrittore. Diretto
discendente di una delle due scopate eterosessuali che si era
concesso durante il matrimonio.»
Raccontò tutto così seriamente che gli e lo fece credere. Lei
lo guardò folgorata come se avesse rivisto in lui il suo presunto
parente. Si salutarono con il sorriso stampato in faccia e con la
consapevolezza di aver fatto entrambi una gradita conoscenza.
Doveva possedere un sacco di soldi la pattinatrice. Lo invitò
al 20 del Samarkand Hotel sulla Lansdowne Crescent. Mise
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l'abito migliore. Era convinto che quella bugia fosse un modo
per attirare la sua curiosità. Lungo la strada non fece altro che
rapportare lo stile di approccio da parte delle donne italiane con
quelle tedesche. Nel suo paese era del tutto impossibile
approcciare una ragazza senza avere il permesso del padre. In
Germania era totalmente differente. Le ragazze tedesche si
avvicinavano ai ragazzi ed erano loro ad attaccare bottone. La
stessa cosa aveva fatto Monika il pomeriggio precedente.
Gli si presentò davanti un immenso residence nella sua
architettura e nella sua spettacolare colorazione biancastra.
Impacciato e senza la minima idea di come trovare la ragazza,
si mise a girare intorno al residence con la speranza di vederla
o di farsi notare da lei. Il suo piano funzionò alla perfezione.
Dopo neanche qualche minuto si sentì chiamare da quella
dolcissima voce. Dal 20 del Samarkand Hotel uscì Monika. Si
avvicinò. Gli diede un bacio sulla guancia e lo condusse nel
suo appartamento. Erano da soli. Iniziarono a raccontarsi di
quello che avevano fatto nella mattinata e senza pensarci su
due volte iniziò a deriderla per quello che gli aveva raccontato
il giorno prima su quella panchina. Lei rimase impassibile e
compiaciuta della sua verità che Duncan continuava a non
considerare come tale. Monika gli porse un bicchiere di vino
rosso. Lasciò toccare il bicchiere con il suo. Brindarono
all’incontro. A un tratto sentirono bussare alla porta.
«È il mio Jimi» disse la ragazza.
«Ah ah ah il tuo Jimi».
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Un’ombra gigantesca si avvicinava verso il salone. Aveva
gli occhi bassi sul bicchiere. A un tratto si ritrovò davanti Jimi
Hendrix in persona. Monika lo guardò quasi orgogliosa di
mostrargli che aveva ragione. «Idiota che non sono altro.
Perché avrebbe dovuto raccontarmi una fesseria? È chiaro che
non aveva senso dirmi che era la ragazza di Jimi Hendrix solo
per attirare la mia attenzione. Se lo affermava con insistenza, è
perché lo conosce veramente.»
Archiviò la figuraccia con l'esclamazione «cazzo!» notando
però che l'uomo era in chiaro stato confusionale. Aveva già
abusato di droga e di alcool. Gli puzzava tremendamente il
fiato e i suoi occhi erano come socchiusi. Dormienti. Si
accasciò sul divano facendosi porgere un bicchiere di vino
rosso. Lo deglutì in un colpo solo. Era senza forze. Devastato.
Come se stesse fuggendo da qualcosa che non andava. Monika
iniziò a raccontargli qualcosa. Scoprì che, dopo la performance
al festival, aveva compiuto delle serate in alcune tv tedesche
che erano andate decisamente male. Si era ritirato a Londra per
ristabilirsi e ricominciare le registrazioni di un nuovo album.
Da quanto aveva potuto capire il drogato stava dissipando
tutta la sua fama per via dei suoi vizi. Un tour disastroso e
qualche esibizione fischiatissima lo avevano portato anche
sull'orlo di una nevrosi. Sempre confidandosi con la ragazza
scoprì che il drogato stava facendo anche uso di tranquillanti.
La conversazione tra Duncan e Monika divenne man mano
sempre più confidenziale. Apprese che era stata una sua idea
farlo arrivare a Londra. Farlo alloggiare nello stesso Hotel.
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Voleva stargli vicino e voleva aiutarlo. La cosa che più
sorprese l’italiano fu la considerazione che aveva lei del
manager di Jimi. Michael Jeffery. Era considerato da Monika e
da tutti gli amici del chitarrista, il vero artefice della caduta
della rockstar. Rimase sorpreso da tali affermazioni. Si ritrovò
di colpo spiazzato sul ruolo che avevano i manager. Quello che
aveva contattato la sua band stava cercando di trovare il
sostituto del loro cantante. Quello di Jimi lo stava
definitivamente distruggendo.
Chiusero la conversazione con quell'ultima confessione.
Iniziarono a bere e a parlare di tantissime altre cose. Il drogato
stava lentamente riprendendo conoscenza. Appena si rese conto
della presenza di Duncan iniziò a delirare e a dirgli di uscire
dalla stanza. Monika cercò di calmarlo e di spiegargli tutto.
Con un cenno fece capire al ragazzo di uscire e di aspettarla nel
giardino sul retro. Continuò a discutere con quel drogato di
merda. Sentiva le urla da fuori. Più ascoltava quella lite
patetica più le sue considerazioni sugli effetti negativi che la
droga e l'alcool fanno sugli esseri umani, diventavano chiari. Si
autoconvinse che il suo classico caffè macchiato freddo era un
elisir di benessere e pace interiore.
I toni della lite non attenuavano. Decise di rientrare nella
stanza e di prendere parola. Per spiegare al coglione che non
voleva rubargli la donna e che non voleva andare in giro a dire
che aveva visto lui in quelle condizioni. Sembrò capire che le
sue intenzioni erano altre. Aveva solo accettato l'invito di una
ragazza conosciuta per caso nel parco. Lentamente il suo
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umore ritornò su livelli accettabili di convivenza. Si sedettero.
Si versarono un altro bicchiere di vino. Continuarono a farlo
per tutta la serata. Erano ubriachi. Non avevano mangiato
niente tanto che Monika decise che avrebbe preparato qualcosa
da mettere nello stomaco. Per attenuare quella sbronza.
Restarono per qualche minuto Duncan e Jimi da soli a
guardarsi in faccia. Senza dire assolutamente niente. Come
avrebbe preteso di parlare con un drogato alcolizzato che a
mala pena si teneva in piedi? La fortuna di ritrovarsi con un
altro grande musicista ma la sfortuna di beccarlo come il
primo. Completamente sopraffatto dalle sostanze stupefacenti.
Monika ritornò in camera invitandoli a raggiungere il
giardino dove avrebbero cenato. Si accomodarono in cerchio.
Cominciarono a mangiare. Riempirono i bicchieri con del vino
fino a scolarsi l'ennesima bottiglia.
Jimi si alzò di scatto e si diresse nella stanza di Monika. Lei
stava dormendo con la testa poggiata sul tavolino. Duncan si
mise a seguire il coglione per assicurarsi che non gli
succedesse niente. Entrò piano in camera facendo attenzione a
non turbarlo e non fargli venire qualche altra crisi di nervi. Si
mise vicino a lui e cominciò a parlargli del suo gruppo. Di
quello che era successo. Di quanto sperava si risolvesse la
questione del cantante. A lui non parve interessare molto.
Quasi sfinito da tutte quelle sue parole si mise a ridere. La sua
risata fu talmente contagiosa che anche Duncan si lasciò andare
a una risata liberatoria. Una risata che consacrò quell'incontro
che di artistico non aveva niente. Per lui andava bene
80
ugualmente. Duncan aveva compreso le precarie condizioni
psicologiche dell’energumeno. Si stupì quando il tossico gli
chiese dall’alto della sua goliardia: «giochiamo a fondino?»
Duncan si mise le mani in faccia. Non aveva mai sentito
questo tipo di gioco. Sottomesso dalle risate del coglione, si
fece spiegare le regole. Jimi gli rispose che l’unica regola era
quella di bere piegando la testa in dietro fino a quando non se
ne fosse più capaci. Duncan con un gesto della testa accettò
chiedendo di partire per primo. Jimi lo fece sedere su una
sedia. Gli fece piegare la testa in dietro, gli fece aprire la bocca
e iniziò a versare l’alcool. L’italiano alzò la mano per fermarlo.
Deglutì con forza sentendo in testa già gli effetti della sbornia.
Si alzò dalla sedia lasciando il posto al chitarrista. Decise di
togliersi la camicia restando a torso nudo. Piegò la testa e con
un cenno della mano indicò a Duncan di versare il liquido.
L’alcolizzato iniziò a deglutire senza nessuna difficoltà. La
bottiglia si svuotava inesorabilmente fermando la sua corsa
quando l’ultima goccia cadde dall’imboccatura. Hendrix non si
muoveva. Aveva sgranato gli occhi. Aveva stampato un sorriso
in volto. Si stese sul letto quando all’improvviso iniziò a
spasimare. Come un vulcano in eruzione iniziò a vomitare
senza pausa. Duncan restò immobile. Non riusciva a muoversi.
La paura lo assalì lasciandolo incapace di compiere qualsiasi
gesto. Monika dormiva fuori nel giardino. Non poteva
svegliarla per chiederle aiuto. Sudava freddo. Gli tremavano le
gambe. Gli occhi si appannarono di colpo. Pian piano e senza
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far rumore scavalcò la sedia messa al centro della stanza.
Lasciò Jimi immerso nel suo vomito dirigendosi verso l'uscita.
Una volta fuori dal residence si mise a correre come un
pazzo verso casa. Il tragitto non era lunghissimo. Due o tre
soste dovute alla stanchezza e al vomito gli e lo fecero
sembrare eterno. Non poteva credere a quello che era appena
successo. La paura aveva provocato in lui una crisi d'ansia
pazzesca. Respirava a fatica e sentiva il cuore esplodere. Riuscì
comunque ad arrivare sotto casa sua. Mise le mani in tasca.
Prese la chiave e, una volta chiuso il portone, salì nel suo
appartamento senza neanche prendere l'ascensore. Salì i gradini
a due a due per non perdere altro tempo. Per arrivare prima
possibile in camera. Non accese neanche la luce. Si diresse in
bagno. Alzò la tavoletta del cesso e cominciò a vomitare tutto il
vino ingerito poco prima. Sfinito e con gli occhi spalancati
dallo sforzo, sciacquò la faccia e si diresse in camera da letto.
Non riusciva a dormire. Aveva paura che da un momento
all'altro la polizia avesse potuto suonare al suo campanello.
Arrestandolo per quello che aveva provocato. Guardava
continuamente la sveglia. Le tre. Le quattro. Le cinque. Prima
di addormentarsi definitivamente.
Sentì dei colpi forti alla sua porta. Si svegliò di scatto.
Impaurito. Uscì dalla stanza tremando.
«Chi è?» Non riceveva risposte o forse la sua paura non lo
rendeva lucido da capire il nome. Si avvicinò ancora di più.
All'ennesima richiesta sentì esclamare in bassa voce: «Sono
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Aldo. Che ti è successo. Sono due giorni che non ti si vede in
giro.»
I suoi nervi cedettero di colpo. Si accasciò a terra. Con le
ultime forze rimaste aprì la porta ad Aldo. L’amico,
preoccupato, lo risollevò da terra portandolo sulla poltrona.
Non volle raccontargli niente. Gli fece credere che fosse
febbricitante e stanco. Si fece accompagnare sul letto e si
rimise a dormire. Aldo si assicurò che stesse bene. Dopo un
sospiro di sollievo lo lasciò riposare. Ritornò nel suo
appartamento.
Il sole sbatteva sul vetro della sua finestra. Si rifletteva nello
specchio e per riflesso sul suo volto. Si svegliò. Era tramortito.
Non riusciva a mettere a fuoco l'accaduto. Pian piano si diresse
verso la doccia. Un odore acido e disgustoso lo costrinse ad
aprire la finestra del bagno. Ad aspettare che l'aria rigenerasse
il locale. Nel frattempo aprì le restanti finestre per cambiare
aria all'appartamento. Dopo aver constatato che il bagno era
tornato agibile, s’infilò sotto la doccia per rigenerarsi.
Poggiò la testa al muro lasciandosi cadere l'acqua in testa.
Pensava e ripensava a quanto era accaduto. Deluso da cosa gli
stesse succedendo. Incredulo su come una vita, la sua,
tranquilla di provincia, si stesse trasformando in una caotica
esistenza in città. Racimolò i vestiti più puliti e si diresse come
di consuetudine al bar dove lavorava Aldo. Non aveva come al
solito quel fastidiosissimo cerchio alla testa né si sentiva
distrutto. Sentiva la pressione di quello che era successo e si
guardava intorno. Impaurito. La ragazza non sapeva
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esattamente il suo nome ma avrebbe potuto fornire una
descrizione del suo viso. La polizia poteva identificarlo e
arrestarlo. Arrivò al bar. Entrò salutando come al solito e
ordinò il classico caffè. Era strano come in Inghilterra non si
usasse salutare. In Italia quando entravi in qualsiasi locale e
salutavi, tutti i presenti si giravano per ricambiare il saluto. In
Inghilterra non gli era mai capitato. Aldo si scusò per averlo
svegliato la notte prima. Non avendolo visto credeva gli fosse
successo qualcosa. Duncan lo ringraziò e anzi gli chiese scusa
per non aver dato sue notizie. Diede ai troppi impegni
discografici la colpa della sua scomparsa.
Salutò Aldo e uscì dal locale. Si avvicinò all'edicola e
comprò il giornale. Era troppo curioso di sapere se della morte
di Hendrix si sapesse qualcosa. Se ancora giacesse morto in
quella camera. La notizia era in prima pagina. Una foto del
chitarrista steso sul letto lo mostrava esanime. Tornò a casa
senza aprire il giornale. Avrebbe voluto leggere l'articolo con
calma. Capire se c'era traccia della sua presenza nel racconto
che Monika avrebbe potuto fare di quella notte. Gli tremavano
le mani. Le palpitazioni aumentavano in continuazione. La
tensione gli provocò uno stato di affanno che dovette calmare
con un respiro profondo. Aprì il giornale alla pagina che
parlava della morte dell'artista e iniziò a leggere.
L'articolo raccontava una versione totalmente diversa
dell'accaduto. Gli sembrò più una personale proiezione mentale
che la scrittura del giornalista. Si alzò, si diresse in bagno,
sciacquò la faccia e ritornò a leggere l'articolo. Il racconto era
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lo stesso che aveva letto prima. Hendrix era stato ritrovato
morto sul suo letto nella 22 del Samarkand Hotel. Overdose da
barbiturici. Non credeva a quanto era stato scritto.
Non riusciva a comprendere cosa fosse potuto succedere
dopo. Uno stato confusionale lo privò della ragione. In un
delirio mai riscontrato prima iniziò a chiedersi: «l’altra sera mi
trovavo in quella stanza oppure è stato solo un brutto sogno?»
L'incredulità e lo sconcerto lo fecero per un momento ridere
di gusto. Si diceva: «ma come ho potuto credere di aver ucciso
Hendrix se in quella stanza non ci sono mai entrato?»,
continuava a ridere e a ripetersi che doveva cominciare a bere
di meno. Doveva calarsi nel ruolo di musicista a tempo pieno.
La mattinata fu un continuo ricordare e cancellare le memorie
di quella notte. Finì la giornata in totale confusione tanto che si
mise a dormire. Esausto. Decisamente stordito.
Fu un continuo agitarsi. Il suo inconscio non lo fece
dormire. Il pensiero di quella serataccia lo risvegliò
regalandogli una bella notte insonne. Nel buio della stanza si
sedette sulla poltrona. Fissò il buio e iniziò a pensare
seriamente a quanto successo. Ricordava esattamente tutti gli
attimi concitati di quella notte. Ricordava che Monika dormiva
ubriaca sul tavolino in giardino. Che si trovavano al 20 e non al
22 dove fu trovato il cadavere. Diverse versioni dell'accaduto
iniziarono a costruirsi nella sua mente. La più realistica
versione di quanto letto era quella in cui Monika, una volta
sveglia, era andata in camera sua per dormire quando trovò il
corpo dell'uomo steso a terra. Sapeva che non poteva chiamare
85
i carabinieri. Avrebbe passato guai molto seri con la polizia e
con la federazione sportiva. In un attimo di coraggio spostò il
cadavere nell’altra stanza in modo da depistare le indagini.
Facendo in modo che risultasse una morte causata dall'uso
eccessivo di tranquillanti. Non dall’abuso di alcool e droga. Era
l'unica ricostruzione plausibile della nottata. Doveva per forza
di cose essere andata in quel modo. Rilesse l'articolo per dare
conferma alla sua supposizione. A fine articolo sottolineò la
dicitura “morte per incidente”. Tirò un sospiro di sollievo e
ritornò a dormire in tutta tranquillità come se nulla fosse
successo.
86
Capitolo IV
Una notizia straordinaria aveva entusiasmato la giornata di
Duncan. Il manager del gruppo, in stretto contatto con Albert
Grossman, impresario di Janis Joplin, lo propose per una
collaborazione con la cantante. Avrebbe partecipato alla
composizione di alcuni suoi brani che sarebbero poi finiti
nell’album “Pearl”. Era strafelice ed entusiasta di quanto gli era
stato concesso. Lo studio e il lavoro erano stati ripagati nel
miglior modo possibile. Doveva prendere un aereo e volare in
America con destinazione Hollywood. Non stava nella pelle e
non riusciva a immaginare cosa potesse aspettargli in quel
posto. Non aveva mai lavorato per altri grandi musicisti. Aveva
solo creato insieme con altri ragazzi con la sua stessa
esperienza.
Il volo per l'America decollò prestissimo. Quasi venti ore di
viaggio per poi mettersi subito al lavoro. Le indicazioni del suo
manager erano state chiare. Creare qualcosa d’importante per
non far rimpiangere la vecchia band della cantante. La
responsabilità di quanto gli era stato affidato lo inorgoglì
moltissimo. Stava meritando tutto questo? Era veramente
all'altezza dell'incarico? Furono solo alcune delle domande che
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si pose durante tutto il viaggio. Viaggio in cui dormì
pochissimo. Per due motivi. La preoccupazione di non essere
all'altezza. La paura di volare. Era la seconda volta che
prendeva l'aereo. In entrambe le circostanze solo ed
esclusivamente per andare a cercare fortuna.
Hollywood era spettacolare, minimamente paragonabile a
Londra. Dava un senso di libertà e tranquillità, era soleggiata e
allegra a differenza di Londra. Soffocante e triste. La tendenza
hippie aveva profondamente modificato il modo di vivere.
Persone stravaganti, vestite di colori accesi. Con magliette
decorate da stranissimi disegni. Medaglioni che pendevano sul
petto. Occhiali rotondi che nascondevano gli occhi sempre
sopraffatti dall'uso di sostanze di ogni tipo.
Londra manteneva la sua cultura. La Beat Generation aveva
inculcato nei ragazzi e nelle ragazze uno stile di vita totalmente
diverso. I vestiti erano decisamente più eleganti. Anche il
taglio di capelli si basava sulla moda lanciata dai Beatles. Gli
hippie avevano tutti i capelli lunghi e sporchi.
Albert Grossman lo aspettava nel suo ufficio. Voleva
vederlo. Spiegargli il lavoro da svolgere con l'artista. Gli
raccontò tutto quello che era successo con la Kozmic Blues
Band. Lo informò del caratteraccio che possedeva Janis.
Duncan gli assicurò che avrebbe fatto del suo meglio. Avrebbe
assecondato ogni richiesta dell'artista in modo tale da portarla
alla realizzazione del disco secondo le sue preferenze.
Gli furono concessi un paio di giorni prima di iniziare a
lavorare. Lo studio di registrazione era vicinissimo al
88
Landmark Hotel. Dove risiedevano lui e la cantante. Il resto
della band, la Full Till Boogie Band, l’avrebbe incontrata
all'indomani. Avrebbero iniziato a discutere sul sound da dare
al disco. L'incontro fu alquanto amichevole. I ragazzi rimasero
incuriositi dal fatto che fu chiamato un italiano a suonare in
quel disco. Decisamente fuori dagli schemi della musica che di
solito si ascolta nel paese europeo. Non appena spiegò loro il
perché della sua chiamata, si ricredettero e iniziarono a dargli
più fiducia.
Nessuno mostrò altri tipi d’interesse sul suo conto. La moda
del momento imponeva pensieri più liberi. Ognuno era libero
di interpretare la propria vita. Tutti i componenti della band
facevano uso di droghe di ogni genere. La leggenda che la
scena culturale americana era incentrata sullo slogan “sesso,
droga e rock & roll” trovava conferma nella vita sregolata che
conducevano i ragazzi. Joplin ne era chiaramente l'icona.
L'attesa per l'arrivo della cantante fu spasmodica ed
estenuante. Tardò quasi di un’ora. Non appena sentirono la sua
voce riecheggiare nello studio si fiondarono sugli strumenti per
farsi trovare pronti. Le direttive erano state chiare.
Accontentarla per non rischiare di creare problemi alla
composizione dell’album. Janis arrivava da un disco
fallimentare più per quanto riguardava il consenso della critica
quanto per l'elevata qualità musicale prodotta. Era infuriata e
stravolta ogni qual volta si recava nella sala prove. Questo
chiaramente influiva sulla composizione.
89
La band iniziò a suonare il primo pezzo. La stronza non si
era neanche voltata per salutare il gruppo. Tantomeno per fare
la conoscenza dell'ultimo arrivato. La strafottenza che mostrava
nei confronti della band era patetica. Aveva assaporato il
successo da qualche anno e già si sentiva superiore a chiunque.
Duncan aveva imparato alcuni pezzi che avrebbero fatto
parte del disco. Ora gli toccava arrangiarne qualcun altro
partendo esclusivamente dal testo e dall'impronta che la
cantante voleva dare al brano. Il blues del primo disco da
solista riecheggiava in qualche fraseggio. La connotazione
decisamente più folk di qualche altro passaggio sembrava
accontentarla.
Il batterista fu il primo della band a dargli più confidenza.
Forse incuriosito dal suo trascorso o semplicemente perché
molto più espansivo. Iniziò a raccontargli un bel po' di aneddoti
riguardanti Janis. Scoprì subito che era una ragazza normale e
semplice. Quando si trattava di musica, diventava esigente e
riusciva a rompere le scatole a chiunque tentasse di rendergli il
lavoro lineare e preciso. Amava improvvisare e ricercava la
perfezione in questo.
Gli raccontò che prima di scritturare la band aveva avuto
esperienze con altri gruppi. Con questi, in più di una
circostanza, si trovò in netto contrasto. Era una perfezionista.
Era stata accompagnata sempre da grandi musicisti ma
soprattutto da gente che viveva da rockstar. In un circolo
vizioso fatto di sesso e di droga. Per Duncan furono confidenze
90
importanti perché adesso sapeva come approcciarsi a lei senza
dover per forza scontrarsi.
Non era esageratamente bella. Janis possedeva una voce
potente. Uno stile hippie e una capacità compositiva al di fuori
di ogni schema. Il suo graffio e il suo animo triste la rendevano
produttrice di testi e musiche decisamente blues. Quelle
composizioni portavano l'animo negli abissi e nel dolore prima
che un vocalizzo facesse esplodere tutto per riportarlo alla luce.
Dovevano portare avanti il disco nonostante la sua vita
procedesse immersa nella sregolatezza. Dovevano suonare e
provare e in più di un'occasione le sue condizioni lo
impedirono. I fasti dell'estate riecheggiavano anche a
settembre. La temperatura rendeva tutto più complicato. Spesso
si arrivava all'esaurimento nervoso per stare al passo delle
esigenze della stronza. Non c'era una seduta di prove che non
terminasse con un’indecisione riguardo a qualche pezzo e che
non terminasse con una critica nei loro confronti. Venivano
spesso accusati di non saper suonare. Di non saper comporre
ottima musica. Duncan incominciava a essere stufo di quel suo
modo arrogante di porsi. Era pur sempre una star, ma per quel
suo modo arrogante di fare nessuno voleva collaborare con lei.
Albert Grossman gli ripeteva sempre di non ascoltarla e di
continuare a fare il suo lavoro insieme alla band. Al prodotto
finito ci avrebbero pensato lui e Paul. Certo quella sua
affermazione non era rassicurante, ma, comunque risuonava
come un incoraggiamento a svolgere diligentemente il lavoro
senza preoccuparsi di Janis.
91
Un foglio con un testo scritto era rimasto in sala prove.
Duncan arrivò per primo. Incuriosito, lo lesse. Era pazzesco.
Un testo struggente e nello stesso tempo pieno di positività.
Mentre lo leggeva, immaginava gli arrangiamenti, pensava a
un'immensità di soluzioni ritmiche. Allo stesso tempo voleva
renderlo più semplice possibile. Aveva analizzato il disco
precedente registrato insieme alla Kozmic Blues Band. In
quella produzione notò quanto Janis rendesse nel momento in
cui gli si lasciava lo spazio per improvvisare. Far uscire quella
parte di sé in cui mostra il suo talento e le sue potenzialità.
All’arrivo degli altri componenti Albert li informò del ritardo
della cantante. Il resto del gruppo si ritirò nella stanza accanto
per fumare e per bere, come facevano di solito prima dell'arrivo
della drogata. Duncan, al contrario, rimase nella sala prove per
lavorare sul testo. Voleva dargli un’impronta blues ma nello
stesso tempo renderlo armonioso. Ascoltabile. In modo che, in
una riproposizione live, le persone potessero apprezzarne sia
l'esecuzione vocale sia quella musicale. Segnò qualche accordo
nelle prime due strofe e nell'inciso. Li provò per vedere se
funzionassero bene. Se facessero parte di una melodia lineare e
precisa. Era ormai mezz'ora che provava e riprovava il pezzo.
Non lo rassicurava quel tipo di arrangiamento. In quel preciso
momento sentirono la voce potente di Janis rimbombare per lo
studio. Gli altri ragazzi si posizionarono con i rispettivi
strumenti in spalla pronti a iniziare un'altra sessione di prove.
La stronza come al solito non diede confidenza. Cominciò a
dare ordini su quali pezzi provare.
92
Iniziarono a suonare le prime composizioni quando si
accorse che sul suo testo vi erano annotati degli accordi. Si
bloccò. Iniziò a guardarli con un’aria strana quasi pronta a
esplodere in uno dei suoi attacchi. Incredibilmente non fu così.
Con molta calma chiese chi avesse segnato quegli accordi sul
suo testo. La paura immobilizzò il resto del gruppo. Per
qualche istante non si sentì neanche un respiro. Duncan alzò il
braccio per rispondere alla sua domanda. La stronza cominciò a
chiedere sul perché si fosse permesso di scriverci sopra. Lui,
senza alcun problema, iniziò a spiegarle quali erano le sue
intenzioni. Era agitatissima. Non era abituata a ricevere
consigli da un componente del gruppo. Non poteva accettare
questo. Le continue ripetizioni di Duncan sulle cause che lo
avevano spinto a fare quel gesto sembravano man mano
convincerla. Forse sarebbe stato più opportuno provare e
vedere se andassero bene, prima di sfociare in uno dei suoi
soliti sfoghi. Duncan chiese alla band di eseguire un classico
tempo blues. All'altro chitarrista e al bassista chiese
espressamente di ritrovare nel giro armonico di accordi una
continuità di esecuzione in modo da non denudare il pezzo
della sua musicalità. Di rafforzarlo dall'inizio alla fine. A Janis
spiegò dettagliatamente di cantare con quella tonalità perché la
riteneva un ottimo punto di partenza. Sembrò piacerle l'idea
tanto che volle provarla subito. Tre ore di prove costanti e
ripetute si conclusero con un nulla di fatto. La stronza lasciò
cadere il microfono a terra uscendo dalla stanza senza neanche
salutare.
93
La vita in hotel era una figata. Aveva la possibilità di stare a
contatto con grandi personaggi ma a lui interessava poco o
niente. Fiumi e fiumi di champagne scorrevano nei suoi
bicchieri. Cercava in tutti i modi di organizzare la sezione
melodica delle canzoni di quella pazza esaurita strafatta di ogni
tipo di droga.
Dovevano preparare il disco nel minor tempo possibile.
Perdevano ore e ore nell'attesa che Janis si presentasse.
Passavano molto tempo a curare gli arrangiamenti che
immediatamente venivano smontati dagli improvvisi cambi che
la cantante proponeva appena si presentava in sala prove.
Erano esausti e non riuscivano più a concludere una
sessione di prove. Era passata ormai una settimana dove in
sostanza si erano creati solo cinque brani. Altri tre erano in
cantiere.
La vita in hotel continuava a essere estremamente lussuosa.
Era il luogo più vicino agli studi di registrazione della città.
Intorno ruotavano decine e decine di persone che spacciavano.
Lui se ne stava dalla finestra e si gustava lo spettacolo. Persone
che si passavano la roba e che contrattavano. Capì subito che
una delle attrazioni principali dell'hotel non era la sua
architettura stile polinesiana, ma la possibilità di vivere anche a
stretto contatto con i migliori spacciatori di tutta Hollywood.
Vide Janis uscire dall'hotel in compagnia del suo ragazzo. Un
certo Seth Morgan che viveva a San Francisco e che spesso
andava a trovare la ragazza. Li osservò mentre abbracciati, si
avvicinavano verso la Porche Carrera della cantante. Janis era
94
una vera artista. Il suo modo di vivere era talmente folle che
fece dipingere la sua macchina con dei disegni psichedelici da
un artista della zona. In un colloquio privato con l'altro
chitarrista della band, riuscì a scoprire della fragilità emotiva
della ragazza. Dei suoi repentini cambi d'umore. Della
turbolenta vita che negli anni l’aveva totalmente stravolta. Era
molto amica con altre due ragazze. Due stiliste che
intrattenevano con lei rapporti morbosi. Con una di esse visse
una breve storia d'amore. Erano rispettivamente l'angelo e il
diavolo. Una devota al lavoro e alla vita tranquilla. L'altra la
compagna di tante sbronze e di tante serate passate a fare uso di
droghe.
Come al solito Janis si faceva aspettare per ore. Il resto della
band cercava in tutti i modi di portare a termine qualche
composizione. C'era ancora da completare il brano su cui
lavoravano da tre giorni. Non convinceva. A Janis questa cosa
dava molto fastidio. Voleva la perfezione, dove la perfezione
ancora non era stata trovata. Per una mezz'ora provarono e
riprovarono senza nessun miglioramento. I suoi sguardi
diabolici celavano una rabbia che da lì a poco sarebbe sfociata
in un’offesa. Andò esattamente come immaginavano tutti.
Conclusa quell'ennesima prova la psicopatica iniziò a urlare e a
inveire contro la band. Li definì incapaci. Inutili. Musicisti da
oratorio e senza un minimo di estro. Erano impietriti di fronte a
quella bestialità. Non osavano rispondere né ribattere su quanto
era stato detto loro. Non potevano mettere a rischio l'album. Il
destino di Janis. Tantomeno volevano rinunciare alla voglia di
95
fare musica. Si notava chiaramente come lei volesse diventare
una star. Per farlo doveva sfornare pezzi che fossero all'altezza
o superiori agli altri. A loro, al contrario, bastava suonare.
Essere buoni musicisti. Fare musica. Arrangiare canzoni.
Scrivere.
Paul Rothchild aveva avvertito le urla della dannata da fuori
lo studio di registrazione. Come un fulmine si era diretto nella
sala per calmare la ragazza e per tranquillizzare la band. Non
che le parole uscite dalla bocca di una drogata li avesse colpiti
più di tanto. Sapevano di quel suo caratteraccio. Quello che li
preoccupava di più era come finire quello stramaledetto lavoro.
Paul li rassicurò dicendo loro di prendersi qualche minuto di
pausa. Lui avrebbe calmato la stronza. Duncan negli occhi
degli altri componenti non ci vide nessuna preoccupazione.
Nessun segno di rabbia. Fumavano e bevevano. Pensavano a
suonare. Dopo quell’esperienza loro avrebbero comunque
continuato a fare musica. Duncan invece si sarebbe trovato a
un bivio. Continuare a fare musica o abbandonarla per sempre.
Ritornare a Londra con alle spalle una collaborazione
importante avrebbe sicuramente raddoppiato il suo valore.
Ritornare con un fallimento, nella culla della Beat Generation,
avrebbe significato la sua definitiva scomparsa.
Uscì fuori ostinato a far sentire la sua voce. Non poteva
restare inerme. Non poteva farsi prendere a pesci in faccia da
una sprovveduta che, solo per via della sua voce, si credeva la
star del secolo.
96
Mentre stava andando verso la stanza in cui Janis si stava
calmando, fu fermato da Albert Grossman che gli disse di non
compiere sciocchezze e di tirare avanti per qualche altra
settimana. Si fermò solo perché era grazie a lui se stava
realizzando quella magnifica esperienza. Sempre grazie a lui in
hotel non gli mancava niente.
Paul li richiamò e li fece rientrare in sala prove. In quei
pochi passi, che lo separavano da una sala all'altra, ebbe una
folgorazione. Il modo migliore per far decollare il pezzo era
quello di dare sfogo alla rabbia di Janis. Un urlo dove la
ragazza avrebbe intonato le due parole del ritornello. Spiegò le
sue intenzioni al resto della band che accettò senza alcun
problema. L'unico problema era come spiegarlo alla malata di
mente.
Non riuscirono mai a spiegarsi come fosse potuto succedere.
Le sue intenzioni e quelle della band avevano colpito in
maniera del tutto inconscia anche la cantante. Il batterista diede
il tempo con quattro colpi di bacchette. Duncan intonò il primo
accordo. Janis si mise a urlare, con un’intensità e una potenza
mai sentite prima, le due parole Cry Baby. Il tanto ricercato e
discusso particolare, che migliorasse la canzone, fece sì che il
resto del brano scorresse tranquillamente e decretasse la fine di
quella straziante giornata di prove.
Nonostante la dura registrazione del pezzo, Janis continuò
ad avere problemi con tutta la band. Il suo umore variabile non
lasciava nemmeno il tempo di gustarsi una sessione ben
riuscita. Subito iniziava a inveire per gli arrangiamenti degli
97
altri brani. Duncan decise che per quanto riguardava Cry Baby
non si sarebbero verificati altri cambiamenti. Lo chiarì con la
stronza e lo ribadì a Paul e ad Albert. I due con un cenno
impercettibile del capo, quasi per non farsi notare dalla
cantante, gli fecero un cenno d’intesa. Per sviare il discorso
proposero alla band un pomeriggio di pausa.
Decisero di andare a bere qualcosa tutti insieme. Anche
Janis accettò. Quando si trattava di droga e alcool lei era
sempre la prima a essere d'accordo. Lasciarono gli strumenti
sparsi per la sala. A nessuno interessava più della registrazione.
Anche il penultimo pezzo era quasi pronto. Con un ultimo
turno di registrazione avrebbero concluso il sofferto disco. Si
avviarono tutti insieme verso il Barney's Beanery. Il solito
luogo di ritrovo della band. Molto di frequente, a detta degli
altri, si potevano incontrare anche i Doors. L'altro gruppo
prodotto da Paul Rothchild. Si sedettero alla fine del locale
quasi come se stessero ricercando la tanto desiderata
tranquillità. Janis si accomodò nell'angolo come se volesse
essere protetta. Protetta da un mondo che gli stava togliendo la
vita. La cultura hippie l'aveva liberata da ogni freno inibitorio
catapultandola nell'abisso della droga. Il tastierista si mise
vicino. Isolandosi dal gruppo iniziarono a parlare di musica e
delle registrazioni dell'album. La stronza aveva il coraggio di
parlare delle registrazioni nonostante fosse riuscita a fargliele
odiare fino all'ultimo secondo. Era costantemente in ritardo.
Non gli andava mai bene niente. Lottavano contro un muro.
Contro una persona che non riusciva a stabilire un rapporto con
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gli altri senza litigare o rispondere con toni decisamente da
censura. Ordinarono tutti quanti una bella bottiglia di Southern
Comfort. Era il whisky preferito della donna. Forse per via del
suo sapore dolce e mieloso che le dava una sensazione di
benessere alle corde vocali. Dava il massimo nei live. Sforzava
la voce con tale veemenza che quasi sembrava volesse
romperle. Qualche giorno prima, Duncan, aveva parlato con
Paul. Gli spiegò come stesse cercando in tutti i modi di far fare
esercizi vocali alla cantante. Aveva paura che da un momento
all'altro le sue corde vocali potessero rompersi definitivamente.
Distruggendo quello che era il vero punto di forza dell'artista.
Lei non volle mai fare quegli esercizi. Dalle prime registrazioni
a quelle attuali la differenza si notava. Nei primi dischi si
notava un approccio potentissimo, più urlato. Nell'ultimo disco
e in quello che stava per uscire le cose erano chiaramente
migliorate. Riusciva a controllare la tonalità e capiva quando
era il momento di vocalizzare. Quando doveva alzare e quando
doveva usare il timbro basso. D’altronde una cantante blues
doveva possedere una proprietà canora eccellente. Purtroppo
quello che la stava rovinando era l'uso costante di droghe.
Scoprì che Janis ultimamente stava facendo uso di eroina. Non
sapeva neanche l'esistenza di quel tipo di droga. Negli ultimi
anni, da quando era partito da Montegallo, aveva imparato a
conoscere la cannabis e la cocaina. Di eroina non ne aveva mai
sentito parlare. Fece finta di sapere di cosa stesse parlando. A
lui interessava sapere altri particolari della vita di Janis. Tutto a
un tratto la conversazione fu interrotta da una frase che scandì
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Janis. Suonò molto particolare. «Siete la mia band! Non
permettetevi ad abbandonarmi altrimenti vi ammazzo!» Dopo
aver rotto con il gruppo precedente, aveva espresso
chiaramente ad Albert che avrebbe voluto una band fatta
esclusivamente di ottimi musicisti. Quattro canadesi, un
americano e un italiano furono la squadra che fino a quel
giorno l'aveva accompagnata nella registrazione del suo album.
Avevano bevuto tantissimo. Dal whisky passarono a una
miscela di vodka e succo d'arancia. Erano ad un passo dalla
sbronza quando decisero che era ora di ritornare a casa.
Duncan e Janis vivevano nel Landmark Hotel nel West
Hollywood al 7047. Lei viveva nella stanza 105. Lui nella 107.
Si offrì gentilmente di dargli un passaggio fino all'hotel con la
sua Porche psichedelica e decisamente hippie.
Il tragitto non era lunghissimo. La stronza, la identificava
con questo termine per via delle continue liti durante le prove,
decise che avrebbe compiuto un giro diverso in modo da non
rientrare subito. Era perplesso. Da quando era entrato a far
parte della sua band non gli aveva mai dato segni di
considerazione. Ricordava ancora quando il primo giorno non
si curò neanche di domandare chi fosse e cosa ci facesse lì.
Iniziò a ringraziarlo per aver reso speciale il suo testo. Cry
Baby. Per la pazienza mostrata durante tutte le registrazioni.
Restò ad ascoltarla perché spiazzato da quel suo
comportamento. L'aveva sempre conosciuta in tutt'altra veste.
Diabolica. Schizofrenica. Gustarsi il suo lato più dolce e
semplice, ora, era più importante che discutere. Continuò senza
100
mai fermarsi a parlargli di lei, della sua vita, di come già una
volta era scappata dalla California per via della sua dipendenza
dall'eroina. La California sarebbe diventata la sua tomba. Si era
accorta che la vita a Hollywood la stava portando lontano dal
mondo.
Ritornarono nella sua mente momenti dell’infanzia. Gli
raccontò della gioia provata quando, dal palco del festival di
Monterey, ricevette quell'applauso consacratore. Fu il momento
in cui la sua carriera prese la strada del successo. Era l'unica
donna del rock. La regina del Rock.
Dal suo parlare in continuazione notava che le mancava una
persona con cui potersi confidare. Quel parlare con lui
dipendeva più da quell’esigenza che dal fatto di volerlo
conoscere. Continuò ad ascoltare ogni sua confessione. Da un
po' di tempo stava insieme con un certo Seth Morgan. Presunto
ereditiere del banchiere Morgan. Lei teneva molto a Seth tanto
da volerlo sposare. Gli confidò che tanti suoi amici le fecero
notare come Seth era affezionato al suo testamento molto più
che a lei. Non credeva a quanto affermavano i suoi amici.
Voleva veramente sposarlo. Suonava strano detto da una
persona che amava uomini e donne senza nessun problema, che
aveva sposato in pieno la cultura hippie e viveva secondo la
parabola Peace & Love. La contraddittorietà che la
caratterizzava raggiungeva livelli altissimi che in quel modo di
vivere anche il matrimonio avrebbe significato qualcosa.
Gli raccontò delle sue avventure con Leonard Cohen al
Chelsea Hotel di New York. Delle notti infuocate con Peggy
101
Caserta. Le brevi relazioni con Kris Kristofferson. Le
scazzottate con i maschi. La bottiglia rotta in testa a Jim
Morrison. Il pugno rifilatogli da Jerry Lee Lewis e le tantissime
notti passate a farsi di eroina. Duncan notò che la sua Porche
Carrera aveva iniziato ad andare più veloce. Janis premeva
sull'acceleratore facendogli notare, con aria di sfida e in piena
schizofrenia, quanto fosse invincibile. Girarono in macchina
per tutta la notte discutendo di moltissime altre cose. Stava
rivalutando Janis. Il suo caratteraccio e il suo modo di porsi a
loro, spesso disgustoso quanto rozzo, era un modo di
difendersi. Vedeva sul suo volto un sorriso che in due
settimane non aveva mai notato. La tristezza e la rabbia, con
cui si presentava in sala d’incisione, la deformavano a tal punto
da mostrarla diabolica e acida. Avevano imboccato la Franklin
Avenue per far ritorno al Landmark Hotel. Vide sul lato destro
della strada un gruppo di ragazzi che iniziarono a urlare “Janis,
the Queen of Rock”. Lei non si era accorta di nulla. Per attirare
la sua attenzione esclamò:
«J.J, quei ragazzi urlano il tuo nome!»
La pazza lasciò il volante per alzare le braccia in cielo in
segno di saluto. Mentre lo faceva lo guardava divertita.
«Nessuno mai mi aveva chiamato così. E’ strano e dolce
sentirsi chiamare in questo modo.»
Non stava nella pelle. Come se quel suo modo di chiamarla
le avesse reso la serata veramente entusiasmante. Era fatta così
la stronza. Urla, calci e pugni solo per nascondere un'anima
spaventata e debole.
102
Mentre stava scendendo dalla macchina, notò che Janis lo
guardava fisso. Come se volesse chiedergli qualcosa temendo
in una sua reazione contraria. Trovò comunque il coraggio di
chiedergli se potesse farle un favore. Duncan le rispose che non
c'era nessun problema. Gli disse che aveva un appuntamento
con un suo amico spacciatore con cui si era sentita nel
pomeriggio. L’incontro sarebbe avvenuto proprio all'ingresso
dell'hotel. Duncan restò immobile. Stava per cacciarsi in una
situazione imbarazzante e pericolosissima. Non poteva dirgli di
no perché sarebbe andato incontro a una litigata pazzesca.
Secondo le confessioni della pazza poteva sfociare anche in
una scazzottata. Aveva riso in macchina ma era troppo instabile
mentalmente. Non voleva rischiare di farle cambiare umore e
soprattutto non poteva permettersi di rifiutarsi visto che
avrebbe potuto cacciarlo dalla sua band. In qualsiasi momento.
«Devi aspettare l'arrivo di uno spacciatore di nome George.
Lo riconoscerai subito perché è l'unico che riesce ad
avvicinarsi e a entrare nell'hotel. Lui porta l'eroina a tutti i
grandi musicisti presenti nel Landmark. Io salgo in camera per
riposarmi un po'.»
Doveva ritirare la droga di Janis. Si era messo in una
situazione pazzesca. Non credeva a quello che gli stava
capitando. Pensava alle cause che avrebbe potuto provocare
quell'azione. Il gruppo faceva continuamente uso di sostanze.
Sapevano che Janis faceva uso di roba molto più pesante. La
sua reputazione da ragazzo tranquillo e poco propenso all'uso
di droghe stava svanendo in un istante. Albert non gli e
103
l'avrebbe mai perdonata. Paul lo avrebbe cacciato fuori. Il
lavoro svolto sulla cantante in quel disco era stato duro e stava
gradualmente portando i suoi benefici. Janis non aveva mai
cantato bene come in quel lavoro. L'idea che Duncan potesse
rovinargli tutto lo avrebbe mandato in bestia. Non poteva
neanche rischiare di litigare con la stronza. Si trovava in una
situazione psichica disastrosa. Schizofrenica e paranoica
avrebbe fatto crollare l'hotel se non gli avesse portato quella
roba.
Notò quel George. Aveva occhiali scuri e vestiva
elegantemente. Il contrario di quanto si vedeva in giro. Si
avvicinò a lui e, senza fare il nome di Janis, chiese se potesse
procurargli una dose. Lo spacciatore guardò Duncan
preoccupato. Aveva paura di finire in qualche guaio. Duncan si
accorse che George si sentiva in pericolo e lo rassicurò. Gli
disse che era da poco arrivato dall'Inghilterra. Stava suonando
per un gruppo e aveva bisogno di quella dose. Si calmò. Iniziò
a dargli confidenza e a parlargli del suo mestiere. Era uno
spacciatore affermato. Si vantava di esserlo. Gli disse che la
sua roba era testata chimicamente in un laboratorio, dove
lavorava un suo amico. Gli effetti della roba, che lui vendeva,
erano controllati. Non avrebbero provocato altro che uno sballo
pazzesco. Lui mirava a miscelare l'eroina con altri prodotti in
modo da provocare contemporaneamente sia l'effetto sia la
durata dello stesso.
Non fece mai il nome di Janis durante la conversazione.
Aveva paura che qualcuno potesse sentirlo. Per George non era
104
altro che un acquirente. Non un conoscente della cantante a cui
stava ritirando la droga. Mise in tasca tutto. Gli strizzò l'occhio
in segno di ringraziamento e si allontanò.
Le due camere erano divise fra di loro da un corridoio. La
105 finiva la serie delle camere sul lato destro mentre la sua
camera, la 107, era la seconda sull'altro lato. Entrò prima in
camera sua. Gli tremavano le gambe e la sudorazione corporea
era salita a livelli altissimi. La tensione gli aveva provocato le
solite palpitazioni. Nella sua testa ritornavano le immagini
delle notti passate con Brian e con Jimi.
Aprì la porta della stanza per notare se dalla camera di Janis
si sentisse qualcosa. La stronza iniziava a innervosirsi. Sentì la
sua voce urlare: «Che fine ha fatto quel fottuto pezzo di
merda!» Si riferiva chiaramente a lui. Voleva ritardare l'entrata
nella camera della donna ma, al suo ennesimo sfogo, non esitò
a entrare. Appena lo vide si lanciò verso di lui per prendersi
dalle mani la roba. Lo spinse verso il muro con veemenza. Con
una tale rabbia che gli sembrò di fare a pugni con un uomo.
Quando la schizofrenia s’impadroniva della ragazza, diventava
quasi irriconoscibile. Un maschiaccio pronto a prenderti a
cazzotti. Per difendersi o per ottenere quello che voleva.
Nessuno sapeva del loro incontro. Neanche che avevano
passato tutta la notte insieme. Nessuno lo aveva visto entrare in
camera sua, tantomeno lui voleva restarci ancora. Senza dire
niente alla pazza uscì da quella camera e ritornò nella sua.
Stava lentamente mettendosi a letto. Notò che Janis era uscita
dalla sua camera per scendere nella hall dell'hotel. Non volle
105
seguirla perché era convinto che non avesse combinato niente
di pericoloso.
Il sonno soggiunse non appena mise la testa sul cuscino.
Due colpi alla porta lo fecero scattare in piedi.
«Ma cazzo Janis perché non vai a letto?»
«J.J e non Janis ricordi? Perché non vieni in camera mia?
Non voglio passare il resto della notte da sola.»
Duncan mise un paio di Jeans e andò con lei in camera.
Una camera come tutte le altre. Abbellita da una coperta
indiana e una miriade di candele che illuminavano l'ambiente.
Gli saltò subito agli occhi tutto il mausoleo pieno di arnesi che
le servivano per farsi di quella stramaledettissima robaccia. Un
cucchiaio. Un panno e una siringa. Rimase sbalordito. Tutte
quelle cose gli mettevano paura. Non aveva mai visto una roba
del genere. Non sapeva neanche come funzionasse. Janis lo
guardava con sguardo assente e non aveva notato in lui la
paura. La preoccupazione di fronte a tutti quegli arnesi.
Non sapeva come comportarsi. Si sentiva imbarazzatissimo.
Era in preda al panico e alla più totale disperazione. La drogata
continuava a ripetere quel nomignolo datole qualche ora prima
in macchina. Era pazzesco come una donna, che dal palco
emanava vigore e rabbia, potesse ridere per una semplice
abbreviazione del suo nome e del suo cognome. Si stesero sul
letto. Lei iniziò a raccontargli altri dettagli della sua vita. Di
quando per ben due volte riuscì a sopravvivere a un’overdose
di eroina. Con la sua amica e amante Peggy se ne iniettarono
delle dosi che avrebbero ucciso chiunque. Duncan si trovava
106
nello stesso letto con Janis e nessuna intenzione di andare oltre
che a una semplice chiacchierata. Mentre Janis raccontava
della sua vita, s’interruppe immediatamente. Si girò verso il
comodino e tirò dal cassetto la dose di eroina che gli aveva
ritirato dallo spacciatore. La osservò silenziosamente senza dir
niente. «Porco di un Dio» si ripeteva in testa Duncan. Quel suo
caratteraccio lo immobilizzava. Aveva paura di una sua
reazione. Scrutò ogni suo gesto. La drogata aveva messo un po'
di acqua nel cucchiaio che teneva fermo sulla fiamma di una
candela. Mise l'eroina nell'acqua aspettando che si sciogliesse
bene. Stese un panno su di un bicchiere e fece in modo che
colasse e ripulisse il miscuglio per poterlo aspirare meglio con
l'ago. Strinse un laccio al suo braccio e, con molta delicatezza,
lasciò che l'arnese bucasse la sua vena. Premendo sul dosatore
dileguò nel suo sangue quel veleno.
«Ora tocca a te!»
«Ma che dici Janis?»
Si mise a urlare e a piangere. «Devi farlo stronzo. Non puoi
lasciarmi da sola.»
«Ma non ho mai fatto uso di questa robaccia.»
«Bastardo. Credevo fossi venuto qui per farti e non per
parlare. Non ho bisogno di un confidente. Ho bisogni di
staccare un po'. Di liberarmi da tutti i pensieri.»
Per mezz'ora, fino allo sfinimento, ribadì con rabbia e
rancore che era un bastardo. In più di un'occasione tentò di
colpirlo con dei pugni che riuscì a schivare.
107
Continuava ad ascoltarla. Si guardava intorno e non trovava
niente che potesse essergli utile. Si trovava in preda alla più
totale disperazione. Poteva chiamare John Cook o Paul.
Entrambe le scelte avrebbero compromesso il lavoro perché, se
vista in quello stato, Janis sarebbe stata spedita a casa dei suoi
genitori per un periodo di disintossicazione. Doveva ovviare a
quella possibilità. Non sapeva come risolvere il problema, ma
si sforzò di trovare una soluzione. Guardava la ragazza che si
agitava come una matta. Tremava. Piangeva. Rideva. La
tossica tentò ancora una volta di colpire l’italiano ormai
assuefatta dalla dose. Non fece neanche in tempo a portare il
palmo della mano vicino la faccia di Duncan che, perdendo
l’equilibrio, finì a terra. Senza controllare la caduta e sbattendo
fortemente la testa. Duncan cercò subito di rianimarla ma la
troia non ne voleva sapere di rispondere. Il respiro sempre più
affannato si affievoliva piano. Piano perdeva d’intensità.
Duncan allora pensò bene di girarla e di tentare una
respirazione bocca a bocca.
Nel guardare il viso della ragazza provò una sensazione che
non aveva mai provato prima. Rincoglionito per quanto gli
stava capitando, in un attacco di perversione, pensò bene di
allungare la lingua.
Un urlo lancinante fece sobbalzare il chitarrista. «Ma posca
puttsana! Che casso stai facendo lurida troia che non sei altro.»
Fu la frase che uscì fuori dalla bocca appena sollevata da quella
della drogata.
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La psicopatica, sentendo le labbra dell’italiano poggiarsi
sulle sue, in un gesto insulso, morse la lingua dell’uomo
provocandogli una ferita e un dolore insopportabile. Duncan, in
un raptus di pazzia miscelato a dolore, prese per i capelli la
troia lanciandola con tutta forza sul letto. Janis, senza alcuna
forza, sbatté contro la parete finendo dritta sul letto prima di
svenire. Stesa tra il letto stesso e il comodino.
La lingua si era gonfiata ed era sanguinante. Le lacrime, dal
dolore, inondavano gli occhi dell’italiano che ancora non si era
accorto di quanto fosse successo alla psicopatica. Quando
iniziò a riacquistare senno, si voltò verso la ragazza che nel
frattempo giaceva inerme per terra. Incazzato come una bestia.
Preoccupato per il gesto appena commesso. Si avvicinò
lentamente verso quel corpo fermo e immobile che fissava il
pavimento. Provò a muovere la ragazza. Non dava nessun
segno di vita. La chiamò più volte senza però ricevere risposta.
Sperava si fosse spenta dalla stanchezza e da tutta la dose di
droga che precedentemente aveva assunto. Restò fermo accanto
alla ragazza per quasi tutta la notte senza però avere risposte. Il
corpo continuava a diventare più freddo. Decise di non
avvisare nessuno. Sperava che quella temperatura corporea
fosse il risultato della droga assunta. La coprì con una coperta
trovata nella stanza. La paura per quanto successo provocò in
Duncan uno stato di agitazione che si tramutò in panico. «E’
morta la puttsana. È morta casso. È morta!»
Non sapeva cosa fare. Chiamare qualcuno o aspettare che la
drogata si svegliasse. Attese qualche altra ora prima di
109
abbandonare definitivamente la stanza senza nessun sostanziale
miglioramento. Doveva prendere quella benedetta decisione.
Più pensava alla voce del produttore che lo avrebbe rispedito
dritto in Inghilterra, più scoppiava dentro di rabbia e si
accecava di odio. La decisione più tragica e da paraculo era
quella di infilare un ago nel braccio della donna. Se al mattino
l’avessero trovata ancora dormiente, nel letto e priva di vita,
avrebbero fatto cadere la colpa sulla drogata stessa che si era
spenta per colpa di quella roba che assumeva senza nessun tipo
di freno. Ritornò di nuovo nella stanza di Janis. Prese una
siringa. Si avvicinò al suo braccio, senza mai aver compiuto
quel gesto, infilò l'ago in quella vena maggiormente esposta
sotto la sua pelle. In quel fottutissimo e drammatico istante
poteva notare quanto delicata e splendida fosse la sua pelle.
Da quando l'aveva conosciuta, aveva subito un continuo
cambiamento. Ai capelli decisamente hippie aveva dato un
tono nuovo con delle meches colorate. Anche la sua pelle
bianchissima era diventata più scura. Probabilmente aveva
passato molto tempo a prendere il sole nella piscina dell'hotel.
Lentamente fece entrare il liquido nel suo corpo. Gli tremavano
le mani. Sudava come non mai. La paura che qualcuno dello
staff potesse entrare da un momento all'altro lo bloccò
immediatamente. Guardò in faccia Janis. La salutò per l’ultima
volta e scappò in camera sua.
Era abituale per lui dormire con le finestre aperte. Lasciava
entrare la luce del sole nella stanza per potersi svegliare senza
lo stress della sveglia. Hollywood era estremamente colorata.
110
Affascinante e vivibile in piena gioia. Mai gli era capitato di
vestire nel mese di ottobre ancora con una t-shirt.
A Montegallo ottobre portava l'autunno. Le giornate
iniziavano a diventare più tiepide. Le sere diventavano più
fredde. Bisognava coprirsi per poter stare in giro. Londra era
sempre cupa e triste. Pioggia e grigia. Hollywood, soleggiata e
splendente, dava all'anima una voglia di affrontare la giornata
con entusiasmo.
Il pensiero di Janis lo assalì di colpo. Non aveva sentito
nessun urlo provenire dalla sua stanza. Non voleva neanche
provare a bussare alla sua porta. Mise la testa fuori nel
corridoio per vedere se in camera sua stesse succedendo
qualcosa. La porta era chiusa. Si tranquillizzò.
Per tutelarsi e per non farsi notare da qualcuno si vestì in
tutta fretta e si lanciò in strada per vagare nel vano tentativo di
rilassarsi. Freneticamente si guardava intorno. Credeva che
qualcuno potesse averlo visto o sentito entrare e uscire dalla
stanza della ragazza. Hollywood era immensa. La mentalità
hippie imponeva la cultura del liberismo e la droga circolava
ovunque. Spacciatori in ogni angolo.
Si fermò in un fast-food per mangiare qualcosa per poi
andare nello studio. Avrebbero registrato l'ultima canzone
dell'album. Cercò di mostrarsi tranquillo. Per non pensare a
quanto accaduto si mise subito a lavorare all'ultimo brano. I
ragazzi della band già festeggiavano la fine delle registrazioni.
Pensavano al tour che da lì a poco li avrebbe portati in giro per
il mondo. Lo staff della cantante aveva pensato in grande.
111
Volevano rilanciare Janis dopo lo scarso risultato del primo
album da solista.
Erano le sedici in punto. Un caldo infernale li costringeva a
fare pochissimi movimenti. Non volevano farsi trovare sfiniti
nel momento in cui la stronza fosse arrivata. Si sdraiarono sul
pavimento della sala in attesa che la voce della cantante
riecheggiasse nello studio. Ore spasmodiche e concitate.
Qualcuno in un gesto di stizza si alzò per andare a prendere
aria fuori e per fumarsi qualcosa. Il tastierista gli raccontava di
come in Canada, già a ottobre, il freddo cominciava a rendere
impossibile qualsiasi attività. Gli domandò se in Italia fosse la
stessa cosa. Duncan rispose che in Italia ottobre è il mese in cui
inizia a fare freddo, ma le temperature si mantengono ancora su
standard accettabili.
Due ore di attesa erano ancora il tempo classico di ritardo
della stronza. I musicisti deliravano per colpa del caldo. I
discorsi sviarono fino ad arrivare a trattare temi che
riguardavano tutto a parte che la musica. Paul andò a
controllare se fossero ancora tutti in sala prove. Spesso
capitava che, dopo due ore di attesa, qualcuno di loro si
perdesse. In quelle due settimane, in più di un’occasione
furono costretti a suonare con un pezzo mancante. Li rassicurò
che avrebbero provato. Che Janis sarebbe arrivata a momenti.
Si voltò di scatto verso Duncan chiedendogli se sapesse
qualcosa della ragazza. Sentì il suo cuore battere più forte. Gli
tremavano le mani. Per non farsi notare le infilò di colpo in
tasca. Cercò anche di indirizzare lo sguardo lontano da quello
112
del produttore. Aveva paura che in un sol colpo potesse cedere
e raccontare tutto. Rispose che non l'aveva vista perché era
uscito di buon mattino per godersi il sole di Hollywood e il
caldo della Indian Summer. Era il nome con cui i residenti
definivano il caldo di quel mese. Paul aveva creduto a quanto
gli aveva detto. Sapeva che era un ragazzo a cui piaceva uscire
presto la mattina per vagabondare lungo le strade di
Hollywood. Paul chiuse la porta della sala lasciandogli il
silenzio dell'attesa. Nessuno più parlava. Guardavano impalati
il soffitto della stanza immersi ognuno nei propri pensieri.
Duncan ripensava a Londra. Al suo appartamento. Alla
mensola che aveva messo sulla finestra per evitare che la
pioggia filtrasse e ammuffisse tutto l'ambiente. Sperava di
ritrovarla ancora al suo posto. Altrimenti avrebbe passato di
sicuro un inverno immerso nella puzza di muffa. Sognava con
tutto se stesso di riappropriarsi della sua solitudine. Di quella
strada che ogni giorno lo trascinava fino al bar dove lavorava
Aldo. In quelle due settimane di permanenza non aveva bevuto
nemmeno un caffè. Hollywood chiede di non bere caffè, offre
ben altro. Champagne, birra, vino e whisky predominavano su
tutto. A Hollywood il caffè aveva un gusto peggiore rispetto a
quello di Londra.
Altre due ore di ritardo. La pazienza di tutti era ormai giunta
al limite. Duncan non poteva mostrarsi diverso da loro. Aveva
paura potessero sospettare qualcosa. Era una paura creata dal
suo inconscio. Era sicuro che nessuno avrebbe potuto indicarlo
come colpevole. Temeva che lui stesso potesse cadere in
113
qualche errore facendo trapelare qualcosa riguardo a quanto
accaduto in quella notte.
Erano le diciannove e trenta. Stavano lentamente
riposizionando gli strumenti nelle apposite custodie. Duncan
era teso ma faceva finta di niente. A un tratto, in uno dei rari
momenti di silenzio, sentirono la voce di Paul che imprecava
contro Dio. Contro il Diavolo. Contro il mondo. Contro quel
maledetto viziaccio di Janis. John Cook entrò nella stanza. Con
in volto il nero di chi porta cattiva novella li avvisò che Janis
Joplin era stata trovata morta nella sua stanza di albergo per
un’overdose di eroina. Il suo corpo era stato trovato incastrato
fra il comodino e il letto. Le gambe di Duncan cedettero
immediatamente. Si piegò inginocchiandosi verso il pavimento.
Sfinito. Dopo tanta attesa.
Il gesto, per sua fortuna, fu frainteso dal resto del gruppo.
Credendolo pronto a pregare, s’inginocchiarono tutti a terra
iniziando a osannare la loro amica appena scomparsa. Per quasi
mezz'ora restò immobile a terra a pregare con gli altri. Aveva
bisogno di allontanarsi dal quel contesto. Tenersi più lontano
possibile da quella situazione.
Si alzò con un gesto impercettibile lasciando agli altri il
compito della commemorazione. Raggiunse il Landmark Hotel,
dove ancora stavano effettuando i rilievi nella stanza di Janis.
Chiese la chiave della sua stanza. La 107. Entrò senza farsi
notare. Ci restò chiuso per tutta la notte. Aveva ucciso Janis
Joplin. Aveva ucciso la regina del rock.
114
Sentiva, al di fuori della stanza, i rumori e le parole dei
poliziotti. Degli amici di Janis. Non riusciva a distogliere il
pensiero da quanto era avvenuto poche ore prima. Devastato.
In preda all'ansia. Girò per tutta la sua stanza come un pazzo.
Sperava che tutta quella confusione smettesse il più presto
possibile. Non poteva sopportare ancora tutto quel peso. Aveva
bisogno di sentire il silenzio di una notte che avrebbe potuto
dargli la giusta tranquillità.
L'autopsia sul corpo della cantante stabilì che la morte era
stata causata da una dose eccessiva di eroina. Quella che gli
aveva iniettato Duncan. Consapevole del fatto che quella morte
doveva essere additata alla droga. Non alla reazione animalesca
avuta dopo che la stronza gli aveva morso la lingua. In poche
ore e per tutto il giorno seguente, la notizia dell'accaduto fece il
giro di Hollywood. Nel frattempo i genitori di Janis decisero
che il corpo della star sarebbe stato cremato. Le sue ceneri
gettate nell'oceano Atlantico. Duncan non prese parte al rituale.
Restò chiuso in camera. Aveva sentito Paul a cui inventò la
scusa di non voler assistere a quella scena perché ancora
particolarmente turbato dall'accaduto. Chiamò il suo manager
avvisandolo di quanto successo. Gli spiegò che avrebbe preso il
primo aereo per Londra la mattina del giorno seguente.
Stava gustando un bel bicchiere di vodka quando dal
centralino gli allacciarono una chiamata. Era Paul. Gli chiedeva
se era disponibile a prendere parte al completamento del disco.
Gli spiegò che nonostante la scomparsa della ragazza, il disco
era completo. Bisognava solo sbobinare tutto il materiale.
115
Completare il lavoro di produzione. Il disco sarebbe uscito
postumo per dare l'ultimo saluto alla regina del rock. A quella
paranoica e schizofrenica drogata che nell'eroina aveva trovato
rifugio e morte.
Avrebbero iniziato a lavorarci da lì a una settimana. Lo
ritelefonò il manager dicendogli che aveva appena parlato con
Paul. Lo avrebbe aspettato a disco ultimato per riprendere il
lavoro con il gruppo a Londra. Aveva risolto il problema del
cantante.
116
Capitolo V
Paul lo guardò in faccia. La commemorazione della cantante
doveva avvenire per mezzo del suo ultimo lavoro. Avrebbero
dovuto lavorare molto per dare alla luce quel tanto atteso e
sofferto disco.
Le sezioni di produzione duravano dalle dieci del mattino
fino a mezzanotte. Senza nessuna pausa. Con la concentrazione
e la volontà di rendere tutto perfettamente completo. Dai brani
fino alla copertina. L'immagine della ragazza riecheggiava in
ogni foto presa in considerazione. Ne sfogliarono centinaia.
Notarono che in ogni posizione da lei assunta splendeva un
sorriso affascinante. Quasi volesse dimostrare quella felicità
che, una volta spenti i riflettori, si tramutava in tristezza e
solitudine.
Le uniche pause che si concedevano erano quelle che gli
permettevano di andare a mangiare. Per non rischiare di svenire
durante quelle lunghissime sezioni di produzione. Paul e il
resto della produzione amavano girare per i lussuosi ristoranti
di Hollywood. Duncan amava sedersi e consumare qualcosa al
fidatissimo Barney's Beanery. Locale situato vicino alla sala di
registrazione e decisamente più alla sua portata.
117
Il succo d'arancia dà al corpo quella freschezza che nessun
altro tipo di bevanda riesce a dare. Da quando si era trasferito a
Hollywood, non aveva fatto altro che bere champagne. Birra.
Whisky. Vodka. Il succo d'arancia associato a un pezzo di
pizza era un abbinamento mai provato prima. Rinfrescò le sue
accaldate membra.
Avevano appena iniziato a definire le prime registrazioni
che Paul dovette decretare conclusa quella giornata di prova.
Doveva togliere dai guai Jim Morrison. Era caduto anche lui
nel baratro del fallimento e della droga. Doveva tirarlo fuori
dai guai e riportarlo al successo con un album che potesse
scalare le classifiche.
Decise che una tranquilla serata al Barney's Beanery
l’avrebbe aiutato a riprendersi dalla bruttissima esperienza di
Janis. Ritornare ogni sera in quell’hotel lo irritava. Lo
associava a una delle sue esperienze più negative. Non poteva
permettersi di andare altrove visto che Albert e il suo manager
spendevano un bel po' di quattrini per mantenerlo nel lusso.
Si riappropriò del posto che qualche giorno prima aveva
ospitato Janis nella sua ultima serata insieme ai ragazzi della
band. Ordinò una vodka e voltò le spalle alla porta in modo che
potesse rimanere concentrato sui suoi pensieri. Non distrarsi
ogni qual volta entrasse qualcuno. Voleva pensare a Londra.
All'Italia. Alla sua famiglia che non sentiva da un sacco di
tempo. Voleva pensare alla musica. Alla sua carriera. Doveva
decidere se puntare ancora a suonare insieme al gruppo o
intraprendere una carriera come turnista. La prima gli dava la
118
possibilità di continuare a produrre musica secondo le sue
preferenze. L'altra scelta voleva significare eseguire
perfettamente la musica composta da altri. La prima ipotesi gli
lasciava il dubbio e il rischio. Non avere la sicurezza del
successo. La seconda gli avrebbe fatto guadagnare un sacco di
soldi. Ormai la richiesta di musicisti stava aumentando
notevolmente. Il suo manager avrebbe potuto aiutarlo. Paul e
Albert avrebbero potuto inserirlo in qualsiasi gruppo prodotto
da loro.
La serata non proponeva grandi alternative. Era lui che non
voleva concedersi altri svaghi se non quello di guardare la
strada e bere vodka. L'aria che si respirava nel locale era
estremamente rilassante. Per un attimo, poggiandosi con la
testa sul tavolino, si addormentò.
Una mano leggerissima. Una voce delicata e angelica
ripeteva: «Ehi, ti senti bene?»
Inizialmente non riusciva a realizzare. Tutto a un tratto si
accorse che una ragazza stava cercando di risvegliarlo. Si trovò
con la schiena poggiata allo schienale della sedia e con la testa
rivolta verso l'alto. Guardava il soffitto. Scosse la testa come
per scrollarsi di dosso il sonno. Si bloccò alla vista di quel viso
dolce e angelico che stava cercando di riprenderlo.
Vergognandosi e scusandosi la ringraziò. Spiegò alla ragazza
che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e si era
addormentato. La pregò di accomodarsi in modo da potergli
offrire qualcosa, per sdebitarsi dal disturbo e dalla paura che le
119
aveva arrecato. Ordinò un'altra vodka con succo d'arancia. Lei
ordinò un Southern Comfort con ghiaccio.
Occhi chiari. Capelli rossi. Qualche lentiggine in viso.
Un'aria dolce e una voce delicatissima. Si presentò: «piacere mi
chiamo Duncan.»
Lei rispose quasi sottovoce: «Piacere. Io sono Pam.»
Senza neanche conoscerla, iniziò a raccontarle di lui. Dagli
inizi a Londra fino alla registrazione dell'album di Janis Joplin.
Lei lo guardava e lo ascoltava con un velato interesse ma non
particolarmente attenta. Era pallidissima e sembrava alquanto
debole. Sorseggiò un po' del suo cocktail chiedendole di
parlargli di lei. Iniziò dicendogli che aveva radici borghesi che
col tempo le aveva rinnegate per via del suo spirito hippie. Gli
raccontò delle sue avventure all'Orange High School e alla sua
passione per la moda. Dalla conversazione con la sconosciuta
giunse alla traumatica scoperta che Pam era anche la donna del
leader dei Doors. Cazzo. Stava bevendo e parlando con la
donna di Jim Morrison.
Hollywood regalava tantissime sorprese. Quella di Pam era
sicuramente la migliore che potesse capitargli. Aveva avuto a
che fare con Janis senza mai conoscerla in situazioni di lucidità
mentale. Aveva avuto a che fare con gli altri componenti del
gruppo, anch'essi strafatti dall'uso eccessivo di droghe. Ora gli
toccava parlare con un'artista del calibro di Pam. Donna di uno
dei più famosi cantanti del momento.
La strada verso l'hotel non era lunga. Pam decise che lo
avrebbe accompagnato. Si sarebbe risparmiato quella
120
passeggiata. Salirono in macchina e si accorse subito che il
posacenere era stracolmo di cicche di sigarette e di filtrini
utilizzati per farsi gli spinelli. Doveva veramente far uso
esagerato di droghe lei. Il suo colorito e l'espressione allucinata
del suo sguardo confermavano pienamente la sua tesi. Un suo
gesto ne fu il sigillo. Aprì la borsetta. Tirò fuori del tabacco e
dell'erba. Una cartina e un filtro. Lo guardò in faccia e gli disse
se poteva reggere il volante dell’automobile. Giusto il tempo di
rullare lo spinello. Ci impiegò qualche secondo. In un attimo il
profumo di quella roba si sparse per tutto l'abitacolo. Duncan
aveva raramente provato quella droga. Si era sempre tenuto alla
lontana da certe sostanze. Era incapace. Notò la mano di Pam
vicino la sua bocca. Era il segno che gli avrebbe ceduto lo
spinello. Avrebbe dovuto farsi qualche tiro. Non volle
deluderla. Era in macchina con la donna di Jim Morrison. Non
accettare quell'invito avrebbe significato ridicolizzarsi
definitivamente.
Sentiva il cuore pulsare molto più velocemente. Un sapore
amaro in bocca. La saliva seccare lentamente. Un fischio nelle
orecchie lo avvisava dell'aumento della pressione sanguigna. Si
sentiva meglio. Quel freno inibitore lo liberò di scatto. Si lasciò
scivolare svogliatamente sul sedile come se fosse sempre stato
in quella macchina. Con quella ragazza. In pochissimo tempo
finirono lo spinello. Si guardarono negli occhi e si misero a
ridere per sancire la riuscita di un’azione compiuta
egregiamente. La strada gli sembrava più lunga. Biascicava
parole come se avesse una patata in bocca. Pam, in più di
121
un'occasione non riuscì a capire niente. Giunti davanti all'hotel
chiese a Pam di salire in camera con lui. Le avrebbe offerto
dello champagne fresco e di ottima qualità. Non accettò. Lo
avrebbe fatto in un'altra occasione. Si salutarono baciandosi
sulle guance. La lasciò andare via mentre lui si accingeva a
tornare in camera.
Era ancora tramortito dagli effetti dello spinello. Per
giungere davanti alla porta della sua stanza ci impiegò
tantissimo. Trovare la serratura fu un’impresa. Dopo esserci
riuscito corse direttamente verso la doccia per darsi una
rinfrescata.
Mentre sentiva l'acqua scendergli lungo la schiena non
faceva altro che pensare alla ragazza che aveva conosciuto.
Imprecava come mai fosse innamorata di quella grandissima
testa di cazzo di Jim Morrison. Che cosa ci trovasse di così
bello da condividerci tutto. Certamente era il nuovo re del rock.
Fisico perfetto. Capelli neri e lunghi. Sguardo tetro.
Affascinante e con un carattere tutt'altro che tranquillo.
L'accappatoio era bagnato e puzzava di umido. Da quando
era arrivato a Hollywood, non lo aveva mai fatto lavare. Si
asciugò in tutta fretta. Infilò un paio di Jeans e si sdraiò sul
letto con due pensieri fissi in testa. Le registrazioni dell'album
di Janis e la serata trascorsa con Pam.
Un boato lo fece sobbalzare dal letto. Aveva fatto cadere
l'enorme abat-jour posta sul comodino. Si era addormentato in
posizione seduta, con le spalle poggiate sulla testata del letto e
con le mani poste dietro la nuca. Sciacquò il viso con acqua
122
fredda per riprendersi. Si vestì. Scese subito per dirigersi agli
studi di registrazione. Dovevano portare a termine il disco.
Un sapore amaro in bocca lo riportò alla sera prima. Aveva
consumato fiumi di Southern Comfort e uno spinello con Pam.
Aveva bisogno di ridare sapore alla sua bocca. Decise di
entrare nella prima caffetteria e ordinare un caffè. Era un
bevitore assiduo di caffè. In Italia ne consumava tantissimo. In
Inghilterra aveva imparato a macchiarlo con del latte freddo. In
America era veramente una pena consumare quel tipo di
bevanda. Vendevano dei bicchieroni colmi ma che di caffè
avevano solo il nome. Né gusto né sapore. Doveva però
rendere attivo il suo corpo. Portare a termine il lavoro
significava ritornare a Londra. Continuare la sua carriera da
musicista.
Paul era già in cabina di regia. Le cuffie in testa e alcuni
appunti su cui lavorare in quella sezione di masterizzazione. Si
sedette accanto a lui annuendo a tutto quello che diceva
riguardo il suono degli strumenti. Aveva accumulato un bel po'
di esperienza. Adorava un tipo di suono in cui la combinazione
di pulito e distorto si mescolava senza far perdere potenza alla
chitarra. Non poteva contraddire Paul. Lui sapeva sempre che
tipo di suono dare agli strumenti.
Conclusero la masterizzazione in allegria. Avevano portato
a termine il giusto riconoscimento a Janis. Sapevano che le loro
strade si sarebbero divise quel giorno. Avrebbero brindato alla
fine dei lavori con qualche bottiglia di champagne offerto
generosamente dal produttore. Passarono qualche ora a parlare
123
e a bere. Paul svelò alcuni esaltanti retroscena sul suo ultimo
progetto con i Doors.
Jim Morrison, secondo quanto affermava Paul, era in netto
declino. I suoi concerti iniziavano male e finivano peggio. I
continui problemi con la legge gli avevano fatto perdere quella
credibilità conquistata con i primi esaltanti lavori. Fu un
piacere ascoltare che quel clima teso intorno a Jim era causato
dalle continue vicissitudini amorose tra lui e la sua donna.
Sgranò gli occhi. Aprì le orecchie e ascoltò tutto quello che
Paul stava confidando.
Pam stava sperperando i guadagni del suo compagno in
continui viaggi a Parigi. Lei sperava di fare successo nel
mondo della moda. Credeva di essere una promettente stilista e
lui voleva ad ogni costo aiutarla in questa sua propensione
artistica. Tormentato e decisamente logorato da questo, finiva
spesso per tradire la ragazza che continuava puntualmente a
perdonarlo. Era più il bisogno di mantenersi a Parigi che la
voglia di stare insieme a quell'essere folle.
La chiacchierata durò pochissimo. Paul dovette scappare per
impegni di lavoro. Si strinsero la mano. Paul chiese a Duncan
di portare i saluti al suo manager e gli promise che avrebbe
sicuramente collaborato con lui. Restò entusiasta delle parole
dell'uomo. Dopo aver abbracciato tutti i tecnici, uscì dagli studi
per recarsi direttamente al Barney's Beanery. Voleva bere e
mangiare qualcosa prima di ritirarsi in hotel. Doveva prepararsi
per il viaggio di ritorno a Londra.
124
La passeggiata verso il locale fu sconvolgente. Aveva
appena appreso che il rapporto fra Pam e Jim non era dei
migliori. Con attenzione avrebbe potuto conquistare la ragazza.
Aveva in mente solo ed esclusivamente il suo viso. Nella sua
testa riecheggiava il suono dolce della sua voce.
Un tavolino alla fine della sala avrebbe fatto al caso suo.
Non conosceva nessuno. La solitudine gli avrebbe lasciato
consumare in santa pace un hot dog e una bella birra fresca. Il
ronzio delle voci di chi sedeva nel locale lo avevano isolato dal
resto del mondo. Quel continuo pensare alla ragazza lo aveva
trasportato in altri mondi. Ripercorreva sempre il giro in
macchina con lei. Ricordava il gesto dello spinello. Il bacio
datogli sulla guancia alla fine del viaggio. Un'ondata di pensieri
cattivi lo riportò alla realtà. «Coglione che non sono altro.
Come posso innamorarmi di una tipa che fa la spola tra
Hollywood e Parigi. Che sta insieme con una grande rockstar e
che fa della stravaganza la sua ragione di vita?»
Poteva ancora godersi qualche giorno di vacanza fino alla
fine del mese prima di lasciare per sempre il Landmark Hotel.
Passeggiare per le strade di Hollywood l’avrebbe aiutato a
trascorrere gli ultimi giorni di ozio. Frequentare il Barney's
Beanery l’avrebbe accompagnato fino alla partenza con lo
stomaco pieno. Di alcool.
I fari di un’auto gli si piantarono in viso. Accecandolo.
Rimase fermo. Chiuse gli occhi aspettando che l'auto gli
passasse davanti. L'auto si fermò proprio al suo fianco.
Intontito dal lustro dei fari, aprì piano gli occhi mentre una
125
voce delicata lo chiamava per nome: «Duncan son Pam!» Aprì
di scatto gli occhi quasi illuminato dal volto della ragazza.
Occhi verdi brillanti. Sorriso stampato in faccia. Una voglia
matta di bere qualcosa. «Sali in macchina che facciamo un
giro.» Saltò in macchina come un pazzo. Chiuse lo sportello
lasciandosi trasportare in giro per Hollywood.
Era in estasi. Quello che lo turbò fortemente fu vedere Pam
in lacrime qualche secondo dopo averla vista sorridente.
«Cos’hai Pam?» le chiese preoccupato.
«Sto male. Ho bisogno di piangere e devo sfogarmi in
qualche modo. Portami da te. Ti prego.» Svoltarono l'angolo e
si diressero verso l'hotel.
In preda a sensazioni contrastanti e a pensieri folli si
chiedeva cosa potesse turbare l'animo di Pam. Era sicuramente
colpa di Jim. «Ma no!» era sicuramente colpa di una collezione
non apprezzata da parte di qualche stilista. L'unico modo per
saperlo era quello di arrivare in camera e lasciare sfogare la
ragazza.
Volle accendere solo la luce della lampada. Le finestre
chiuse e un piccolo sottofondo musicale. Amava Billie
Holiday. Si commosse subito non appena la cantante intonò le
prime parole. Si buttò sul letto e gli chiese di sedersi al suo
fianco. Duncan mise la mano sulla sua schiena in modo che lei
sentisse la sua presenza. Poteva sentire ogni suo singhiozzo.
Non volle interrompere il suo pianto. Rimase immobile al suo
fianco aspettando che la sua disperazione si placasse.
126
Trascorsero più di due ore prima che Pam smettesse di
piangere. Si voltò verso di lui. Vedendolo ancora lì al suo
posto, in attesa di un suo movimento, si calmò. «Sei dolce e
premuroso.» Duncan fece solo il gesto di alzare le spalle come
per dire che non c'era nessun problema.
Asciugò le lacrime e senza nemmeno chiedergli di ascoltarla
iniziò a confidarsi senza riserbo. Come se fossero sempre stati
confidenti e conoscenti. Era il loro secondo incontro. «Penso
che Jim mi abbia tradito. Stamattina sono tornata a casa e ho
trovato il letto disfatto. Un cuscino macchiato con del rossetto.
Quel maiale lo fa apposta. Crede di farmi un dispetto. Vuole
allontanarmi ma lo amo da impazzire.»
Stava involontariamente ascoltando la confessione di una
donna tradita dal proprio uomo. Non gli era mai capitata una
situazione del genere. Non sapeva come comportarsi. L'unico
modo di sembrare tranquillo e sicuro di sé era quello di
ascoltarla. Fare alcuni cenni, alcune smorfie che avrebbero
dovuto significare sbigottimento. Rabbia. Comprensione.
Dentro covava la possibilità di poter approfittare della
debolezza della ragazza. Instaurare un rapporto più intimo con
lei. In seguito, confidarle i suoi sentimenti.
Si alzò di scatto. Gli chiese se avesse qualche asciugamano
e si diresse in bagno. Incredibilmente la ragazza era passata a
uno stato di felicità. Forse apparente. Era ritornata al suo
abituale modo di vivere. Quasi da psicopatia.
Sentiva il rumore dell'acqua scorrere. Sdraiato sul letto, la
immaginava in tutta la sua bellezza. Viveva di sentimenti
127
contrastanti. In un paradossale senso di paura. Jim avrebbe
potuto scoprire tutto. L’avrebbe di sicuro ridotto a pezzi. Era
noto per le sue scazzottate. Per le continue denunce. Per
conquistarla avrebbe anche rischiato tutto questo.
La porta del bagno si aprì lentamente. La ragazza era
avvolta solo da un telo bianco. I capelli bagnati. Lisci. Una
sigaretta in bocca. Poteva saltarle addosso. Come un maniaco.
Non poteva turbarla ancora. Lasciò che si coricasse al suo
fianco. Strinse le sue braccia al braccio di Duncan e si mise a
dormire. Restò di stucco. Una serata buttata via. Senza aver
avuto la possibilità di corteggiare la ragazza. Che figura di
merda. Che situazione imbarazzante.
Di solito dormiva con la finestra e con la tenda aperta in
modo che fosse il sole a svegliarlo. Il buio voluto da Pam gli
impedì di guardare il cielo. Di notare se era ancora notte o se il
nuovo giorno aveva rivitalizzato Hollywood. Piano sentì Pam
muoversi. Avevano dormito insieme. Senza fare niente e nella
stessa posizione. Cose da non raccontare a nessuno.
L’avrebbero preso per folle, per frocio.
Aprì gli occhi lentamente. Gli chiese di aprire la finestra.
Non appena si accorse che era giorno si vestì di corsa per
scappare a casa. Lo ringraziò. Lo guardò negli occhi. Lo baciò
sulla guancia. Chiuse la porta e scappò via. Era rimasto
immobile. Un bacio sognato e aspettato.
Il suo pensiero era fisso a lei. Tutto lo spingeva a pensare
che in un modo o nell'altro potesse conquistarla. Hollywood
poteva regalargli centinaia di occasioni del genere. Per un
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italiano di provincia contano più i sentimenti che le bandierine
di conquista piantate su centinaia di fighe pelose.
Era sdraiato sul letto rinchiuso nei suoi pensieri quando dal
centralino dell'hotel gli girarono una chiamata.
«Duncan sono Pam.»
«Pam come mai questa chiamata?»
«Volevo ringraziarti e volevo salutarti prima di partire.»
«Partire? Per dove?»
«Vado a Parigi. »
«Jim viene con te? »
«No! Lui resta quì. Addio Duncan.»
«Arrivederci Pam.»
Chiusero la conversazione, lei che lo salutò definitivamente
mentre lui le aveva fatto intendere che non sarebbe finita. Il
volo Los Angeles - Parigi sarebbe decollato il mattino
seguente. Prestissimo. Aveva bisogno di arrivare a Parigi prima
di lei. Doveva trovarlo lì e non rischiare di incontrarla nello
stesso volo. Costringerla a ricambiare in odio tutta la stima
conquistata fino a quel momento. La valigia ricolma di vestiti
era già pronta. Da lì a qualche giorno avrebbe preso il volo per
Londra ma quest’occasione di seguire Pam in Francia non
poteva perdersela. Scese in strada prestissimo. Erano le sei di
mattina. Chiamò un taxi e si diresse verso l'aeroporto. Il
bagaglio imbarcato. Il biglietto solo andata per Parigi nelle sue
mani.
Terzo volo della sua vita. Questa volta non per motivi di
lavoro ma per conquistare una donna. Follie imperdonabili per
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un’aspirante rockstar che dovrebbe fare del sesso libero la sua
scelta di vita. Potrebbe scoparsene mille e amarne nessuna, ma
quella troia l’aveva rapito. Avrebbe sicuramente buttato via del
tempo prezioso, ma voleva giocarsela.
Undici ore di volo trascorsero velocemente. Sotto i suoi
occhi aveva visto solo oceano. Quando mise i piedi sulla terra
ferma, baciò l'asfalto. Ritirò la valigia e si diresse verso l'Hotel
Castex al 5 di Rue Castex. Camera 12.
L'arrivo fu emozionante. Non aveva mai visto Parigi. Solo
nelle pochissime foto raffiguranti la torre Eiffel o l'Arc de
Triomphe. Lasciò la valigia in camera e scese subito in strada
per farsi una passeggiata. Illuminate e avvolte nella magia che
circonda la città, ogni pietra, ogni casa, ogni statua
simboleggiava la bellezza.
Ritornò in camera. Era dovuto e logico contattare il suo
manager per informarlo del suo viaggio a Parigi. La telefonata
fu breve e colloquiale. Aveva ancora qualche giorno di pausa
prima di ritornare a suonare a Londra. Alcuni problemi legati
alla casa discografica gli consentirono di godere di altri giorni
di vacanza. Quel poco che aveva mostrato a Londra gli aveva
regalato tanta fama. Il suo manager continuava a concedergli
tutto quello che gli chiedeva. Gli introiti dell'album erano
discreti, ma il suo servizio per Janis aveva fruttato qualche
quattrino perché gli fosse concesso tutto questo. Ne era sicuro,
ma non volle comunque scendere nei particolari con il suo
manager. Ringraziò l’amico assicurandogli che avrebbe fatto
ritorno a Londra prima dell'inverno.
130
Pam sarebbe arrivata in città il mattino seguente. Gli sarebbe
toccata una lunghissima giornata di ricerche e di figuracce.
Non conosceva il francese. Doveva tradurre tutto con l'aiuto di
un piccolo dizionario preso in prestito presso la reception
dell'hotel. Pam avrebbe vissuto a Parigi senza quel drogato di
Jim. Questa volta non si sarebbe fatto scappare l'opportunità di
provarci definitivamente.
Il sole sulla città splendeva inesorabile. Era strano come in
ogni suo viaggio ci fosse il sole ad accompagnarlo. Successe
così a Londra, a Hollywood e a Parigi. Quella banale
considerazione lasciò subito il posto all'unico pensiero che da
giorni affollava la sua mente.
Non sapeva da dove iniziare e neppure se la ragazza fosse in
città. Non sapeva minimamente dove avrebbe alloggiato né il
motivo della sua venuta. Sapeva per certo che, dopo mesi di
caffè orrendi bevuti in America, aveva bisogno di berne uno
decente che gli desse la carica e l'energia per affrontare quei
giorni. I tavolini di ferro battuto. Freschissimi. Comodissimi.
Furono il parcheggio per quel tanto atteso momento. Si preparò
la frase da dire al cameriere e ordinò un buon caffè. Sole in
faccia. Occhiali scuri. Felicità stampata in volto. Voglia di bere
finalmente un buon caffè. Il cameriere si presentò con un
vassoio d’argento con al centro la sua tazza fumante. La poggiò
sul tavolino e mise lo scontrino vicino al piatto dove era
posizionata la tazza. Aspettava il pagamento. Duncan tirò fuori
i soldi e gli lasciò la mancia. Il cameriere si diresse di nuovo
nel locale in attesa di servire qualche altra persona.
131
L'attesa era terminata. Fece cadere lo zucchero e girò col
cucchiaino il composto in modo da farlo scogliere. Avvicinò la
tazza alla bocca. Sentiva il profumo salire dentro le narici fino
a raggiungere il cervello. Provava una sensazione stupenda.
All'improvviso il primo sorso della bevanda gli si stagnò in
gola. Gli sembrava come se avesse masticato un legno
bruciato. Un sapore orrendo lo assalì provocandogli rabbia e
tristezza. Quando si dice che l'Italia è anche la patria del buon
caffè non lo si dice per fanatismo. Dopo averne assaggiati tre
tipi, avrebbe portato avanti quella tesi fino all'ultimo dei suoi
giorni. Deluso e affranto, sia per il conto salato sia per il gusto
orrendo del caffè, iniziò a camminare in lungo e in largo per le
strade della città. Guardava dentro ogni taxi per scrutare il viso
di Pam. S’infilava in tutti gli autobus sperando di incontrarla in
uno di quelli.
La notte aveva ricolorato la città con toni tetri e malinconici.
Nei locali si sentiva suonare qualche band. Convinto della
scellerata tradizione rock della nazione, non fu mai incuriosito
dall'entrare per ascoltarne la musica. Camminava senza meta e
con la sola preoccupazione di incontrare la donna. Un profumo
di fiori e di bucato fresco lo cullò in un sonno profondo. Un
sonno dovuto alla stanchezza e alla consapevolezza che anche
il giorno dopo sarebbe stato altrettanto duro e faticoso.
Un altro giorno di ricerche. Un altro giorno da affrontare
con grinta. Un altro giorno in cui avrebbe reso al massimo solo
bevendo un caffè. L'amara scoperta del giorno prima lo
lasciava titubante. Berne o non berne più? Come aveva fatto a
132
Londra, avrebbe potuto correggere la bevanda con del latte
freddo. Si fermò nello stesso locale del giorno prima. Chiamò
l'attenzione del cameriere e ordinò un caffè macchiato freddo.
Aveva notato Pam seduta qualche tavolino più avanti.
Rimase per un attimo fermo e attento nello scrutare se fosse
veramente lei o se fosse solo una ricostruzione mentale. Quei
capelli rossi. Quegli occhi verdi e quel corpo esile erano
chiaramente il disegno perfetto della ragazza. Fece finta di
niente. Si voltò leggermente per non farsi notare e aspettò che
anche lei finisse di bere quello che aveva ordinato. Non appena
notò che la ragazza si stava alzando, la seguì per capire dove si
sarebbe diretta. Seguì la strada che conduceva a Rue de
Beautreillis al numero 17 di un palazzone sicuramente di epoca
antica. Era al settimo cielo. Come per magia, aveva rivisto
Pam. Sapeva dove abitava. Sapeva che era proprio vicino al
suo hotel. Le coincidenze spesso si accumulano in un ordine
assoluto che nel raccontarle sembra banale. In una città
immensa come Parigi e in periodo estivo solo una serie di
avvenimenti perfettamente coadiuvati dal destino possono
regalare dettagli unici.
L'ansia che lo aveva assalito già dalle prime ore del mattino
lo abbandonò. Poteva regalarsi una camminata rilassante. Si
diresse verso Pont de Sully e passò l'intera mattinata a guardare
il moto continuo delle acque della Senna.
Paragonò la sua vita a quel moto continuo. Da quando si era
trasferito a Londra, non aveva fatto altro che vivere emozioni
pazzesche. Aveva vinto la scommessa con la musica. Aveva
133
conosciuto Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Pam e
tantissime altre persone. Stava vivendo contemporaneamente la
Beat Generation e la cultura hippie.
Guardando quell'enorme distesa di acqua pensava e
ripensava a come avrebbe potuto incontrare la ragazza. Se
avesse accettato quella sua presenza. Se mai avesse ricambiato
il sentimento rivelatogli non appena l’avrebbe incontrata.
Poteva sfruttare tante occasioni. Andare a qualche sua sfilata di
moda. Farsi trovare per caso nello stesso locale da lei
frequentato. Trovarla a casa.
Parigi non era come Londra. A Parigi non trovavi locali
affollati da pazzi esauriti, drogati pronti a saltarti addosso in
preda all’euforia dettata da una bella canzone o da una
schitarrata. Parigi era un sentiero di tranquillità. Di benessere
mentale. C’erano solo locali pieni di ragazzi che leggevano
libri, discutevano su film e opere teatrali. Poco sulla musica.
Qualche pianoforte. Qualche violino. Qualche cantante si
sentiva riecheggiare lungo le vie della città piena di artisti di
strada. Qualche mimo. Qualche pittore disegnava lo stupore e il
sorriso di chi si fermava a fissarli. A Londra gli era capitato di
vedere qualche mostra d'arte. Il più delle volte, al quinto
quadro, ritornava fuori fiondandosi direttamente in sala prove a
suonare. Sapeva fare solo quello.
Le luci che decoravano le strade l’avevano distolto
dall'unico pensiero e dall'unica ragione per cui si trovava a
Parigi. Rivedere Pam. Provare a conquistarla. Sapeva dove
134
abitava, ma doveva trovare il modo di parlarle. Sarebbe stato
difficilissimo. Un compito arduo e pericoloso.
Guardava, seduto a un tavolino del locale, un gruppo di
persone in cerchio mentre parlavano e scherzavano
animatamente. Un giovanotto di bella presenza intratteneva
alcune ragazze con dei racconti divertentissimi. Almeno
credeva questo. Non riusciva a capire nessuna parola del
francese. Li vedeva ridere di gusto. Si avvicinò incuriosito.
Avrebbe sicuramente fatto una figuraccia ma, dopo tre giorni
passati a girovagare come un pazzo aveva bisogno di conoscere
qualcuno. Iniziarono a presentarsi in francese. Riuscì a capire
solo i nomi e faceva finta di capire tutto il resto.
Con molta eleganza e un’aria da persona di classe gli si
presentò un ragazzo di nome Jean. Intuendo la sua difficoltà
nel linguaggio gli chiese se parlasse l'inglese. Duncan rispose
di sì. Dopo le presentazioni incominciarono a parlare e a fare
conoscenza. Jean fece la prima domanda: «Come mai ti trovi a
Parigi?»
Duncan, senza pensarci, iniziò a raccontargli tutto. Il suo
viaggio da Ascoli a Londra. I suoi successi musicali. La voglia
di fama che ancora coltivava e il viaggio a Hollywood per
partecipare alla registrazione e alla produzione dell'ultimo
disco di Janis Joplin. Rimase sconvolto dal suo racconto. Non
pensava che dietro la figura di un emigrante italiano potesse
nascondersi tutto quel mondo. Sorrise quando affermò che
identificava l'italiano solo a un mafioso. Erano dicerie che si
portavano avanti da decenni. Duncan lo rassicurò
135
confermandogli che i veri italiani emigravano per cercare il
successo. Per portare avanti qualche esperienza professionale e
personale. Con una pacca sulla spalla Jean lo tranquillizzò
dicendogli che la sua era una semplice battuta. Non voleva
certo offenderlo. Duncan capì. Proseguì la chiacchierata. Fu lui
a chiedere informazioni sul suo conto. Jean gli rispose che era
figlio di marchesi che possedevano delle proprietà nel nord
Africa. Alla morte del padre aveva ereditato tutto e faceva la
spola tra il Marocco e la Francia.
Lo incuriosì molto quel racconto. Continuò a chiedergli che
tipi di possedimenti avesse. Jean rispose che era proprietario di
alcune testate giornalistiche francesi in terra africana. Non
volle approfondire il resto perché lo reputava inutile.
Reputare inutile un patrimonio di ricchezza voleva
significare che non aveva proprio voglia di dedicare tempo a
delle attività che commercialisti e avvocati mantenevano attive
a suon di quattrini. Sentendolo parlare di Londra gli confidò
della sua amicizia con Keith Richards. Sbigottito, gli chiese
come mai quell'amicizia con un personaggio lontanissimo dai
suoi stilemi di vita. Gli rispose che più che un’amicizia dovuta
a passioni artistiche, quella che li univa era la passione per la
droga.
«Cazzo!!! Tutti i tossici del mondo li incontro io. Porca
puttana mai una persona normale lungo il mio cammino.»
Fece finta di niente lasciandogli confidare altre informazioni
riguardo alla sua passione. Gli disse che con il chitarrista
Inglese passavano un sacco di tempo insieme sniffando
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l'impossibile. Bucandosi quasi fino all'overdose. Vendendo a
Keith un sacco di roba anche per corrispondenza. Dal suo
racconto uscì fuori il quadro fitto di un’intensa rete di traffico
di sostanze stupefacenti che dal Marocco arrivavano in Francia.
Si protraeva in Inghilterra fino ad arrivare in America. La
particolarità che colpì maggiormente Duncan era il modo con
cui avveniva tale traffico. L'ambasciata marocchina a Parigi gli
faceva pervenire la droga tramite gli emissari presenti nella
città. Gli emissari dell'ambasciata francese in America gli
portavano la roba oltre oceano. Gli sembrava tutto allucinante e
alquanto sconvolgente. D'altronde, dalla sua parte, aveva
quell'alibi legato alla nobiltà di famiglia che lo teneva lontano
da ogni sospetto. Poteva dedicarsi alla sua nuova attività da
spacciatore senza nessun intoppo. Durante il discorso gli
accennò, ma senza scendere in dettagli, della sua amicizia con
un certo George. Un tipo di Hollywood che vendeva la sua
droga nel circuito dello show business californiano.
Restò impietrito. Iniziò a pensare a qualche settimana prima
quando, in quella sala di hotel, un certo George gli aveva
venduto la roba per Janis. Morta quella sera stessa per colpa di
un’overdose da eroina.
«Il mondo è piccolo.» Si ripeteva tra sé e sé. Jean
continuava a raccontargli degli artisti celebri che teneva sotto
custodia. Erano nomi importanti. «C'è da aspettarselo. Non è
semplice coincidenza. Se entri in questo mondo, devi per forza
scontrarti con certi personaggi.»
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Curioso fu un ultimo appunto confidatogli da Jean. Ribadiva
la qualità della sua merce che faceva testare in laboratorio in
modo da offrire ai suoi acquirenti un prodotto di ottima qualità.
Non dannoso. Duncan si mise a ridere ricollegandolo a George.
Jean, sbalordito e quasi infastidito gli chiese come mai si fosse
messo a ridere. Duncan si scusò confessandogli che quel suo
modo di vivere lo affascinava molto e che rideva per
l'entusiasmo. Il francese si calmò e ordinò una bottiglia di
champagne. Bevvero fino a notte fonda. Durante tutta la serata
più volte lo invitò a casa sua per partecipare ai party che
organizzava per riunire i suoi amici. Accettò. Gli sembrava
giusto visto la cortesia offertagli. Era anche un modo per
allargare le conoscenze in una città nuova e straniera.
Per tutta la serata aveva rimosso Pam dai suoi pensieri.
L'unica ragione per cui era arrivato a Parigi. Conosceva la sua
abitazione e poteva presentarsi a casa sua o incontrarla nei
paraggi in qualsiasi momento. Doveva solo stare attento a non
perderla di vista. Rischiare di aspettare troppo. Incappare in un
suo ritorno a Los Angeles.
Jean gli aveva lasciato un indirizzo. Rue des Beaux Arts.
Ore 20:00. Le indicazioni stradali per arrivarci a piedi senza
prendere autobus o taxi. S’incamminò dirigendosi verso casa di
Jean. Aver visionato ogni angolo di strada in modo da ricordare
il ritorno. Il marchese aveva organizzato il suo party proprio in
una sala di un hotel. Uno del suo blasone come poteva pensare
di organizzare tutto a casa sua. E poi chissà se era in possesso
di una casa o dimorasse direttamente in hotel. Furono domande
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inutili che fece sparire subito dalla sua testa. Voleva dedicarsi
esclusivamente alla serata. Non appena arrivò, fu accolto
immediatamente da Jean. Lo ringraziò cortesemente per aver
accettato il suo invito. Gli fece conoscere l'ambiente e subito lo
lasciò libero di mangiare e bere come se fosse a casa sua. Nella
sala erano presenti una centinaia di persone. Uomini d'affari.
Prostitute di ogni genere. Rappresentanti della cultura parigina.
Spacciatori. Riusciva a distinguere le varie classi sociali. Ogni
categoria era raggruppata per conto proprio. Vedeva gli uomini
d'affari con i loro abiti elegantissimi accovacciati al tavolo
dello champagne, delle tartine e del caviale. Le prostitute le
riconosceva perché saltavano come cavallette da un uomo
all'altro alla ricerca esasperata di una prestazione da farsi
pagare. Gli spacciatori erano tutti seduti vicino a dei tavolini
stracolmi di droga. Gli uomini di cultura si distinguevano da
tutti perché non facevano altro che parlare di poesia, di
scrittura e di arte.
Duncan si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Non sapeva
con chi parlare. Il suo francese era nullo e non sapeva neanche
cosa fare. Poteva solo bere e mangiare. Accostarsi a quelle
grandi personalità gli sembrava fuori luogo e decisamente fuori
stile.
Restò per molto tempo poggiato vicino alla finestra che
affacciava sulla strada. Guardava fuori e poi dentro. Cercava di
far trascorrere qualche ora per poi fare ritorno in hotel. Gli si
avvicinò Jean dicendogli che avrebbe voluto fargli conoscere
due suoi grandissimi amici. Non volle dirgli i nomi. Avrebbe
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voluto farglieli conoscere in un'altra occasione. Per quella
serata gli avevano dato buca. Restò col dubbio e con la paura
che potesse fargli conoscere qualche spacciatore. L’avrebbe
incaricato di traghettare la roba a Londra. Era stanco.
Affamato. Era rimasto due ore in piedi senza toccare niente.
Solo qualche bicchiere di champagne servitogli direttamente da
Jean.
Decise che era ora di fare ritorno in hotel per riposare.
Prepararsi, l'indomani, all'inseguimento di Pam. Era lo scopo
del suo viaggio a Parigi. Durante il tragitto più volte ripensò
alla telefonata ricevuta da Pam la sera prima di partire.
Valutava quel suo gesto come un avviso più che come un
addio. Si erano incontrati in due occasioni. Poteva benissimo
dimenticarsi di lui. Lei voleva informarlo della sua venuta a
Parigi e voleva che lui la seguisse. Ne era convinto. Si
addormentò con la ferma convinzione che lei lo voleva
accanto. Nella sua follia si era costruito mentalmente qualcosa
che realmente non si sarebbe mai avverata.
Lo svegliò una telefonata passatagli dalla reception. Era
Jean che gli chiedeva di raggiungerlo al ristorante. Voleva fare
colazione insieme a lui. Duncan rispose chiedendogli dieci
minuti. Il tempo di sciacquarsi, di indossare jeans e camicia e
di recarsi al ristorante da lui indicatogli. Lo trovò più in forma
che mai. Aveva sicuramente fatto l'alba. A lui non pesava.
Qualche tiro di coca o di eroina e via, di nuovo pronto per
l'ennesimo giorno fatto di nulla. Jean si alzò. Gli strinse la
mano e lo invitò a sedersi.
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«Ti ho invitato perché ieri sera ho notato che non eri a tuo
agio. Volevo sdebitarmi con te offrendoti la colazione.»
«Non dovevi preoccuparti Jean. Ieri sera non mi sono
annoiato affatto. Purtroppo faccio parte di un ceto sociale
diverso da quelli presenti ieri sera. Il mio non saper spiccicare
una parola di francese mi penalizza moltissimo.»
«Sai, anche io i primi mesi americani ho sofferto molto per
questa condizione. Uno studio approfondito mi ha portato a
imparare l'inglese in pochissimo tempo. Facilitandomi poi nello
studio.»
«Hai studiato in America?»
«Certo. Ufficialmente frequento l'UCLA ma i miei impegni
m’impediscono di frequentare attivamente.»
Quello straccione studiava nella stessa università dove Jim
Morrison si era diplomato e dove era iscritta anche Pam. Senza
far capire niente al conte incominciò a vantarlo. Gli ribadì che
molti artisti losangelini studiavano o avevano studiato in
quell’università. Come un rullo compressore Jean iniziò a
parlargli della sua esperienza americana.
Aveva conosciuto una ragazza fantastica di nome Pamela.
Divenne sua intima amica. Fidanzata del leader del gruppo
rock Doors. Jim Morrison. Erano diventati confidenti e spesso
faceva arrivare la roba a Los Angeles esclusivamente per
accontentare la ragazza. Dopo avergli confidato questo non
nascose che le persone che avrebbe voluto fargli conoscere
erano appunto Pam e Jim. Dovevano arrivare a Parigi entrambi
ma alcuni problemi con la legge impedirono al cantante di
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venire in Europa. In città per il momento c'era solo la ragazza.
Iniziò a raccontargli dei vari tradimenti che entrambi erano
soliti riservare l'uno all'altra. Che nonostante quello stile di vita
i due volevano stare insieme. Di Pamela gli confidò molte più
cose. Il vero motivo per cui era venuta a Parigi. La ragazza era
alla continua ricerca di nuovi abiti da visionare. Da riproporre
per il mercato americano e vendere nella sua boutique di
Hollywood.
Non conosceva l'esistenza di quel suo atelier e annuiva
come se conoscesse. Jean continuò dicendogli che lei spesso e
volentieri veniva a Parigi. In più di un’occasione aveva tentato
di convincere il compagno a raggiungerla. Per distoglierlo dal
clima che si era creato a Los Angeles nei confronti della
rockstar. Per disintossicarlo dall'uso costante di droghe e di
alcolici. Confidenzialmente e premurandosi di non far uscire
dalla bocca di Duncan certe indiscrezioni, gli confidò che
questa volta Pam aveva convinto il compagno a seguirla. A
Parigi Jim si sarebbe disintossicato. Avrebbe smesso di fare
musica dedicandosi esclusivamente alla poesia. Attitudine
principale di Morrison. Promise a Jean di non far trapelare
alcuna indiscrezione.
L'abitudine di bere il caffè dopo ogni pasto non poteva
interrompersi solo perché Londra, Hollywood e Parigi non
offrivano le stesse miscele italiane. Si fermò in un bar e ordinò
il suo solito caffè macchiato freddo.
Le parole e le confessioni di Jean gli risuonavano in testa
lasciandolo incredulo, perplesso, e sbalordito. Incredulo perché
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non riusciva a credere che stava stringendo amicizia con lo
spacciatore/amico di Pam. Perplesso perché sapeva fin troppo
della ragazza, quindi di sicuro poteva essere lui uno dei suoi
tanti amanti. Sbalordito perché aveva avuto la conferma che
Pam sarebbe rimasta a Parigi a lungo. L'unico problema era
Jim. Quell'alcolizzato di merda si sarebbe messo in mezzo.
Avrebbe di sicuro peggiorato i suoi piani. L’avrebbe costretto
ad abbandonare l'ipotesi di instaurare un rapporto intimo con la
ragazza. L’avrebbe costretto a vivere sempre nell'ombra
vivendo di fugaci incontri con la donna.
Il caffè gli aveva ridato slancio. Aveva risvegliato i suoi
sensi ma lo stava costringendo a ritornare in hotel. Un forte mal
di pancia lo piegava in due. «Sarà tutta colpa di quel
maledettissimo caffè.»
Riuscì a mala pena a tirare giù i pantaloni. Si stava liberando
di un peso. Intanto pensava e ripensava a quanto confidatogli
poco tempo prima da Jean. Pensò che sarebbe stato lui l'artefice
del suo incontro con Pam. Doveva solamente trovare il modo
di convincerlo a combinare un incontro con la ragazza.
C'erano tanti modi per poter incontrarla. Andare a tutti gli
avvenimenti organizzati da Jean. Far finta di essere interessato
alla moda e indurre il conte a farlo partecipare a qualche sfilata
organizzata da lei. Spiegare tutto allo straccione.
Eliminò l'ultima possibilità perché troppo rischiosa e
avventata. Parlare di moda sarebbe stato per lui difficilissimo e
del tutto fuori portata. Era talmente negato per la moda che
sapeva indossare a mala pena i suoi tre capi di abbigliamento
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preferiti. Jeans. T-shirt. Camicia. Nelle giornate fredde un
maglione.
L'unico modo per incontrarla era quello di partecipare alle
avventure di Jean. Nel pericolo e nella perdizione. Con la
possibilità di finire in mezzo a traffici di droga. Di finire nel
bel mezzo di orge. L'ultima ipotesi sarebbe stata la più
interessante. Purtroppo la sua italianità gli impediva di
compiere atti del genere. Alla base doveva esserci un briciolo
di sentimento. Voleva liberarsi da quel blocco esistenziale.
Patriottico. Non riusciva a immaginarsi con decine di donne
senza conoscerne il nome. La provenienza. La pulita moralità.
Jean lo chiamava sempre. Voleva che si unisse a lui per
pranzare, per cenare, per un piccolo break o per far parte dei
suoi ospiti. Si discuteva di musica. Di come il rock avesse
cambiato il mondo. Di come le influenze pop dei Beatles
avessero contraddistinto l'intera generazione del sessanta. Jean
gli confidò che avrebbe organizzato un party per dare il
benvenuto a Parigi a Morrison. «Porca puttana.» Jim aveva
definitivamente deciso di trasferirsi. Quella notizia aveva
visibilmente danneggiato i suoi piani. Gli avrebbe provocato
sicuramente dei problemi. Jim sarebbe stato ospite
nell'appartamento di Pam. Diventava impossibile per lui sostare
davanti al portone del palazzo. Avrebbe dovuto trovare altre
soluzioni.
Jean gli stava raccontando dell'ultima consegna effettuata a
Eric Clapton. Suo altro grande amico ed estimatore dei suoi
prodotti. Gli aveva fatto assaggiare la nuova “Chinese”.
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Entusiasta per gli effetti provocati ne aveva ordinato ancora.
Jean si vantava con Duncan di questo suo impiego. Spesso, con
delle battutine pungenti, cercava di spingerlo a provarla e a
farne uso. Non ne aveva mai fatto uso se non miscelata
all’alcool. Fu così con Jones, con Hendrix mentre a Janis la
procurò per farle un favore.
Lui non voleva e non poteva permettersi di entrare in quel
circolo vizioso. Troppi sacrifici per portare avanti il suo
progetto. Troppo rischiosa la possibilità di finire seppellito
senza che nessuno si fosse ricordato di lui. Che senso avrebbe
avuto tutto quel suo calvario musicale.
Jean non aveva niente da perdere. Ereditiere. Famiglia
benestante. Poteva permettersi di fare ciò che voleva. Riteneva
giusto drogarsi. Vendere la droga ai grandi musicisti. Era libero
di farlo senza che nessuno gli muovesse critica.
Sabato sera avrebbe finalmente rivisto Pam. Il party in suo
onore avrebbe coinvolto come al solito un mucchio di persone.
Tutte legate all'arte. Probabilmente Pam si sarebbe aspettata di
vedere quei volti. Di scrutarli uno per uno e di ritrovarci quel
senso di fiducia e di amicizia. Sicuramente non si sarebbe
aspettata di rivedere l’italiano.
Non svelò a Jean del suo interesse per Pam. C'erano stati
due fugaci incontri. Casuali. Per lei erano finiti com’erano
iniziati. Solo avventura. Per lui avevano significato tanto.
Lasciarsi scappare qualche segreto avrebbe compromesso tutto.
La ragazza avrebbe disertato la festa in onore del compagno.
Avrebbe fatto di tutto per non volere Duncan fra gli invitati.
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La musica rimbombava per tutto l'hotel quando Pam entrò
nella sala. Jean aveva preparato tutto. La moltitudine di
personaggi presenti si diresse verso la ragazza per darle il
benvenuto. Festeggiarla quasi fosse una diva. Duncan si era
messo all'angolo. In attesa che la folla si dileguasse. Non volle
farsi notare immediatamente. Accanto alla ragazza, nella sua
maestosa presenza, apparve la sagoma di Jim. Barbuto. Capelli
lunghi. Fisico appesantito. Occhi coperti da un paio di occhiali
neri. L'esatto contrario di quello che aveva visto in qualche
immagine nello studio di Paul. A mettere in seria difficoltà il
suo piano ci si mise la sorte. Pam, notandolo, fece un cenno
d’intesa con Jim. Lo allontanò facendolo accomodare insieme
con altri ospiti. Si diresse verso di lui. Non sembrava né
contenta né dispiaciuta. Visibilmente in stato alterato per via di
qualche dose, lo baciò. Gli disse di ricordare qualcosa e poi si
allontanò per raggiungere il suo compagno.
Stampò sul suo volto un finto sorriso. Mostrò a Jean
un’apparente tranquillità. Dentro di lui stava rosicando come
un matto. «Grandissimo bastardo farai la fine che meriti. Non
sei degno di stare insieme a Pam. La stai portando alla rovina.»
Aveva legato le cattive abitudini di Pam a quelle di Jim.
Non gli perdonava il fatto di lasciarla in quello stato. Lasciò la
festa. Senza informare Jean. Si diresse in hotel per calmare il
suo nervosismo con una bella bottiglia di champagne.
A rompere le palle in continuazione, in quei giorni di
permanenza parigina, ci pensava Jean. Quel tossico di merda
sembrava essersi invaghito di Duncan. Conosceva centinaia di
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persone ma al mattino voleva la sua compagnia perché era
l'unico della sua cerchia che amava prendere il caffè al mattino.
Questa passione condivisa per lui voleva significare tanto.
Oltre la droga, con il resto dei conoscenti condivideva poco.
Ogni notte dormiva con una donna diversa. Ogni mattina
cercava uno svago per dimenticarsela. La sera ne conosceva
un’altra. Duncan era diventato lo svago.
Non si era accorto del saluto scambiato tra lui e Pam. Gli
chiese se l'avesse conosciuta. Gli chiese anche un parere
personale sulla ragazza. Disse che l'aveva vista nella sala
insieme al compagno. Apparentemente gli sembrava una
ragazza tranquilla.
«Tranquilla un cazzo!» Rispose Jean. «Quella è matta da
legare. Pensa che con Jim litigano in continuazione perché Jim
odia l'eroina che Pam assume giornalmente. Lei è l'unica
ragazza sulla faccia della terra capace di stare al fianco di Jim.
Se Jim le chiedesse di tuffarsi dal ponte di Brooklyn lei lo
farebbe senza pensarci due volte».
Quell'ultima affermazione puntualizzò come il suo bizzarro
tentativo di conquistare la ragazza fosse solo un’utopia. Lei era
legata a quell'uomo. Solo qualche tradimento gli avrebbe
permesso di passare qualche ora con lei. Niente di più. Jean
continuava a raccontare dei due. Più lui raccontava più Duncan
covava un senso di odio verso quell'alcolizzato esaltato che si
sentiva un dio.
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Bevendo il caffè si rilassò. Giusto il tempo di assimilare la
solita dose di caffeina e ritornò a macinare nella sua mente
pensieri di ogni tipo. Voleva vederlo morto quel cane.
Decisero che una bella passeggiata lungo la Senna li
avrebbe ristabiliti. Avevano passato una faticosa nottata. Per
Jean fatta di sesso e droga. Per Duncan fatta di champagne e
rabbia. Il conte gli ripeteva delle continue vendite. Del mercato
della droga sempre in continua crescita. Continuava a fare
calcoli. Elencava tutte le grandi rockstar che acquistavano la
roba da lui. Dopo un paio di ore, Jean, aveva scassato
notevolmente le palle. Non poteva credere che un tipo
apparentemente fuori dagli schemi potesse diventare
decisamente logorroico e rompicoglioni. All’improvviso dalla
sua bocca uscì l'unica affermazione sensata di tutta la giornata.
«Ho un problema Duncan. Dovrei consegnare dell'eroina a
Pam. Non so come fare. Se Jim mi vede con la roba mi
ammazza.»
Di colpo le sue cellule iniziarono a manifestare in un senso
di gioia e di ebbrezza. Sorridendo, senza rendersi conto di cosa
stesse facendo, disse a Jean che avrebbe fatto lui la consegna.
Jim non lo conosceva. Fu solo una scusa per farsi dare l'ok dal
conte. Mentre parlava, aveva già in mente cosa fare per parlare
con la ragazza. Per far fuori l'alcolizzato.
Aveva pianificato tutto. Aspettava solo che Jean gli
consegnasse la roba. Poi avrebbe compiuto la cattiva azione. Si
sentiva decisamente meglio. Non aveva nessun timore. Le sue
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gambe non tremavano. Era come se il codardo Duncan avesse
lasciato posto a uno psicopatico Duncan.
La stradina che conduceva all'appartamento di Pam era una
classica stradina antica. Pavimentata con delle lastre di pietra
sporche e male odoranti. Di piscio di animale. Di piscio dei
barboni che spesso si accampavano in quella zona. Tutte
perfettamente e parallelamente disposte. Un tappeto roccioso
che l’avrebbe accompagnato fino al portone. Era maestoso e
restaurato. Il palazzo era stato costruito durante il secolo
precedente. Mostrava qua e là qualche segno visibile del
tempo. Per arrivare al terzo piano sarebbe dovuto salire sei
rampe di scale. Avrebbe dovuto suonare al 17. La porta a
destra del pianerottolo. Il marmo che formava la struttura della
scalinata stava perdendo colore. Sbiadiva da gradino a gradino.
I continui sali e scendi degli inquilini e l'età davano risalto alla
scala. Nella sua unica utilità, quella di essere il collante fra il
piano terra e il resto della costruzione, raccontava un secolo di
storia dell'arte francese.
Pam era stata avvisata da Jean. Non aveva dato spiegazioni
su chi fosse il tramite. Aprì la porta. Irrigidì spaventata.
Preoccupata della reazione di Jim che nel frattempo era di
ritorno. Era sceso in strada a comprare qualche altra bottiglia di
whisky. Beveva in continuazione l'alcolizzato. Viveva
perennemente nell'ebbrezza. Pam lo fece accomodare
ugualmente. Gli chiese di pazientare perché avrebbe voluto
chiamare Jean. Voleva la conferma che quella roba era
destinata veramente a lei. Jean impiegò un bel po' a rispondere.
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Era sicuramente impegnato a trombare e a sballarsi con l'ex di
Mick Jagger. Aveva da poco conosciuto quella ragazza ma già
se la portava a letto senza nessun problema. La accontentava
con qualche grammo di roba. Vistosamente nervosa, Pam,
riuscì finalmente a parlare con lui. Il conte confermò la
consegna.
Pam guardò negli occhi Duncan, gli confessò che, di quelle
sere in cui si erano visti, Jim sapeva tutto. Lei aveva provato a
convincerlo che non era successo niente. Se avesse saputo che
lui era quel Duncan conosciuto a Hollywood, l’avrebbe
riempito di botte. Duncan non volle credergli. Pam per non
andare oltre gli fece riversare su uno specchio tutto il contenuto
della bustina. Era eroina pura. La famosa “Chinese”.
Leggermente più tranquilla continuò lo scrupoloso assaggio.
Lo informò sul fatto che quel tipo di droga la possedeva
soltanto Jean. Comprava da lui proprio perché era un amico
fidato.
I passi di Jim si sentivano sempre più vicini. Pam tremava.
Aveva paura di qualche reazione spropositata del compagno.
Al contrario Jim si rivelò essere sereno. Era talmente ubriaco
che non fece caso né a Duncan né a Pam. Una cosa però lo
turbò particolarmente. Vide lo specchio. Quella polvere bianca.
Iniziò a urlare come un pazzo scagliandosi contro la ragazza.
L’accusò di fare uso di quella schifezza nonostante era a
conoscenza dell'odio del cantante per quella roba. Non si
lasciava parlare. Pam pianse un paio di volte durante la lite.
Lite a cui Duncan stava assistendo. Erano altre le cause che
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l’avevano portato fin dentro quell'appartamento. Gli
atteggiamenti di Jim si facevano sempre più violenti. Si scagliò
verso la ragazza. La strinse forte per un braccio. Come a
volerla fermare. Vietarle di fare uso di quella robaccia. Pam si
liberò e corse veloce dietro di Duncan. Fu un gesto che diede
molto fastidio all'alcolizzato. Si scagliò come una furia contro
di lui sganciandogli un destro. Lo fece finire al tappeto. Non
aveva mai preso un pugno in faccia. Quello appena ricevuto
faceva un male cane. Si rialzò tenendosi la mandibola.
Indolenzita. Biascicando alcune parole in attesa che il dolore
attenuasse.
«E' pura cocaina. È un regalo che vi fa Jean. Mi ha chiesto
personalmente di consegnarvi la roba per ringraziarvi della
vostra amicizia.» Disse Duncan a Jim.
La bestia si calmò di colpo. Era ubriaco. Non poteva
distinguere il tipo di droga. La reazione calmò anche Pam.
Ancora in preda alla paura. Si piegò di nuovo verso la polvere
e continuò nello scrupoloso lavoro di preparazione delle
strisce.
Era finalmente giunto il momento tanto atteso. Jim era
ubriaco fradicio. Quella roba lo avrebbe sicuramente ucciso.
Duncan fece un cenno a Pam come per dirle di iniziare a
sniffare. La ragazza non ci pensò due volte. Aspirò la prima
striscia.
«Visto Jim che è come dico io. Pura cocaina. Non ti farà
certo del male.» Convinto da Pam, l’alcolizzato si apprestò a
sniffare la striscia di eroina.
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Sarebbe toccato a Duncan. Approfittando delle pessime
condizioni dei due, preferì bere un bicchiere anziché fare uso
della droga. I due fidanzati non connettevano più con il mondo.
Jim, cotto dall’alcool, non si reggeva in piedi. Sembrava un
ebete attaccato alla vita da qualche macchinario. Si trovava in
uno stato vegetativo. Fu proprio in quel momento che a
Duncan salì l’embolo. Una sensazione di rabbia salì fino al
cervello. Decise che si sarebbe vendicato per il colpo ricevuto
qualche istante prima. Prese per i capelli l’alcolizzato. Lo
avvicinò con il volto strisciandolo sulla polvere bianca sparsa
sul tavolino. «Sniffa cane. Sniffa e vai a farti maledire per
sempre. Rockstar dei miei coglioni. Sei un lurido alcolizzato di
merda.»
Col capo chino e con le forze che lo avevano abbandonato,
costrinse Jim a consumare anche l'ultima striscia. Lui, senza
muovere obiezione, non ci pensò due volte. Dopo aver inalato
tutto, si accasciò a terra senza dare alcun segno di ripresa.
Era vivo il cane. Respirava a fatica. Sudava. Pam in
evidente shock iniziò a prendersi di agitazione. Alla felicità,
per l'assunzione della roba, sostituì il panico. Piangeva. Non
sapeva cosa fare. Chiese aiuto a Duncan, ma lui Voleva vedere
Jim esalare l'ultimo respiro. I continui pianti della ragazza lo
spinsero a effettuare un finto tentativo di ripresa. Aprì la porta
del bagno. Riempì la vasca con dell'acqua fredda. Strascinò il
bastardo immergendolo fino a fargli arrivare l'acqua al petto.
Lasciò le braccia fuori dalla vasca per arenare il corpo ai bordi
evitando che vi scivolasse per intero.
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Cominciò a calmare la ragazza. La conversazione fu per lo
più interrotta dai continui cedimenti psichici di Pam. Era
visibilmente strafatta e non si reggeva in piedi. Era finalmente
giunto il momento di compire quello che aveva sempre
sognato. Fece stendere la ragazza sul letto. La denudò
completamente. Lei, disinibita, sembrava essere a suo agio. Era
felice. Stava riuscendo nell'impresa di fottersi Pam.
All’improvviso un colpo di tosse, proveniente dal bagno, lo
impaurì. Schizzò lì per vedere se Jim si era ripreso.
Fu agghiacciante quello che era appena successo in bagno. Il
colore cristallino dell'acqua si era colorato di rosso sangue.
Quella tosse era stato l'ultimo segno di vita dato dalla rockstar.
Stesa in una vasca col capo chino in avanti. Con le mani
fredde. Dal naso continuava a fuoriuscire del sangue. Quella
rabbia. Quella sete di vendetta verso chi non aveva nessuna
colpa. Quella voglia di togliersi davanti l'unico ostacolo verso
la conquista di Pam si stava materializzando sotto i suoi occhi.
Chiuse la porta del bagno a chiave. Ritornò verso Pam che nel
frattempo si era addormentata. «Troia che non sei altro. Vai a
farti fottere.»
Duncan si guardò intorno per vedere se stesse dimenticando
qualcosa che potesse incastrarlo. Mentre raccoglieva i suoi
occhiali, vide un quaderno. Erano gli appunti di Jim. Alcune
sue poesie. Forse per elogio o per semplice spavalderia si
sedette per dare un’occhiata agli scritti.
Aprì una pagina. Erano tutte poesie scritte a mano. Vistose
cancellature e dediche alla fine di ognuna. Su quella c'era
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scritto: “Regina Coda, sii mia sposa, imperversa su di me
nell'oscurità. Afferra l'estate nella tua arroganza. Lascia che
sia!” a Pam.
Guardò per l'ultima volta la ragazza. Chiuse la porta
facendola sbattere dietro di lui. Si lasciò scappare una risata
forte e un’imprecazione. «Vaffanculo Jim. Vaffanculo Pam.»
La stradina deserta lo accompagnò fino all'incrocio con la
strada principale. L’avrebbe condotto dritto in hotel. Aveva
paura di una sola cosa. Jean avrebbe potuto raccontare tutto,
anche se la confessione avrebbe significato, per lui, guai con la
giustizia. Chiese la chiave al ragazzo della reception. Salì in
camera. Fece una doccia calda. Si mise a letto come se nulla
fosse successo.
Un roboante suono di sirene lo tirò dal letto. Erano le otto di
mattina. Aveva un cerchio alla testa che lo tormentava e
pochissime ore di sonno. Non collegò inizialmente tutto quel
trambusto alla morte di Jim. Non credeva che Jean o Pam
avessero rischiato di farsi arrestare per quell'alcolizzato
esaltato. Tutto quello per cui aveva lottato in quei giorni di
permanenza parigina si era sgretolato sotto i colpi della droga.
Sotto i colpi di un raptus di gelosia e odio nei confronti dei
due. Ancora non riusciva a rendersi conto del folle gesto. Non
sapeva darsi una spiegazione. In quei giorni aveva accumulato
tanta rabbia durante le confessioni di Jean. Durante le
altrettanti scandalose scoperte sulla relazione conflittuale della
coppia. Quello stato d'animo travagliato e convulso si era
scatenato come un impeto contro i due. La vittima sacrificale
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fu l'uomo. Salvò la ragazza solo per riconoscenza. Per i
sentimenti che provava nei suoi confronti.
Finalmente era arrivata l'ora di tornarsene a Londra. Il suo
manager era felice della notizia appena appresa. Mentre
parlavano al telefono, gli chiese se aveva saputo di quello che
era successo a Jim Morrison. Fece l'indifferente facendosi
spiegare tutto. Secondo le ricostruzioni della polizia Jim era
stato trovato morto nel bagno della sua abitazione. Un arresto
cardiaco. Un’emorragia interna causata dal mix di droga e
alcool ingerita quella sera. Pam aveva ritrovato il corpo solo al
mattino seguente. Duncan si mostrò sorpreso ribadendo che
non aveva appreso quella notizia. Lo rassicurò per l'ennesima
volta che sarebbe ritornato a suonare a Londra. Aveva un
contratto discografico pronto e una serie di concerti da portare
avanti per la promozione del disco.
155
Capitolo VI
Il fumo aveva ricoperto l'intera stanza. La cenere ricopriva i
fascicoli poggiati sulla scrivania di Samuel Smith. Detective da
venti anni. Impegnato sempre in particolarissime scene del
crimine. In tutte era riuscito nell'impresa di scovare il più abile
assassino. Molto apprezzato per la sua astuzia. Peccava solo
per quel suo caratteraccio. Credeva di essere il nuovo Sherlock
Holmes tanto da spulciare perfino nei fascicoli riguardanti gli
omicidi di Jack lo Squartatore. Aveva trascorso nottate intere a
leggere tutte le relazioni sulle vittime dell'assassino londinese.
Londra era da sempre considerata una città tranquilla.
Purtroppo, puntualmente, si accavallavano avvenimenti che
lasciavano tutti senza fiato. Smith lo sapeva. Negli ultimi
periodi aveva alzato l’allerta dopo che nel giro di poco tempo
si era assistito alla morte di due importanti rockstar del calibro
di Brian Jones e di Jimi Hendrix.
Il mondo che abitava i locali notturni era pieno di figure
poco conosciute. Dal passato tormentato e poco pulito. Il
commissario lo sapeva bene. Per scovare informazioni
riguardanti i musicisti, doveva addentrarsi in quel mondo.
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Sapeva che la morte dei due doveva per forza coincidere con
qualche figura che, nell’ombra dell’anonimato, poteva essere
libera di fare quello che voleva.
Smith sapeva che non poteva morire nessuno senza un
apparente motivo.
Il detective era alto, longilineo e di carnagione chiara.
Odiava ogni tipo di droga ed era ghiottissimo di tisane e tè.
Solitamente vestiva elegante ma nel suo lavoro indossava jeans
e maglietta che gli permetteva di infiltrarsi in gruppi di ragazzi
che spesso gli rivelavano tutti i dettagli dell’accaduto. Era un
modo di mimetizzarsi per riuscire a scovare la realtà
velocemente, senza passare per forza da interrogatori e
ricerche.
Non possedeva molto. Un piccolo blocchetto dove annotava
tutto quello che vedeva. Aveva un dono particolare. Riuscire a
identificare, dopo poche ricerche, il vero indiziato. A lui si
dovevano molti casi risolti nella Londra cinica e fredda. Fatta
di pochi rapporti interpersonali. Di personaggi che vivevano
dietro le quinte di un nuovo mondo fatto di sesso, droga e rock
& roll.
Non voleva mai andare in ufficio. Per lui si trattava di un
luogo triste e inutile. Da una scrivania non si poteva risolvere
un caso. Il criminale non si sarebbe mai preso la briga di
andare a consegnarsi alle forze dell’ordine.
La cultura Beat, i Beatles e i Rolling Stones avevano
contribuito a creare un clima teso in città. Tutti li osannavano e
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tanti volevano farli fuori perché ritenuti falsi miti. Da poco era
giunta a Londra la notizia della morte di Jim Morrison a Parigi.
Smith sapeva che la star aveva problemi con le droghe ma
non riteneva Morrison capace di morire per quella schifezza.
Londra era piovosa. Fredda. Quella pioggia finissima, che
cadeva ogni giorno sulla città, faceva risalire certi odori che,
dalle fogne, salivano fino in cielo. Camminava ogni giorno
disgustato. Disgustato per la gente che ci abitava e per la puzza
che respirava. Perché ormai in giro non si faceva altro che
parlare dei Beatles e del loro imminente scioglimento. Per lui,
amante di musica classica e conservatore fino al midollo,
quella nuova moda era solo un vizio. Sarebbe scomparsa col
passare degli anni.
La Denmark St. era sempre affollatissima. Tutti quei negozi
erano meta e attrattiva per tutti. Inglesi e non. Tutti
frequentavano quella strada ricca di misteri.
Da quando sul Samarkand Hotel era calato lo spettro della
morte di Hendrix, Smith si era messo a studiare ogni minimo
particolare dell’incidente. Possedeva a casa centinaia di
fascicoli riguardanti anche la misteriosa morte di Brian Jones.
Studiava approfonditamente entrambi i casi. Cercava di
identificare un punto di unione per scoprire se indagare verso
un unico indiziato o concentrarsi su più soggetti.
Non credeva molto nella seconda via di uscita ma era
convinto ch dietro quegli omicidi si nascondeva un solo
personaggio. Come da buon detective possedeva un muro
dedicato alle mappe concettuali che servivano per risolvere il
158
caso. La ripuliva ogni qual volta riusciva a portare a termine
un’investigazione. Ormai da un po’ di tempo le sue ricerche si
erano bloccate sulle morti dei due musicisti.
In alto aveva simbolicamente attaccato una chitarra. Per
dare un nome a quella mappa. Divise la parete in due tronconi.
Il primo, a sinistra, che riportava tutte le notizie sulla morte
dell’ex chitarrista dei Rolling Stones. Il secondo, quello destro,
riguardanti i dettagli della morte dell’americano. Sapeva che in
entrambi vi era un punto in comune. Secondo lui non poteva
esserci altra risposta. Tutti gli interrogatori avevano portato dei
dubbi. Tutti i personaggi presenti in quelle ore concitate non
erano riusciti a spiegare le cause dei decessi. Era uscito fuori
l’uso e l’abuso costante di alcool e di droghe. Come al solito
erano presenti conoscenti fidatissimi. Ovviamente in preda al
caos nessuno era riuscito a cogliere particolari inquietanti.
Particolari che avrebbero potuto indirizzare le indagini verso il
binario giusto. Smith passava intere nottate a darsi una
spiegazione che non riusciva a trovare.
Si era avvicinato a un fornellino su cui posizionare il
pentolino. Portava in ebollizione l’acqua. La versava in una
teiera dove immergere gli infusi di tè, vicino a una poltrona di
pelle nera, su cui i segni del tempo avevano apportato qualche
taglietto. Smith fissava continuamente il muro. Spesso e
volentieri si addormentava sulla poltrona. Si risvegliava con un
forte mal di schiena. Alleviava il dolore scendendo in strada
camminando e riflettendo su come riuscire a risolvere entrambi
i casi.
159
La passeggiata di solito si svolgeva lungo le strade della
città. Quel giorno l’aveva condotto fino al bar, dove anche
Duncan si fermava a bere il suo caffè macchiato freddo. Smith
aveva ordinato un tè. Adorava sentire il sapore forte della
bevanda, simbolo della cultura Inglese. Quel giorno aveva
deciso che avrebbe passato l’ennesima serata in giro per i locali
della zona. Avrebbe sicuramente consumato un pasto veloce e
ascoltato qualche esibizione live. I soliti gruppi che, sulla scia
dei più famosi, cercavano la gloria nel panorama musicale
locale e internazionale. Il palco ospitava gli strumenti. Sarebbe
rimasto a vedere il gruppo. Da alcuni giorni avvalorava la tesi
che bisognava frequentare quei luoghi per poter capire la vita
di un personaggio famoso. Tutto quello che gira intorno a lui.
Uno scrosciare di applausi accompagnò sul palco il gruppo
che stava per esibirsi. Tutti capelloni. Tutti con i visi
decisamente strafatti dall’uso di chissà quale droga. Tutti
precisamente vestiti allo stesso modo. Era la moda del
momento vestirsi alla Beatles. Anche se seguire le gesta della
band, sarebbe stato impossibile visto l’enorme successo
ottenuto dai quattro.
Il primo brano era terminato. Un assolo finale aveva
decretato la fine del pezzo. Un applauso aveva suggellato
quanto fatto dal chitarrista. Tutti applaudivano quel tipo
stranissimo e poco conforme al resto del gruppo. Condivideva
con gli altri il look. Il vestito nero. Al contrario degli altri
portava capelli cortissimi. Non era segnato dalla droga.
Riusciva a mantenersi sul palco in posizione eretta senza
160
barcollare da una parte all’altre del palco come un assatanato.
Era un comportamento poco congruo con il resto della band.
Quel suo modo di suonare andava ben oltre il livello del resto
dei musicisti. Aveva qualcosa di magico quel suo tocco di
chitarra. Qualche chiacchiericcio portò alle orecchie del
detective delle nozioni su di lui. Era italiano. Aveva partecipato
al successo di quella band. Aveva avuto esperienze anche come
musicista per l’ultimo disco di Janis Joplin.
Quelle informazioni inizialmente non avevano destato
nessun tipo di curiosità nell’investigatore. Trascorse il resto
della serata ad ascoltare il concerto della band. L’italiano aveva
suscitato l’interesse di tutti durante il concerto. Concedeva
intermezzi musicali di alto livello e regalava sorrisi e sguardi a
chiunque tentasse di destare la sua attenzione. Qualche seno
scoperto lo aveva imbarazzato. Era il prezzo da pagare per
quella fama che stava crescendo intorno a lui.
Il ritorno a casa di Smith fu tranquillo come non mai. Di
solito si ritrovava immischiato in qualche rissa che cercava di
sedare per spirito di giustizia.
Ronzava nella sua mente la musica del gruppo ascoltato
poco prima. Pensava al chitarrista. Cosa spingeva un italiano a
cercare fortuna in Inghilterra e soprattutto nel campo della
musica? Come si era trovato a suonare nella band di Janis
Joplin? Come mai era ritornato a Londra nonostante
Hollywood offrisse più possibilità?
161
Furono domande a cui Smith non fece subito peso. Voleva
concedersi quella lunga passeggiata, tranquillamente e senza
pensare al lavoro.
La poltrona era come al solito piena di cenere e macchiata di
tè. Aveva attaccato il cappotto nell’entrata. Si era seduto
sdraiando i piedi. Sfinito dal tragitto per tornare a casa. La
poltrona era posizionata di fronte alla parete, dove
l’investigatore aveva disegnato la mappa concettuale delle
vittime. Guardava e riguardava le foto dei due musicisti. Non
riusciva a collegare le due morti. Quei drogati e alcolizzati
facevano uso eccessivo di alcool e robaccia. Eppure qualcosa
lo riconduceva a quell’italiano. Non riusciva ancora a rendersi
conto perché nella sua mente riecheggiava il pensiero del
chitarrista. Non voleva escluderlo dalle sue ricerche. Diceva
sempre che un buon detective non deve lasciare niente al caso.
Non deve dimenticare nessuna informazione, anche la più
banale.
Il sole triste e tiepido della città illuminava il corpo stremato
dell’investigatore, rimasto nella stessa posizione della notte
appena trascorsa. Si era addormentato pensando al caso da
risolvere. Aveva trascorso l’ennesima notte a dormire sulla
poltrona.
Una buona colazione avrebbe di sicuro dato energia al corpo
e alla mente. Lo sapeva bene Smith. Per rigenerarsi mangiava
una frittella per riempire lo stomaco e beveva una tisana
rigenerante.
162
In centrale c’era un via vai di persone. Rimaste a dormire lì
in stato di fermo dopo una tremenda scazzottata avvenuta in un
locale. Era la prima volta che l’investigatore non si trovava in
quella situazione. Suonò di buon auspicio per l’intera giornata
di lavoro che lo aspettava.
Entrò nella sua stanza con un sorriso che non gli si stampava
in faccia dal giorno in cui fu lasciato dalla donna che aveva
amato fin da ragazzo. L’aveva conosciuta in un locale, dove
andava spesso a consumare un tè dopo un’intensa giornata di
studio. Era bellissima. Occhi scuri. Capelli corvini. Un viso
pallidissimo e perfettamente disegnato. L’aveva corteggiata per
mesi prima che lei si lasciasse conquistare da quel ragazzo
patito di tisane orientali e con il pallino dell’investigazione.
Dopo qualche anno di fidanzamento i due avevano deciso di
andare a vivere da soli. Affittarono un appartamento, dove
vissero per cinque anni un amore folle. Poi la vita sfuggì di
mano al detective. Passava intere giornate a fantasticare sulla
vera vita di Jack Lo squartatore. Leggeva e rileggeva quei
fascicoli dedicando pochissimo tempo alla ragazza. Il colpo di
grazia lo diede l’ultima inchiesta che si era prefissato di portare
a termine. Quella delle due rockstar trovate morte in situazioni
inverosimili.
Una mattina di novembre si alzò come al solito al fianco
della ragazza. Fece colazione con lei prima di recarsi al lavoro.
Fu l’ultima volta che vide la donna. Lei gli aveva lasciato una
lettera, dove spiegava, chiaramente che quella sua folle
163
perversione verso quei casi lo aveva distaccato dal loro
rapporto. Voleva trovare nuove strade per vivere la sua vita.
Fu un colpo durissimo per il detective. Per qualche periodo
cercò in tutti i modi di trovarla organizzando pedinamenti,
aprendo un nuovo caso. Decise subito di archiviarlo perché
ritenuto illogico. La separazione era stata dettata dal suo modo
di comportarsi.
Appena uscito dal locale, aveva telefonato un suo
fidatissimo collega. Doveva procurargli la lista di tutti gli
italiani presenti nella città. La richiesta fu subito esaudita. Quel
fascicolo racchiudeva forse la chiave per arrivare alla
risoluzione dell’enigma. Chiunque vivesse nella città doveva
dichiarare dove risiedeva e il lavoro che svolgeva. Questo era
quanto credeva il detective. Del migliaio d’italiani, presenti
nella città, nessuno aveva indicato il tipo di lavoro svolto.
Questo voleva dire che chiunque poteva essere quel chitarrista.
Chiunque poteva fingersi un altro. Non tutti erano stati schedati
con foto identificativa. Lanciò il fascicolo sulla scrivania.
Sbattendo le mani sulla stessa imprecò contro quei vagabondi
dei suoi colleghi che non avevano svolto in maniera ottimale il
compito di schedatura. Il sorriso che accompagnava la lettura
lasciò il posto a un viso imbronciato.
Doveva ripartire da qualche altra pista ma non volle
escludere dalle sue ricerche l’italiano. I giudici gli avevano
sempre negato la possibilità di andare a interrogare conoscenti
o amici delle vittime. I casi erano stati chiusi. Nessuno poteva
più permettersi di oltraggiare chi aveva assistito alla morte
164
delle rockstar. Nessuno poteva scoprire altre verità. Nessuno
poteva investigare sugli oscuri meccanismi che regolano le vite
di un certo tipo di personaggi.
Smith si era sempre mostrato contrario a tutto questo. Per
non perdere l’affidamento del caso era sempre rimasto fedele a
quanto aveva stabilito il giudice. Anche se lo riteneva un atto
ingiusto, decretato solo per proteggere qualche losco
personaggio.
Smith lo sapeva bene che qualsiasi tipo d’informazione
avrebbe ridato slancio alle ricerche. Per poterla ottenere doveva
in qualche modo riuscire a parlare con qualcuno che avesse
assistito alla scena. La compagna di Brian era irraggiungibile.
Non poteva avvicinarsi a lei. Non poteva rischiare di infrangere
le disposizioni del giudice. Parlare con il costruttore era
l’azione giusta da compiere. Difficilmente avrebbe potuto
intraprendere un colloquio con l’uomo in maniera formale. Un
incontro casuale avrebbe in un colpo solo aggirato la legge e
ottenuto qualche informazione preziosa.
Frank Thorogood era stato indicato come unico colpevole,
per via delle continue liti avute con la rockstar. Secondo il
giudice, nonostante i due fossero amici, fu lui che organizzò la
morte di Jones.
Smith era riuscito a scoprire che il costruttore spesso si
recava in una chiesa del Sussex per pregare. Decise che quel
giorno avrebbe fatto visita all’uomo. Sperando di riuscire a
scambiare qualche parola.
165
Maestosa e devota. La cattedrale si presentava con il solito
portone aperto in modo che i fedeli vi entrassero anche solo per
pregare. Senza per forza dover ascoltare la messa. Ogni
bancale ospitava almeno tre persone. In silenzio rendevano
omaggio al signore. Fra di loro doveva esserci per forza di cose
Frank. Aveva un cappello che lo nascondeva da occhi
indiscreti. Pregava sempre in un angolo, tenendosi alla lontana
da tutti. Quello che era successo lo aveva segnato e ridotto
quasi allo stremo delle forze. Aveva in tutti i modi cercato di
dimostrare la sua innocenza senza riuscirci. I suoi legali
avevano giurato di dare battaglia per rendere giustizia al loro
assistito.
Smith senza farsi notare si avvicinò all’uomo. Gli porse un
bigliettino con su scritto il luogo e l’ora dove si sarebbero
incontrati per parlare. Frank non fece nessun segno. Si
sarebbero incontrati all’interno di un parco situato a poche
miglia di distanza dalla chiesa.
Qualche tiepido raggio di sole aveva rifocillato le piante che
ora ridavano al parco un colore verde. Brillante. La brina
bagnava i fiori nelle aiuole e cadendo dai rami sembrava
pioggia. I due, dopo una stretta di mano, si accomodarono su
una panchina ben nascosta dalle siepi. Smith spiegò subito il
motivo dell’incontro.
«Sto indagando sulla morte di Brian e di Hendrix. Non
credo che la loro morte sia stata del tutto fortuita. Nemmeno
che il colpevole per la morte di Brian sia tu. Nel racconto
166
emerso dalle indagini, risulta mancare un tassello importante
per arrivare alla risoluzione del caso.»
«Cosa vuoi sapere da me?» rispose Frank.
«Voglio sapere tutto di quella tragica notte. Voglio che tu
mi faccia una descrizione di tutti i presenti.»
Frank aspettò qualche minuto prima di iniziare a parlare.
Volle comunque riferire la sua versione dei fatti anche a
quell’investigatore. Spiegò in maniera dettagliata tutto
l’andamento della serata. Di quanta droga ci fosse nella villa.
Di quanto alcool era presente nella stanza nel momento in cui
era accaduto tutto quanto. Concluse il suo racconto con la
descrizione dei partecipanti senza tralasciare alcun particolare.
Dopo aver raccontato di Brian, della moglie, di lui e della sua
compagna, disse che quella sera era presente un’altra persona.
Persona che nelle indagini risultò essere al di fuori di ogni
colpa. Di ogni sospetto. Frank però non riuscì a fare una
descrizione dettagliata dell’uomo. Disse a Smith che la sua
condizione estrema, dovuta all’uso di quelle sostanze, non gli
permisero di mettere a fuoco il profilo di quell’uomo. Sapeva
solamente che era uno straniero e che da poco aveva iniziato a
suonare con Brian. Smith chiese a Frank se ne conoscesse la
provenienza. A questa domanda Frank non seppe rispondere. I
due si lasciarono stringendosi la mano con il patto che nessuno
doveva sapere di quell’incontro.
Smith aveva avuto poche conferme e molte incertezze.
Come mai quella quinta persona fu estraniata dal processo?
167
Perché era ritenuto al di fuori di ogni sospetto? Era uno
straniero?
Non poteva affermarlo con sicurezza. Tanti personaggi
approdavano nella città per trovarvi successo e fama. In quel
periodo chiunque poteva suonare con Brian soprattutto dopo
l’uscita dai Rolling Stones.
Per quanto riguardava il caso Brian, era in possesso della
confessione di Frank. Per quanto riguardava il caso Hendrix,
non era possibile riuscire a parlare con nessuno. Secondo le
supposizioni del giudice l’unica persona che si trovava sul
luogo del delitto era la compagna del drogato. Si trovava in
Germania impegnata nella sua disciplina.
Chiuse la porta dietro di sé accorgendosi che il letto era
ancora ben sistemato. Da qualche giorno non faceva altro che
addormentarsi sulla poltrona. Davanti a quella fottutissima
parete. A quelle fottutissime foto segnaletiche. A quei
fottutissimi articoli di giornale. «Drogati di merda non so
neanche perché continuo a perdere tempo con voi!»
Erano passati ormai sei anni dalla morte di Hendrix e Brian.
Nonostante tutto continuava a indagare su due vicende
alquanto misteriose che non importavano più a nessuno. Chi
avrebbe mai voluto scoprire il vero assassino? Se mai ce ne
fosse stato uno!
Erano le classiche domande che la notte, prima di
addormentarsi, Smith si ripeteva come un’Ave Maria. Poteva
vivere una vita tranquilla in giro per Londra. Mettere dentro
168
qualche ladro. Qualche delinquente. Invece no. Voleva
risolvere quei fottutissimi casi.
Brian aveva trascorso la sua ultima notte bevendo e
ingerendo droga senza limite. Senza pudore. Poi era uscito di
casa per dirigersi verso la piscina. Per cercare chi? Per cercare
cosa? Smith non riusciva a darsi una risposta. Se veramente
Frank aveva confessato in totale onestà, Brian sarebbe potuto
uscire per parlare con quella quinta persona. Quella quinta
persona perché avrebbe voluto uccidere la rockstar? «Pippe
mentali e niente più.»
Questo si diceva ogni notte prima di addormentarsi.
Stronzate che lo stavano portando quasi alla pazzia. Anche i
sogni erano tormentati da quelle vicende. Sognava
puntualmente le scene del crimine. Come se inconsciamente
fosse sicuro che nel sogno avrebbe potuto incontrare il vero
assassino dei due musicisti.
La schiena ormai a pezzi lo costringeva a svegliarsi di
scatto. Effettuare subito qualche esercizio in modo da
sgranchire le ossa. La solita colazione e poi dritto in ufficio.
Leggere e rileggere le solite pagine. La solita routine. La solita
giornata passata a spulciare negli archivi della polizia. Alla
ricerca di qualche indizio da aggiungere alla lista di notizie
riguardanti le morti dei due musicisti. Anche i colleghi erano
esausti da quel suo autoconvincimento. Della sua caparbietà.
Chiedeva a tutti di trovare qualche informazione. Su un
cittadino. Su una zona. Su un locale. Spesso e volentieri
169
sfiorava l’impossibile quando chiedeva informazioni
riguardanti personalità di un certo prestigio.
Era tutto perfettamente costruito. Al detective mancava solo
un tassello. Il vero colpevole. Credeva fermamente che la causa
dei due decessi fosse dovuta a un personaggio oscuro che si era
trovato a stretto contatto con le vittime. Ne era convinto. Non
aveva voluto far archiviare i due casi proprio perché non
credeva in quello che avevano affermato i giudici.
Le amicizie nel mondo dell’investigazione spesso non si
fermano al solo luogo di lavoro, circoscritto alla centrale dove
si presta servizio. Un buon detective deve avere conoscenze
anche oltre i confini della città. Oltre i confini nazionali. In un
breve viaggio di lavoro, qualche anno prima, Smith si era
recato in America per portare avanti un’indagine riguardante
un traffico di droga. Le ricerche descrissero una fitta rete che si
muoveva da ambasciata in ambasciata. Si scoprì un
personaggio che rappresentava tutto fuorché uno spacciatore
professionista. Le ricerche incastrarono un certo George.
Spacciava la droga nel circuito dello show business che
comprendeva anche affermate star della musica. Fu indagato
per la morte di Janis Joplin e per altre morti eccellenti nel
mondo degli affari e tra semplici cittadini. Smith aveva
partecipato alle indagini perché la richiesta di arresto era partita
proprio da Londra. In seguito ad un ritrovamento di quel tipo di
droga presso le abitazioni di alcuni personaggi famosi. Smith
sapeva che avrebbe potuto contare sui colleghi d’oltre oceano.
170
La telefonata durò circa un’ora. Smith raccontò tutto al suo
collega. Spiegò che nella sua ricostruzione mancava un
elemento importante che doveva rappresentare il colpevole. Fu
in quel momento che capì che poteva risolvere il caso. Il
detective americano rispose che nelle indagini per la morte di
Janis Joplin figurava una persona esterna. Non era originaria
del posto, che si trovava lì per portare avanti il progetto che la
casa discografica della rockstar stava costruendo intorno a lei.
L’uomo soggiornava nello stesso albergo, dove viveva la
donna. Quella sera si trovava in camera sua e non figurava nel
registro degli indagati in quanto fornito di un alibi perfetto. Era
un personaggio, a detta dei pochi che lo conoscevano, che non
amava stare in mezzo a certa gente, che non faceva uso di
sostanze stupefacenti, che preferiva stare chiuso in camera
anziché vivere la vita notturna di una città come Hollywood.
Al detective saltò subito in mente tutto il discorso ascoltato
qualche giorno prima in quel locale. In quel gruppo londinese
suonava un musicista italiano che aveva partecipato alle
registrazioni dell’album di Janis Joplin. Non ne era sicuro ma
poteva rappresentare un primo indizio su cui incentrare le sue
nuove ricerche.
La sua mappa iniziava ad arricchirsi di nuovi personaggi. Di
nuovi scenari. Sulla parete ora appariva, alla fine di tutto il
quadro, una figura scura con un punto interrogativo. La figura
di una persona presente in entrambi i casi. Rappresentava una
nuova prova e la consapevolezza che aveva ragione. L’unico
dubbio era legato alla morte di Hendrix. Nessuno, in quella
171
dannata sera, si era accorto di niente. Tantomeno la donna del
chitarrista aveva lasciato dichiarazioni compromettenti.
Il nuovo piano di Smith ora prevedeva l’identificazione del
personaggio, il suo interessamento nei due casi. Per effettuare
alcune ricerche riguardanti persone non incluse nelle liste degli
indagati doveva chiedere il permesso al giudice. Quello scoglio
lo rituffò in un senso di malessere che lo fece sprofondare nel
sonno più totale.
Convincere il giudice a riaprire il caso sarebbe stata
un’impresa difficile. Sarebbe stato impossibile. Avrebbe
sicuramente portato guai alla sua attività investigativa. Avrebbe
attirato l’ira dei suoi superiori. Nel caso più estremo si sarebbe
visto recapitare un ben servito dalla compagnia relegandolo di
nuovo a servizi di ordinario controllo dei locali. Doveva fare in
modo che quella sua nuova scoperta non giungesse alle
orecchie dei suoi superiori. Chiese ad alcuni suoi colleghi di
chiedere in giro per i locali se qualcuno fosse a conoscenza
d’italiani, di farsi spiegare, sempre che qualcuno ne fosse al
corrente, di che tipo di lavoro stesse svolgendo. Un gruppo
cospicuo di poliziotti, in totale segreto, iniziò a investigare.
Dovevano portare a Smith l’identikit del maggior numero
d’italiani presenti nella città.
Rinfrescata la ricerca ora spettava a Smith capire il senso
della presenza di quell’uomo nelle morti dei due personaggi.
Cosa c’entrasse realmente, perché ne fosse uscito indenne
senza ricevere alcuna condanna. Erano tanti i quesiti appuntati
sul blocchetto. Aveva inserito quel fantomatico personaggio
172
all’interno di un circolo casuale di avvenimenti. Avvenimenti
successi proprio mentre il signor “X” si trovava insieme alle
vittime. Era un appunto che non soddisfaceva completamente
Smith. Chi si trovava in certe situazioni aveva legami diretti
con la vittima o doveva trovarsi lì per conto di qualcun altro.
Certo poteva essere il mandante di quel George arrestato a
Hollywood. «Sì!»
Poteva essere uno spacciatore che aveva portato la roba a
Brian, a Hendrix e a Janis. Siccome tutti si erano rifiutati di
offrirgli una ricompensa, lui li aveva ripagati commettendo il
delitto. Oppure poteva essere uno scellerato in cerca di fama
che voleva ad ogni costo affermarsi anche per merito di quei
personaggi. Tutto poteva legarsi a “X”. Non riusciva a capire in
che modo avrebbe potuto organizzare i tre omicidi. Nonostante
quello di Janis fosse compito dei colleghi d’oltre oceano, era
pur sempre un colpo dello stesso personaggio. Ne era convinto
Smith. Straconvinto.
Un forte temporale si stava abbattendo sulla città. Era
arrivato in ufficio fradicio fin dentro le scarpe. Ogni richiesta
da parte di un suo collega lo stizziva. Lo rendeva nervoso. Fino
all’inverosimile. Dovette chiudere la porta a chiave in modo
che nessuno entrasse nel suo ufficio. Poggiò la testa
sorreggendola con le mani. Guardando fisso la scrivania notò
un reportage del primo giorno d’indagini. Risultò che ogni
gestore di locale conosceva un italiano. Perché aveva lavorato
lì o perché spesso si riunivano in gruppo per passare una serata
insieme.
173
Una forte bussata però lo riportò di nuovo sull’attenti. Da
sotto la porta entrò un foglio. C’era scritto che, in un locale
sulla Denmark st., un barista italiano conosceva un ragazzo
connazionale giunto a Londra per cercar fortuna nel mondo
della musica.
«Sì! Conosco un italiano musicista. È un mio carissimo
amico.» Furono queste le uniche parole che fuoriuscirono dalla
bocca del barista, prima che una raffica di ordinazioni lo
costrinsero a ritornare immediatamente a ricoprire il ruolo di
cameriere.
La lettura del fascicolo ebbe un effetto demenziale sul
detective. Si mise a piroettare e a ballare come un macaco
appena morso al culo da un serpente. Aprì le braccia come
volesse volare. Cominciò a girare per tutta la stanza sbattendo
di qua e di là provocando il continuo cadere di oggetti. Un
rumore fastidioso rimbombava per tutta la camera dove
lavoravano gli altri colleghi.
Una risata isterica si sovrappose a un nervosismo che lo
aveva accompagnato fino a lì. Stava gradualmente giungendo a
una soluzione. Ora doveva identificarlo. Pedinarlo. Cercare di
arrivare a lui per vie traverse. Spacciandosi un musicista.
Intraprendendo con lui un rapporto d’amicizia.
L’unico rammarico era dovuto alla mancanza di furbizia da
parte del collega che non era riuscito ad accedere ad altre
informazioni personali. Il luogo dove risiedeva. Un accenno di
descrizione fisica. I locali maggiormente frequentati dal
ragazzo.
174
Era già tanto sapere che fra migliaia d’italiani ora doveva
indirizzarsi solo su una persona. L’astuzia del detective,
spesso, si tramutava in sensazioni che gli percorrevano tutta la
schiena fino a gelargli il collo. Secondo Smith era un dono
concessogli come omaggio alla sua bravura. Alla sua caratura.
In circostanze meno auto celebrative li considerava effetti di
una fortuna sfacciata che identificava con lo slogan “botta di
culo”. Sì. Spesso non riusciva a venir fuori da intricate
relazioni che intrecciavano i suoi pensieri. Quando tutto
sembrava ormai perso succedeva qualcosa. Qualcosa che lo
distoglieva per un attimo. Che lo catapultava di nuovo nel
razionale. Erano comunemente state identificate come scariche
di diarrea. Lo colpivano perché amava tenere in bocca un
bastoncino di liquirizia che era catalogata, in medicina, alla
voce: “Lassativo naturale”.
Quando meno se lo aspettava, doveva correre in bagno per
liberarsi del demone che lo possedeva. Lì ricominciava a
pensare a come portare avanti il lavoro. La botta di culo
risuonò come risultato più naturale alle domande che si era
posto. Dopo aver letto quel fascicolo. Il modo per scoprire la
vera identità di quel personaggio era recarsi giornalmente
presso il locale dove lavorava l’interrogato. Se i due si fossero
conosciuti, il musicista sarebbe sicuramente andato in quel bar
a consumare qualcosa da mangiare o da bere. La puzza che
aveva infestato il locale lo costrinse a uscire in tutta fretta per
non rischiare di morire asfissiato.
175
C’era un solo problema. Non poteva permettersi di
assentarsi giornate intere dal lavoro senza una scusa plausibile.
Ora doveva inventarsi qualcosa per poter uscire. Recarsi in
quel locale senza che i suoi superiori esponessero lamentele e
punizioni per la sua mancata presenza in ufficio. Era da un bel
po’ di tempo che non godeva di meritate ferie. Dopo la rottura
del rapporto con la sua ex compagna non si era mai assentato
dal posto di lavoro. Perché usufruire di giorni di vacanza se
doveva trascorrerli da solo? Decise che era giunto il momento
di recuperarli tutti. Quindici giorni sarebbero serviti alla causa.
Compilò la richiesta. La presentò al suo capo. Gli e le concesse
perché meritate e un po’ per levarselo dai coglioni. Da quando
si era fissato su quei due casi, era diventato insopportabile.
Sulle scrivanie dei superiori giungevano giornalmente richieste
di ogni genere. Spesso venne richiamato per essere riportato
sulla retta via. Nonostante i richiami, dopo qualche giorno,
spuntava l’ennesima richiesta.
Il clima gradevole di quella mattinata aveva ridato nuova
linfa al detective. Rinato sotto i colpi di quelle nuove scoperte
decise che era giunto il momento di iniziare con il
pedinamento. Doveva seguire l’italiano. Da casa sua il locale
era parecchio distante. Per giungere lì di buon mattino doveva
svegliarsi che era ancora buio. Doveva farsi trovare pronto
nell’eventualità che il musicista si presentasse già dalle prime
ore del giorno per rifocillarsi dopo una lunga nottata passata a
suonare. Decise che, per non perdersi nessun tipo di dettaglio,
176
sarebbe stato utile compilare un diario. Avrebbe appuntato
qualsiasi cosa potesse interessare l’italiano.
GIORNO PRIMO D’INDAGINE. Si recò nel locale, dove
Aldo, così si chiamava il ragazzo che aveva confidato
l’amicizia con il musicista, si apprestò a servirgli una colazione
appena preparata. Smith si guardava continuamente in torno.
Con aria sospetta. Chiunque entrasse nel locale rientrava nel
radar del detective. Spiava movimenti. Analizzava il
linguaggio. Un italiano parla con l’altro italiano nella lingua
madre o in inglese? Se fosse stata avvalorata la prima ipotesi,
avrebbe immediatamente riconosciuto l’interessato altrimenti
lo avrebbe potuto riconoscere dalla sua cadenza nell’esprimersi
nella lingua straniera.
Dopo due ore di attesa erano entrate almeno una cinquantina
di persone. Tutte inglesi. Tutte visibilmente lontane dallo
stereotipo di straniero. L’inglese si riconosceva dal modo di
vestire. Dalle abitudini. Dal modo di interloquire. Dal modo in
cui si atteggiava di qualsiasi avvenimento accadutogli il giorno
prima. Nessuna traccia di persone diverse. Dopo un’intera
giornata decise che era ora di ritornare a casa. Per riposare. Per
continuare a cercare nuove piste che lo conducessero verso la
risoluzione del caso.
GIORNO SECONDO D’INDAGINE. Decise che si sarebbe
recato qualche ora più tardi al locale. Un musicista che esce da
un locale alle quattro di mattino difficilmente si reca alle otto
in una caffetteria a fare colazione. Il locale era affollatissimo.
Un cinguettio costante non permise a Smith di captare se nella
177
folla potesse esserci la persona da lui ricercata. Al contrario,
quel senso d’impotenza e di malessere, lo spinse a uscire. A
ritornare a casa. Infastidito da quanto accaduto, lanciò l’agenda
in un angolo della sua abitazione. Quasi a voler dire che il
secondo giorno sarebbe coinciso con l’ultimo di appostamento.
Doveva escogitare un altro piano per reperire informazioni
utili. L’unico modo per poter arrivare al musicista era quello di
poter parlare con il ragazzo del locale. Con quale scusa si
sarebbe presentato a lui? Dopo varie ipotesi decise che l’unico
modo per riuscire a parlare con il musicista era quello di
fingersi giornalista.
Il guaio era come interloquire con Aldo. Arrivare a parlare
del suo amico e poi fingersi interessato a lui per intervistarlo.
Lui era un detective. In alcuni momenti, per riuscire a
giungere a informazioni utili, svolgeva quasi lo stesso ruolo di
un giornalista. Iniziava a fare domande sull’accaduto. Le
appuntava. Le trascriveva sotto forma di report. Utilizzato poi
per giungere alla risoluzione del caso. Ore otto e trenta. Il
locale era vuoto. La prima ondata di persone si era dileguata
per le strade della città. Aldo era impegnato nella
risistemazione della sala. Solo dopo qualche istante si diresse
verso Smith per servirlo. Nel frattempo il detective aveva
aperto sul tavolino il giornale. Un quaderno di appunti e una
penna. Aldo si avvicinò a lui chiedendo dove avrebbe potuto
poggiare l’ordinazione. Smith fece cenno che poteva lasciarla
anche sul giornale. Aldo ribatté dicendo che avrebbe potuto
sporcarlo. Non era il caso di rischiare. Molti incappavano nella
178
disastrosa caduta della tazzina sulla pagina che si stava
leggendo. Smith, per smorzare il clima ostile creatosi tra lui e il
barista, esordì con una battuta.
«Ho già letto tutto. Sono stato io a scrivere quell’articolo.»
«Lei è un giornalista?»
«Sì!» rispose il detective.
«Scrive di qualcosa in generale?»
«Scrivo qualsiasi cosa mi capiti sott’occhio. Ieri ho scritto di
un brutto incidente avvenuto in una fabbrica in periferia. Oggi
vorrei allietare la mia giornata cercando personaggi da
intervistare.»
Aldo rimase esterrefatto. Non aveva mai parlato con un
giornalista. Il colloquio terminò lì. Smith aveva svelato la sua
nuova identità. Avrebbe atteso il giorno in cui il musicista si
sarebbe recato nel locale perché informato da Aldo. Aldo
avrebbe potuto convincere l’amico a stringere amicizia con il
giornalista in modo da strappargli un’intervista. Ne avrebbe
giovato la sua figura.
Il destino spesso si rende beffardo verso chi cerca di
difendere ideali di giustizia. Trascorse i restanti dodici giorni di
ferie senza che nessuno si presentasse nel locale. Senza che
Aldo accennasse al finto giornalista che lui aveva un amico
musicista che poteva fare al caso suo.
Furono giorni collerici. Tesi. Smith continuava a brancolare
nel buio più profondo. La speranza di poter parlare con quel
personaggio si era disciolta come un gelato in piena estate.
Consumato sotto il sole cocente. Il suo appartamento era
179
diventato un immondezzaio. Carte di ogni genere. Fogli con
abbozzi disegni che nemmeno un bambino di tre anni riusciva a
rappresentare peggio di lui. Montagne che sembravano
piramidi. Alberi dritti e squadrati. Erano le uniche figure che
Smith riusciva a disegnare in maniera comprensibile.
Non chiuse occhio per tutta la settimana. Era straziante
quella sconfitta. Non poteva aver perso tutti quei giorni. Non
poteva aver creato un piano talmente inutile e inefficiente. Lui
era una persona che calcolava tutto nei minimi dettagli. Era
facile circoscrivere il raggio d’azione di un assassino normale.
Difficile circoscrivere il raggio di azione di un musicista. Era
come lasciare un astronauta in balia dello spazio senza nave su
cui ritornare.
Affranto e in piena crisi decise che era il momento di
ritornare a svolgere il suo lavoro. Doveva dimenticare, per un
po’ di tempo, quella vicenda.
Se in alcune circostanze il destino ti volta le spalle in altri
momenti, ti ritrovi a godere dei suoi servizi in maniera del tutto
casuale. Quel giorno non fu la solita strada a condurre Smith al
lavoro. Un profondo senso di disperazione lo condusse a
calcare strade principali. Quelle strade che ai fasti del giorno
rendono la baldoria di notti brave trascorse nei locali. Una folla
di gente accerchiava un ragazzo che dormiva steso a terra.
Insanguinato e visibilmente scosso per quanto accaduto. Smith
sapeva bene che il suo ruolo lo costringeva a intervenire.
Poteva essere quel segnale che aspettava da quindici giorni. Si
avvicinò quasi mimetizzandosi. Nessuno si accorse di lui. La
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polizia non riuscì a riconoscerlo. Alcuni addetti sollevarono da
terra il giovane ferito. Lo adagiarono sul marciapiede.
Iniziarono a rivolgergli le consuete domande. Allo stremo delle
forze rispose farfugliando. Dopo qualche tentativo anche il
corpo di polizia decise di demordere. Siccome quelle risse
accadevano continuamente, decisero di lasciare lì il ragazzo a
marcire nei suoi dolori. A riprendersi dalla baldoria della notte
appena trascorsa.
Si allontanarono tutti. Si doveva ritornare alla normalità. Nel
momento in cui il ragazzo stava per alzarsi, Smith gli si
avvicinò. Si propose di accompagnarlo da qualche dottore e il
ragazzo si fece aiutare. Smith caricò il corpo nel primo taxi
dirigendosi verso l’ospedale. Il tragitto non era lunghissimo.
Bastò al detective per farsi spiegare quanto era successo. Il
ragazzo, rinvigorito dall’aiuto di quello sconosciuto, raccontò
l’accaduto.
Spiegò che stava ascoltando un gruppo che si stava esibendo
in quel locale. Dopo qualche brano iniziò a rivoltarsi contro i
cinque componenti. Uno di loro si scagliò contro di lui
prendendolo a chitarrate sulla schiena e a pugni in faccia.
Smith chiese di avere descrizioni dettagliate dei componenti
del gruppo. In quel modo poteva offrire aiuto. Avrebbe
segnalato quei mascalzoni alla polizia. Iniziò a descrivere il
profilo del cantante. Un tossico che non riusciva neanche ad
aprire gli occhi talmente era sopraffatto dalla droga. Capelli
lunghi che gli nascondevano le guancie. Carnagione
cadaverica. Poi continuò con la descrizione del bassista. Una
181
specie di pazzo esaltato. Completamente pelato. Una cicatrice
sullo zigomo destro dovuta a una lite che lo aveva visto
coinvolto per via di un corteggiamento sbagliato. Terminò
descrivendo il chitarrista. Basso. Tozzo. Un accento strano. Un
taglio di capelli decisamente fuori moda. In quella descrizione
poteva nascondersi la vera identità dell’italiano. Lasciò il
ragazzo in ospedale con il taxi pagato per il ritorno. Si precipitò
subito in ufficio. Doveva annotare la descrizione del musicista
coinvolto nella lite.
Ora aveva qualche base in più per continuare la ricerca.
Sapeva che in quel bar avrebbe potuto incontrare quel
personaggio. Decise che un ultimo tentativo meritava di essere
portato a termine. Non aspettò il musicista ma si presentò ad
Aldo sempre nei panni del giornalista con la scusa di voler
intervistare un musicista. Il barista avrebbe sicuramente fatto il
nome dell’amico. Aldo era sempre al solito posto, dietro il
bancone. Indaffarato come tutti i giorni. Con il pensiero fisso
su Duncan che non vedeva da un bel po’ di tempo. Smith si
presentò nel locale come un fulmine a ciel sereno per Aldo.
Salutò. Dopo aver ordinato un tè, chiese ad Aldo se poteva
aiutarlo in qualche modo. Sorpreso, accennò a un sì ma
avrebbe dovuto attendere qualche minuto. I due si sedettero
uno di fronte all’altro. Smith aprì un’agenda e iniziò a spiegare
al ragazzo perché aveva bisogno del suo aiuto. Il finto
giornalista era lì per chiedere ad Aldo se conoscesse un ragazzo
italiano che era giunto a Londra con lo scopo di diventare
famoso facendo il musicista.
182
Ad Aldo si bloccò il respiro. Chiese il perché di quella
domanda. Il giornalista prontamente rispose che aveva sentito
parlare di quel musicista italiano eccellente con la chitarra.
Voleva assolutamente intervistarlo. Aldo rimase sorpreso. Non
sapeva se confidare la realtà al giornalista o far finta di niente.
Alla fine cedette. Confidò all’uomo che era amico di un
ragazzo italiano che ormai da anni viveva a Londra. Il ragazzo
suonava in un gruppo della zona.
Da più di un mese non aveva sue notizie. Eseguì una
perfetta descrizione fisica dell’amico che risultò essere identica
a quella rilasciatagli nella mattinata dal ragazzo ritrovato a
terra dopo una scazzottata avvenuta proprio con l’italiano.
Smith ringraziò il ragazzo. Aveva definitivamente ricostruito il
profilo del ricercato. Si diresse verso casa.
Iniziò ad appuntare su un foglio tutte le informazioni
recepite nell’arco della giornata. Il presunto colpevole si
mostrava agli occhi del detective come una persona bassa di
statura. Tozzo nei suoi movimenti e nei suoi lineamenti.
Capelli corti. Uno strano modo di accentare la lingua. Era
ovvio che un italiano accentasse in maniera diversa la lingua
inglese. Quello era il punto debole che avrebbe condotto Smith
a scoprire il musicista. Aldo, durante la chiacchierata, aveva
confidato che non lo vedeva da più di un mese. La vita del
musicista si svolgeva perennemente durante le ore notturne.
Non poteva combaciare con gli orari di lavoro di Aldo.
Smith sapeva come arrivare al ragazzo. Avrebbe mandato i
suoi uomini in tutti i locali in cui si sarebbe svolto qualche
183
concerto. La ricerca iniziò già dal giorno successivo. L’azione
intrapresa risultò essere giusta ed efficace. Il giorno dopo gli si
presentò un dettagliato report sul musicista. Smith era riuscito
nell’impresa di scovare il personaggio misterioso che si era
trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato secondo le
deposizioni dei giudici. Per Smith ricopriva un ruolo
fondamentale nelle morti di quei personaggi. Ora doveva
convincere il giudice perché gli affidasse il caso
permettendogli di indagare limpidamente su quella persona.
Fu una battaglia dura. Dopo quasi venti richieste fu data a
Smith la possibilità di sfogliare quei fascicoli. Di operare nel
pieno potere che la legge offriva per risolvere quel caso. Il
ricatto del giudice però fu pesantissimo. Un errore di
valutazione e Smith sarebbe finito a ramazzare i giardini
pubblici della città.
184
Capitolo VII
La Beat Generation aveva lasciato il posto a una nuova
corrente musicale incentrata sul rock più duro. I Rolling Stones
tenevano testa. Una miriade di nuovi gruppi si affacciarono sul
panorama musicale londinese. Costituivano un nuovo problema
per chi cercasse di emergere puntando ancora su vecchi stilemi
musicali. Le celebrità si eclissano. Dopo anni e anni di concerti
ormai sono esausti. Rivendicano un meritato riposo. Ci sono
personaggi che si eclissano perché non sono mai riusciti a
emergere definitivamente.
Domenico Volpe era partito dall’Italia in cerca di fama in
quella nazione che aveva presentato al mondo due mostri sacri
della musica. Sapeva che sarebbe stata durissima. Possedeva
tutte le carte in regola per potersela giocare, fino alla fine, con
gli altri musicisti. Gli inizi furono dei migliori. Era riuscito a
suonare con Brian Jones e con Janis Joplin. Aveva conosciuto
Hendrix e per pochi istanti anche Jim Morrison.
Aveva da poco chiuso una tournee in giro per l’isola quando
una chiamata del suo manager lo turbò per tutta la giornata. Il
loro tour che sarebbe ripartito fra qualche mese era stato
annullato. Nessuno voleva più il suo gruppo. Nessuno puntava
185
più su quel tipo di musica. Bisognava essere duri. Incazzati con
il mondo. Produrre musica forte. Le canzonette non
interessavano più. La telefonata lo fece incazzare così tanto da
distruggere un tavolino del soggiorno del suo appartamento.
Non riusciva a darsi pace. Nessuno poteva prendersi gioco del
suo gruppo. Tantomeno del suo operato.
Per anni aveva suonato in giro per l’Inghilterra. Cercava
quella benedetta consacrazione. Mai gli era stata concessa
l’opportunità di mostrarsi nel suo valore. Era un rancore che si
portava dietro da un sacco di tempo. Aveva turbato il suo
umore. Spesso concludeva le serate in risse furibonde insieme
al bassista e al cantante. Fortunatamente trovava nella musica
la sua valvola di sfogo. Nonostante cercasse di prodigarsi per
produrre buona musica, ogni anno che passava, c’era sempre
un altro gruppo pronto a rubargli la scena.
Londra non offriva giornate caldissime. Era una città snob e
nessuno si preoccupava di nessuno. Lo aveva capito bene
Duncan. Si stava dirigendo verso gli uffici della sua etichetta
discografica per discutere con il suo manager. Non voleva
abbandonare tutto. Non meritava un simile trattamento. Per
anni aveva fatto la fortuna del manager che stava alla musica
come un rinoceronte sta alla danza. Quel figlio di puttana si era
approfittato di lui e della band. Aveva messo sotto contratto
una serie di gruppetti che poteva manipolare secondo la moda
del momento per poi abbandonare come aveva appena fatto
con loro. La porta dello studio si chiuse dietro di Duncan. Lo
conosceva bene quel pezzo di merda. Non sarebbe uscito dallo
186
studio se prima non avesse sistemato per le feste quel coglione.
Bastarono pochi pugni sferrati nei punti esatti del viso per
mandare al tappeto il manager. Dopo averlo guardato negli
occhi, lo minacciò dicendogli che se avesse raccontato
qualcosa lui avrebbe agito di conseguenza provocandogli
qualcosa di molto ma molto doloroso.
Il Manager restò a terra sanguinante. Vide uscire la sagoma
di Duncan. Dietro di lui tutta la rabbia di un uomo decisamente
deluso. Si rialzò lentamente come se niente fosse successo.
In stato confusionale Duncan vagava per le strade della città.
Senza una meta. Si fermò incuriosito. Guardava le locandine
che raffiguravano tutti quei nuovi gruppetti che affollavano i
locali. Quei locali che prima ospitavano i grandi concerti che
lui e la su band intrattenevano in città. «Luridi bastardi.»
Furono le uniche parole che uscirono dalla sua bocca.
Non riusciva a calmarsi. L’ira assaliva il suo corpo. Spesso
qualche tic cercava di scaricare la tensione e il nervosismo.
Non poteva mollare proprio in quel momento. Decise di
organizzare un incontro con il resto della band. Sperava di
riuscire a riportare in alto il loro nome. Avrebbero agito senza
manager. Completamente secondo le loro voglie e le loro
intuizioni. Avrebbero suonato nei locali e incassato l’intera
somma. Una specie di azione punitiva contro quell’essere
spregevole che li aveva appena scaricati.
Il Regent Sounds Studios era il luogo perfetto per riunirsi.
La discussione si portò avanti per molte ore. Ai segni di euforia
si contrapponevano momenti di sconforto. Fu chiaro da subito
187
che dovevano rimettersi in moto. Portare avanti il loro
progetto. Uscirono entusiasti e pronti a riprendersi i loro spazi.
Molti gestori riconoscenti e rispettosi nei confronti della band
offrirono una serata al gruppo. La band poteva ritornare a
suonare in giro per i locali. Questa volta secondo le loro
indicazioni.
Per prima cosa cambiò il look. Camicia e giacca fecero
spazio a nuove e sgargianti uniformi. Spaziavano dai maglioni
più strani fino a camice improponibili. In alcune occasioni
raggiunsero lo squallido. In seguito s’indirizzarono su un unico
stile. Pantaloni e camicia di jeans sarebbero diventati i capi
principali di quella nuova rinascita.
Anche la musica cambiò. Non si sarebbero indirizzati sulle
nuove mode. Era pur sempre il loro marchio di fabbrica.
Avrebbero comunque utilizzato una distorsione diversa della
chitarra. Cambiamenti che non convincevano i componenti ma
che avrebbero sicuramente favorito un loro nuovo modo di
presentarsi al pubblico. Una settimana di prove bastò al gruppo
per risollevarsi da un periodo di stop prima di riprendere
l’attività concertistica.
La serata procedeva come al solito. La classica atmosfera da
concerto live. Birre sul tavolino. Voglia di rilanciarsi nel
panorama musicale locale. Era quello che voleva Duncan.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di ottenere quell’ambita
benedizione chiamata celebrità.
Prima che il manager li abbandonasse ogni serata era
anticipata da un bagno di folla. Attendevano fuori dal locale
188
prima di entrare e gustarsi i quattro musicisti. Non si
aspettavano la solita marea di persone ma neanche che il locale
restasse semivuoto. Continuarono a suonare fino a quando
anche l’ultimo dei superstiti decise di abbandonare la sedia. Fu
un fallimento assoluto. Serata dopo serata si andava di male in
peggio. Non restava che sciogliesi definitivamente e proseguire
ognuno verso i propri obiettivi.
Duncan sapeva che non poteva e non doveva arrendersi.
Meditò notte e giorno nella ricerca di una soluzione al
problema. Pensava e ripensava al momento della partenza.
Quando mise per la prima volta piede nella sala di
registrazione. Quando incontrò i primi musicisti. Brian Jones,
Hendrix e Janis Joplin. Fu proprio l’ultimo nome a far
scoppiare in lui la scintilla. L’unico modo per ritornare a fare
musica era quello di ricontattare Paul.
Lasciare Londra e ripartire da Hollywood. Era quella l’idea
geniale di Duncan. Doveva solo chiedere a Paul di farlo
partecipare a qualche suo progetto. Man mano riuscire a fargli
conquistare la scena musicale americana. Lì sarebbe stato
molto più facile inseguire il sogno di una carriera. Non
sarebbero mancate le occasioni per suonare come turnista per
personaggi di spessore. Non sarebbero mancate le occasioni
per esibirsi dal vivo, in qualche locale, con qualche gruppo
fondato proprio lì.
Acqua e vento portarono Duncan fino al bar, dove Aldo
lavorava come cameriere. Voleva rifocillarsi con il classico
caffè macchiato freddo. Nella baraonda generale l’unica sua
189
certezza rimase che il caffè a Londra non era all’altezza di
quello italiano. Si poteva bere solo mischiandolo con del latte.
Una certezza alquanto bizzarra e che lo faceva sorridere.
Una serie di ricordi gli passarono davanti. Il primo disco
che andava a gonfie vele nell’underground musicale cittadino. I
consensi che crescevano. Le piccole radio che li contattavano
per registrare qualche intervista. Nel sentire l’odore del caffè
ricordò quando, in quella piccola radio, lo speaker gli rivolse la
fatidica domanda:
«Ha qualche certezza di questa sua esperienza londinese?»
«Certo! L’unica certezza che ho di questa esperienza è
sapere che qui il caffè fa veramente schifo.»
Fu una risposta che fece scoppiare tutti a ridere tanto che
dovettero interrompere l’intervista.
Allora la band si mostrava ambiziosa ma legata ad abitudini
popolari. In quel periodo le radio non potevano mandare in
onda un’intervista originale senza modificarne i contenuti. Non
riuscivano ad accettare quel modo di fare e quella fu la causa
principale del loro anonimato. In che modo potevano creare
curiosità negli ascoltatori se non riuscivano a farsi mandare in
onda?
Duncan si recò presso l’ufficio del manager per chiedere il
numero di Paul. I rapporti con quel bastardo si erano interrotti e
incrinati. A lui doveva un favore. Avere il numero del manager
americano era il minimo che potesse pretendere. Su un
bigliettino da visita annotò il telefono. Si diresse verso l’uscita
chiudendosi alle sue spalle l’avventura musicale londinese.
190
Una cabina telefonica sarebbe stata il luogo più adatto per
contattare Paul. Dopo una serie di squilli rispose la segretaria
che trasferì la conversazione direttamente all’impresario
musicale.
«Ciao Paul sono Duncan.»
«Ciao Duncan. Che sorpresa. Come mai questa telefonata?»
«Quel bastardo del tuo amico mi ha lasciato senza contratto.
Ho bisogno di una mano. Ho pensato subito di rivolgermi a te».
«Hai fatto bene a contattarmi. Ho per le mani un compito
molto arduo. Hai chiamato al momento giusto.»
A Duncan sembrò di svenire. Non credeva a quanto stava
ascoltando. Avrebbe suonato nella band che accompagna il Re
del rock. Elvis Presley!
«Cazzo Paul non potevi offrirmi miglior incarico.»
«Duncan devi partire immediatamente. Ti aspetto nel mio
ufficio fra tre giorni.»
Duncan mise immediatamente giù la cornetta e si diresse
immediatamente verso casa per preparare la valigia. Lo spirito
era lo stesso che percepì il giorno in cui decise di scappare
dall’Italia per trasferirsi a Londra. L’America era dall’altra
parte del mondo ma era l’unico tentativo rimastogli per
proseguire nel suo sogno.
Aldo stava asciugando i bicchieri appena lavati quando vide
entrare il suo amico Duncan. Senza fermarsi si diresse dietro al
bancone, dove lo abbracciò calorosamente.
«Duncan?»
191
«Aldo. Lascio la città. Mi trasferisco in America. Grazie ad
un amico riuscirò a seguire in tour Elvis. Questa nuova
avventura mi terrà lontano per qualche anno. Mi sei stato di
aiuto. Sei stato un ottimo amico. Un punto di riferimento su cui
appoggiarmi nei momenti più difficili. Grazie di tutto!»
Aldo lasciò cadere qualche lacrima. Lo abbracciò forte. Gli
disse di stare attento. Di concentrarsi al massimo in modo da
poter realizzare i suoi sogni. Duncan lo guardò fisso negli
occhi prima di sparire fra le strade della città.
Un taxi l’avrebbe portato fino all’aeroporto. Si sarebbe
imbarcato nel primo volo per Hollywood. La tristezza
conquistò lentamente i pensieri e il volto di Duncan.
Nonostante tutto aveva vissuto positivamente l’esperienza
appena conclusasi. Ogni locale e ogni luogo che fissava, da
dietro il vetro dell’auto, riportavano in lui immagini di puro
divertimento. Di magia.
Paul era stato chiaro. Aveva parlato di Elvis. Di un lungo
tour. Non aveva specificato altro. Cosa sarebbe successo? Non
riusciva neanche a immaginarselo. L’entusiasmo che aveva
provocato quella telefonata offuscò ogni ombra di dubbio.
D’incertezza. Lo focalizzò sull’unico obiettivo. Suonare.
Venti ore di viaggio sembravano non passare mai. Aveva
già attraversato l’oceano durante il suo primo viaggio, quando
partecipò alla produzione dell’ultimo disco di Janis Joplin.
Quell’infinita distesa di acqua non riusciva a rasserenarlo.
Passò tutto il viaggio a fissare dal finestrino il cielo. Come se
192
in quelle nuvole cercasse un riparo alla paura di affrontare una
nuova avventura.
Paul guardava fuori dall’enorme finestrone del suo ufficio
quando sentì aprire la porta. Duncan era vistosamente provato
dal viaggio. Si era presentato puntuale all’appuntamento. Si
strinsero la mano come segno di saluto prima di parlare dei
dettagli del lavoro. Duncan avrebbe accompagnato Elvis in
tutte le tappe del tour tenutosi in America. Prima di partire alla
volta dell’America avrebbe affrontato un periodo di sala prove.
Approfondire la musica dell’artista. Studiare a fondo i dettagli
dello spettacolo. Elvis era solito portare sul palco qualche
spettacolo per mandare in visibilio le folle di fans che si
accalcavano al palco, con la speranza di ricevere anche solo
uno sguardo da parte del loro idolo.
A Duncan sembrava un’offerta ragionevole e fattibile. I due,
dopo aver dettagliatamente affrontato il discorso riguardante
Elvis, iniziarono a conversare su quanto successo a Londra.
Duncan spiegò che si era ritrovato insieme agli altri
componenti del gruppo in balia del niente. Avevano perso il
contratto discografico. La possibilità di esibirsi per i locali.
Paul scuoteva il capo ogni qualvolta Duncan pronunciava il
nome dell’ex manager. Spiegò all’italiano che ormai il mercato
musicale si muoveva con una velocità infernale. Stare fuori dal
circolo, anche solo per qualche anno, voleva significare
eclissarsi definitivamente.
Duncan diede ascolto a Paul. Non si spiegava come mai era
stato scartato dopo aver dimostrato il suo valore. Paul gli si
193
avvicinò incoraggiandolo. Difendendo il suo amico confidando
al musicista che ormai ogni manager pensa giornalmente alla
sua attività e guarda al presente più che al futuro. Ascoltare
qualcuno d’interessante e sfruttarlo anche solo per un disco o
per una stagione l’avrebbero fatto senza scrupoli. Duncan
chinò il capo in segno di resa a un sistema industriale che
aveva abbandonato i principi di rispetto verso l’artista a
dispetto dei guadagni.
Paul, prima di chiudere definitivamente il discorso,
consegnò una busta a Duncan. Lì c’era scritto l’indirizzo, dove
si sarebbe dovuto recare per presentarsi allo staff di Elvis.
Dove avrebbe ricevuto le ultime direttive. Si ristrinsero la
mano e si salutarono. Paul sottolineò la stima verso di lui
proponendosi per un futuro aiuto.
Un piccolo motel appena fuori la città avrebbe ospitato
Duncan prima di recarsi al 3734 del Boulevard Elvis Presley di
Memphis. Presso la tenuta Graceland dove risiedeva Elvis e
tutto il suo staff. Nella busta c’erano alcune informazioni
riguardanti i componenti dello staff dell’artista. All’italiano
saltò subito agli occhi il nome affibbiato a certi personaggi che
ruotavano intorno alla figura di Elvis. La Memphis Mafia. Era
una sorta di compagnia che viveva in simbiosi con Elvis. Si
occupava di mantenere in auge il nome dell’artista. A Duncan
fece molto impressione leggere quel nome. Conoscendo lo
spirito americano credeva fosse solo un nome utilizzato per far
impressione mediatica più che dimostrare l’esistenza di una
cerchia di personaggi poco onesti.
194
Il sole si era svegliato su Hollywood. Non era estate ma quel
giorno d’inverno si era presentato inspiegabilmente sotto
mentite spoglie. Dolce come non succedeva mai durante quel
periodo dell’anno. Si presentò come buon presagio prima della
partenza. Un treno avrebbe portato Duncan a Memphis.
Il viaggio si rivelò tranquillo. Sapere di viaggiare incollato
alla terra faceva molto piacere. Aveva inquadrato per venti ore
solo oceano. Ora poter osservare case e distese di alberi.
Significava riconquistare una visuale più congrua alla sua vera
appartenenza. Quando prendeva il treno per spostarsi oltre i
confini della sua regione, perdeva molto tempo a fissare il
panorama. Mai si voltava all’interno dello scompartimento.
Volava con la fantasia lungo quelle distese di piantagioni e di
distese incolte. Giunto alla stazione un taxi lo condusse verso
l’indirizzo indicato nella busta. Non aprì bocca per tutto il
tragitto. Rispondendo con un cenno di capo alle domande che
l’autista rivolgeva all’italiano. Domande più che normali. Non
era solito accompagnare qualcuno presso la residenza del
grande Elvis.
Quello che si presentò agli occhi dell’italiano fu uno
spettacolo meraviglioso. Un’immensa abitazione si mostrò in
tutto il suo lusso. Benvenuti nella dimora del Re del rock.
Rimase a fissare la residenza per qualche minuto. Impaurito.
Emozionato. Sbigottito. Affascinato. Non aveva mai visto
niente di simile. A Montegallo e ad Ascoli esistevano palazzi
lussuosi di vecchi principi e ricchi proprietari. Costruzioni che
195
si fermavano alla semplice architettura di palazzo. La residenza
di Elvis andava oltre. Era una maestosa costruzione.
Ad attenderlo al cancello vi era un addetto all’accoglienza
degli ospiti. Aspettavano l’arrivo di questo nuovo membro. Lo
accolsero con i dovuti saluti. Era cortesia ospitare i musicisti
con tono leggero in modo da metterli a proprio agio.
All’interno il lusso più sfrenato componeva ogni singola stanza
della residenza. Un maestoso atrio con due leoni auguravano il
benvenuto a chi entrava. Due scalinate conducevano al piano
superiore, dove erano ubicate le stanze da letto. Duncan fu
guidato da un componente della Memphis Mafia che spiegò
brevemente l’architettura della villa. Ventitré stanze in totale
con otto camere da letto e bagno. Il salone dove di solito
soggiornava, durante il giorno, tutto l’entourage di Elvis.
Alcune stanze dove l’artista si fermava a comporre e a suonare.
La cucina. La sacra cucina che Elvis cercava di mantenere
sempre ricca di alimenti.
Le molte ore di viaggio iniziarono a segnare il viso di
Duncan. Dopo aver varcato la soglia della sua stanza, si diresse
in bagno per fare una doccia. Poi si stese sul letto. Riposò
senza sosta fino al giorno dopo. Nella residenza tutti sapevano
dell’arrivo di quel nuovo musicista. Tutti si fecero trovare
nell’immenso salone per accogliere il nuovo arrivato. Tutti
tranne Elvis. Era un periodo difficile per l’artista. Il divorzio
dalla moglie lo aveva fatto piombare in una specie di crisi
psicofisica. Lo costringeva a fare abuso di ogni tipo di
tranquillante per cercare di riposare. Restava sveglio fino alle
196
cinque del mattino per poi dormire fino a sera. Quando si
svegliava, succedeva di tutto. Il suo umore non era mai
prevedibile. Da qualche tempo aveva sempre da ridire su tutto
e su tutti. Gli scontri con il resto del gruppo e dello staff erano
all’ordine del giorno. Duncan ancora non aveva incontrato
Elvis. Gli bastò ascoltare le confessioni degli altri musicisti per
capire che era finito all’inferno.
Si sentì urlare in lontananza. Elvis si stava dirigendo proprio
nella sala, dove di solito si svolgevano le prove. Si aprì la
porta. Si presentò a Duncan uno spettacolo inverosimile. Un
ammasso di lardo che superava il quintale di peso. Goffo nei
movimenti.
Vistosamente
toccato
psicologicamente.
Sopraffatto dalla perplessità, non si accorse che Elvis aveva
salutato il resto dei musicisti. Nessuno fece notare al Re che
quel giorno avrebbe iniziato a far parte della band un nuovo
musicista. Fu lo stesso Duncan a presentarsi. Elvis lo guardò
senza mostrarsi interessato ma non gli negò il saluto. Diede il
benvenuto al nuovo arrivato ma come un fulmine iniziò a
suonare. Spiazzato. Senza nessuna direttiva. Duncan ascoltò in
religioso silenzio le battute iniziali delle prove. Piano s’inserì
all’interno della struttura musicale che era stata creata
precedentemente. L’ammasso di lardo non riusciva a portare a
compimento un brano. Buttava litri e litri di schifosissimo
sudore. Non riusciva a mantenere una nota. Spesso si fermava
prima di riprendere a cantare. La bravura della band non era
quella di creare la musica. Era quella di bloccarsi e di
riprendere l’esecuzione con la puntualità di un orologio
197
svizzero. Una situazione imbarazzante. A Duncan sembrò più
una punizione che un rilancio della sua carriera.
Le prove si protraevano per poche ore. L’artista, in netto
stato confusionale, decideva di terminare senza nessun
commento. Abbandonava la stanza e si dirigeva nella sua
dimora. La stanza della giungla. Era denominata così perché
era arredata in perfetto stile tropicale con tanto d’intelaiatura
legnosa. Come a rappresentare una capanna.
La follia regnava sovrana in quella residenza. Spesso si
sentiva urlare l’ammasso di lardo. Si riferiva al manager e al
dottore. Continuamente cercavano di fargli capire che lo stile di
vita intrapreso lo avrebbe portato alla morte. Mangiava di tutto.
Da enormi panini pieni di carne e salse fino a quantità
esagerate di pizza o di dolciumi. Un ippopotamo affamato.
Svegliato da pensieri a dir poco preoccupanti Duncan aveva
deciso di bere un bicchier d’acqua. Si diresse verso la cucina.
Esaminò l’ambiente. Notò che veramente la cura maniacale
con cui Elvis chiedeva di riempire i frigoriferi era pura verità.
Non si trattava di una stronzata usata per deridere l’artista.
Duncan incuriosito iniziò a esplorare tutta la stanza. A ogni
pensile aperto, seguiva una scoperta buffa e penosa. Quello che
fece sorridere l’italiano fu la presenza, nel frigorifero, di scorte
di Pepsi Cola e di latte scremato. «Ma che cazzo beve
quest’ammasso di lardo?»
Non credeva ai suoi occhi. Da quando aveva iniziato a
frequentare l’ambiente musicale, aveva notato che le grandi
rockstar facevano uso di ogni tipo di bevanda alcolica. Dal
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whiskey all’assenzio. Dalla birra al vino allo champagne. Mai e
poi mai avrebbe immaginato che un personaggio del calibro di
Elvis potesse fare uso di bevande del genere. In preda ad una
confusione esistenziale si precipitò di nuovo nella sua camera.
Passò l’intera notte a fissare il soffitto. Pensava e ripensava a
quanto gli stesse capitando.
Paul sapeva del momentaccio dell’artista ma come con Janis
pensò bene di rimandare lui a suonare con certi personaggi.
Non riusciva a prendere sonno. Nel momento in cui le sue
palpebre stavano per chiudersi, uno sparo squarciò il silenzio
della notte. Balzò a terra. Spaventato. Si nascose dietro il letto.
«Ma che sta succedendo? Maledetto Paul. Figlio di puttana.
Dove cazzo mi hai mandato? Giuro che se riesco a rivederti ti
spacco la faccia.»
Dal corridoio si sentirono passi di persone che si recavano
verso la stanza dell’ammasso di lardo. Duncan decise di
affacciarsi. Di chiedere cosa stesse succedendo. Fermò colui
che il giorno prima l’aveva accompagnato fino alla camera.
Dalla discussione capì che Elvis, da un po’ di tempo, soffriva
di depressione e spesso sfogava la sua malattia sparando con le
armi che aveva collezionato. Di solito sparava verso il muro o
verso qualche oggetto che si trovava sulla traiettoria. Quella
notte aveva deciso di farlo contro la televisione. Nella stanza
dell’ippopotamo si era riunito l’intero staff. Allarmato. Il
medico gli somministrò una dose di tranquillante sperando che
quel pazzo si calmasse.
199
Ogni notte succedeva il finimondo. L’ammasso di lardo non
riusciva a dormire. Spesso si metteva a suonare con il suo
pianoforte laccato in oro. Si trovava in una stanza dedicata solo
ed esclusivamente allo strumento. Duncan non credeva ai suoi
occhi. Mai aveva visto uno strumento laccato in oro. Mai aveva
visto tanto oro in vita sua. Possedeva una catenina d’oro
comprata da sua madre per il battesimo. Un anello che ereditò
da suo nonno. Mai e poi mai poteva immaginare di ammirare
un pianoforte così.
L’artista vendeva milioni di dischi. Prima di arrivare al
declino aveva girato il mondo. Era una banca di soldi. Il
numeroso staff che girava intorno a lui la diceva lunga su
quanto era fondamentale per loro mantenere viva la figura di
Elvis.
La stanza dove di solito si provava era deserta. Duncan
aveva deciso di chiudersi a provare i brani presenti nella
scaletta. Da pezzi rock & roll alle famosissime ballad gospel
che avevano reso famoso l’artista. Tutto filava liscio.
All’improvviso l’ammasso di lardo entrò nella sala inveendo
contro l’italiano. Offendendolo in ogni modo. Dietro la bestia,
il manager. Indicava a Duncan di stare zitto e di non dire
niente. Voleva far sfogare l’esaurito. Avrebbe ricevuto le scuse
da parte dello staff. Mai quelle della rockstar. A Duncan
interessava suonare. Portare a termine quel tour e ritornare a
Hollywood.
A Duncan non piacque per niente la scenata da parte
dell’ammasso di lardo. Sudato. Fradicio. Logorato nella mente,
200
come il peggiore dei pazzi esistenti sulla terra. Sapeva delle
crisi psicologiche dell’uomo ma non avrebbe accettato di
trascorrere le solite prove come accadde in passato con Janis
Joplin. Era esausto di stare sempre al servizio di teste di cazzo
che non avevano rispetto per i musicisti. Il motore degli
spettacoli di Elvis erano proprio i musicisti. Precisi e pronti
portavano a termine i concerti senza mai sbagliare un colpo,
nemmeno quando il ciccione si esibiva in grotteschi balli. Elvis
divenne famoso per le sue movenze quando aveva 100 in
meno.
La disposizione del gruppo sul palco era quella di sempre. Il
batterista dietro a tutti. A sinistra un chitarrista e il bassista. Al
centro l’altro chitarrista. A destra i fiati e il tastierista. Davanti
a tutti Elvis. Il concerto era iniziato nel migliore dei modi. Il
pubblico in visibilio. Migliaia di fans sotto il palco ad
applaudire, a gridare a squarciagola il nome dell’idolo. Elvis
era visibilmente stanco. Da anni non riusciva più a mantenere il
ritmo di un concerto intero. Estasiato dal clamore che suscitava
ancora nei suoi fans, pensò bene di tirar fuori un nuovo tipo di
ballo. Era famoso per il suo movimento veloce di gambe,
quando ancora un corpo snello e longilineo gli e lo permetteva.
Adesso che il grasso gli scendeva fin sotto le ginocchia non
riusciva a compiere quel movimento. Iniziò a eseguire figure di
arti marziali, dei movimenti così goffi che fecero inquietare il
resto della band. A Duncan tornarono in mente situazioni già
vissute qualche anno prima durante i concerti tenuti con la sua
band nei locali di Londra. Il bassista a un certo momento della
201
serata iniziava a dimenarsi come una trottola. Finiva vicino a
lui colpendolo puntualmente al capo, facendolo arrivare a terra
quasi sempre senza conoscenza. Un flash back. Giusto il tempo
di accorgersi che quell’enorme ciccione, perdendo l’equilibrio,
stava finendo direttamente addosso a lui. Lo schiacciò contro il
palco, soffocandolo, ungendolo di sudore, spaccandogli quasi
la schiena. Tra i due vi era solo la chitarra che, nonostante
avesse tentato di sopportare il peso dell’ippopotamo, finì per
spaccarsi in due.
Duncan non riusciva a respirare, sopraffatto dall’enorme
peso dell’essere insulso che era caduto sul suo minuscolo
corpo. Gli interventi da parte dello staff durarono qualche
secondo. Secondi infiniti che furono devastanti per Duncan. Il
bottino dell’accaduto si chiuse con Elvis rialzatosi illeso ma
imbarazzato. Una schiera di mentecatti continuava a osannare
le sue gesta. Duncan ne ebbe la peggio, chitarra spaccata in due
e numeri graffi sull’addome provocati dalle gigantesche
collane che Elvis era solito indossare.
La serata terminò ugualmente. Il resto del gruppo portò
avanti lo spettacolo mentre l’italiano steso su un lettino nei
camerini. Al rientro tutti andarono a domandarsi di come stesse
il ragazzo. Tutti tranne l’ammasso di lardo che molto provato si
ritirò immediatamente nel suo camerino. Quel pezzo di merda
non si era neanche degnato di domandarsi delle condizioni
dell’italiano. Quei comportamenti cominciarono a provocare in
Duncan un odio che cresceva di giorno in giorno. Non passava
prova o concerto in cui il grassone non concretizzasse
202
un’azione malvagia verso il chitarrista. Pur di non rovinare
l’instabile equilibrio emotivo dell’esaltato incassava i colpi
senza dire niente.
Un temporale di fine maggio si era abbattuto sulla città.
Nella tenuta Graceland nessuno riusciva a chiudere occhio.
Elvis aveva deciso che per tutta la nottata avrebbe sparato
contro ogni tipo di oggetto incontrato lungo il suo cammino.
Non ne faceva tanto visto che non riusciva a tenersi in piedi.
Aveva distrutto tutto nella sua Jungle Room. Piano si
diresse verso la cucina per recuperare le calorie perse. In
Duncan tutte quelle situazioni iniziavano a farsi sentire
notevolmente. Da quando era arrivato a Graceland non aveva
mai trascorso una nottata tranquilla. L’ammasso di lardo
s’inventava sempre qualcosa. L’occhio destro iniziava a
mostrare segni di cedimento nervoso. Un piccolissimo nervo,
sulla parte superiore della palpebra, iniziò a tremare
ripetutamente. Era il segno evidente che anche la pazienza di
Duncan iniziava a subire forti colpi.
L’estate era giunta anche a Memphis. Trentacinque gradi.
Erano insopportabili. Aveva trascorso gli ultimi dieci anni in
una città dove il sole si poteva scorgere solo in pochissimi
istanti e nella più limpida giornata d’estate.
I tecnici iniziarono di buon mattino. Caricarono tutto il
necessario nella stiva dell’enorme aereo privato che Elvis
possedeva. Lo utilizzava per lunghi spostamenti. Un Convair
880 rinominato “LisaMarie” avrebbe condotto il gruppo alla
203
volta di Rapid City. Il giorno dopo avrebbero portato in scena
l’ennesimo concerto dell’artista al Rush More in Plaza Civic.
Il viaggio fu confortevole. L’aereo conteneva tutto il
necessario per permettere all’ippopotamo di affrontare anche
un lungo viaggio. Il lusso regnava sovrano. Quell’essere
immondo continuava a campare di rendita per via della fama
conquistata anni prima. La Memphis Mafia lo teneva in piedi
per non rischiare di perdere tutto quello conquistato fino a quel
momento. Duncan rimase in silenzio per tutto il viaggio. Si
dedicò alla lettura di un libro. Spiava sporadicamente i
movimenti della bestia. Ogni sorriso, ogni risata falsa, ogni
gesto di esaltazione provocavano in lui rabbia e un desiderio di
annientare per sempre quell’essere inutile.
Il sogno di Duncan era quello di sfondare nella musica. Fino
a quel momento non c’era riuscito. Aveva suonato a stretto
contatto con grandi artisti. In tutti aveva notato superficialità.
Erano personaggi famosi che non avevano mai veramente
capito il senso di fare musica. Jones era un tossico parassita che
bruciò nella droga tutto il talento che aveva. Hendrix possedeva
un dono eccezionale ma l’acido gli aveva corroso il cervello
ancor prima che iniziasse a capire la sua arte. Janis durò il
tempo di un disco, quasi due, Prima che la droga se la portasse
via. Morrison viveva più per fare cazzate che per suonare, si
alcolizzava al punto che a ogni concerto finiva chiuso in una
stanza di commissariato con decine di accuse pendenti sulla
sua testa. Ora Elvis. Perché quel destino ingiusto si era accanito
contro di lui? Era una domanda a cui non riusciva a dare
204
risposta. Fin da bambino aveva iniziato a suonare la chitarra.
Studiava e approfondiva ogni aspetto. Sapeva che il mondo
della musica accettava solo musicisti preparati. Fino a quel
momento si era accorto che niente si accostava minimamente a
quanto da lui immaginato.
L’odio verso certe figure iniziò a covargli dentro l’anima.
Lo rendeva inquieto. Sempre più propenso verso lo sfinimento
mentale. La convinzione che quella bestia non meritasse di
stare al mondo lo aveva lasciato insonne. Si svegliava
puntualmente più stanco del giorno prima. Questo suo
malessere ne condizionava il lavoro. A ogni errore susseguiva
un gesto di stizza da parte di Elvis. Ogni gesto di stizza
dell’ippopotamo buttava benzina sul fuoco dell’odio che
bruciava nell’animo dell’italiano.
La platea come di consuetudine era piena. Persone scatenate
non aspettavano altro di veder salire sul palco il loro idolo. Il
manager entrò in camerino, esclamò che diciottomila persone
non vedevano l’ora di sentir cantare il Re del rock. Il gruppo si
presentò sul palco. Duncan decise di defilarsi, voleva evitare
che l’abominevole uomo si ripetesse nel compiere quegli strani
balli finendo di nuovo addosso a lui.
Lo spettacolo si portò avanti senza alcun problema. Elvis
continuava a lanciare fra la folla alcuni suoi cimeli, quei
foulard sudatissimi e inzuppati finivano fra le mani di donne
che svenivano e venivano trasportate fuori nel tentativo di
riprendere fiato. Duncan sapeva che era per via del pessimo
odore del sudore dell’uomo, non l’emozione di aver ricevuto in
205
dono un cimelio della rockstar. Ci rise su. Il gruppo contagiato
dalla risata dell’italiano finì col ridere senza alcun motivo.
Elvis sembrò non essersi accorto di nulla. Il manager decise di
cambiare la scaletta. Sul palco sarebbero rimasti il pianista ed
Elvis. Non riuscirono mai a capire se fosse stato il destino o
qualche forza sovrannaturale. Per un istante in Elvis resuscitò
quello spirito gospel che era sparito sotto i colpi dei panini con
la carne. Sotto litri e litri di Pepsi Cola. Nella sala le note del
brano Unchained Melody risuonarono nell’aria lasciando tutti
senza fiato. A ogni frase seguiva un sospiro. Poi di nuovo tutti
senza fiato. Era come se il vero Elvis, intrappolato nel grasso
del finto Elvis, stesse cercando di uscire senza riuscirci. Un
applauso scrosciante sancì la riuscita dell’esecuzione.
Quel bastardo si era accorto e come della risata di Duncan
durante il concerto. Appena giunti nel camerino iniziò a inveire
contro di lui. Lo colpì con un gancio destro. Stese il musicista a
terra con un vistoso taglio sullo zigomo destro. Ci vollero dieci
uomini per sedare la rabbia che si era invaghita dell’ammasso
di lardo. Tutti si preoccuparono di far uscire Duncan dalla
stanza cercando di offrirgli i primi soccorsi e di fermare la
fuoriuscita di sangue dalla ferita. Un’automobile portò il
chitarrista nel più vicino ospedale. Lì fu curato al meglio.
Perfettamente ristabilito per riaffrontare il viaggio di ritorno.
Duncan si accomodò nello stesso posto dell’andata. Non
lesse il libro. Sul lato destro del viso un’enorme benda gli
impediva la visuale. Elvis si era chiuso in un piccolissimo
ripostiglio che utilizzava per riposarsi durante il viaggio. Il
206
resto del gruppo cercò di sviare la tensione creatasi. Il tentativo
fu vano. Nessuno riusciva a sorridere dopo quello che era
successo.
Le prove si erano rivelate durissime e sostenute. Dovevano
rendere lo spettacolo perfetto e preciso. In alcune esibizioni
Elvis aveva decisamente toccato il fondo dimenticandosi alcuni
testi. Il ciccione si era subito chiuso in camera per cercare di
riposare, strafatto dopo aver ingerito almeno una decina di
tranquillanti. Il resto del gruppo si diresse nelle rispettive
camere. Il giorno dopo avrebbero affrontato un altro spettacolo
del tour. Si sarebbero recati a Indianapolis al Market Square
Arena.
Duncan si era rintanato nella sua stanza, sperava di riposare.
All’improvviso un colpo alla porta lo svegliò. Non si era messo
a dormire da molto tempo ma quel poco gli era bastato per
cadere in un sonno profondo. Era un componente della
Memphis Mafia. Duncan quando aprì la porta gli chiese cosa ci
facesse lì e lui gli rispose all’italiano chiedendogli di seguirlo
nella stanza di Elvis. Il capo avrebbe voluto parlare con lui.
Inizialmente Duncan declinò l’invito ma dopo che l’uomo gli
fece presente delle conseguenze a cui sarebbe andato incontro,
si convinse. Spazientito si vestì e si diresse verso la stanza del
ciccione.
L’ammasso di lardo era seduto con i piedi distesi su di una
poltrona di pelle. Sorseggiava un bicchierone di Pepsi Cola e
stava ingerendo un enorme panino pieno di carne e di creme
207
preparate secondo il suo desiderio. L’agente chiuse la porta
lasciandoli soli.
«Vedi Duncan in che situazione mi trovo? Ho appena
litigato con la mia compagna perché non vuole seguirmi nella
tournee. Credi sia facile per un personaggio del mio calibro e
della mia fama proseguire in questo modo? Sono diventato un
ammasso di lardo. Non riesco a muovermi. Non dormo più.
Continuo a suonare solo perché ho bisogno ancora che i miei
fans acquistino i miei dischi. Vivo nel lusso grazie a loro. Per
mantenere questo status devo per forza tirare finché le forze me
lo consento.»
Duncan non disse una parola. Continuava ad ascoltare Elvis
che non si era neanche degnato di girarsi per guardarlo in
faccia. Duncan sapeva che la situazione dell’artista era
alquanto complicata. Sapeva delle condizioni in cui versava
quell’essere immondo. Ormai non faceva altro che ingozzarsi
senza pensare alle conseguenze.
«Da quando ho deciso di intraprendere questa carriera ho
sempre seguito il mio istinto. Ho inventato un passo che hanno
imitato migliaia di artisti. Ho rilanciato canzoni che
sembravano spacciate. Ho scritto dei classici. Ho lasciato
migliaia di fans in giro per il mondo. Ora che sto quasi finendo
di compiere il mio percorso, non riesco ad abituarmi all’idea
che tutto questo un giorno possa finire. Le altre vicende
personali mi hanno segnato profondamente. Non è facile
separarsi da una moglie. Non è facile restare calmi nel
208
momento in cui il successo ti soffoca. Sai perché ho comprato
Graceland?»
Duncan disse di no con un filo di voce.
«Perché non riuscivo a camminare per le strade senza che
una marea di persone mi fermasse. Anche sotto casa si
creavano giornalmente file interminabili di persone pronte ad
accalcarsi su di me. Per una foto. Un autografo. Per baciarmi.»
Duncan continuava ad ascoltarlo in silenzio e continuava a
chiedersi del perché si stesse confidando in questo modo con
lui. Magari era solo un modo leggero di iniziare un accesissimo
diverbio che sarebbe terminato con il suo assassinio. Duncan
più volte fissava intorno, esaminava se nelle vicinanze
dell’ammasso di lardo fosse sistemato un fucile o una qualsiasi
altra arma, pronta a far partire un colpo verso di lui. La paura
lo aveva immobilizzato. Nessuno avrebbe saputo
dell’incidente. Lo avrebbero seppellito sotto qualche albero
della tenuta senza che nessuno si accorgesse dell’assenza
dell’italiano. Un lavoretto semplice per i membri dello staff.
Avrebbero occultato ogni prova per non lasciare il pazzo nella
merda.
Il sudore sulla fronte del maiale e dell’italiano scendeva con
la stessa frequenza, con la stessa quantità di liquido. Sulla
fronte dell’ammasso di lardo scendeva perché l’essere si
trovava in netta difficoltà con il suo corpo. Su quella
dell’italiano scendeva per via della tensione che iniziava a farsi
sentire.
209
Il discorso di Elvis durò per quasi un’ora. La star raccontò
ogni tipo di vicissitudine a cui legava un aneddoto. Raccontò
l’episodio in cui fu trovato svenuto all’interno della sua
Cadillac dopo che si era scolato due bottiglie di champagne, in
compagnia di una prostituta che cercava di rianimarlo in pieno
centro a Memphis dove visto da molti uomini cominciarono a
deriderlo. Duncan scoppiò a ridere interrompendo il racconto
di Elvis. Provocò in lui un silenzio agghiacciante. La risata
durò pochi secondi. La tensione sul volto di Duncan iniziava a
farsi notare sempre più. Le palpebre si aprivano e chiudevano a
una velocità assurda. Con i denti continuava a mordersi il
labbro inferiore. Trascorsero cinque minuti dal momento della
risata fino alla reazione di Elvis. Minuti interminabili. In
cinque minuti Duncan arrivava da casa sua a scuola. Da casa
sua fino al bar in piazza. Quei cinque minuti per l’italiano
significavano solo una cosa. La morte.
Quello che sorprese il musicista però fu una realtà ben
diversa. Lo scellerato invece di inveire contro di lui si mise a
ridere come un bambino. La risata gli sopraggiunse mentre
stava mangiando un altro panino. Tentò più volte, con un colpo
sul petto, di riprendere fiato. Dovette intervenire Duncan
porgendogli il bicchiere con dentro la bevanda. Fortunatamente
si risolvette tutto senza nessuna conseguenza. La goffaggine
dell’uomo non gli permetteva più neanche il lusso di ridere. Il
suo corpo ne subiva inesorabilmente le conseguenze. La risata
forte gli aveva provocato una fitta al collo. Dovette chiamare
un altro componente della Memphis mafia che con un
210
massaggio veloce calmò il dolore. L’uomo sparì
immediatamente.
Elvis, decisamente più disteso, ricominciò a parlare con
l’italiano portando alla luce i ricordi delle serate in cui cantava
a squarciagola Volare di Domenico Modugno e quando incise
un suo testo sulla base del successo di Pino Donaggio Io che
non vivo.
Duncan notò che parlare di quella che era stata la sua vita, lo
tranquillizzava. I suoi ricordi s’intersecavano tra di loro,
ricucivano quello strappo con il passato. Da un po’ di tempo si
era allontanato dal mondo. Secondo Duncan era stato tutto il
suo entourage a estraniarlo. I medici continuavano a
mantenerlo in piedi, tranquillanti per farlo dormire, continue
diete per farlo dimagrire. Erano tutte situazioni che al contrario
infastidivano quell’ammasso. Era intenzione dell’uomo
starsene in casa senza far niente, sbattendosene dei concerti,
della fama e dei fans. Avrebbe sicuramente ritrovato la pace
con se stesso dilapidando tutto il suo patrimonio, senza lo
stress di portare avanti tutto quello che si era creato intorno a
lui. Poteva benissimo decidere di finirla con la musica. Godersi
la sua residenza. Le giornate trascorse a mangiare e a bere. Le
attenzioni della seconda moglie.
Trascorsero quattro ore a chiacchierare. Lo stronzo si era
calmato. Non riusciva a prendere sonno. Aveva già ingoiato
tredici tipi di tranquillanti. Nessuno gli aveva fatto effetto. Era
una condizione che durante tutta la discussione rimarcò più
volte. Per lui non riuscire a dormire era diventato un incubo.
211
Duncan, da parte sua, aveva gli occhi ormai quasi chiusi dal
sonno. Erano le quattro e mezzo del mattino, voleva a tutti i
costi mettersi a letto e riposare. L’ippopotamo non ne voleva
sapere di lasciare andare via l’italiano. Si era scusato per il
modo in cui si era rivolto verso di lui.
All’insistenza di Elvis si era contrapposto un altro problema.
L’essere inutile confidò a Duncan della costipazione di cui
soffriva. Elvis non riusciva ad andare in bagno. Quella
chiacchierata con l’italiano lo stimolò a tal punto che dovette
accompagnarlo al cesso. Duncan non credeva alle sue orecchie
quando ascoltò la richiesta dell’esaurito. Non poteva alle
cinque del mattino contraddire quella specie di psicopatico.
Avrebbe rovinato tutto. Avrebbe trascorso una notte in bianco
cercando poi di sedare l’ira di Elvis.
«Duncan parlare con te mi ha rasserenato. Ogni volta che
cerco di parlare con qualcuno, il discorso vira sempre sui
concerti, sui dischi e sui soldi. Con te ho finalmente avuto una
discussione tranquilla, senza sentirmi addosso il peso della
responsabilità. Per favore accompagnami fin sopra il cesso.»
Da musicista ad accompagnatore di persone inabili. Che
destino crudele si stava compiendo nei suoi confronti. Credeva
di vivere in America per suonare, per diventare qualcuno,
crearsi una fama, girare per la città attorniato dai fans. Invece
eccolo con quel lurido raccoglitore di cibo e di sudore, in quel
cazzo di lussuoso bagno. Che poi a cosa servisse un bagno
extra lussuoso se non si riesce a cagare fu una domanda che
affollò la mente di Duncan.
212
Elvis non si reggeva in piedi. Riusciva a camminare a fatica.
Sembrava molto provato. Per quelle ragioni chiese a Duncan di
aiutarlo.
La lunga serata di Duncan non era ancora finita. Non
contento Elvis chiese all’italiano di rimanere con lui chiuso nel
bagno. Quello che si mostrò agli occhi del chitarrista fu uno
spettacolo deprimente. L’ammasso di lardo si era seduto sul
cesso con addosso solo i pantaloni del pigiama. Era il 16 di
Agosto. A Memphis faceva un caldo pazzesco. Era riuscito
involontariamente a sedersi centrando il buco. In quelle
condizioni e con tutto quel lardo non ci sarebbe mai riuscito di
sua spontanea volontà.
Duncan era imbarazzato. Quando Elvis si accorse che
l’italiano si sentiva a disagio si girò verso di lui e con una
battuta ritornò su quanto successo la sera in cui era caduto
rovinosamente sul chitarrista. Accennò a una risata interrotta
da un tentativo di espulsione. Tentativo fallito.
Duncan proseguì con il racconto di tutte le serate in cui il
suo vecchio bassista lo aveva atterrato. Di quando sul palco
iniziava a girare come una trottola impazzita. Elvis chiese a
Duncan se mai gli e l’avesse fatta pagare in qualche modo.
Duncan sorridendo fece sì con la testa. Elvis si fermò un
istante. Dopo aver fallito anche il secondo tentativo di
espulsione, si girò verso l’italiano e si fece raccontare tutto.
Duncan ricostruì l’accaduto con molta precisione,
incuriosendo molto Elvis. Raccontò che il giorno in cui si
vendicò aveva visto l’amico in un locale di Londra. Ubriaco.
213
Cercava di adescare una ragazza che non voleva saperne di
andare con lui. Lui e Aldo, un suo amico italiano, si erano
accorti del disappunto della ragazza. Passarono dietro l’uomo
senza farsi vedere. Con un gesto impercettibile toccò il braccio
del bassista facendogli versare il composto del bicchiere sul
vestito della ragazza. Lei si mise a urlare correndo nel locale
dove chiese aiuto ai suoi amici. Appena giunti fuori dal locale
usarono il bassista per sfogare tutta la rabbia. L’amico finì in
ospedale tutto ammaccato, con dieci giorni di prognosi per
alcune ferite che aveva riportato al capo. Elvis fissò Duncan
per qualche secondo. Lo sguardo era assente. Quasi come se
l’ammasso di lardo si stesse ricostruendo tutto l’accaduto.
Quando il suo cervello giunse alla fine dell’ultima scena,
scoppiò a ridere forte. Talmente forte che a un tratto iniziò a
soffocare, a impallidire, a non riuscire più a emettere suoni.
Duncan piombò nel panico più assoluto. Alle richieste di aiuto,
da parte dell’ippopotamo, seppe rispondere solo colpendolo
alla schiena per farlo respirare, aiutandolo ad alzarsi.
All’ennesimo tentativo fallito decise di uscire dal bagno, di
scappare dalla stanza. Chiuse immediatamente la porta e si
diresse in camera sua.
Dopo la lite avuta nella notte la donna di Elvis, si era recata
nella stanza. Voleva parlare con l’uomo quando si trovò di
fronte all’imbarazzante spettacolo. L’uomo era steso a terra.
Privo di forze. Con la bocca serrata. Uscì dalla stanza gridando
come una pazza. Accorsero i componenti della Memphis
214
Mafia, il padre dell’artista e il medico che si gettò subito
sull’uomo.
«E’ un attacco cardiaco! Chiamate subito un’ambulanza.»
Gridò il dottore.
La situazione era drammatica. Arrivò in bagno persino la
figlia dell’artista che fu subito allontanata. Elvis non respirava.
Ci vollero due persone per sollevarlo, per portarlo sul letto in
attesa dell’ambulanza. Quando arrivò, vani furono i tentativi di
rianimarlo. Durante il trasporto ne fu dichiarata la morte per
arresto cardiaco.
Nella baraonda che si era creata nessuno si era insospettito
di nulla. Elvis la sera prima era rimasto a parlare con Duncan
nella sua stanza. Nonostante quel particolare nessuno poteva
accusarlo. L’uomo era al limite delle sue possibilità. Tutti
sapevano che non avrebbe resistito a quello stato psicofisico.
L’arresto cardiaco ne fu la causa più scontata.
Duncan aveva già vissuto esperienze simili e sapeva come
comportarsi. Uscì dalla sua stanza e si recò nella stanza, dove
fu subito interrogato dallo staff. Disse che aveva trascorso
qualche ora con Elvis. Che era ritornato in camera sua appena
dopo il massaggiatore era uscito dalla stanza di Elvis alle due
di mattina. La descrizione dell’italiano non destò sospetto. Fu
incaricato di avvertire il resto della band su quanto era
accaduto.
I funerali furono strazianti. Tutti piangevano l’artista
scomparso. Il re del Rock era deceduto dopo un arresto
cardiaco. Aveva lasciato nello sconforto l’intera famiglia, i
215
membri del gruppo, lo staff e tutti i fans. Ne parlarono i T, i
giornali e le radio. Il mondo intero commemorò la star.
Duncan non riusciva a darsi una spiegazione plausibile
dell’accaduto. Seduto sul letto, si preoccupava e rideva. Non
riusciva ad arrendersi all’idea di quella morte talmente insulsa
quanto strana. Voleva vendicarsi magari uccidendolo con un
colpo in testa o facendogli bere qualche bevanda miscelata ai
medicinali che assumeva. Non in quel modo.
Decise comunque di cambiare aria. Con la scusa di dover
ritornare in Inghilterra si divincolò senza problemi dal gruppo e
dal resto della combriccola. Senza dare altre spiegazioni si
diresse verso un’altra città. Non sapeva dove andare. Dopo
aver attentamente vagliato la cartina dell’America, decise che
sarebbe comunque rimasto nel nuovo continente.
216
Capitolo VIII
Aldo fu accolto da un capannello di poliziotti. Pronti a
fermarlo, per portarlo direttamente nell’ufficio di Smith. Teso e
preoccupato restò muto per tutto il tragitto. Ogni tanto
guardava in faccia i poliziotti. Non ebbe mai il coraggio di
chiedere il perché di quella specie di arresto. In definitiva non
si trattava di un arresto. Solo una semplice chiamata per
deporre una testimonianza davanti al detective. Lasciare alcune
dichiarazioni riguardanti l’italiano conosciuto qualche anno
prima.
Smith fissava Aldo con aria sospetta. Sapeva di non
intimorire neanche un cefalo con quello sguardo. Gli serviva
per trovare il coraggio di affrontare quei tipi d’interrogatori.
«Quando hai conosciuto Duncan?»
«Dieci anni fa.»
«Come vi siete conosciuti?»
«Si è presentato al bar per caso. Mi sono accorto che era
italiano e ho iniziato a parlargli. L’ho aiutato a trovare casa. Da
allora siamo diventati buoni amici.»
«Cosa sai di lui?»
217
«So che suona la chitarra e che ha suonato in piccoli gruppi
londinesi. So che ha viaggiato ma non lo vedo da molto tempo.
Gli è successo qualcosa?»
«Sta bene. Stiamo solo cercando di capire qualcosa in più su
di lui.»
«Perché?»
«Queste sono faccende che non ti riguardano. Raccontaci
qualche suo vizio, qualche sua mania, qualche sua
caratteristica.»
«Parla un Inglese poco corretto. Da quando ci siamo
conosciuti, non ha fatto altro che parlarmi della sua passione
per la chitarra e della nostalgia per la sua città.»
«Non sai dirmi altro? Beve? Si droga?»
«Ma no! In dieci anni gli ho visto bere solo ed
esclusivamente caffè»
«Caffè?»
«Sì. Caffè.»
Una smorfia di disappunto si stampò in faccia al detective.
Non poteva credere in quello che aveva appena ascoltato. Mesi
e mesi di presunti rapporti con il mondo più sporco dello star
system disintegrati da una scioccante confessione.
«Ne sei sicuro?»
«Certo. Noi italiani amiamo il caffè. Anche se ci trasferiamo
in un’altra nazione, non riusciamo a fare a meno di bere caffè.
L’unico problema è quello del sapore. Totalmente diverso
rispetto a quello prodotto nei bar italiani. Duncan per ovviare a
218
quel disgustoso sapore mi chiedeva sempre di macchiarglielo
con del latte freddo.»
Rassicurato del fatto che all’amico non fosse successo nulla
continuò a parlare a ruota libera. Dopo due ore d’interrogatorio
commise il più grande errore. Confidò al detective il vero nome
di Duncan.
«Per la fretta di lasciare il commissariato stavo
dimenticando di dichiarare il vero nome di Duncan.»
«Dimmi Aldo!»
«Il vero nome di Duncan è Domenico Volpe.»
Senza parlare Smith piegò la testa come segno di
ringraziamento, per l’importante confessione. Anni d’indagini
completamente buttati al vento. Per molto tempo Smith aveva
indagato consultando gli archivi su tutti i delinquenti di
Londra. Aveva spulciato archivi riguardanti arresti per droga.
Aveva sempre creduto che la vita di Duncan si svolgesse
all’interno di quell’ambiente. Se vuoi diventare qualcuno o se ti
trovi a stretto contatto con alcuni personaggi, devi per forza
fare uso di certe sostanze. Altrimenti vieni allontanato.
Tutto da rifare. Tutto rimesso in discussione. Come poteva
un idiota del genere trovarsi coinvolto in certe morti? Smith
aveva rimesso in discussione anche le parole del costruttore,
amico di Brian Jones. Non riusciva più a trovare un nesso
logico a tutti quei collegamenti. E poi quel nome. «Sono un
coglione. Un presuntuoso. Credo sempre di trovarmi chissà che
criminale davanti per poi scoprire che sono sulle tracce di un
perfetto idiota. Di uno che ha banalmente cambiato il suo nome
219
italiano facendo la traduzione letterale del suo cognome. Fox
equivale chiaramente a Volpe.»
In preda ad una crisi isterica iniziò a lanciare in aria tutti i
fascicoli finiti sulla sua scrivania, creati appositamente per
portare avanti quell’indagine. Il ritorno a casa gli risultò
traumatico. Davanti a sé aveva il buio più totale. Il giudice era
stato chiaro. Un passo falso e sarebbe finito a ramazzare i
giardini della città.
New York si presentò agli occhi di Duncan come un luogo
di rinascita. Affascinante in tutta la sua bellezza. Voleva per
sempre abbandonare la musica. Dedicarsi completamente ad
altro. A cosa? Poteva solo ed esclusivamente lavorare in un
negozio di strumenti musicali. Di dischi. Se mai non avesse
trovato impiego in uno di questi settori, si sarebbe dedicato al
lavoro di cameriere. Quando era a Londra, si fermava spesso a
guardare Aldo. Lo fissava mentre portava ai tavoli le bevande
ordinate. Aveva quasi appreso il lavoro spiando i gesti
dell’amico.
Smith doveva trovare una soluzione. L’indiziato di tutti
quegli omicidi era ancora in circolazione ma non sapeva da
dove iniziare. Non sapeva ancora esattamente se fosse a
Londra. Se fosse già scappato altrove. Dopo quella brillante
considerazione pensò bene di effettuare un controllo presso
l’ambasciata italiana.
Quando la fortuna deve girare, lo si capisce da alcuni gesti
impercettibili. Una confessione utile appena portata a termine.
220
Una brillante idea dopo pensieri confusi. Il taxi pronto a
portarti via appena uscito dal commissariato.
Il viaggio verso l’ambasciata si dilungò moltissimo per via
del traffico e dei continui semafori. Si rivelò oltremodo
benefica per Smith. Nel silenzio di quell’abitacolo poté
riordinare le proprie idee. Duncan aveva incontrato le sue
vittime. Accecato dall’odio, decise di farli fuori tutti. Nei
particolari delle vittime si notava che tutti facevano usi di
sostanze stupefacenti, che si trattava di personaggi sull’orlo del
declino. Qualche domanda qua e là e Smith si trovò con le
informazioni necessarie. Duncan Fox aveva chiesto il
passaporto e il permesso per poter volare in America. La
scoperta fu meravigliosa. Sconvolgente allo stesso modo. Un
continente vastissimo da setacciare scrupolosamente. Una cosa
impossibile. Un’altra folgorante idea accese le speranze del
detective. Si sarebbe recato all’aeroporto per chiedere la città di
destinazione dell’ultimo volo di Duncan.
Il direttore dell’aeroporto fu cortese. Cercò negli archivi la
prenotazione di Duncan. Le ricerche portarono al risultato tanto
desiderato. Duncan si era diretto a Hollywood.
Smith non aveva mai fatto uso di stratagemmi particolari per
scoprire alcuni presunti assassini. Questa volta era cosciente
che doveva provare ben altro per giungere alla scoperta
dell’italiano. Un suo vecchio compagno di università aveva
intrapreso lo stesso percorso di Smith. Nella polizia. Poi finì
nei servizi segreti. A lui avrebbe chiesto il favore di ricavare
indicazioni precise sugli spostamenti di Duncan.
221
Passarono all’incirca tre settimane prima di ricevere la tanto
attesa notizia. Nell’itinerario costruito dall’amico Smith poté
notare gli spostamenti dell’italiano una volta giunto nel
continente americano. All’arrivo a Hollywood aveva parlato
con un produttore che lo aveva mandato a Memphis per
suonare nella band di Elvis. Dopo la morte dell’artista si era
trasferito a New York.
Fu una scoperta agghiacciante. Qualche anno prima Elvis
era morto per cause naturali mai accertate. Sulla sua morte
veglia un’ombra di mistero. Smith sapeva che poteva esserci lo
zampino di Duncan. Decise di richiedere tutti i documenti e di
volare subito in America.
Trovare un gruppo a New York non era facilissimo. Duncan
aveva pensato bene di setacciare tutti gli studi di registrazione.
Capire se per lui c’era la possibilità di suonare con qualcuno.
La risposta che ricevette in tutti gli studi era quella di lasciare
un suo recapito. Se ce ne fosse stato bisogno, lo avrebbero
richiamato. Alloggiava in un Motel. Lasciò a tutti il numero del
centralino. Sapeva che sarebbe passato molto tempo prima di
una convocazione. Decise di trovarsi un impiego in modo da
poter sopportare le spese dell’alloggio. In modo da mettere da
parte qualcosa qualora avesse avuto bisogno di completare la
sua attrezzatura per un’eventuale chiamata.
Inizialmente cercò lavoro presso un negozio di strumenti
musicali. La ricerca risultò essere efficace. Riuscì a strappare
un contratto presso il Guitar Salon. Fu preso in simpatia dal
proprietario tant’è che decise di affidargli un compito molto
222
importante. Gestire la clientela durante l’acquisto di una
chitarra. Quel ruolo non gli fu regalato perché il proprietario si
era impietosito. Durante il colloquio, Duncan, aveva riferito
allo stesso tutte le sue partecipazioni come chitarrista nei
progetti musicali di Brian Jones, di Janis Joplin e di Elvis.
Il viaggio per Memphis fu alquanto faticoso e duro. Non
amava volare. Una piccola tormenta, in pieno oceano, aveva
provocato nel detective uno stato di ansia, sedato solo da
qualche tranquillante somministratogli dal personale di bordo.
Memphis era bellissima. La città di Elvis. Fu naturale per
Smith gironzolare per la città. Pensò che doveva informarsi su
come avrebbe potuto incontrare qualche membro dello staff di
Elvis, in modo da poter chiedere di Duncan. Scoprire se
realmente avesse preso parte agli ultimi giorni della star. Si
accorse che la cosa non era facile come poteva sembrargli. Lo
staff della star non rilasciava informazione per nessun motivo
al mondo. Da quando era scomparso Elvis, polizia, servizi
segreti e giornalisti attorniavano il quartier generale.
Graceland. L’entourage si chiuse in un silenzio stampa in modo
che nessuno potesse più speculare sulla morte dell’artista.
L’unica cosa da fare era chiedere delucidazioni sul caso alla
polizia locale, in modo da avere qualche dettaglio in più.
L’interrogatorio ad Aldo aveva portato scompiglio nelle
idee di Smith. Fortunatamente ogni cattiva novella nasconde
sempre un lieto fine. Da quando aveva strappato tutti i
fascicoli, aveva adottato misure investigative più semplici.
Molto più congeniali. Come successe in Inghilterra, anche in
223
America avrebbe chiesto aiuto all’ambasciata inglese e italiana.
Tutti i detective davanti ad un personaggio straniero chiedono
conferma presso le ambasciate. Duncan si trovava in America.
Precisamente a New York. Smith sapeva che adesso le ricerche
potevano restringersi solo in quella città. Non sapeva da dove
iniziare. Stanco dal lungo viaggio si diresse in albergo per
distendersi, per rinfrescare i suoi pensieri distrutti dalla
confessione di Aldo.
Vivere in una città come New York voleva significare
incontrare grandi star. Lavorare in un negozio di strumenti
musicali ti permette di incontrare ogni tipo di personalità.
Girava voce che da qualche tempo John Lennon avesse
ripreso a registrare un nuovo album. John viveva a New York
con sua moglie. Yoko Ono. Al Dakota Building, sulla 72a
strada nell’Upper West Side. Portava avanti le registrazioni di
alcuni brani che sin da giovane aveva iniziato a cantare quando
si era cimentato nello studio della chitarra.
Per la registrazione di quei pezzi si era affidato al suo tanto
amato piano. Per la chitarra era alla ricerca di un nuovo
modello che potesse dargli quel timbro moderno, in modo da
rinfrescare alcune canzoni di venti anni prima.
Nei locali musicali di New York non si parlava altro di
questo nuovo ritorno. Lennon e Ono. Quando Duncan era a
Londra, non si faceva altro che parlare dei Beatles, del loro
successo mondiale, della capacità compositiva che avevano
Paul McCartney e John Lennon. Ogni loro singolo schizzava in
testa alle classifiche di vendita. Ogni loro canzone diventava un
224
successo. In quel periodo, in Inghilterra, solo un gruppo
riusciva a tenergli testa. I Rolling Stones. Al contrario di
quanto si vociferava i due gruppi non entrarono mai in
collisione. Negli anni in cui Lennon decise di abbandonare la
carriera musicale Mick Jagger tentò più volte di dissuadere l’ex
Beatles. Sperava di convincerlo a comporre nuovi brani.
Duncan ricordava che ogni concerto dei Beatles coincideva
con il pubblico in delirio. Pazze assatanate pronte a gridare ai
loro piedi. Duncan si chiedeva cosa ci trovassero di
affascinante in quei quattro. Forse solo George Harrison poteva
vantare qualche tratto somatico decente. Forse anche Paul
McCartney. Per il resto Ringo Star e John Lennon non
possedevano quella bellezza tale da indurre le donne a morire
ai loro piedi. Ovunque andassero e qualsiasi cosa facessero
erano considerati i migliori in assoluto. Duncan ricordava
anche il periodo in cui nella band iniziarono i primi problemi.
Il legame di John con Yoko coincise con i primi dibattiti fra i
quattro amici. Il clima sempre più teso. Lennon impegnato
sempre e costantemente su altri fronti complicò molto il
cammino della band. Nel giro di pochi anni decise di
sciogliersi definitivamente.
Da quando Lennon aveva lasciato il gruppo, aveva creato
solo problemi alla sua persona. Era costantemente sotto il
bersaglio della critica. Spesso e volentieri gli veniva negato
l’accesso negli Stati Uniti perché aveva fatto uso di droga.
Spesso perché lasciava dichiarazioni scomode riguardo la
guerra.
225
Smith aveva lasciato riposare il suo corpo e la sua mente
stremata. Sapeva che doveva rimettersi subito a cercare il
pazzo prima che compiesse qualche inutile gesto. Purtroppo
non sapeva proprio da dove partire. Chi avrebbe potuto
uccidere questa volta? New York era piena di artisti e di figure
musicali importanti. Non sarebbe stato facile decifrare la
possibile vittima. Decise comunque che si sarebbe
incamminato per le vie della città in modo da farsi un’idea
generale dell’ambiente e della vita frenetica del posto. Spaesato
e vistosamente impacciato non ci pensò due volte a ritornare in
hotel. Affranto e privo di speranza si accomodò su una
poltroncina della hall. Cercò di trovare ispirazione per poter
ripartire con il caso.
Il Guitar Salon ogni giorno ospitava centinaia di musicisti.
Famosi. Sconosciuti. Semplici appassionati. Tutti pronti ad
acquistare uno strumento. Una muta di corde. Qualsiasi altro
tipo di oggetto musicale.
Era una mattinata soleggiata ma fredda. Il tepore estivo di
settembre stava lentamente lasciando i fasti alla mite
temperatura di ottobre. Duncan stava spolverando gli strumenti
e nello stesso tempo stava consigliando un giovane ragazzo
nell’acquisto di una chitarra elettrica. Lui optava sempre per la
Fender. Il suo amore. Quando ne descriveva le caratteristiche,
gli s’illuminavano gli occhi. Quel suo modo di presentare lo
strumento ammaliava quasi tutti. Almeno tre volte al giorno
riusciva a venderne una. Era diventato un discreto venditore. Il
proprietario dell’emporio se ne vantava. Certe giornate si
226
contrapponevano a quelle in cui la pazienza arrivava al limite.
Veniva oltrepassata. Proprio in quei momenti Duncan preferiva
lasciare il negozio per fare quattro passi a piedi.
Anche quella non era iniziata con il piede giusto. Una testa
di cazzo gli aveva fatto perdere quasi tutta la mattinata senza
però concludere l’acquisto perché incerto su alcune
caratteristiche delle chitarre. Duncan era alterato ma fissando
gli occhi del proprietario riuscì a calmarsi senza dover per
forza abbandonare il locale. Ogni qual volta si apriva la porta
c’era da aspettarsi sempre un personaggio diverso. Quello che
era appena entrato non poteva paragonarsi a nessun altro di
quelli passati nel negozio nella mattinata.
Uno stile inconfondibile. Occhialini tondi nascondevano un
viso longilineo. Capelli lunghissimi e un cappello nero. Faceva
il suo ingresso nell’emporio John Lennon. L’ingresso non
sembrò turbare il proprietario. Era abituato a vedere star della
musica. Forse John l’aveva visto entrare più di una volta.
Premuroso si avvicinò ugualmente per accoglierlo e
accompagnarlo verso la stanza dove Duncan lo avrebbe
sostenuto durante l’acquisto dello strumento.
Il proprietario fece un cenno a Duncan come per dirgli di
stare calmo e di assecondarlo in ogni sua richiesta. Sapeva che
l’acquisto di John era facoltoso. Non poteva permettersi di
lasciarselo scappare. John iniziò a guardare e a toccare tutti i
tipi di chitarre. Da quelle acustiche a quelle elettriche. Ne
prendeva una appesa e dopo averla provata, la lasciava
poggiata sullo scaffale. Duncan doveva pazientemente
227
rimetterla al suo posto. In qualche occasione Duncan espresse
il suo parere riguardo al modello. Furono parole che non
sembravano urtare in nessun modo l’artista che scrutava
inesorabilmente ogni modello, lo suonava e lo rimetteva a
terra. Continuò così per qualche ora. La pazienza di Duncan era
arrivata al limite. Ogni qual volta apriva bocca John lo fissava
come per dirgli di stare zitto. Con quell’aria di superiorità che a
Duncan faceva girare le palle. Gli faceva salire la pressione
innescando in lui una specie di bomba a orologeria. Pronta a
scoppiare da un momento all’altro.
Si decise ad acquistare una chitarra. Dopo averla riposta
nell’apposita custodia salutò il proprietario. Aprì la porta e uscì
dal negozio. Senza nemmeno fare un cenno all’ormai esausto
Duncan. «Pezzo di merda. Ti senti essere dio in cielo ma sei un
coglione qualunque. Hai avuto solo la fortuna di vendere dischi
e di combinarne una dopo l’altra accrescendo la tua visibilità.
Ti permetti di sentirti importante. Con aria di superiorità non ti
degni neanche di regalare un gesto a chi ha avuto la pazienza di
starti dietro, chi ha avuto la pazienza di assecondare le tue
manie. Stupide. Insulse. Vaffanculo stronzo di merda.»
Duncan non riuscì a dire niente. Si sarebbe preso il resto del
pomeriggio per rilassarsi e per dedicarsi anche alle sue attività.
Aveva deciso che il giro degli studi di registrazione sarebbe
continuato. Doveva far circolare il suo nome. Sperava che
qualcuno lo scegliesse per farlo suonare in qualche gruppo.
Le scoperte non arrivano mai con un nesso logico. Ci si
accorge di aver capito il meccanismo solo quando tutto sembra
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ormai finito. Si dice che leggere aiuta a istruirsi. Leggere i
giornali ti fa capire come va il mondo, la politica e la cultura.
Leggere una rivista ti dà qualche nozione in più riguardo a una
pellicola cinematografica, a una scoperta scientifica e al mondo
dell’arte. Smith senza nemmeno accorgersene e senza
nemmeno farlo apposta si era trovato davanti la risoluzione del
caso. Aveva appena letto che John Lennon si era rimesso a
comporre e a registrare. Qui si accese la scintilla del detective.
«Se quel coglione si trova a New York, se veramente
appassionato di musica, se veramente voglioso di ribalta farà di
tutto per finire a suonare con la star ex Beatles. Come cazzo ci
arriverà mai a suonare con lui?»
Fu una domanda a cui non riuscì a trovare risposta. L’unico
modo per scoprirlo era quello di rimettersi sulle sue piste. Un
musicista che vuole suonare gira tutti gli studi di registrazione,
in modo da far circolare il suo nome. Da qui sarebbero ripartite
le ricerche del detective.
La scoperta fu esaltante. In ogni studio di registrazione
scopriva che Duncan aveva lasciato il suo nominativo, in modo
che venisse ricontattato. L’altra buona notizia, che aveva
rallegrato la giornata di Smith, era la scoperta del numero di
telefono e di conseguenza dell’indirizzo del motel dove
Duncan alloggiava. Poteva seguirlo. Pedinarlo. Scrutarne ogni
minimo movimento. Mai come in quel momento Smith si
sentiva orgoglioso di tutto il lavoro svolto. Erano ormai anni
che seguiva quell’esaurito. Non poteva affermare con certezza
che fosse lui il vero colpevole di tutte quelle morti. Era solo
229
sicuro della sua presenza in quelle notti. Doveva solo attendere
pazientemente. Fremeva dalla voglia di incastrare quella
grandissima testa di cazzo. Voleva capire il perché di quei
gesti. Cosa si nascondesse dietro quella sua apparente
tranquillità. Il tabellino da seguire era pronto. Recarsi vicino la
residenza dell’italiano. Pedinarlo. Scrutarlo. Capirne
movimenti e atteggiamenti. Incastrarlo.
Il motel dove alloggiava l’italiano non era molto distante dal
suo hotel. Questo gli avrebbe permesso di poterlo sorvegliare
con più frequenza. Con più cura. Lo vide uscire dall’ingresso
principale e percorrere la lunga strada che conduceva fino al
bar dove si fermava a fare colazione. Aspettò la sua uscita per
continuare a pedinarlo. Dopo qualche miglio lo vide entrare nel
negozio di musica. Vi uscì solo in serata. Smith era sconvolto
per la lunga attesa. Dedusse che l’italiano lavorasse in quel
negozio. Il pedinamento inverso. Duncan si fermò in un locale
a mangiare qualcosa e poi dritto in motel.
Dalle dichiarazioni di Aldo aveva capito alcune abitudini
dell’uomo. Alla voce bar fece partire una freccia con sopra
scritto caffè macchiato freddo. Alla voce negozio musicale una
freccia con sopra scritto passione per la chitarra.
Non sapeva effettivamente se Duncan conoscesse le
intenzioni di John Lennon, se aveva avuto richieste di lavoro
da parte dell’entourage dell’artista e se sapesse dell’esistenza
dell’ex Beatles a New York. Questi furono dettagli che
sottolineò dandogli comunque meno importanza.
230
Duncan non riusciva a dimenticare il comportamento di
Lennon. Non poteva non provare odio per come si era
comportato. Non riusciva a togliersi dalla testa gli sguardi
scontrosi della testa di cazzo. Quel suo modo indisponente di
trattare un semplice commesso di un negozio di musica. Per
come si era approcciato e per come si era comportato, capiva
bene il perché dello scioglimento del gruppo britannico. Le
poche nozioni che aveva acquisito sul gruppo lo avevano
messo alla guardia sul caratteraccio dell’infame. Le parole
dette dai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Duncan
aveva avuto la conferma che il coglione si era bevuto il
cervello dopo tutta la cocaina che aveva assunto.
Smith era sempre alle sue costole. Lo seguiva come
un’ombra. In un paio di circostanze destò sospetti anche agli
organi di polizia presenti sulle strade. La cosa più ridicola, ogni
qual volta usciva per pedinare Duncan, era quella di incontrare
qualche suo collega americano. Dover ogni volta dare delle
spiegazioni. Ogni pedinamento era intervallato da colloqui con
la polizia cittadina. Puntualmente farsi riconoscere diventava
un problema. La diffidenza iniziale degli agenti difficilmente si
lasciava frugare. Solo accurate spiegazioni lo resero libero di
proseguire il suo lavoro.
L’abituale cammino di Duncan incoraggiò il detective a
portare la ricerca al livello successivo. Decise che avrebbe
sostato nel bar dove abitualmente si fermava a fare colazione.
Voleva confermare la veridicità delle affermazioni di Aldo.
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La mattinata non era delle migliori. Non faceva caldo ma la
temperatura fresca non permetteva di stare in giro senza aver
addosso un capo. Il locale non era pienissimo. C’era il solito
via vai di persone che entravano. Solo per un caffè o solo per
mangiare qualcosa. Smith non sapeva come riuscire ad
avvicinare l’italiano. Lo vide entrare e sedersi in un tavolino in
fondo al locale. Con aria disinvolta e con molta calma riuscì a
sedersi qualche tavolino prima. Duncan attendeva l’arrivo di un
cameriere. L’attesa fu spasmodica. Il cameriere impiegò
qualche minuto. Appena si diresse verso l’italiano Smith cercò
di stare attento alle parole che uscivano dalla bocca del cliente.
Un boato tremendo dovuto a un incidente avvenuto appena
fuori il locale non permise al detective di ascoltare la
conversazione fra i due. Vistosamente incazzato, per non essere
riuscito a capire l’ordinazione di Duncan, uscì dal locale per
seguire le vicende dell’incidente. Stizzito come non mai, si
diresse in hotel. Avrebbe valutato qualche altra azione da
intraprendere per scovare l’italiano.
Un altro giorno d’inseguimento non sarebbe servito a niente.
Doveva rimanere concentrato in modo da trovare qualche
soluzione. Doveva inventarsi un modo per poter fermare quel
pazzo prima che si preparasse a compiere un altro folle gesto.
Smith aveva letto di Lennon. Sapeva che a New York erano
tante le celebrità musicali che registravano e suonavano lì. Non
poteva e non doveva fissare l’attenzione solo su uno di essi. Il
modo migliore per evitare l’ennesima vittima era quello di
232
bloccare l’italiano. Farlo confessare. Consegnarlo alla polizia.
Spedirlo direttamente in prigione. Farlo processare.
Già immaginava i titoli sui giornali. “Il Detective Smith
scova il killer delle celebrità”. Non faceva altro che pensare a
come sarebbe cambiata la sua vita portata a termine quella
missione. La sua fama sarebbe accresciuta talmente tanto che
una promozione non gli e l’avrebbe negata nessuno. In
Inghilterra e nel resto del mondo il suo nome sarebbe finito su
ogni tipo di giornale. Di rivista. Avrebbe concesso interviste a
tutti. Sarebbe diventando il primo detective a risolvere quegli
enigmatici omicidi.
Per fare questo doveva escogitare un modo per incastrare
l’italiano. Sguardo fisso al cielo. I pensieri barcollanti tra il
caso Duncan e le presunte interviste da rilasciare, pensò bene
di fare il passo più semplice. Riuscire a lavorare in quel locale
in modo da seguire per qualche giorno Duncan. Entrarci in
confidenza. Fargli uscire dalla sua bocca qualche confessione.
Nel bel mezzo della chiacchierata smascherarlo. Arrestarlo.
Tutto talmente semplice a parole ma non nei fatti. Lui non
aveva mai lavorato prima in un caffè. Non sapeva preparare
una colazione. Non sapeva neanche servire ai tavoli. Doveva
trovare un modo per convincere il proprietario ad assumerlo.
Duncan era riuscito a vendere una chitarra. La classica
spiegazione. I vantaggi di suonare quella marca. Il perché
suonare quel modello. Il musicista non poteva non acquistare il
prodotto. Duncan lo sapeva che quel suo modo di fare poteva
rivelarsi efficace con chiunque. Più pensava a Lennon più gli
233
marciva il sangue. In quei giorni era entrato in contatto con
molti musicisti. Tanti anche famosi. Clapton era entrato a
comprare una chitarra. Aveva le sue affidabili fender. Aveva
bisogno sempre di modelli nuovi da integrare nel suo pacchetto
di chitarre utilizzate durante i live. Nonostante Clapton fosse
allo stesso livello di Lennon, si era mostrato molto più umano.
Aveva conversato con Duncan regalando nuove nozioni
all’italiano. Era sempre felice di accrescere le sue conoscenze
riguardo la chitarra. Bryan May dei Queen era finito in quel
negozio. Anche lui aveva parlato con Duncan raccontandogli la
storia della sua chitarra personale nata dalle mani del padre e di
quel suo modo originale di suonare le sue corde con una
moneta e non con il classico plettro di plastica.
Non tutti si dimostrarono aperti verso l’italiano. Tanti altri
grandi personaggi famosi fecero a meno dei consigli di
Duncan. Comunque si dimostrarono gentili e cortesi allo stesso
modo, salutandolo e ringraziandolo prima di uscire dal
negozio.
Il pranzo Duncan lo acquistava in una rosticceria molto
vicina al negozio. Lo consumava nel retro insieme al
proprietario e agli altri commessi. Quel giorno aveva deciso di
consumarlo seduto al tavolino del locale in modo da distrarsi
un po’ dal lavoro.
Si era da poco trasferito a New York e non conosceva
nessuno. Girovagava per le strade e per i locali della grande
mela. Oltre a scambiare qualche sguardo con qualche ragazza,
mai ripagato, non riusciva a interagire con nessun altro.
234
Fare la conoscenza di qualcuno avviene in maniera casuale e
spesso per futili coincidenze. Duncan come al solito era seduto
alla fine del locale. Davanti a lui un tavolino vuoto. Al tavolino
seguente un ragazzo. Sul tavolino che divideva i due ragazzi,
era poggiato il giornale. Lì era riportata la notizia dell’uscita
del nuovo album di Lennon. I due senza accorgersene si
fiondarono a prendere il giornale per leggerlo. Duncan si fermò
non appena vide la mano dell’altro già posata sui fogli di carta.
Lo guardò in faccia. Facendo segno di sì, con la testa, gli fece
capire che avrebbe potuto leggerlo per prima lui. Il ragazzo,
però, decise che si sarebbe trasferito al tavolino dove sedeva
Duncan, in modo che entrambi avrebbero potuto leggere la
notizia. Magari cambiare anche qualche parola. Qualche
opinione.
«Ciao! Io sono Mark. Tu come ti chiami?»
«Ciao! Io sono Duncan.»
«Ho visto che sei interessato all’articolo su John Lennon.»
«Sì. Sono curioso di leggere qualcosa su di lui. Sono italiano
ma vengo dall’Inghilterra e lì ho assisto all’ascesa musicale
dell’ex Beatles.»
«Wow! Io sono un suo grande estimatore. Ho tutti i dischi
dei Beatles. I suoi primi lavori da solista. Ho appoggiato ogni
sua provocazione riguardo alla guerra. Ho letto tutte le sue
interviste dove si contrappone agli eserciti.»
«Io ho sempre sentito parlare di lui quando nei primi anni
incitava tutti i suoi amici a dare il meglio. Ho sentito dei suoi
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difetti caratteriali, dei suoi viaggi in India finiti con l’uso di
sostanze stupefacenti. Della sua rottura con il gruppo.»
«Cosa si raccontava in Inghilterra riguardo allo scioglimento
della band?»
«John aveva tante ombre sul suo conto. Leggende
metropolitane affermavano che il suo primo matrimonio fu
tenuto segreto. In modo che le fans del gruppo non perdessero
quella voglia di seguire i quattro di Liverpool. L’arrivo, dopo
qualche anno, di Yoko Ono aveva un po’ incrinato i rapporti
fra Lennon e il resto del gruppo. Gli veniva accusata la
continua presenza della donna durante le prove. Di manipolare
l’artista in maniera molto prepotente. Lo allontanava
giornalmente dagli altri. Per quanto mi riguarda Lennon non è
altro che un personaggio che ha avuto la fortuna di trovarsi nei
Beatles. La furbizia di cavalcare alcune situazioni per
accrescere la sua fama. Si è approfittato della sua celebrità per
farsi pubblicità. Secondo te le proteste attuate erano
esclusivamente uno slogan contro la guerra o campagne
promozionali? Secondo te alcune dichiarazioni volevano
giungere come proteste o erano dichiarazioni provocatorie
studiate a tavolino?»
«Cazzo! Non ci credo! Non ho mai visto John Lennon da
questa prospettiva. Ho sempre avvertito nei suoi testi e nelle
sue parole un forte senso di dovere. Io credo in quello che dice
e professa.»
«Come tutti gli artisti anche lui ha avuto problemi con la
droga. Per anni gli è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti.
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Non è la persona per bene che credono in tanti. Anche lui ha i
suoi difetti. Non ha mai avuto a che fare con il suo
primogenito. Si racconta che abbia lasciato le scene musicali
per dedicarsi anima e corpo al figlio avuto da Yoko Ono.»
Mark per qualche secondo rimase fermo. Fissava Duncan
per capire se dicesse il vero o stesse cercando di infangare la
figura dell’artista. Cosa poteva interessare a uno sconosciuto
infangare la vita privata di John. Duncan finì di mangiare il suo
pranzo e dopo aver salutato Mark si recò nuovamente verso il
negozio.
Mark rimase seduto per tutto il pomeriggio. Leggeva
continuamente la notizia del nuovo disco di Lennon. In testa gli
circolavano le confessioni di Duncan. Non poteva crederci.
Sapeva che Lennon era legato a certi temi umanitari. Rivedere
con un’ottica diversa alcune sue dichiarazioni rendeva tutto
estremamente confuso. «Povero coglione che non sono altro.
Certo che John ha creato tutto per farsi solo ed esclusivamente
pubblicità. Uno che lascia i Beatles manipolato da una donna,
se non crea polemiche e aspettative sul suo conto non può
farcela. Ed io che credevo nelle sue idee. Bastardo pezzo di
merda. Inglese del cazzo. Con la puzza sotto il naso. Con la
presunzione di sentirsi chissà quale personaggio. Hai preso per
il culo generazioni di ragazzi che credevano in te. Nelle tue
parole.»
Finire a lavorare in un bar non era facile. Smith lo sapeva
bene. L’unico modo per riuscire a far parte di quello staff era
andare a parlare direttamente con il proprietario. Sperava che
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gli concedesse l’opportunità. Non tutti si rendevano disponibili
ad accettare certe responsabilità. Si rischiava comunque di
creare disagi alla clientela. Il titolare si mostrò subito pronto al
dialogo. Smith sapeva che doveva affrontare il problema con
molta delicatezza. Decise di iniziare il suo discorso partendo da
molto lontano. Il direttore del locale sembrava molto
interessato. Guardava fisso in viso il detective. Ascoltò tutta la
spiegazione di Smith che terminò con la richiesta di
assunzione. In modo da poter acciuffare il criminale. Sembrava
convinto.
Una buffa risata, forte, intensa e intervallata da lunghi
affanni interruppe il discorso. Il direttore non riusciva a
trattenersi. Aveva ascoltato tutto il racconto e non riusciva a
credere al detective. A tutte quelle minchiate, che secondo lui,
erano uscite dalla bocca dell’uomo.
Vistosamente in imbarazzo cercò in tutti i modi di far
ricredere il direttore sulla veridicità di quanto detto. Non ci fu
verso di fargli cambiare idea. Uscì dal locale con un nulla di
fatto. Con una figura di merda galattica.
Stare dietro a quel mentecatto gli stava costando un crollo
nervoso. Anni di ricerche e di presunte coincidenze. Di
ricostruzioni campate su presentimenti e poi il crollo della torre
dopo le confessioni di Aldo. Il viaggio in America che gli
costava un possibile futuro come spazzino. La possibilità di
chiudere anticipatamente la sua carriera.
Doveva trovare un modo per fermare l’italiano. Non era
sicuro che avesse compiuto qualche altro gesto impensabile.
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Comunque voleva risposte sulle morti e capire realmente come
mai si trovasse sempre presente sul luogo del misfatto.
Il cielo limpido di New York brillava di luce. Regalava una
bellissima giornata per poter svolgere ogni tipo di attività.
Duncan come al solito si era svegliato con la priorità di recarsi
sul posto di lavoro. Smith con la priorità di pedinare Duncan.
Mark non aveva chiuso occhio. Sulle pareti della sua camera
appariva John Lennon raffigurato con i Beatles e da solista. I
suoi dischi riempivano il suo armadio. Le parole di Duncan
suonarono per tutta la notte nella testa di Mark. Si era
riscoperto fragile. Aveva impostato ogni suo movimento
secondo una morale costruita sulla base dei pensieri del suo
mito.
L’inseguimento condusse Smith fino al negozio musicale,
dove Duncan svolgeva il suo ruolo di commesso. La solita
attesa fino alla pausa pranzo. Seguire Duncan fino alla
rosticceria e poi seguirlo fino al negozio. La routine si era
impossessata anche di quel giorno d’autunno. Seduto su una
panchina, pensava e ripensava a come fermare l’italiano.
Poteva interrompere il quieto vivere dell’uomo arrestandolo.
Interrogandolo. Con il rischio concreto di non riuscire a
cavargli niente di bocca. Costringerlo con la violenza alla
confessione. C’era il rischio che quel suo modo di fare gli
avrebbe causato problemi disciplinari. Non gli restava altro che
pedinarlo. Sperando che Duncan lo conducesse verso una sua
nuova avventura. Doveva coglierlo in flagrante. Mentre
uccideva qualche altra star.
239
Mark passò la mattinata confuso. Girovagò per la città senza
meta. Pensando e ripensando alle parole dell’uomo conosciuto
il giorno prima al tavolino di una rosticceria. «Tutta colpa tua.
Bastardo di un Inglese. Ci hai fatto credere che ogni tua
protesta fosse legata veramente a una lotta contro la guerra.
Contro la fame nel mondo. Era tutta una presa per il culo. Una
trovata commerciale per mantenere in vita il tuo fottutissimo
personaggio. Quel personaggio che fuori dai Beatles sarebbe
scomparso inesorabilmente.»
Mark aveva sempre mantenuto un comportamento
esemplare nella sua vita. Quel giorno non riusciva a tenere a
freno la sua rabbia. Riuscì a bere litri di caffè. In qualche
occasione attaccò lite con alcuni passanti che senza volere gli
tagliarono la strada. Strada che percorreva barcollando e
turbato psicologicamente.
L’ombra della sera stava lentamente abbracciando la città.
Duncan aveva riposto sullo scaffale l’ultima chitarra lucidata
prima della chiusura. Di solito ritornava direttamente a casa per
mettersi a letto. Quella sera aveva pensato bene di mettere
nello stomaco qualcosa d’italiano. Non molto lontano dal
locale dove lavorava, aveva notato una pizzeria italiana.
Avrebbe volentieri mangiato una gustosa pizza margherita.
Smith sorpreso dal cambio di programma dell’italiano decise di
seguirlo. Incuriosito. Convinto che quella poteva essere la volta
buona.
Duncan si guardava intorno perché incerto sulla strada che
aveva preso. Smith travisò quel suo gesto. Credeva che l’uomo
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si stesse dirigendo a casa di qualcuno e non voleva che occhi
indiscreti ne notassero la presenza. Smith accelerò il passo per
stargli il più vicino possibile. Doveva farsi trovare pronto in
modo da entrare subito in azione qualora ce ne fosse stato
bisogno. Purtroppo si trovò davanti ad una spiacevole sorpresa.
Duncan si stava recando in una pizzeria per comprare una
semplicissima pizza.
Il sangue nelle vene di Smith si raggelò improvvisamente.
Iniziò a muovere nervosamente la bocca. L’occhio sinistro gli
si chiudeva e apriva in un tic che non aveva mai avuto prima.
Non appena vide uscire dalla pizzeria l’italiano gli si
scaraventò addosso. Colpendolo con un pugno in pieno viso.
L’italiano rispose all’attacco. Con un altro pugno. In modo da
divincolarsi dall’aggressore. Si trovarono faccia a faccia. Smith
afferrò per il collo l’italiano urlandogli contro. Come un pazzo
collerico.
«Pezzo di merda di un italiano. Sono dieci anni che ti cerco.
Che cerco di guardarti in faccia per dirti quanto mi fai schifo.
Quanto inutile sia stato il tuo continuo scappare per paura di
finire in galera. So tutto di te. Della tua presenza nella villa di
Brian Jones il giorno della sua morte. Nella villa di Elvis. Sono
sicuro che nelle morti di Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim
Morrison ci sia il tuo zampino. Lo zampino di una persona
frustrata, delusa per la sua inettitudine e per i suoi fallimenti
musicali. Ero sicuro di coglierti in flagrante in quest’occasione.
Sono giorni che ti seguo. Che controllo ogni tuo movimento.
Che spero in un tuo passo falso.»
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Duncan lo fissava negli occhi. Non riusciva a credere a
quanto gli stava dicendo il detective. Sapeva che qualcuno
avesse potuto rivelare la sua presenza. Sapeva di avere la
fedina penale pulita e qualche alibi perfetto. Non aveva mai
colpito o ucciso qualcuno. Si era trovato per pura casualità
immischiato in certe situazioni spiacevoli.
«Ma che cazzo stai dicendo? Coglione che non sei altro.
Come fai a dire che sono io il colpevole? Non so di cosa tu stia
parlando. Non ho mai ucciso nessuno. Mi sono trovato in
quelle situazioni ma mai per sete di vendetta. Io volevo
diventare una star. Non avrebbe avuto nessun senso uccidere
chi avrebbe potuto portarmi al successo.»
Smith mollò l’italiano si piegò con le ginocchia a terra
piangendo come un bambino e confidando all’italiano tutto
quanto.
«Dopo la morte di Hendrix a Londra mi sono interessato al
tuo caso. Ritornando anche alla morte di Brian Jones. Mi ero
convinto che dietro a determinate morti doveva esserci la
figura e la mano di qualcuno di losco. Di oscuro. Avevo parlato
con il costruttore della villa di Brian accusato dell’omicidio. Mi
aveva confessato che in quei giorni era presente nella dimora
del chitarrista anche un’altra persona. Dopo anni sono riuscito
a completare il tuo profilo. Ora che ti ho trovato scopro che sei
un perfetto idiota. Una persona inutile. Non sai fare altro che
strimpellare una stupida chitarra. Che da sogni di fama e gloria
sei finito a vendere chitarre in un negozio di New York.
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Lontano migliaia di chilometri dalla tua terra. Senza conoscere
nessuno.»
Mark non riusciva a trattenere la sua rabbia. Aveva appena
deciso di sfogare la sua frustrazione contro l’essere che credeva
divino. Colui che era diventato il faro, la linea guida per andare
avanti senza subire i torti di un mondo diventato crudele.
Aveva appena acquistato una pistola. Un biglietto della
metropolitana. Un panino da sbranare nell’attesa di trovarsi
faccia a faccia con quell’uomo. Quello che fino a qualche ora
prima era il centro del suo universo.
Turbati da quanto accaduto, si erano poggiati su una
panchina. All’improvviso cinque spari squarciarono la notte di
New York. Un suono di sirena si avvicinava velocemente
seguita dal suono di un’ambulanza.
I due si guardarono negli occhi. Senza pensarci due volte si
diressero entrambi verso il punto in cui erano radunate alcune
auto della polizia e l’ambulanza. Sulla 72a strada nell’Upper
West Side. All’ingresso dell’enorme edificio denominato
Dakota Building. Residenza lussuosa di prestigiose personalità
della città.
Appena uditi gli spari, si erano precipitati sul luogo della
sparatoria. Fu proprio lì che Duncan fece una scoperta
allucinante. Pazzesca. Ammanettato e notevolmente in stato
confusionale, in un’auto della polizia, giaceva il ragazzo
conosciuto il giorno prima in una rosticceria. Rimase perplesso.
Incredulo. Fece solo qualche altro passo in avanti. Disteso a
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terra, esangue, giaceva il corpo di John Lennon. Ferito con
quattro colpi di pistola sferrati proprio dal ragazzo.
Smith guardò fisso Duncan. Fissò il corpo disteso di
Lennon. Guardò di nuovo Duncan e senza dire niente si
allontanò. La sua carriera era ormai giunta al termine. Al
ritorno in Inghilterra avrebbe intrapreso la sua nuova
avventura. Spazzino nei giardini della città londinese.
Duncan non riusciva a credere a quanto era successo. Aveva
conosciuto quel ragazzo il giorno prima. Gli aveva raccontato
una miriade di cazzate lette sui giornali. Quelle cazzate
avevano provocato in Mark qualcosa che aveva scaturito quella
reazione. Duncan non riusciva a capacitarsi. Si diresse verso il
motel. Sarebbe ripartito per ritornare a Londra. Avrebbe
cercato un lavoro. Magari nella stessa caffetteria del suo amico
Aldo. Senza chiedere più niente alla musica.
Il volo per Londra era in partenza. Smith decise che avrebbe
messo nello stomaco qualcosa per sopportare il viaggio. Poggiò
la valigia vicino il bancone del bar e ordinò una frittella e una
tazza di tè. Assonnato dopo una notte insonne, Duncan colpì
involontariamente Smith mentre stava mangiando la frittella
appena ordinata. Si scusò, si mise vicino a lui e ordinò una
buona tazza di caffè. Macchiato freddo.
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Autore: Angelo Salvatore Borelli
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