1 Capitolo I La guerra era finita e in Italia si respirava un’altra aria. Il rumore delle bombe, degli aerei e dei carri armati aveva lasciato il posto alle nuove canzonette. Murolo e Carosone avevano riportato agli antichi splendori la musica popolare napoletana. Nilla Pizzi e tutta la folta schiera di cantanti di musica leggera non avevano portato alcuna novità. Tony Dallara e Domenico Modugno uscirono dagli schemi. Dall’America l’eco del rock & roll suonò come un rombo. Nel giro di poco tempo i nuovi rocker italiani proposero quella musica a milioni di persone. Soprattutto ai giovani che finalmente avevano qualcosa di nuovo da ascoltare. In tutto il paese non si ascoltava altro che la musica rock di Celentano, Gaber e tutti quelli che si cimentavano nell’esecuzione del rock. A Montegallo, un paesino in provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche, quella nuova forma musicale giunse come un colpo in faccia. Tutti i ragazzini iniziarono ad appropriarsi degli strumenti che possedevano i nonni e i genitori. Iniziarono a copiare le gesta dei grandi della musica italiana e straniera 2 che giungeva nei bar tramite i jukebox. In alcune case attraverso i 33 e i 45 giri. La famiglia Volpe viveva nella periferia del paese. Impiegato comunale lui, insegnante di scuola elementare lei. Appassionati di musica avevano una nutrita collezione di dischi, catalogata in ordine alfabetico e genere musicale. Questa passione per la musica da parte dei coniugi si rifletté su uno dei due figli. Domenico. Aveva sempre ascoltato i vari dischi insieme ai genitori e iniziato a canticchiare quelle opere nelle varie feste scolastiche. Aveva deciso di imparare la chitarra, convinto, un giorno, di poter suonare con un gruppo rock. Passava ore e ore a imparare tutti i segreti dello strumento. La sua vita era fatta di accordi maggiori, minori e di assoli che avrebbero fatto parte delle sue prime composizioni. Voleva diventare un rocker. Questa convinzione lo portò a vestirsi in maniera molto trasgressiva per l’ambiente in cui viveva. In linea con la moda portata avanti dai musicisti più famosi. Non era un ragazzo alto. Al di sotto della media dei suoi coetanei. Si lasciava spesso prendere in giro, anche se, quello dell’altezza, era l’ultimo dei suoi problemi. Non si era mai preoccupato dell’apparenza tanto che in quel modo di vestire ci trovava più una sfida con se stesso che verso una popolazione legata a mode tradizionaliste. Per lui suonare la chitarra era molto più difficile. Quelle mani tozze facevano fatica a stringere il manico dello 3 strumento. Passava intere giornate a trovare il modo giusto per poter suonare al meglio. Quando si presentò per la prima volta agli amici con la chitarra in braccio ci fu un momento di ilarità che dovette riderci sopra per non cadere nel baratro dello sconforto. Vedere un minuto ragazzo tenere in braccio un’enorme chitarra che lo copriva quasi fino al collo avrebbe fatto ridere anche lui. Trovava la forza nella musica e metteva il resto in secondo piano. A ogni festa era l’invitato d’eccezione. Sapeva riproporre le canzoni che si ascoltavano nei dischi e viveva ormai come un jukebox umano. Passò parecchi anni della giovinezza a proporre e riproporre il repertorio musicale di quegli anni. La moda del momento aveva spinto altri suoi amici a imparare a suonare gli strumenti come la batteria, la chitarra e il basso. Qualcuno si spinse persino a cantare. Nella stessa classe si ritrovarono in cinque con la passione per la musica e tutti con uno strumento diverso da suonare. Parlavano sempre e solo di musica e più di una volta si trovarono d’accordo sul genere e sul modo di suonare. Spesso fra di loro si scambiavano informazioni riguardanti gli ultimi dischi in uscita e, appena avevano l’opportunità di comprarli, si chiudevano in qualche stanza ad ascoltarli. Nessuno aveva frequentato scuole musicali e solo ascoltando il pezzo potevano capire gli accordi, il ritmo della batteria e la linea melodica vocale. 4 Dopo mesi di esercitazioni e di ascolti decisero che era il momento di fare qualcosa che potesse spingerli fuori dall’apatia che il paesino proponeva giornalmente. Si divisero i ruoli. Quando toccò decidere chi dovesse suonare la chitarra solista concordarono che il ruolo spettasse a Domenico. Non fu lui a chiederlo e a rivendicarlo. Fu datogli dalla band perché aveva iniziato a suonare per primo e quindi con qualche nozione in più. La felicità per la nascita della band li inebriava. Li esaltava l’idea di poter finalmente suonare in un vero gruppo musicale come facevano i propri idoli. Una cantina fuori paese divenne la sala prove. Non appena finirono i lavori di ristrutturazione e di arredamento, posizionarono gli strumenti e iniziarono a suonare il rock & roll. Passavano giornate intere chiusi in quella stanza provando le canzoni che ascoltavano alla radio, nei jukebox e dai vinili. La carriera del gruppo iniziò con le prime esibizioni scolastiche e per questo ci fu la necessità di attribuire un nome alla band. La scelta fu difficile. Passarono due giorni senza suonare. Si chiusero in cantina a proporre una quantità esagerata di nomi. Giunsero alla conclusione di chiamare la band Il Gruppo. Ne andavano fieri. Credevano che quel nome racchiudesse lo spirito di quello che avevano creato. Erano riusciti ad arrangiare un vasto repertorio di cover e qualche loro composizione da far ascoltare in giro per la provincia Ascolana. Cullavano il sogno di poter riuscire nell’impresa di diventare famosi come i grandi gruppi rock. 5 Era l’agosto del ’59. Il padre di Domenico arrivò a casa mentre tutti stavano pranzando. Si girò verso il figlio e gli chiese se insieme alla band avessero voluto esibirsi in occasione della sagra del tartufo. A Domenico non sembrava vera quell’affermazione. Suo padre gli e la ripropose in maniera più dettagliata. Gli si bloccò il cibo in gola tanto che dovettero aiutarlo nel riprendere aria. Guardò suo padre con gli occhi pieni di soddisfazione accettando l’invito. Sapeva che anche gli altri sarebbero stati d’accordo con lui. Non finì neanche di pranzare. Si lanciò come un razzo a casa degli altri componenti dirigendosi velocemente in sala prove. Volevano farsi trovare pronti nella loro prima esibizione davanti a centinaia di persone. Il giorno dell’esibizione arrivò con tutto il calore dell’estate. Era tutto pronto. L’enorme palco costruito per l’occasione. L’impianto audio. Le luci. La piazza da cornice per quella che sarebbe diventata la serata d’esordio de Il Gruppo. Erano seduti in un angolo vestiti tutti uguali. Avevano visto in alcune riviste come si vestivano i rocker. Avevano racimolato vestiti eleganti che portarono dalla sarta del paese che li aggiustò su misura. Si presentarono eleganti. In nero. Pronti a redigere in maniera definitiva la scaletta dei brani. L’unica preoccupazione della band era il risicato inglese che erano riusciti a imparare qua e là. Nessuno nel paese conosceva l’inglese e l’ignoranza verso quel tipo di musica risultò essere l’unica ancora di salvezza. 6 Tutto iniziò per il verso giusto. Al quattro della batteria iniziarono a suonare la prima canzone della scaletta. Proseguirono spediti con piccoli intermezzi fra un brano e l’altro. Arrivarono alla fine della serata che mancava circa un quarto d’ora alla chiusura. La preoccupazione per la mancanza di altri brani li catapultò in uno stato di ansia e di frustrazione che diventò una trappola. Per circa un minuto si guardarono negli occhi senza sapere cosa fare. All’improvviso Domenico decise che era il momento di mettere in atto tutto lo studio effettuato fino a quel momento. Si avvicinò con calma verso gli altri ragazzi impartendo l’ordine di eseguire un ritmo lento basato su tre accordi. Il batterista diede il quattro. Non appena l’altro chitarrista e il bassista finirono il primo giro di accordi iniziò a far vibrare le corde della chitarra. L’urlo delle corde si espanse per tutta la piazza lasciando gli spettatori sbigottiti davanti a tale spettacolo. Suonò con il capo sempre chino verso il manico dello strumento. Senza guardare cosa stesse succedendo. La magia doveva ancora accadere. All’ultimo giro di accordi legò una scala pentatonica e al suono dell’ultima nota alzò il capo come per dire “ecco a voi ora fischiateci pure”. Non fu così che finì la serata. Il pubblico iniziò ad applaudirli talmente forte che sembrava cadesse il palco da sotto i piedi. Fu una serata magica e da lì in poi ne seguirono altre. Il Gruppo divenne famoso nella provincia. Il nome di Domenico Volpe riecheggiava nelle bocche e nelle conversazioni di tutti gli appassionati di musica. Era diventato 7 una star. Tutti lo riconoscevano e tutti correvano per andare a vedere il suo concerto. Per assistere all’ultimo grande assolo di chitarra. Ci scherzava molto su questa cosa. Non si sentiva una rockstar tantomeno voleva stare davanti al resto del gruppo. Erano partiti tutti insieme. Con la stessa passione. Quel poco di sapere, messo al servizio del gruppo, non poteva farlo diventare pretesto per diventare l’unico vero protagonista. Era una situazione nata per caso ma ripetuta in ogni concerto. Questo servì per iniziare a guadagnare anche i primi soldi. La gente andava a vedere il gruppo. I locali li pagavano. Ogni notte, quando si metteva a letto, passava ore e ore a immaginare una carriera da musicista. Sognava palchi enormi e folle di persone che osannavano lui e il gruppo. Gli restava solo l’immaginazione. Uscire da una provincia del centro Italia e in un periodo come quello del dopoguerra sarebbe stata un’impresa impossibile. L’estate stava terminando. Avevano suonato per tutta la provincia. Il nome della band era ormai sulla bocca di tutti. A coronare quella magnifica esperienza ci pensò uno dei loro genitori che, per tutto l’inverno, era riuscito a strappare un bel po’ di serate in giro per i locali. Avrebbero affrontato una fase di studio, scuola e sala prove. Era passato qualche mese da quando avevano iniziato a suonare. La band era migliorata notevolmente, tanto che avevano varcato anche i confini della regione. Suonarono in Umbria e in Emilia-Romagna. 8 La sua figura simboleggiava la band. Il suo ego iniziò a crescere a dismisura da ritenere stretto quel luogo e quelle origini per l’ascesa nel mondo della musica che conta. Passava intere nottate a fissare il soffitto. Voleva trovare fortuna altrove. Viaggiava spesso con la fantasia. Immaginava platee grandissime che osannavano il chitarrista italiano capace di far vibrare le corde della chitarra come nessun altro. Da quando aveva iniziato a suonare aveva pensato bene di conservare minuziosamente tutti i guadagni perché sicuro che gli sarebbero serviti per il grande salto di qualità. L’idea iniziale era quella di comprare una nuova chitarra, un nuovo amplificatore e quegli strumenti chiamati pedali effetto. Sfogliava ogni giorno una rivista musicale acquistata durante un’esibizione in Emilia Romagna. Lì era molto più facile trovare questo tipo di riviste perché la scena musicale era molto più attrezzata e fornita. Era rimasto folgorato da un modello Fender Stratocaster di ultima creazione. Non aveva mai letto una rivista musicale e da questa iniziò a imparare altri aspetti dello strumento che fino ad allora gli erano sconosciuti. Aveva iniziato a suonare con una Gibson ereditata dal nonno. L’aveva comprata durante una campagna militare in America insieme con un amplificatore di una marca poco conosciuta, ma perfettamente funzionante. Era tutto quello che possedeva. Era cosciente che per ambire a una carriera doveva per forza comprare roba nuova e di qualità. Dopo l’ennesima serata con la band capì che era ora di cambiare la strumentazione. Dopo aver avvisato i suoi genitori 9 della decisione presa, saltò sul primo treno locale diretto nel capoluogo per una giornata di compere. Il negozio sito quasi nel centro della città era immenso. La musica rock aveva portato entusiasmo anche a livello economico. Aprire un negozio del genere era più un investimento che un rischio. Non avrebbe impiegato tanto nella scelta degli accessori. Sognava quella chitarra. Quell’amplificatore e quel pedale effetto. Il distorsore. Oggetto che gli avrebbe permesso di dare una chiave più forte e dinamica agli assoli. Da musicista non perse l’occasione di provare ogni marca di chitarra e di amplificatore tanto che impiegò quasi due ore nell’acquisto degli strumenti. Non tralasciò niente. Chitarra e rispettiva custodia. Amplificatore. Pedale effetto. Cavi per collegare la chitarra al pedale e il pedale all’amplificatore. Il ritorno a casa fu un aspettare ansioso il momento in cui avrebbe potuto montare tutto per suonarci. I primi accordi che aveva imparato furono il Do maggiore, il La minore e il Sol maggiore. Nel provare e riprovare quegli accordi decise di scriverci sopra un testo poetico che divenne la prima canzone scritta. Se ne vergognava tantissimo. Nel giro di pochi anni ne dimenticò tutto. Strappò il quaderno su cui era scritta per non averne più traccia. La fretta di poter provare i nuovi strumenti lo spinse direttamente in sala prove. Gli altri stavano organizzando il tour che da lì a poco li avrebbe riportati in giro per la regione. Erano le stesse città. Le stesse piazze. Le stesse feste dei mesi 10 precedenti. Per loro significava bissare il successo dell’estate precedente. La “consacrazione”. I musicisti restarono sbalorditi nel vedere tutto quell’apparato elettronico. Lo abbracciarono soddisfatti. Si resero conto che poteva essere finalmente il momento buono per poter diventare qualcuno. Iniziarono a buttare giù nuove idee per le loro canzoni. Domenico aveva con sé il quaderno dove appuntava ogni pensiero che avrebbe poi potuto congiungere in un unico testo. Erano parole che esprimevano quella voglia di scoprire il mondo, di viaggiare, di realizzare i sogni. I suoi sogni e quelli che vedeva negli occhi dei suoi amici. Aveva appena finito di stilare un testo su una base di quattro accordi. Presentò l’opera in sala prove con l’approvazione generale. Con la voglia di poterci costruire un’intera sezione musicale. Diede le direttive necessarie. Al cantante il senso del testo. Al batterista le battute delle strofe. Al chitarrista ritmico e al bassista il giro di accordi. Aveva man mano imparato a leggere e scrivere la musica. Gli altri suonavano senza nessuna conoscenza teorica. Avevano imparato la musica ascoltando i grandi gruppi e copiandone le opere. Era necessario, per una band nata dal nulla, imparare ascoltando le canzoni dei grandi artisti. Per chi ne vuole fare un lavoro è importante imparare la teoria musicale. Impartito l’ordine di suonare dopo il quarto tocco di bacchetta, il gruppo iniziò a riprodurre subito la canzone proposta da Domenico. Soddisfatto e dopo aver appuntato 11 qualche modifica, disse che poteva funzionare. Anche gli altri erano consapevoli che stava venendo fuori un bel brano. Avrebbe significato, per loro, la possibilità di risuonare un’altra estate in giro per la provincia. Filava liscio ed era orecchiabile ma tutti si accorsero che mancava qualcosa. Per migliorarlo mancava l’assolo di chitarra. Il successo della band era nato per quell’assolo che Domenico aveva eseguito la serata d’esordio. Tutti lo guardavano come per dirgli che sarebbe stato compito suo. Non era convinto di inserire un fraseggio in una canzoncina come quella appena creata. Ascoltando le varie produzioni del periodo credeva fosse più consono lasciare il pezzo com’era stato costruito. Non convinse del tutto i ragazzi che cominciarono a insistere con più frequenza. Cedette alle lusinghe. Fece suonare il resto del gruppo in modo da poter studiare la scala da eseguire su quel giro di accordi. Dopo quasi un’ora era pronto a suggellare il tanto voluto finale con un assolo di venti secondi. Bloccò tutti. Fece un cenno al batterista che intonò i quattro tocchi. Dopo aver riproposto l’ultima parte della canzone, si avvicinò al pedale effetto e iniziò a eseguire la scala musicale come chiusura della canzone. Toccò la prima nota con tale eleganza che nella sala prove si respirò un’aria magica. Il resto del gruppo restò folgorato dal suono che emanava quella chitarra e quell’amplificatore. Da far venire la pelle d’oca. Ormai il primo brano della band era pronto. Provato e riprovato. Aspettava solo di poter essere suonato in pubblico. Il 12 tour del gruppo sarebbe iniziato da lì a qualche giorno. Nel paese e nella stessa piazza che li aveva visti esordire l’estate prima. Era il momento di far sapere al pubblico che Il Gruppo aveva finalmente deciso di fare sul serio. La prima canzone scritta da loro ne era la certificazione. Molte lucciole, un venticello caldo e un giorno di metà luglio fecero da teatro a quella che sarebbe diventata la vera sorpresa della serata. Una nuova hit da canticchiare e per di più da attribuire a un gruppo locale. L’esecuzione fu impeccabile. Tutti rimasero sbalorditi. L’applauso scrosciante decretò il successo. Non stavano nella pelle. Il pensiero di aver reso felici i propri concittadini li faceva stare bene. Erano diventati le star di Montegallo. Le serate nelle altre piazze furono un successone di pubblico e di riscontri positivi. La gente applaudiva durante l’esibizione delle cover ma si esaltava dopo l’esecuzione del primo singolo de Il Gruppo. Andava tutto a gonfie vele. Suonavano. Venivano riconosciuti da tutti. Guadagnavano soldi e facevano quello che avevano sognato di fare. Ascoli Piceno non era Roma né Milano né Bologna. Anche lì la nuova e crescente industria discografica aveva messo radici. La Music Recording stava cercando gruppi da lanciare nel panorama musicale nazionale. Erano riusciti a strappare una serata in un locale fra i più famosi di Ascoli Piceno. Per suonare lì avevano rinunciato a un’altra serata ben retribuita in piazza. Sapevano che quello era un locale molto frequentato. Se ti definivi un artista, un 13 musicista, uno scrittore dovevi per forza frequentarlo. L’aria fuori era tiepidissima. La gente passeggiava davanti al locale e non ne voleva sapere di entrare. Continuavano a guardarsi in faccia preoccupati e con la paura che potesse saltare una serata tanto sognata quanto sudata. Il proprietario si avvicinò con molta calma verso di loro. Li aveva notati intimoriti e preoccupati. Da esperto qual era, non gli rivolse alcuna parola. Li incitò a suonare. Restarono sorpresi da tale comportamento. Risollevatisi di morale iniziarono a suonare la prima canzone della scaletta. Magia della musica. Tutti iniziarono a entrare nel locale. La serata continuò alla grande. Alcuni bis occuparono molto del tempo a disposizione. Per loro era arrivato il momento di eseguire quella che rappresentava la vera chicca della serata. Il fiato si era accorciato per l’ansia. Per la paura di sbagliare. Le cover erano state provate e suonate con più frequenza. Il singolo da meno tempo. Il batterista decise che era il momento di eseguire il brano. Dopo aver attirato l’attenzione degli altri quattro, a colpi di bacchetta, Il Gruppo iniziò a suonare il brano. La gente presente nel locale rimase impietrita. Non conoscevano quella canzone. In un silenzio catartico rimasero ad ascoltare il brano fino all’ultimo secondo. Per Domenico era il momento giusto per mostrare le proprie capacità. Nel momento in cui toccò a lui si investì di una sicurezza mai avuta prima. Come nell’esordio abbassò la testa concentrandosi solo ed esclusivamente sul manico della chitarra. Doveva eseguire l’assolo finale. Gli sudavano le mani e sentiva il cuore in gola. Alla fine riuscì a concludere la 14 composizione. Nell’applauso generale si mise ad abbracciare il resto della band. Erano tutti e cinque euforici. Soddisfatti. Convinti che quell’esperienza aveva portato in loro la consapevolezza di avere qualcosa da dire. Avevano un’attrezzatura minima. Tre fusti di batteria e due piatti. Gli amplificatori. Il basso e le chitarre che avrebbero sistemato nelle rispettive custodie. Erano sereni. All’improvviso, fra una battuta e l’altra, si sentirono chiamare dal proprietario. Pensarono immediatamente che, nonostante tutto, la serata non fosse andata bene. Gli e lo avrebbe rinfacciato proprio in quel momento. Non fu così. Il proprietario del locale presentò loro un talent scout che li aveva visti e sentiti suonare. Voleva offrirgli la possibilità di registrare un disco. Lo sbigottimento e la paura che fosse uno scherzo li bloccò. Non appena il proprietario li tranquillizzò, salì in loro una specie di risata idiota. Si sedettero a un tavolino dove furono informati di quello che sarebbe successo se avessero accettato l’offerta. Si concessero il tempo di una discussione privata dove uscì fuori che erano tutti convinti e d’accordo ma che dovevano comunque interpellare le proprie famiglie. Si risedettero al tavolo decidendo di prendere un appuntamento con il manager per la settimana seguente. Il ritorno a casa fu magnifico. La macchina del padre di Domenico era stracolma di strumenti e di entusiasmo. Per la band si prospettava qualcosa di meraviglioso che avrebbe sicuramente cambiato la loro vita. 15 La mattina seguente riferirono la notizia ai genitori che accettarono senza alcun problema mettendo una firma affettiva sul progetto. Riunitisi in cantina iniziarono a capire e a studiare il modo più corretto di presentarsi all’appuntamento. La settimana passò velocemente. L’estate portava via con sé le ore con tale velocità che se non ti affrettavi a fare qualcosa, ti saresti ritrovato alla sera senza aver combinato niente e triste per non aver goduto del sole e della gioia che porta la calda stagione. L’incontro era fissato per le dieci e mezzo nello studio del manager. Si erano presentati davanti ai cancelli dell’etichetta discografica con un’ora di anticipo. Domenico aveva guidato con tale veemenza che ci volle mezz’ora affinché lo stomaco degli altri si riprendesse dal trauma. Le scale erano perfettamente lucide. Di marmo nero. Ben definito nei suoi tagli. La porta dell’ufficio era lontana ventisette gradini contati uno dopo l’altro da parte del batterista. Si accomodarono ognuno su una sedia nera in pelle posta davanti alla scrivania. Iniziarono a parlare col produttore. Al gruppo venne spiegato che per il lato A avrebbero inciso la loro canzone. Per il lato B avrebbero dovuto riproporre il brano di uno degli autori messo sotto contratto dall’etichetta. Si prospettava un giro di presentazione del disco e, se le cose sarebbero andate per il verso giusto, avrebbero potuto partecipare a qualche programma televisivo musicale. 16 Suonò tutto corretto. Nessuno obiettò. Impiegarono un attimo a firmare il contratto. Si erano legati, per quella produzione, alla casa discografica. La sala di registrazione era grandissima. In fondo alla sala era posta la batteria. Enorme e maestosa. Una cassa. Un rullante. Un timpano. Due tamburi. Il charleston e un’altra serie di piatti messi a disposizione del batterista. La separava dal resto del gruppo un grandissimo pannello trasparente. Sarebbe servito per attutire il suono in modo da aver maggiore efficacia nella registrazione. Leggermente più avanti erano posizionati il resto degli strumenti collegati al grande mixer posto nell’altra stanza. La stanza di regia. La sala per la registrazione della voce era a fianco. Avrebbero iniziato le registrazioni il giorno dopo. Tornarono subito a Montegallo con direzione sala prove. Dovevano provare il brano in modo da presentarsi preparati per le prime registrazioni. Si guardavano con occhi increduli ma, allo stesso tempo, colmi di felicità. Chi se lo sarebbe mai aspettato tutto questo. Erano partiti per scherzo. Per rompere la monotonia di un paesino che offriva pochissimo svago se non il biliardo e il flipper del bar. La sveglia suonò presto quel giorno. Un vestiario comodo per non ingombrare l’esecuzione e via verso la realizzazione del sogno. I tecnici spiegarono tutto. Erano in evidente difficoltà. Il produttore ne era consapevole e per questo decise di dedicare loro due parole di sostegno. Li rassicurò. Ogni sbaglio faceva 17 parte della procedura di registrazione. Non si sarebbero dovuti preoccupare se ne avessero commesso qualcuno. Le prime due ore passarono nel tentativo di stabilire che tipo di suono avrebbero avuto gli strumenti. Nel frattempo presero confidenza con le attrezzature. Dopo quattro tentativi il quinto fu quello decisivo. Dalla regia davano l’ok. La registrazione era venuta bene. Nessun tipo di errore. Sarebbe stata valutata insieme alle altre quattro. Nel frattempo furono spediti in una sala dove l’autore dell’altro brano li avrebbe delucidati sulla canzone scritta da lui. Domenico vedeva gli altri componenti in netta difficoltà. Non era solito, per loro, parlare di teoria musicale tantomeno costruire le canzoni su quelle basi. Fece un cenno loro di annuire come se avessero capito. Dopo gli avrebbe spiegato tutto. Le registrazioni sarebbero riprese due giorni dopo. Ne approfittarono per provare e per farsi spiegare da Domenico il modo di eseguire il brano. Li conosceva bene, sapeva pregi e difetti e sapeva come spiegare le varie parti della composizione. Capirono al volo la sua spiegazione e in men che non si dica riproposero il brano secondo le direttive dell’autore. Tutto nello studio di registrazione era rimasto intatto. Avrebbero affrontato un’altra mattinata di registrazione strumentale e poi un pomeriggio per farsi spiegare come impostare la linea vocale dei brani. 18 Certo che per loro tutte quelle lezioni erano qualcosa di diverso. Avevano imparato le canzoni riproducendo fedelmente quello che sentivamo nel disco. Nessuno aveva spiegato loro il senso del canto, del contro canto o dei cori. Quel pomeriggio fu istruttivo per tutto il gruppo. Impararono tutto quello che, il giorno dopo, avrebbero utilizzato per la registrazione. Le registrazioni vocali iniziarono nel peggiore dei modi. Non per quanto riguardava la loro canzone ma per quella dell’altro autore. Erano sfiniti. Dovettero prendersi mezz’ora di pausa per distrarre la testa da quella sessione di registrazione fallimentare. Il produttore si avvicinò a loro spazientito ma sempre col piglio di chi sa il fatto suo. Voleva arrivare a fine giornata con un prodotto pronto. Li guardò in faccia spiegando che il canto era sicuramente la parte più difficile della registrazione. Se avessero ragionato da sala prove, più che da studio, avrebbero finito di cantare entrambe le canzoni senza la paura di sbagliare. Quel discorso fu profetico. Li risollevò di morale con la certezza che quella sarebbe stata la tornata di registrazione definitiva. Fu veramente così. In un colpo solo incisero le linee vocali per le due canzoni con la gioia e la soddisfazione di tutto lo staff. Ora avrebbero dovuto solamente aspettare l’uscita del disco. Di solito le grandi etichette discografiche non mostravano e non spiegavano mai il percorso che avrebbe eseguito quella bobina. Il produttore volle regalargli quell’esperienza perché ritenuti meritevoli di quel premio. Assisterono alla creazione 19 della copertina e alla registrazione su vinile dei brani. Fu un’esperienza unica e servì da sollievo per il ritorno a casa. Avevano trascorso una settimana che non si sarebbero mai immaginati. Lo sognavano ma sapevano che sarebbe stato difficile. Pieni di soddisfazione e con un po’ di presunzione pensavano ormai in grande. Credevano fortemente che quella sarebbe stata l’occasione che avrebbe cambiato loro la vita. In parte quel pensiero era corretto. Erano le otto di mattina quando a Domenico saltò in testa di andare a fare un giro in città. Doveva comprare dei vestiti e alcuni libri. Non era abituato a pensare in maniera egoistica. Sapeva in cuor suo che era l’unico del gruppo a conoscere la musica. Che avrebbe veramente voluto vivere suonando. Cercava di concentrare l’attenzione sulla guida ma non riusciva a non pensare a una soluzione per quella sua voglia. Non avrebbe mai lasciato il gruppo tantomeno avrebbe riferito ai ragazzi quei pensieri. Ritornava sempre a pensare all’esperienza appena trascorsa e si rincuorava del fatto che quella voglia l’avrebbe colmata con il resto della band. Le vetrine dei negozi erano piene di vestiti. Giacche di ogni tipo. Pantaloni all’ultima moda. Camicie a maniche lunghe o corte. Voleva presentarsi al pubblico nella maniera più elegante possibile. Decise di acquistare un completo nero che avrebbe indossato a ogni serata con il gruppo. La passeggiata verso la libreria fu la più emozionante di sempre. Mentre fissava le vetrine dei negozi si fermò a quella del negozio di musica. La visione fu celestiale. Non credeva ai 20 suoi occhi. Li strofinò più di una volta per vedere se stesse sognando o meno, ma non era così. Dentro il negozio era esposto un manifesto che pubblicizzava il loro album. La locandina indicava la data di uscita e il prezzo in lire. Corse a comprare il libro e si diresse spedito verso Montegallo per raccontare tutto al resto della band. Incontrò gli altri ragazzi nel bar del paese. Si avvicinò a loro, li radunò a se quasi come se stessero tramando qualcosa e gli spiegò ciò che gli era capitato qualche ora prima. Ai ragazzi non parve vero quello che usciva dalla sua bocca tanto che non vollero crederci. Ci scherzarono sopra. Ognuno raccontò qualcosa per prenderlo in giro. Rassegnato, ma euforico, partecipò allo scherzo capendo che forse era meglio aspettare la definitiva chiamata del produttore. Erano ormai passati parecchi giorni dal giorno in cui vide quel manifesto. Nessuno aveva dato cenni di avviso. Purtroppo le cose non erano andate come dovevano andare. Il disco, alla presentazione e nelle settimane seguenti, aveva venduto poco. Il produttore aveva già deciso di intraprendere altre strade. Di scoprire altri gruppi. Inconsapevoli e ignari di tutto, continuarono a suonare in giro e per i locali, riscuotendo sempre il solito clamore. Questa volta con la consapevolezza che lo avrebbero fatto da gruppo professionista. Era una sera d’inoltrato inverno. Stavano discutendo sul come mai nessuno li avesse chiamati per informarli sull’andamento disco. Vicino al loro tavolino c’era un ragazzo 21 che aveva comprato il disco. Ascoltò la loro discussione e deluso disse ai musicisti che quello che avevano prodotto era veramente scarso e decisamente lontano dallo stile del gruppo. Quell’affermazione li immobilizzò. Non sapendo che dire e cosa rispondere bloccarono il ragazzo chiedendo spiegazioni più dettagliate. Con la scusa che il gruppo dalle critiche ne avrebbe tratto sicuro vantaggio. Quello che si mostrò ai loro occhi fu un colpo durissimo inferto dritto al cuore. Il ragazzo pose le basi delle critiche sul fatto che il pezzo era, di sicuro, il peggiore di tutti quelli che giravano per i jukebox. Domenico volle approfondire di più chiedendogli di mostrargli il disco per vedere realmente se si trattasse di loro. Il ragazzo non impiegò che dieci minuti nell’andare a casa e ritornare nel locale. Mise sul tavolo il disco. La storia magica de Il Gruppo si sgretolò in mille pezzi. Notarono immediatamente che il produttore li aveva presi in giro. Nel disco era finito un solo brano. Quello dell’altro autore e non quello scritto da loro. Avevano capito realmente come funzionasse l’industria discografica. Non era per ragazzi ingenui come loro. La faccenda li avrebbe penalizzati tantissimo. Se si era lamentato quel ragazzo figuriamoci tutti gli altri. La serata, nel bene o nel male, doveva proseguire. Il locale iniziava a riempirsi. Questo non li rendeva entusiasti. Decisero di non proporre i due brani. Avrebbero fatto solo cover e non avrebbero mai più eseguito quelle registrazioni. Il giorno dopo ogni concerto, era loro abitudine riunirsi in sala prove per discutere sulle cose positive e negative della 22 serata precedente. Anche per quell’occasione sarebbe successa la stessa cosa. Non si sarebbe discusso di un tocco sbagliato di batteria o di un fraseggio corto di chitarra rispetto alle battute stabilite. Si sarebbe affrontato un discorso serissimo. La delusione nei loro visi era tangibile. Nessuno accennava a un sorriso. Non riuscivano a credere di trovarsi con in mano il frutto di un lavoro non loro. Frutto della mente perversa di gente senza scrupoli che vive sulle speranze di ragazzi che sognano ad occhi aperti. L’armonia era stata intaccata dalla vicenda. Nessuno aveva più voglia di proseguire nonostante i continui tentativi di mantenere alto il morale da parte di Domenico. Furono giorni durissimi. Provarono poco e per la maggior parte delle volte male e in maniera discontinua. Il loro sogno era giunto al capolinea. Nessuno credeva in questo a parte Domenico. Un lunedì mattina si realizzò quello che si era ipotizzato nei giorni precedenti. Il Gruppo decise di sciogliersi. La tristezza si insediò nei visi dei ragazzi e nei cuori di tutti. Con gli occhi lucidi si prodigarono nella raccolta degli strumenti per riportarseli a casa. Quanto era triste adesso ripercorrere la strada che dalla sala prove riportava a casa. Questo si dicevano. Brevi considerazioni accennavano a uscire dalla bocca di qualcuno, tutto veniva messo a tacere dai ricordi belli vissuti chiusi in quella cantina. Il pomeriggio e la sera furono i più tristi. Domenico quel pomeriggio invece di suonare aveva deciso di starsene steso sul lettino. Lo sguardo fisso al soffitto e col pensiero di quanto 23 dura potesse essere l’avventura musicale. Non era come la immaginava. Si chiedeva se anche ai grandi della musica fosse mai potuto succedere una cosa del genere. Non voleva smettere di sognare. Aveva paura. Non voleva rinunciare a un ennesimo tentativo. Aveva imparato a suonare bene la chitarra e aveva acquistato una strumentazione di valore e che gli avrebbe consentito di giocarsela con chiunque. La Tv a casa sua fu una delle prime che giunse in paese. Poteva seguire le vicende nazionali, di quanto stessero riscuotendo successo quelli de “Il Clan” e non perdeva nemmeno un festival di San Remo. Un giorno sentì parlare di quella nuova tendenza Beat che dall’Inghilterra stava conquistando il mondo tramite la musica di un gruppo chiamato Beatles. Era affascinato dall’Inghilterra. Dall’idea che lì si potesse fare musica e che anche i discografici avrebbero permesso di farlo tranquillamente. «La musica è arte e come tale deve trovare sfogo in ogni luogo e in ogni essere che ha voglia di mostrare qualcosa», si ribadiva mentalmente. Era più una frase di circostanza che lo aiutava a sognare piuttosto che la consapevolezza di riuscire nell’intento di vivere di musica. Le idee confuse si mescolavano nella sua mente. Mostravano chiaramente quella nazione non molto lontana, ma nello stesso tempo sognata. Chi mai avrebbe avuto il coraggio di abbandonare tutto e scappare lì? Forse un ragazzo di Milano, di Roma, ma non un ragazzo di Montegallo. Non passava notte che non sognasse quel volo verso Londra. 24 Aveva racimolato qualche soldo durante le serate trascorse a suonare col vecchio gruppo. Ne aveva speso la metà per comprare le attrezzature nuove e metà avrebbero coperto le spese di un futuro tour immaginato dopo l’incisione del primo disco. Per cause assurde l’ultima ipotesi si sgretolò nel nulla. Adesso doveva trovare un modo per investire quei soldi. Londra era sempre un sogno che però poteva trasformarsi in realtà. Doveva parlarne con i suoi. Provare a convincerli che lì avrebbe potuto dare sfogo alla sua passione e alle sue idee. La cena era delle più gustose. C’era di tutto sulla tavola. Suo padre compiva gli anni e per regalo la madre gli aveva cucinato le pietanze da lui predilette. Domenico gustava tutto con piacere. Macinava in testa sempre l’idea di poter partire a Londra ed escogitava il modo di poterlo proporre ai suoi. Fu una tosse a richiamare l’attenzione. L’unico rumore udito durante la cena. Il padre, che aveva sempre amato interloquire con i propri figli, si accorse immediatamente che Domenico avrebbe voluto dire qualcosa di molto importante. Era doveroso richiamare l’attenzione di tutti. Datagli la parola, il padre, si mise a compiere l’azione precedentemente interrotta. Mangiare. Domenico iniziò col parlare della cocente avventura della registrazione. Con alcune frasi filosofiche aveva portato il discorso verso il nocciolo principale. Zittì qualche secondo. Prese aria e poi, tutto d’un fiato, lasciò volare via dalla bocca l’intera frase che si era preparato per l’occasione: 25 «Ho risparmiato qualche soldo. Ho voglia di diventare un ottimo musicista e per farlo vorrei poter andare per un periodo a Londra. Con il vostro consenso.» Non fecero una piega. Risposero entrambi che avrebbero dovuto pensarci e che avrebbe ricevuto una risposta all’indomani. Con lo stomaco più leggero, ma con l’animo sempre più turbato, si rimise a mangiare con la serenità di chi sa di aver esposto il proprio pensiero in maniera garbata. Qualsiasi risposta l’avrebbe accettata con molta tranquillità. I suoi genitori aspettarono che tutti andassero a letto per poter discutere sulla richiesta del figlio. La stanza era adiacente alla sua e nel silenzio tombale avrebbe potuto ascoltare la loro conversazione. La madre era molto perplessa. Ribadiva al marito che un ragazzo di provincia non avrebbe mai potuto sopportare il cambio radicale e drastico di vita in una metropoli come Londra. Il padre, al contrario, credeva in lui. Sapeva che se avesse elaborato una richiesta del genere era perché ci credeva veramente. Convinse la madre a dare l’ok dicendo che, alla fine, se avesse fallito, sarebbe ritornato in paese e si sarebbe messo a lavorare senza alcun problema. In dolce compagnia del buio non riusciva a chiudere gli occhi. Già immaginava di trovarsi in giro per la città. Quella città immaginaria che non aveva mai visto. Sognava di ritrovarsi a stretto contatto con i maggiori artisti del momento. Passò la notte in bianco. Sapeva la risposta ma la paura, che avrebbero potuto cambiare idea, lo lasciò sveglio tutta la notte. 26 Si avviò verso la cucina dove i genitori stavano preparando la colazione. Dal buongiorno ricevuto, si accorse che la soluzione presa era rimasta quella stabilita la sera prima. Rimase distaccato fino a quando dalla bocca della madre non uscì quell’affermazione tanto sperata: «Con tuo padre abbiamo deciso di darti la possibilità di andare a Londra e di inseguire i tuoi sogni.» Saltò dalla sedia e corse ad abbracciare entrambi per ringraziarli dell’opportunità concessagli. La giornata si presentò lunghissima e piena di impegni. Bisognava organizzare tutto. Il biglietto del treno per arrivare fino a Roma. Il biglietto aereo per Londra. La valigia da preparare. Contattare qualcuno per l’alloggio. L‘unica nota negativa erano gli strumenti. Si prospettavano due soluzioni. La prima era quella di portare solo la chitarra, ma si sarebbe trovato poi in netta difficoltà senza amplificatore. La seconda di vendere di nuovo tutto e di ricomprare altri strumenti una volta arrivato nella City. Aveva comunque tutta la settimana per organizzare quest’ultima faccenda. Quello che premeva di più era organizzare il viaggio. L’unico modo per gestire tutto era quello di appuntare su un foglio ogni passaggio obbligatorio da compiere. Prese in mano carta e penna e iniziò a scrivere tutto l’itinerario. Treno per Roma ore 10:00. Volo per Londra ore 15:00. Arrivo alle ore 17:30. Era tutto pronto per la partenza. C’era da risolvere l’incombenza strumenti. Passarono due giorni prima che due ragazzi si convinsero a comprare quegli strumenti messi in vendita. Erano stati appena 27 comprati e la confortante spiegazione data a loro fu la nota decisiva che spinse i giovani all’acquisto. Si era dovuto privare di due gioielli musicali. A malincuore. Con le lacrime agli occhi. Più volte si era ripetuto che per esaudire un sogno avrebbe dovuto privarsi di un altro. Doveva ancora fare la cosa più importante. Doveva avvisare gli amici di questa nuova avventura. Avevano trascorso momenti indimenticabili insieme. Anche grazie a loro aveva fortemente cercato nella musica la strada da seguire per il suo futuro. Li incontrò al bar in piazza. Erano seduti al solito tavolino con in mano quattro Coca Cola, rigorosamente in bottiglia di vetro e cannuccia. Si sedette vicino a loro e, dopo aver chiacchierato del più e del meno, disse cosa aveva deciso di fare. I ragazzi si misero subito a scherzare. Succedeva sempre così fra di loro. Uno diceva una cosa e gli altri subito erano pronti a riderci sopra. Ritrovata la tranquillità si congratularono con lui. Erano felicissimi di cosa gli stesse capitando perché credevano fortemente in lui. Avevano suonato tanto insieme e a lui dovevano molto per come si era sempre messo a disposizione per impartire loro qualche consiglio musicale. Non se n’era mai vantato. Aveva sempre messo la sua conoscenza per il bene del gruppo e in segno di profonda amicizia. 28 Capitolo II Una mattina fredda d’inverno gli offriva lo spunto per restare a letto. Non poteva permettersi questo lusso. Da lì a poche ore avrebbe preso l’aereo per dirigersi a Londra. I suoi genitori lo accompagnarono fino alla stazione del paese per prendere il treno. Si salutarono calorosamente. Stava realizzando il suo sogno e il padre gli e lo fece presente. Gli si leggeva in volto. Il fischio del capotreno fu come il fischio d’inizio di una partita. Era sceso in campo e ora doveva giocarsela. Arrivò in perfetto orario alla stazione facendo in tempo a prendere un taxi che lo avrebbe portato all’aeroporto. Era tutto nuovo per lui. Mai aveva visto un aeroporto. Mai aveva visto un aereo. Mai aveva volato prima. La gita più lunga che aveva fatto in vita sua fu quella con la parrocchia a Perugia. Un viaggio dove, in un giorno, visitarono tutte le cattedrali e le basiliche della città umbra. Una voce da un megafono avvisava che i passeggeri del volo Roma – Londra erano pregati di avvicinarsi al gate per l’imbarco. Non stava nella pelle nonostante non sapeva cosa avrebbe fatto una volta sceso in una nuova città. Senza un amico. Senza un conoscente. Senza nessuno. 29 L’asse iniziò a inclinarsi. Era il primo volo. Era tesissimo e impaurito ma non voleva mostrare segni di cedimento. Restò immobile per tutto il viaggio. Le mani stringevano il sedile. L’unico pensiero che riusciva a formulare era come avrebbe potuto tradurre il suo nome una volta giunto a destinazione. Non aveva mai studiato inglese. Aveva imparato qualcosa leggendo alcune riviste e alcuni libri. Il sogno londinese. La speranza di riuscire a vivere di musica. Di riuscire a diventare qualcuno. Passare dall’anonimato di un paesino del centro Italia alle luci della ribalta di una grande metropoli. Queste erano le sue aspettative e le sue prerogative non appena mise piede all’aeroporto. Ad aspettarlo non c’era nessuno. Il suo inglese spicciolo gli complicava ulteriormente le cose. Anche cercare un autobus, la metropolitana e un alloggio sapevano di impresa. Nella forsennata ricerca, costellata da figuracce e da prese in giro, riuscì a salire sulla metropolitana per fermarsi sulla Oxford Street. Lì, vide un piccolo bar italiano dove entrò subito. Un po’ per sentirsi a casa e soprattutto per chiedere indicazioni esatte su come trovare una stanza per dormire. Si avvicinò al bancone e ordinò un caffè. In Italia il caffè era ottimo. Ogni barista sapeva come farlo. Era sempre un piacere berlo. Insieme agli amici. Dopo pranzo. Dopo cena. Nel pomeriggio o nelle rare mattine quando gli impegni musicali non costringevano a fare tarda notte. Le tazze erano identiche a quelle dei bar italiani. Le macchinette erano simili. Maledettamente, non il gusto. Non sputò il caffè per non fare la 30 solita brutta figura. Dovette chiedere al ragazzo se gentilmente potesse macchiarlo con del latte freddo. Per Domenico non era normale bere il caffè con il latte. Aggiungere un po’ di caffè nel latte poteva funzionare. Non viceversa. Quello che si concentrava in poche gocce di miscela non poteva perdersi con l’aggiunta del latte. La sua avventura londinese partì nel peggiore dei modi. Per uno che beveva caffè in maniera sacrosanta, sarebbe stato difficile abituarsi all’idea di doverlo bere diversamente. Bevuto il caffè iniziò a parlare con chi stava dietro il bancone. Aldo. Così si chiamava quel ragazzo che dalla provincia Milano aveva deciso di trasferirsi a Londra. In cerca di fortuna. Gli domandò come e dove avrebbe potuto trovare un alloggio. Raccontò perché era giunto a Londra e che gli serviva una fissa dimora per poter vivere nella città. Aldo fu disponibilissimo. Si offrì di presentare Domenico al suo proprietario di casa per riuscire a strappargli l’affitto della mansarda. Avrebbe finito il turno da lì a dieci minuti. Tempo impiegato da Domenico per guardarsi un po’ in giro e rendersi conto che stava realizzando il suo sogno. Il ragazzo abitava in un palazzo sulla Denmark St. a neanche un miglio di distanza dal luogo di lavoro. Aldo chiese del perché di quella scelta. Cosa avrebbe fatto? Sbalordito per la bellezza della città e per l’aria nuova che respirava, Domenico si liberò in un discorso come mai aveva fatto in vita sua. Era timido. Impacciato. Non riusciva a terminare mai un discorso perché spesso e volentieri ne perdeva il filo. Il più 31 delle volte il disagio lo portava a chiudere le frasi senza un senso logico. Svelò al ragazzo tutti i suoi sogni e tutte le sue aspettative. Raccontò di come aveva affrontato il viaggio. Le cause principali dell’abbandono di un paesino di provincia per catapultarsi nella frenetica attività di una grande città. Il ragazzo, ammaliato da tale discorso, rispose che era atterrato nel posto giusto. Fu quell’accenno di sorriso che gli diede sicurezza e lo fece sentire meno solo. In Italia sorridono tutti. Gli amici. I vicini. Le ragazze ai ragazzi. I bambini e gli anziani. Sorridono gli stranieri che ci vanno in vacanza. A Londra non era così. Quanta gente vista durante il breve tragitto e nessuno con un sorriso stampato in viso. «Sarà uno di quei giorni no» pensò Domenico. Svoltarono a sinistra per imboccare la Denmark St. quando, per un attimo, gli mancò il respiro. Si trovò davanti ad una miriade di negozi musicali. Il paradiso degli strumentisti. In vita sua non aveva mai visto così tanti negozi dedicati alla musica. Purtroppo doveva seguire Aldo. Intuendo che quella sarebbe stata la strada dove avrebbe vissuto decise che, il giorno dopo, avrebbe trovato il tempo necessario per entrare in ogni singolo store. Salirono verso il secondo piano del palazzo dove viveva il proprietario dello stabile. Aldo li presentò. Domenico, non capendo una parola di quelle che si scambiavano gli altri due interlocutori, annuiva come se fosse d’accordo in tutto e per tutto. Non era tutto così particolarmente perfetto. La mansarda era disponibile ma aveva un piccolo problemino di 32 infiltrazione. Per una città piovosa come Londra diventava un problema serio. Rimase un po’ titubante ma quando gli presentò il conto accettò senza nessun problema. Avrebbe trovato il sistema di sistemare l’infiltrazione. La mansarda era bellissima. Bassa ma estremamente confortevole. Era dotata di tre stanze e un bagno piccolissimo che avrebbe soddisfatto a pieno le esigenze di una sola persona. Il salone era arredato con un divano, una poltrona e una vetrina piena di tazze e cucchiaini. Erano l’eredità che la nonna del proprietario aveva lasciato al nipote. La stanza per dormire offriva un bel letto matrimoniale, un armadio e un comodino già munito di lampada e sveglia. Restò ancora un poco a conversare col ragazzo. Lo ringraziò per quello che aveva fatto per lui. Fu Domenico a chiedergli il perché della sua partenza dall’Italia per l’Inghilterra. Aldo fu breve. In Italia avrebbe vissuto una vita di stenti. Nel suo paesino la guerra aveva portato così tanta distruzione che mai e poi mai si sarebbe potuto pensare a una rinascita. In Italia aveva lasciato la sua famiglia ma non avrebbe potuto sopravvivere in quelle condizioni. La chiacchierata terminò lì. Aldo tornò al primo piano dello stesso stabile invitando Domenico ad andare a trovarlo spesso al bar. Si strinsero la mano. La porta si chiuse lasciandogli la possibilità di sdraiarsi sul divano per dare quel meritato relax al suo corpo stanco. 33 Si era addormentato. Quando aprì gli occhi vide un piccolo raggio di sole entrare dalle finestre. Li strofinò accorgendosi che si erano fatte le otto di mattina. Del giorno dopo. Aveva in mente di scendere in strada per andare a visitare tutti quei negozi di strumenti. Doveva prima risolvere quel piccolo problema di infiltrazione che aveva notato proprio nella stanza da letto. Non aveva mai lavorato da quando aveva terminato gli studi. Non sapeva metter mano in questo tipo di impiego. Diede comunque uno sguardo per vedere se era risolvibile. Prima di rassegnarsi all’idea di vivere di musica e di reumatismi, fissò attentamente il muro notando che l’infiltrazione non arrivava dall’alto. Era la parte sottostante alla finestra quella maggiormente colpita dal problema. Si spinse subito ad aprire e chiudere gli infissi capendo immediatamente che il problema veniva proprio dall’imperfetta chiusura degli stessi. Entrambi, chiudendosi, formavano un piccolo spazio che permetteva all’acqua di infiltrarsi all’interno. Si guardò in torno per trovare qualcosa che potesse servire alla riparazione. Trovò nel bagno una mensola che gli parse inutile quanto brutta da tenere lì. La portò nella stanza e la adagiò sul marmo per vedere se s’incastrasse tra le due pareti. Fortuna volle che quella mensola fosse perfettamente combaciante con le pareti della finestra. Se tenuta in maniera obliqua, poggiata ai vetri, avrebbe fatto scivolare l’acqua senza farla penetrare nella stanza. Ovviamente avrebbe dovuto fare a meno di aprire la finestra. Se quello era il prezzo che doveva pagare per salvaguardare le sue ossa, allora avrebbe fatto 34 volentieri a meno di respirare, nella stanza da letto, l’aria londinese. In Italia spesso e volentieri si poggiava con i gomiti sul davanzale della finestra per respirare l’aria pulita del suo paese. Per guardare, con sempre maggiore attenzione, il paesaggio che gli si presentava davanti. Lo fissava. Lasciava che i pensieri ne percorressero lo spazio per cercare nuove ispirazioni da incidere su foglio. La prima cosa buona che c’era da fare l’aveva fatta. Avrebbe avuto un intero giorno da dedicare alle spese per l’acquisto degli strumenti. Per suonare aveva bisogno di una chitarra di un amplificatore e di un pedale effetto. Camminò per tutta Denmark St. con gli occhi fissi sulle vetrine dei numerosi negozi di strumenti musicali. Non aveva mai visto così tanti strumenti in vita sua. Si trovò in netta difficoltà nel decidere in quale entrare. Si fermò un istante. Tirò un bel sospiro di sollievo e decise che la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di entrare in ogni negozio. C’era un piccolissimo problema e non di poca rilevanza. Non sapeva spiccicare una parola d’inglese. Non sarebbe mai riuscito a farsi capire dal commesso anche per via di quella timidezza che lo bloccava proprio sul più bello. Avrebbe passato più tempo a spiegare cosa stesse cercando che non a provare la merce cercata. Si rese conto che il barista conosciuto il giorno prima e inquilino dello stesso palazzo, avrebbe fatto al caso suo. Tornò a casa aspettando, affacciato dalla finestra, che il ragazzo 35 tornasse dal lavoro. Passò quasi un paio d’ore lì in attesa. Ore che aveva speso a guardare affascinato tutta la strada che si vedeva dalla finestra e quella miriade di negozi, di palazzi e di locali. Simpaticamente si mise a spiare anche i gesti abituali che facevano i londinesi. Si accorse che quasi mai ridevano. Andavano di fretta e avevano un colore pallidissimo. In due giorni non aveva mai visto il sole se non a squarci e dietro dei nuvoloni grigi. In Italia la gente non era così triste. Si stava superando la crisi post-bellica e tutti avevano un sorriso da regalare. Anche quando uscivi in paese non potevi esimerti dal salutare chiunque incrociasse il tuo sguardo o il tuo passo. Si era cortesi con gli anziani. Con i più grandi. Con le ragazze. Si scherzava anche con i ragazzini che per strada ne combinavano sempre qualcuna. La sagoma del ragazzo si faceva sempre più nitida. Quando lo vide entrare nel portone del palazzo si mise a correre per raggiungerlo. Sul pianerottolo. Una volta entrato non avrebbe voluto disturbarlo dopo una dura giornata di lavoro. Si salutarono a vicenda e con molto piacere. Aldo gli domandò se avesse fatto due passi a piedi. Domenico gli rispose di sì ma che era dovuto rientrare perché aveva riscontrato un problema. La conoscenza nulla della lingua. Il ragazzo, anticipando la richiesta di Domenico, si offrì volontario nell’aiutarlo a imparare qualche cosa. Lo fece accomodare per iniziare da subito. Domenico era euforico. Salì in casa per racimolare un 36 foglio e una penna dirigendosi di nuovo nell’appartamento di Aldo. Sfortunatamente il ragazzo non basava il suo inglese su conoscenze scolastiche, bensì sui classici modi di dire che aveva appreso durante la sua permanenza. Iniziò col dire i termini basilari quali “buongiorno”, “buon pomeriggio”, “buonanotte”, “grazie”, “prego” e tantissime altre parole che riuscì a immagazzinare subito. Il ragazzo arricchì il bagaglio di Domenico con alcune frasi fatte che si usavano per chiedere un’informazione riguardo a una strada o per chiedere qualcosa una volta entrato nel negozio. La conversazione fu per Domenico un vero e proprio testamento da seguire alla lettera. La cosa migliore che avesse potuto suggerirgli fu quella di andare al bar dove lavorava, anche per qualche ora. Avrebbe ascoltato i discorsi fra inglesi mentre lui gli avrebbe fatto la traduzione in modo da recepire meglio le nozioni apprese in quel momento. Finita la lezione pensò bene di ritornare a casa per ripassare tutte quelle parole e quelle frasi di circostanza. Passò tutta la notte a dire “good morning”, ”good afternoon”, “good night”, “thanks”, “please” e tutte le altre frasi appena imparate. La pioggia batteva leggera sulla mensola che aveva disposto in maniera obliqua davanti ai vetri della finestra. Doveva alzarsi e andare a trovare l’italiano al bar per imparare qualche altra parola. Corse in bagno a lavarsi e si diresse veloce nel locale. Si accomodò a un tavolino dietro quattro signori che stavano animosamente discutendo mentre sorseggiavano un tè 37 fumante. Domenico ordinò un caffè che aveva dovuto far macchiare con latte freddo per via di quel sapore insopportabile. Odiava il tè. Sin da piccolo era stato costretto a berne in quantità assurde. Ai suoi genitori, ogni pomeriggio, piaceva berne una tazza. Non ne aveva provato mai una goccia. Se ne bagnava le labbra e poi si rifiutava di berlo perché lo sentiva senza sapore. Amava il caffè. Sua nonna, di nascosto dai suoi genitori, gli e ne lasciava sempre un fondo di tazzina che gustava fino all’ultima goccia. Vedere quei signori bere il tè già dalla mattina mise tristezza a Domenico. Il barista si avvicinò con il vassoio. Sopra c’era la tazza di caffè e una piccolissima brocca con dentro del latte freddo che avrebbe versato nella bevanda. In Inghilterra non si usava macchiare il caffè come succedeva in Italia. Il barista italiano, quando si sentiva ordinare un caffè macchiato, provvedeva egli stesso a versare il latte nella tazza. In quel bar londinese non era così. Domandò subito ad Aldo di cosa stessero parlando i signori del tavolo accanto. Il ragazzo rispose che dibattevano sulle possibilità che avrebbe avuto George Best di passare una giornata da sobrio e senza una donna. Inizialmente non capì. Non era a conoscenza di quel calciatore. Il barista dovette spiegargli chi era e come viveva la vita extracalcistica. George Best era il giocatore del momento. Un ragazzo in grado di fare gol e assist e nello stesso tempo di bere fiumi di vino e stare con centinaia di donne. Contento della spiegazione chiese alcune dritte su delle frasi che aveva sentito pronunciare. 38 Il ragazzo fu pronto e lesto nella spiegazione ma dovette lasciarlo subito per andare a servire altri clienti che erano entrati nel locale. Per Domenico era giunto il momento di iniziare la ricognizione dei negozi per poter finalmente acquistare gli strumenti. Iniziò col primo. Appena pronunciò il buongiorno si accorsero subito che era uno straniero. Iniziarono a guardarlo con aria di sospetto. Non comprendeva questo modo di fare. Si trovava in una città estera e per giunta sprovvisto di capacità linguistiche. Doveva subire questi tipi di trattamenti e farsi capire tra parole dette a vanvera e gesti. Doveva farsi portare nella stanza delle chitarre dove avrebbe potuto provarle. La risata fu generale quando si rivolse al commesso mimando l’azione del suonare la chitarra. Il ragazzo capì che lo straniero non avrebbe spiccicato una parola in inglese ma che sarebbe stata sua intenzione provarne e magari comprarne una. Fender Stratocaster o Gibson questo era il dilemma. Una più maneggevole e duttile, l’altra per intenditori. Le aveva suonate entrambe quando era il chitarrista de Il Gruppo e con entrambe si era perfettamente adattato nel suonare il rock & roll. Le prove dei due strumenti durarono per circa mezz’ora. Sapeva che non l’avrebbe acquistata in quel preciso momento ma, per curiosità, si fece dire il prezzo di entrambe prima di dirigersi verso l’altro negozio. Così fece anche negli altri due locali. Solite risate e stessi modelli di chitarra da provare. Quello che cambiava, anche se di poco, era il prezzo. 39 Fuori si era fatto buio. Prima di rientrare a casa decise che doveva visitare un ultimo negozio. Entrò nel Regent Sounds Studios. L’impatto fu esaltante. Migliore in assoluto per allestimento e quantità di prodotti. Si distingueva dagli altri perché chi andava a comprare lì poteva anche decidere di ritornarci per usufruire dello studio di registrazione presente nel negozio. La prova fu generale ma alla fine decise che una Fender avrebbe fatto al caso suo. Era strano come un negozio allestito in maniera diversa potesse condizionare nell’acquisto di uno strumento. Aveva bisogno di quello strumento e di inserirsi in quella scena musicale britannica che prima dei Beatles e Rolling Stones aveva assistito al successo degli Shadows. Naturalmente avrebbe avuto bisogno di suonare in qualche gruppo emergente che poteva permettergli di andare in giro per i locali. Le vetrine di quei negozi erano anche colme zeppe di annunci da parte delle band che cercavano musicisti. Ne copiò quattro che avrebbe poi fatto leggere all’italiano conosciuto al bar. Gli annunci dicevano tutti allo stesso modo: “Gruppo bluesrock cerca chitarrista per suonare nei locali”. Accortosi che una delle band provava proprio nella sala prove vicino al suo appartamento, decise che sarebbe valsa la pena andare a vedere che tipi fossero e che intenzioni avessero. Domenico s’incamminò subito per presentarsi alle prove. Appena giunto al Marquee iniziò a chiedere, con gesti e qualche parola tirata a caso, quale gruppo avesse messo l’annuncio. Si voltarono tre ragazzi magrissimi. Capelli lunghissimi. Volto pallidissimo. 40 Sguardo assente. L’italiano, colorito e con i capelli corti, si accorse subito che avrebbe dovuto cambiare stile al più presto prima di subire banali diciture e costanti prese in giro. Si avvicinò a loro dicendo, sempre a gesti e con qualche parola imparata in pochi giorni, che aveva letto l’annuncio. Era pronto per provare. I quattro entrarono in una sala già attrezzata di amplificatori e di relativi strumenti nel caso qualcuno ne fosse sprovvisto. Scodellò fuori dalla custodia nera la chitarra nuova e la collegò al primo amplificatore che gli si presentò davanti. Nel frattempo uno di loro si avvicinò a lui presentandosi: «Ciao sono Brian.» Domenico per qualche secondo restò impalato. Doveva trovare un nome inglese per non presentarsi col nome di battesimo. Dopo averci riflettuto per qualche secondo, riuscì a collegare gli unici saperi di tipo scolastico che gli permisero di tradurre letteralmente il suo cognome. Tradusse Volpe in Fox e collegò il nome a uno letto su un cartellone dov’era rappresentato un uomo di nome Duncan. Guardò Brian negli occhi e con fierezza gli rispose: «Ciao! Sono Duncan Fox.» Si strinsero la mano e iniziarono a provare. Al quattro del batterista, il bassista e il cantante-chitarrista iniziarono a intonare una composizione loro. Domenico restò per un po’ ad ascoltare studiandone accordi, battute e melodia. A una pausa vocale iniziò a fraseggiare e a costruire dei riff che mandarono in visibilio i tre del gruppo. Quella prova suggellò la certezza che quel ragazzo facesse al caso loro. La prova 41 proseguì per un paio di ore dove, Domenico, imparò altri quattro pezzi prodotti sempre dalla band. La soddisfazione si leggeva nei volti sciupati e bianchissimi dei ragazzi di Londra. Rivolgendosi all’italiano gli fecero capire che avevano deciso di sceglierlo come membro ufficiale della band. Era al settimo cielo. Non si sarebbe mai sognato una cosa del genere. Tantomeno trovarsi a far parte di un gruppo che invece di calcare i palchi e i locali della provincia di Ascoli, avrebbe calcato i palchi dei più prestigiosi locali di Londra. Fuori dal locale c’era Aldo che lo aspettava per avere notizie di come fosse andata la prova col gruppo. Fu uno sguardo sbigottito quello che bloccò l'italiano. «Il chitarrista italiano ha provato col gruppo di Brian Jones!» Domenico salutò i ragazzi prima di prendere la direzione opposta. Notò che Aldo era perplesso e quasi incredulo rispetto a ciò che aveva visto. Il barista, senza aspettare altro tempo, rivolse subito la domanda al chitarrista: «Ma ti sei reso conto che hai appena provato con un ex componente dei Rolling Stones?» Domenico, sbigottito, rispose che non sapeva chi fosse questo presunto componente del famosissimo gruppo britannico. Alla risposta sincera l’italiano rispose con un’altrettanto sincera ed educata risposta: «È Brian Jones il componente dei Rolling Stones.» Si fece spiegare chi fosse questo Brian Jones. Si fece dire tutto sul suo gruppo. 42 Aveva conosciuto proprio lui. Solo dopo qualche ora aveva scoperto che era il chitarrista del gruppo rock più famoso dell’Inghilterra. La notizia lo aveva reso euforico e nello stesso tempo lo faceva sentire un idiota. Si rese conto che la sua cultura musicale era troppo povera per poter affrontare la nuova avventura. Con i ragazzi si erano dati appuntamento da lì a tre giorni. In quei tre giorni non passò un istante in cui non lesse qualsiasi tipo di rivista musicale. Scoprì i problemi che affollavano la mente di Brian e capì il perché si trovasse a provare con tre sconosciuti anziché starsene in tournee con Mick Jagger e Keith Richard. L’uso costante di droghe aveva reso Brian estremamente vulnerabile e incapace di portare a termine ogni tipo di attività. I concerti finivano con lui che suonava in condizioni proibitive e le registrazioni si protraevano sempre per le lunghe a causa delle sue costanti assenze. Quel pomeriggio pioveva. Domenico decise che sarebbe stato più opportuno aspettare all’interno del locale anziché bagnarsi completamente restando sulla strada. Si sedette su una poltroncina di pelle aspettando impazientemente l’arrivo degli altri componenti. L’attesa fu lunga ed estenuante. Dopo circa un’ora non si presentò nessuno. La domanda che vorticosamente affollava la sua mente era se per caso avesse sbagliato giorno e ora. Purtroppo non aveva sbagliato. Semplicemente gli avevano dato buca. La collegò a quanto aveva letto, nei giorni precedenti, sullo stato psicofisico di Brian. 43 Erano passate ormai due settimane da quando nessuno si era presentato alle prove. Nonostante avesse continuato le ricerche per vedere se i tre avessero cambiato sala prove, si trovò sempre davanti ad un inutile ricerca. L’unica nota positiva di questo girovagare per le sale-prova della città era quella che, in più di un’occasione, si era trovato a suonare con dei gruppi e che quei gruppi, in più di una circostanza, gli avevano offerto la possibilità di suonare dal vivo. Prese in considerazione più di una band e si trovò, tutto a un tratto, catapultato in una serie di concerti live in giro per i locali della città. Quindici giorni, quindici concerti. La notizia del chitarrista italiano in giro per Londra arrivò fino ad Hartfield nel Sussex dove risiedeva il fondatore dei Rolling Stones. La solita giornata piovosa lo aveva spinto a sostare in un locale della zona. Il locale era il classico bar dove vi lavorava Aldo. Davanti aveva il classico caffè macchiato freddo e qualche rivista musicale. Gli sarebbe servita per imparare l’inglese e per riconoscere eventuali rockstar che si aggiravano per le vie della City. A un tratto sentì poggiare, sulla spalla destra, una mano fredda e tremante. Era quella di Brian. Si strinsero la mano e una volta seduti uno di fronte all’altro iniziarono a parlare. Scoprì man mano la vita frenetica e balorda che conduceva Brian. Si era ritrovato a un tratto senza fama e senza nient’altro. Voleva ricominciare a fare musica ma, ogni volta che tentava di iniziare un nuovo progetto, finiva per ricadere nel vortice della droga e di conseguenza nell’impossibilità di proseguire nell’obiettivo. 44 Domenico, con quel poco di inglese che aveva imparato, spiegò come mai si era ritrovato a cercare fortuna a Londra. Raccontò a Brian del fallimento discografico col primo disco e di come l’avventura del gruppo si concluse in maniera desolante e triste. Brian, entrato ormai in confidenza con Domenico, gli svelò retroscena sulla sua attività nei Rolling Stones. Odiava Keith Richard e Mick Jagger. Li definì inutili e incapaci di scrivere buona musica. Quella frase suonò più come elogio e si dimostrò una vera e propria presa di posizione contro i due personaggi che lo avevano allontanato. Fattasi una certa ora decisero che era il momento di salutarsi. All’improvviso Brian invitò Duncan nella sua villa offrendogli un breve soggiorno. Avrebbero potuto continuare a lavorare sui brani provati qualche settimana prima. Non parve vero quello che le sue orecchie avevano appena recepito. Accettò con molto piacere e disse a Brian che lo avrebbe raggiunto nel fine settimana. Luglio aveva iniziato a colorare le strade della grigia città. Duncan si apprestava a trasferirsi, per il fine settimana, nella villa del mitico Brian Jones. Ad Hartfield. Era una parrocchia civile inglese nel distretto di Wealden nel west Sussex. Una vegetazione verdissima decorava la villa che ospitava una delle più famose rockstar del momento. Sul cancello d’ingresso le iniziali B e J, in ferro battuto, firmavano quell’immenso scenario. Su quelle pietre anche Mick Jagger e Keith Richard avevano poggiato il loro piede. L’emozione 45 saliva dai piedi fino ad arrivare alle mani. Le dita si muovevano come in preda ad una scossa elettrica che neanche nel più veloce e virtuoso assolo avevano raggiunto tale velocità. Lentamente e gustandosi il panorama, si avvicinava sempre di più verso quella residenza mai immaginata neanche nei sogni. Lo avrebbe ospitato per qualche giorno. In compagnia di quel personaggio tanto eccentrico, quanto normale nella sua vita lontano dai palchi e dalle pagine delle riviste. Vedeva la punta del tetto spuntare fra la vegetazione. Si sentiva come un bambino nella notte di Natale. Chiuse gli occhi come per gustarsi solo alla fine l’immenso spettacolo. A un tratto sentì un dolore fortissimo alla testa e niente più. Si risvegliò steso su una sdraio sul bordo della piscina con un gruppo di operai che erano giunti in suo soccorso. Aveva sbattuto la testa talmente forte da svenire in quel modo. Appena entrato in casa Domenico si accorse che sulla fronte aveva un livido che la tagliava in due. Brian era stato già avvisato dell’accaduto ed era sul divano che rideva come un coglione. Nel frattempo Anna, la nuova fidanzata del chitarrista, gli aveva portato un fazzoletto con dentro del ghiaccio da mettere sul livido. Il weekend non iniziò nel migliore dei modi. Aveva un bernoccolo sulla fronte e un forte mal di testa. Nonostante tutto restò ugualmente nella villa con Brian. Passarono molto tempo a discutere su come arrangiare alcuni pezzi e spesso e volentieri passavano ore e ore a parlare di 46 musica. L’unica cosa che lo inquietava, nella casa, era la presenza di centinaia di bottiglie di alcolici. Di ogni genere. La villeggiatura si allungò anche nella settimana successiva. Avevano iniziato un discorso importante con Brian e dovevano portarlo a conclusione. Entrambi volevano suonare. Ognuno per esigenze diverse. Sempre con lo spirito di chi della musica ne voleva fare il proprio mestiere. Brian in più di un’occasione lo sorprese. Suonava un’infinità di strumenti e a tutti dedicava la stessa passione e la stessa concentrazione. Domenico da parte sua suonava solo la chitarra e fare i conti con quel tipo di musicista lo fece sentire inizialmente inferiore. Capì che tutto quello che stava facendo Brian era il frutto di anni di studio. Si fece coraggio e iniziò lentamente a prendere confidenza sia sullo strumento sia nella composizione. Giovedì stava volando nella calma di un’estate nel pieno della stagione. Seduti nel salone soggiornavano Domenico, Brian, Anna e altri due ospiti. Si trattava del costruttore e dell’amica dell’uomo. Mentre discutevano di come una band potesse nascere e sciogliersi per una banalità, si ritrovò in un cerchio pericoloso. Una decina di bottiglie giacevano sul tavolino al centro del salone. Una specie di polvere, forse zucchero, era stata meticolosamente distribuita a strisce sullo stesso. Iniziò Brian a inspirare quella polvere e a bere un sorso di whiskey. Poi toccò ad Anna compiere lo stesso gesto. Seguì Frank e poi l’amica. Quando arrivò il turno di Duncan, impaurito e del tutto inesperto, esclamò con molta ingenuità: 47 «Perché lo zucchero non lo versiamo direttamente nel liquido anziché assumerlo dal naso?» Qualche secondo di silenzio e poi giù tutti a ridere. Quella sua considerazione aveva portato allegria alla serata ma nello stesso tempo si era ridicolizzato da solo. Anna capì immediatamente il suo imbarazzo. Iniziò a spiegargli che quella polvere bianca non era altro che cocaina. Droga. Domenico rimase allibito. In vita sua non aveva mai visto una roba simile. Aveva letto da qualche parte della marijuana e aveva visto qualche foto. Mai e poi mai immaginava l’esistenza di altri tipi di sostanze stupefacenti. Arrossì. Iniziò a ridere anche lui. Per farsi perdonare decise che avrebbe provato quella robaccia. Doveva diventare una rockstar e se una rockstar del calibro di Brian assumeva quelle sostanze, anche lui avrebbe dovuto farne uso. Il movimento verso il tavolino durò pochissimi secondi. All’improvviso notò l’alterazione che la sua vista e il suo cervello stavano subendo. Sentiva le loro voci in lontananza. Vedeva il lampadario girare sulla sua testa e faceva fatica a parlare e a muovere gli arti. Con molta forza di volontà s’incamminò verso la piscina. Brian, impaurito, lo seguì per la preoccupazione che potesse succedergli qualcosa. Camminava barcollando. Brian, dietro di lui, con lo stesso passo. Si fermò a un tratto voltandosi di scatto verso l’amico. Aveva un sorriso stampato in volto come non gli e lo aveva mai visto prima. Lo stesso sorriso che si stampò in faccia a Duncan. Aveva abusato 48 della stessa roba che tutte le rockstar consumano per vivere al meglio la loro esperienza. Era felicissimo. Il sogno inglese si era realizzato. Il fondatore dei Rolling Stones aveva deciso di suonare con lui e come per magia si era ritrovato nella sua villa. La voglia di gridare era fortissima al contrario della forza fisica per farlo. Da un ragazzo di ventisette anni, ingoiato dal peso del successo, non ti aspetti molto. Deve crescere per via del ruolo che ricopre nella società e ogni stravaganza equivale a critiche pubbliche. Per questo motivo Brian nascondeva nella sua villa tutta la sua giovinezza. Duncan vide sparire Brian e riapparire dall’alto del trampolino posto lungo un lato della piscina. Più volte tentò di fermarlo ma vani furono i tentativi. Primo tuffo e subito il secondo. Al terzo tentativo decise di rendere più accattivante il tuffo. Il coglione, dopo la quantità di droga assunta e tutto l’alcool circolante nelle sue vene, si sedette sul trampolino. Duncan in preda ad un attacco di imbecillità totale ci salì iniziando a saltellare. La tavola, oscillando, fece arrivare Brian fino alla punta. A un tratto un’oscillazione molto più forte lo lanciò in aria facendolo atterrare in acqua dopo un urlo forte di pazzia. Brian finì sott’acqua affrontando una risalita difficile e lenta. Duncan, che non si era accorto della difficoltà di Brian, continuava a ridere della pazzia e della stravaganza del gesto. All’improvviso si accorse che il coglione strafatto non aveva ancora espresso giudizio e non aveva fatto nessun cenno. 49 «Vaffanculo Brian. Rispondimi. Che cazzo ci fai in acqua impalato e muto a fissare il cielo come un coglione? Vaffanculo tu e il tuo carattere di merda. Rispondi gran figlio di puttana. Vaffanculo! Io ritorno dentro.» Brian non rispondeva. Galleggiava muto quasi come se stesse meditando guardando il cielo. I suoi capelli formavano intorno alla sua testa una specie di aureola. Consacravano l’uomo e non lo demonizzavano come aveva fatto tutta la critica musicale. Erano le dieci quando si era scocciato di assistere alla meditazione di quel psicopatico. Decise che piano, barcollando e con l’effetto della droga ormai alla fine, si sarebbe diretto nella stanza per riposare in attesa di una nuova giornata di prove. Si accorse che nel salone gli altri tre avevano continuato a bere e a fare uso di cocaina. Domenico senza disturbarli prese la scalinata posta nell’atrio e s’infilò nella stanza. Un suono di sirene squarciò il sonno dell’italiano. Pensò fosse già giorno e, nonostante la situazione psicofisica non fosse ancora migliorata, si alzò dal letto dirigendosi verso la finestra per aprirla. Lo impaurì il fatto di vedere ancora buio. Se la prese con la droga ma non era la vera causa. Si voltò verso la piscina e vide un gruppo di agenti, di infermieri, Anna e Frank tutti in cerchio attorno a Brian. Era impaurito e non riusciva a rendersi conto dell’accaduto. Si catapultò fuori e giunse in men che non si dica ai piedi della piscina. Sentì Anna piangere straziata dal dolore. Continuava a chiamare Brian. Vedeva Frank impaurito e vedeva Brian ancora steso a terra. 50 Senza vita. I medici furono chiari fin da subito. Non c’era nessuna speranza. Rimase fermo per un istante, paralizzato, in preda al panico ma cosciente che forse era stata colpa sua. Ricollegò in un attimo la caduta in acqua di Brian e la lenta risalita dal fondo della piscina. Non aveva mai saputo affrontare certe situazioni. Di solito era impacciato e in altre circostanze avrebbe raccontato tutto. Non poteva dire ai poliziotti che forse era stata colpa sua. Era ritornato in camera senza che nessuno se ne fosse accorto. Vedendolo arrivare proprio da lì avrebbe potuto contare su un alibi perfetto per non essere indicato come colpevole. L’istinto che tante volte gli aveva giocato brutti scherzi gli fece compiere la scelta giusta. Come un fulmine si avvicinò ad Anna stringendola forte al suo petto. La sentiva piangere e ripetere il nome del fidanzato. Era ormai mezzanotte quando Brian fu portato in ospedale. Lì ne fu decretata la morte. Ritornarono tutti a letto esausti. Impauriti. Ognuno con la coscienza sporca. In fin dei conti tutti avevano partecipato alla morte di Brian. Gli altri tre perché lo avevano spinto a bere e a drogarsi. Domenico perché, invece di toglierlo dall’acqua, lo aveva immaginato pensieroso e meditante mentre il suo cuore aveva smesso di battere un istante dopo la caduta in piscina. Il sole caldo dei primi giorni di Luglio si era poggiato sul suo cuscino e gli riscaldava la guancia. I suoi occhi si aprivano lentamente per non far compiere uno sbalzo esagerato alle pupille. Aveva ancora un cerchio alla testa e ricordava solo 51 qualche sfumatura della notte appena trascorsa. Ricordava di aver perso un amico e che molto probabilmente la colpa potesse essere sua. Non fece nient’altro che stare sdraiato sul letto pensando a come si sarebbe dovuto comportare una volta trovatosi davanti Anna. Anna si era già preparata per raggiungere la salma in ospedale. Si incrociarono proprio sul davanzale interno all’ingresso. Senza scambiarsi molte parole si salutarono come due persone sconosciute. Le chiese se volesse accompagnata ma lei rispose che non era il caso. Chiese dell’accaduto e in pochissime parole gli spiegò tutto: «Brian non rientrava. Mi ero preoccupata. Aveva bevuto molto e fatto un uso esagerato di droga. Quando sono uscita fuori per cercarlo l’ho visto in acqua che galleggiava. Ho provato a chiamarlo più di una volta e mi sono accorta che le sue condizioni erano allarmanti. Ho chiamato subito Frank che mi ha aiutato a toglierlo dalla piscina. Ho provato a rianimarlo nonostante non desse segni di vita. Ho chiamato il pronto soccorso e la polizia poco prima che tu scendessi dalla tua stanza.» Si salutarono con un addio. Lei uscì dalla villa. Lui rimise i vestiti nella valigia e fece ritorno nel suo appartamento sulla Denmark St. Nessuno lo aveva visto e nessuno avrebbe collegato lui alla morte di uno dei personaggi più popolari del momento. Tutta la sciagura fu catalogata come “morte per incidente”. 52 Capitolo III Aveva varcato la soglia del suo appartamento. Era fresco e sapeva di asciutto. Per tutto l’inverno aveva sopportato quell’odore di muffa creatosi negli anni in cui era rimasto chiuso. Il sole entrava dalla finestra della cucina e risplendeva nello specchio della camera da letto. Provava una gioia indescrivibile nel rivedere tutta quella luce. Aveva passato una settimana infernale a stretto contatto con Brian Jones. Sempre chiuso nel suo studio di registrazione e in casa durante quelle notti balorde fatte di droga e alcool. Aveva bisogno di una doccia rinfrescante. Di riappropriarsi di quel circuito musicale che doveva servirgli per lanciarsi nella musica che conta. Prese un asciugamano e si diresse in bagno. Aprì il rubinetto della doccia e ci rimase per più di mezz’ora. Doveva lavarsi degli eccessi. Ristabilire il contatto tra testa e mani e rimettersi sotto con lo studio dello strumento e della musica. Diventare famosi è un’alchimia di talento e duro lavoro. Si stava avvicinando al letto quando sentì suonare il campanello. Era Aldo. Con in mano una rivista gli mostrò la notizia della morte del chitarrista dei Rolling Stones. Gli chiese subito spiegazioni. Sapeva della sua permanenza a casa della 53 rockstar. Lo fece accomodare per raccontargli tutto. Ovviamente tutto quello che avrebbe voluto far credere. «Raccontami tutto quello che è successo. Sono curioso di sapere com’è andata veramente.» «Ricordo poco o niente dell’accaduto. Avevamo passato una serata a ubriacarci e a fare uso di sostanze stupefacenti. Mi sono diretto verso la stanza in cui ero ospite e mi sono messo a dormire. Mi hanno svegliato le sirene della polizia e dell’ambulanza. Solo in quel momento ho visto tutto. Secondo la descrizione degli agenti, Brian Jones si era tuffato in acqua mentre il suo cuore cessava di battere per colpa dei continui eccessi.» «Quindi è stata una morte accidentale?» «Sì.» Finì così il colloquio. Aldo avrebbe voluto sapere particolari più inquietanti che Duncan non osò dare. Non poteva raccontare altro. Se n’era uscito innocente e pulito che non poteva rischiare di mettere in giro altri particolari. Quello che lo aveva aiutato era il curriculum non del tutto impeccabile che Brian aveva nei confronti della legge. Era stato salvato da un giudice che aveva simpatie per lui dopo che qualcuno aveva lasciato nel suo appartamento un bel bottino di droga. Forse per incastrarlo. Avrebbe volentieri trascorso una giornata in giro per la città ma una voglia irrefrenabile di musica gli fece cambiare idea. Itinerario modificato. Caffè al bar da Aldo e poi dritto al 54 Regent Sounds Studios con la speranza di trovare qualcuno con cui suonare. Un caldo sopportabile gli tenne compagnia lungo il tragitto. Occupò un tavolino al di fuori del locale e ordinò il suo solito caffè prima di entrare nello studio. Una miriade di persone occupava le sale dello studio. Si erano recate lì per visitare la sala dove aveva provato per l’ultima volta Brian Jones. Duncan aveva la chitarra chiusa nella sua custodia. Un gruppo di musicisti si accorse che anche lui era andato lì per trovare una band. Si avvicinarono a lui e dopo le dovute conoscenze si chiusero nella sala precedente a quella dove aveva provato l’ultima volta Brian. Iniziarono a dialogare. Duncan col suo pessimo inglese e gli altri con la risata in punta di labbra. Capirono tutti che l’unico modo per parlare era quello di collegare gli strumenti e iniziare a suonare. Il tributo a Brian fu doveroso. Aveva imparato un paio di canzoni che il chitarrista aveva arrangiato nei primi anni dei Rolling Stones. Dopo averli eseguiti iniziarono a suonare qualche produzione propria. Duncan spiegò, sempre col suo pessimo inglese, l’idea che gli balenava in testa. Il batterista capì al volo quello che doveva fare. Il resto della band si allacciò al suo tempo senza nessun problema. Le prove si protrassero per un paio di ore. Avevano provato e riprovato quel brano che a parere unanime poteva funzionare. Si strinsero la mano accordandosi sulle prove che avrebbero sostenuto il giorno dopo. Si salutarono prendendo ognuno la propria strada. 55 Il ritorno a casa fu tranquillo. Aveva la schiena un po’ dolorante ma era colpa di una settimana passata a dormire pochissimo. Pensò che fosse doveroso dare al corpo il giusto riposo. Approfittò della bella giornata per mettersi a letto e dormire qualche ora. Davanti ad uno sfondo sfocato vedeva l’immagine di Brian che lo chiamava. Gli chiedeva di aiutarlo. Di portarlo in salvo. Aveva i capelli ancora sparsi come fossero un’aureola e solo i blue jeans come vestiario. Gli notava un fisico filiforme e ossuto. Due occhi incavati che facevano impressione. Sobbalzò dal letto sudato e con una tachicardia pazzesca. Si trattava solo di un brutto sogno. Non sarebbe stato facile dimenticare l’accaduto. Per molto tempo ne avrebbe risentito psicologicamente. Era incredibile quello che era successo e ritornare a quei concitati momenti gli metteva ansia. Lo aveva creduto pensante anziché morto. Un errore dovuto alla distorsione della realtà che le droghe gli avevano provocato. Poggiò nuovamente la testa sul cuscino senza dormire. Pensava se quella di andare in Inghilterra fosse stata la scelta giusta. Aveva iniziato a suonare e a farsi conoscere. Il nuovo gruppo sembrava serio e promettente. La possibilità di suonare in giro non mancava. Eppure era ancora turbato. La sala prove era affollata da persone accorse in pellegrinaggio per vedere dove il chitarrista aveva suonato l’ultima volta. Vide da lontano il resto del gruppo che lo aspettava fuori dalla porta per iniziare a provare. Philip, il cantante del gruppo, aveva portato con sé un quaderno, dove 56 aveva appuntato alcune sue composizioni. Duncan non ci capiva niente ma la soddisfazione sui volti degli altri lo confortò. Diede l’ok per provare quelle canzoni. Impararono le note. La melodia e la dinamica. Ognuno mise del suo per rendere il pezzo orecchiabile e nello stesso tempo molto rock. Era l’impronta che seguiva la band. Era passato ormai un mese da quando avevano iniziato a suonare. Il batterista era riuscito a trovare in giro per i locali una ventina di date che l’avrebbero tenuti occupati per tutto il mese seguente. Gli ordini erano chiari. Prove di mattino e concerto la sera. Non potevano permettersi di non provare. Rischiare di fare brutte figure. Sul manifesto posavano tutti in tenuta rigorosamente nera e con gli occhiali da sole a coprire gli occhi. Erano una band in mezzo ad una miriade che circolavano per la città eppure riuscivano a far divertire il pubblico. Il ricordo della prima serata ritornava sempre nella mente di Duncan. Durante il concerto un pazzo scatenato si lanciò sul palco e li abbracciò uno per uno ringraziandoli. Era ubriaco fradicio. Puzzava e non si reggeva in piedi. Quel suo gesto però aveva reso la serata magica e l’atmosfera nel locale cambiò radicalmente. Dagli applausi si passò all’ovazione. Chiunque passasse da quella zona restava incuriosito e non perdeva l’occasione di entrare per vedere cosa stesse succedendo. Così si trovarono in più di trecento in un locale che non ne avrebbe potuto ospitare più di cento. Erano tutti accalcati e persino i musicisti dovettero stringersi per poter suonare. Il pubblico si 57 era ammassato persino ai lati del palchetto. Restarono strabiliati e, nonostante la netta difficoltà di dover suonare in così poco spazio, portarono a termine la serata. Il proprietario contentissimo gli propose di suonare ogni venerdì offrendo al gruppo un budget oneroso e la possibilità di gestire loro il tempo per suonare. Accettarono senza neanche pensarci due volte. Avevano strappato un contratto musicale con un locale e questo avrebbe permesso ai ragazzi di restare sempre presenti nella scena locale. Il secondo concerto non si mostrò all’altezza del primo ma nonostante tutto riempirono il locale. Anche in questo caso il proprietario propose di suonare periodicamente. Scelsero il mercoledì in modo da avere il giovedì di riposo. Continuò la magica esperienza con lo stesso successo in tutti i locali, dove suonarono per il resto del mini tour. Non ricevettero altre proposte ma non importava. Due locali e le promesse che i restanti li avrebbero ricontattati, bastavano al gruppo per perseguire negli obiettivi che si erano prefissati. Avrebbero dovuto cambiare i giorni di prova. Restavano liberi il lunedì e il martedì perché il sabato e la domenica poteva succedere che qualche locale li chiamasse per suonare. Decisero che i primi due giorni della settimana erano dediti alle prove. Era una situazione inverosimile ma appagante allo stesso momento. Riuscivano a fare il pienone ogni mercoledì e ogni venerdì. Le persone andavano a vederli con gusto e li acclamavano a gran voce. Avevano mosso l’opinione pubblica 58 verso di loro. Alcune interviste per alcune riviste di settore suggellarono questo magnifico momento. Era lunedì. Avevano trascorso la giornata chiusi in sala prove a provare tutti i brani della scaletta. A un certo punto decisero che era giunto il momento di fermarsi e di dialogare un po’. Nel frattempo Duncan aveva arricchito il suo inglese. Qualche parola gli usciva dalla bocca in maniera del tutto maccheronica ma riusciva ugualmente a interloquire con il resto del gruppo. Al cantante saltò in mente di inventare qualcosa di eclatante per poter dare spettacolo. In quel momento a nessuno venne in mente niente che potesse accontentare la richiesta di Philip. S’impegnarono nell’escogitare qualcosa e di proporlo nelle prove successive. Duncan aveva la mente svuotata d’idee. Stava suonando e studiando come un pazzo. In testa gli circolavano sempre e solo le solite cose. Spartiti. Testi. Accordi. La notte sognava cose assurde. Chitarre enormi, corde che non ne volevano sapere di suonare, amplificatori muti e palchi che si aprivano all’improvviso. Incubi. Soltanto incubi. Gli strumenti erano posizionati sul piccolo palchetto che il locale offriva. Come ormai succedeva da tempo dovevano accontentarsi di uno spazio ancora più ridotto. Il proprietario aveva pensato bene di creare qualche posto in più in modo che le persone che fossero andate a vederli avrebbero avuto più spazio per stare nel locale. Sarebbe stato il solito concerto soffocante. Avrebbe buttato litri e litri di sudore. Come al solito avrebbe preso qualche 59 cazzotto in testa per colpa del bassista. Incurante del poco spazio a disposizione aveva bisogno di fare quella maledetta e fottuta giravolta del cazzo. Duncan si era promesso che gli e l’avrebbe fatta pagare. Puntualmente l'eccitazione della serata gli faceva passare la rabbia. Iniziarono la serata con la solita scaletta e con la confusione dovuta all'enorme quantità di persone arrivate nel locale per vederli suonare. Aveva deciso di suonare quasi sul bordo del parco per evitare l'ennesimo cazzotto in testa. Lo stronzo, quasi facendolo apposta, gli si avvicinò lentamente. Come una trottola iniziò a ruotare proprio vicino a lui. Gli buttò un’occhiata ma non servì a niente. Passò qualche secondo prima di sentire il botto. Si oscurò la vista e poi il nulla. La fortuna fu quella di trovarsi sul bordo del palco. Nello svenimento finì fra le braccia del pubblico che, in visibilio, impazzì esaltando la situazione. Terminato il concerto, i ragazzi iniziarono a raccontare a Duncan cos’era successo dopo il suo svenimento. Descrissero la scena in cui Philip, credendo che il gesto di Duncan fosse spontaneo, si gettò fra la folla che, nell'entusiasmo, lo fece fluttuare e nuotare per tutto il locale in un passamano generale. Una scena mai vista prima che per colpa del bassista si era perduto. Considerazioni della serata. Pubblico in visibilio. Altro pienone. Ennesimo bernoccolo. Tornò a casa convinto più che mai che al coglione avrebbe dovuto far pagare ogni singolo colpo in testa. 60 Giovedì era di riposo e decise di fare la solita passeggiata lungo la Denmark St. con destinazione bar, per andare a trovare Aldo e per bere un pessimo caffè macchiato freddo. Aldo lo vide entrare accorgendosi subito del vistoso bernoccolo che aveva in testa. Bloccò la risata per la paura di una sua brusca reazione. Gli domandò cosa fosse successo. Duncan spiegò l'accaduto. Riferì all’amico quello che si era perso e di quanto avrebbe voluto fargliela pagare. Aldo aspettò giusto un suo cenno di sorriso per scoppiare in una fragorosa risata che bloccò l'intero locale. Tutti si girarono a guardare il barista impegnato a ridere. Rosso. Quasi senza fiato. Furono cinque minuti imbarazzanti. Il caffè fumava caldo. Desiderava berne uno buono. Più di una volta gli era venuta voglia di non macchiarlo con il latte ma non riusciva a deglutire quell'orribile miscela. Tutti bevevano il tè mentre lui lo odiava. L'inverno portava pioggia. Solo pioggia. Nonostante tutto riuscivano a provare e a suonare con costanza. Erano ormai sulla bocca di tutti. Ogni loro serata era un tripudio di persone che si accalcavano alle porte dei locali anche solo per sentirli. Ne succedeva una ogni concerto. Ogni volta diventava qualcosa di cult. Tutti copiavano le gesta del gruppo così in poco tempo il frontman di ogni gruppo si buttava sulla folla impazzita, qualche strumentista si agitava impazzito come una trottola, ma nessuno finiva svenuto fra le braccia del pubblico colpito dal manico del basso. Era solo ed esclusivamente 61 sfortuna di Duncan. Tutta colpa di quel coglione che gli e lo faceva apposta. Era giorno di prove. Come al solito s’incontravano davanti allo studio e da lì entravano tutti insieme. Tutti i ragazzi che si trovavano negli studi li guardavano ammirati. Gli chiedevano consigli. Erano quattro giovani che per puro caso si trovavano ricoperti dal successo. Senza particolari mezzi o progetti. Philip si sentiva una star. Firmava autografi. Scattava foto con alcune fans e si dimenava sculettando come un frocio in calore. Lo guardavano stupiti, ma ridevano perché sapevano della sua eclettica personalità. Si godevano appieno quel momento magico. Tutto sembrava perfettamente costruito ad arte eppure non avevano manager. Non avevano contattato nessuno e anche se la popolarità era circoscritta alla sola città, per loro voleva significare tanto. Il momento giusto sarebbe arrivato. Ne erano convinti. Per questo continuavano a provare e riprovare i loro brani. Studiavano il modo di presentarsi. Di stare sul palco. Di inventare qualcosa di eclatante. Aveva iniziato a parlare l'inglese quasi correttamente. Guardava la tv senza alcun problema e finalmente capiva quasi tutto quello che dicevano. Non si parlava altro che del successo planetario che stavano ottenendo i Beatles e i Rolling Stones. Dall'America giungevano immagini riguardanti i grandi musicisti che stavano stravolgendo gli stilemi classici della musica. Il rock si mischiava col blues, con il funky, con la musica d'autore. Woodstock aveva creato una nuova ondata per 62 quanto riguardava i concerti dal vivo e tutta la categoria hippie aveva trovato il tanto ricercato sfogo in quella manifestazione. La droga che circolò in quei giorni superò quantitativi inimmaginabili. Stava cambiando canale dopo canale. Annoiato. In preda ad una nostalgia che non gli era mai pervenuta prima. Lo incuriosì uno speciale su uno dei più grandi chitarristi del momento. Si parlava di Jimi Hendrix. L'americano dalla pelle scura. Colui che faceva continuamente uso di sostanze stupefacenti. Lo fecero balzare dalla poltrona alcune immagini forti dell'artista. L'esordio in cui bruciò la sua chitarra sul palco del festival di Monterey. La riproposizione dell'inno americano sul palco di Woodstock. La sua fama di chitarrista eccelso era veritiera e lo dimostravano alcune sue composizioni divenute subito successi. Continuò a vedere la breve presentazione e intervista dell'artista proprio mentre un sonno pesante lo avvolse. Una forte pioggia batteva sulla mensola. Si accorse di aver dormito molto ma si svegliò riposato come non gli succedeva da mesi. Felice di avventurarsi in un nuovo giorno fatto di musica. Fece una doccia rigenerante. Si assicurò che fosse tutto in ordine e si diresse da Aldo per bere l’abituale caffè. Seduto al solito posto, iniziò a viaggiare con la mente. Pensava a quanto sarebbe stato emozionante poter viaggiare e fare musica in giro per il mondo. Lo facevano tutte le grandi rockstar. I gruppi più famosi. Si ripeteva continuamente quale fosse stato il modo più semplice per organizzare qualcosa del genere. Con il gruppo stavano suonando parecchio. Con continuità e con 63 ottimi risultati. Le attrazioni che Philip preparava per ogni concerto riscuotevano successo. Non pensava potessero essere meno entusiasmanti delle sgambettate da manichino di Mick Jagger, né meno entusiasmanti di quel dimenare la testa, per far muovere le frangette, come facevano i Beatles. Quali doti apprezzavano di più i fans dei Beatles? Il loro stile da ragazzi semplici, tutti vestiti per bene, o quello scuotere le frangette volendo dimostrarsi quasi teneri? Cosa apprezzavano i fans dei Rolling Stones? Il loro essere trasgressivi? Teppisti devoti alla vita sregolata e fuori dagli schemi? Gli risultava strano tutto questo. Ogni volta che si poneva queste domande, rifletteva su che tipo di pubblico avrebbero potuto attirare con il gruppo. Philip aveva iniziato a muoversi sculettando. Lui era impacciato e di certo non esternava la bellezza in persona. Il resto del gruppo si ubriacava e dormiva. I fans decretano il successo di una band. I loro concerti erano sempre affollatissimi ma non riusciva a capire cosa colpisse di loro a parte le canzoni. Era sicuro che il salto di qualità gli e lo avrebbe dato sicuramente un disco. Avevano bisogno di far sentire a tutti la loro musica. Lo disse chiaramente al resto della band. Chi con più voglia e chi con meno voglia acconsentirono alla sua richiesta. Il Rengent Sounds Studios avrebbe permesso al gruppo di registrare il loro primo disco. L'idea di ritornare a incidere lo rendeva euforico ma, nello stesso tempo, gli riportava alla mente ricordi che un po' strozzavano quella gioia. 64 Decisero che nel fine settimana avrebbero iniziato con le registrazioni. L'unico problema era quello di contattare qualche casa discografica che volesse promuovere il disco puntando su di loro. La ricerca fu alquanto difficile. Erano un buon gruppo emergente. Non affermato a tal punto da suscitare in un discografico la voglia di produrre il loro lavoro. Riuscirono dopo tante ricerche a contattare una piccolissima etichetta e a fissare appuntamento per un colloquio. Invitarono il manager al loro usuale appuntamento del venerdì con la serata live. Decisero che per quella serata avrebbero messo da parte le eclatanti gesta. Avrebbero suonato, concentrati, sperando di fare una buona impressione sul discografico. Philip annuì positivamente. Sapeva che poteva essere la loro occasione. Se mai fosse diventato una vera rockstar avrebbe finalmente potuto vivere a modo suo. Iniziarono con un’introduzione musicale perché volevano dimostrare a tutti che riuscivano a essere bravi anche tecnicamente. Proseguirono con alcune cover per giungere finalmente alla presentazione del loro ultimo lavoro. Il brano era una pura canzone rock. Iniziava forte e finiva ancora più forte. Raggiungendo livelli di dinamicità mai raggiunti prima. L’unico pericolo era quello di degenerare nella follia. Duncan guardò Philip che si tratteneva nervosamente. Muoveva forsennatamente le gambe come se stesse correndo da fermo e muoveva le mani come in preda ad una crisi. Si era del tutto disinteressato del pezzo di merda al basso. Il coglione ancora non aveva mostrato cenni di cedimento. A un tratto, come se 65 qualcuno avesse liberato la molla che lo teneva fermo, iniziò a roteare su se stesso. In pochi secondi scatenò il panico. Col manico del basso riuscì a far volare a terra le due aste che sorreggevano i piatti della batteria. Duncan, incredulo, ci mise un bel po' a focalizzare quanto stava succedendo. Mentre riacquistava visione della realtà, si accorse che la trottola si stava dirigendo verso di lui. Ci volle un attimo per ritrovarsi di nuovo steso a terra colpito per l'ennesima volta. Passò l'intera serata seduto su una sedia con del ghiaccio in testa per attutire il trauma. Avrebbe dovuto fargliela pagare. Doveva meditare a una vendetta. Non poteva lasciarlo impunito. Il bastardo ogni fine concerto girava per il locale ridendo e scherzando come se nulla fosse successo. Duncan arrivava a casa con una forte e tremenda emicrania e subiva le risate di Aldo ogni qual volta andava a trovarlo al bar. Con in testa un nuovo bernoccolo. L'unica nota positiva della serata era la notizia che al produttore era piaciuta la canzone e l'esibizione. Definendoli come una rock band di pazzi, decise che avrebbe prodotto il loro brano. Scendendo le scale incontrò Aldo che aveva deciso di uscire e farsi un giro per la città. Si sarebbe unito a lui perché una bella passeggiata avrebbe sicuramente fatto bene alle ossa e all'umore. Gli raccontò dell'ennesimo colpo ricevuto. Aveva intenzione di rendere al bastardo tutto il male che gli aveva procurato. Aldo inizialmente si mise a ridere. Una volta tornato serio ribadì che una lezione avrebbe sicuramente giovato al ragazzo. Percorsero tutta la Denmark St. soffermandosi davanti 66 alle vetrine dei negozi. Saltellarono tra un locale e l'altro bevendo una birra o un bicchierino di Whisky. Nella lunga passeggiata aveva intravisto più di una volta lo stronzo. Si aggirava nei paraggi. Lo disse ad Aldo che subito spiegò il suo piano. Avrebbero dovuto girare al largo del suo raggio d'azione. Nel momento in cui lo avrebbero notato da solo, si sarebbero avvicinati a lui portandolo in uno dei tanti vicoli bui per poi affondargli qualche pugno nello stomaco. Domenico guardò Aldo esterrefatto. Non voleva arrivare a tanto. Gli bastava solamente provocargli qualche caduta o qualche altro danno che sembrasse più un incidente che una vera e propria resa dei conti. Aldo tornò in sé dicendogli che forse era davvero esagerato il suo piano. Un finto incontro casuale e una spinta avrebbe potuto funzionare meglio. Notarono che l'essere infame stava parlando con una ragazza al di fuori di un locale. Lei sembrava alquanto infastidita. Lui ubriaco come al solito. Stringeva in mano un bicchiere di birra. Duncan e Aldo si avvicinarono lentamente. Con molta disinvoltura. Quasi a sfiorarlo. Notarono che il ragazzo non si era accorto della loro presenza. Ritornarono indietro e con un tocco impercettibile Duncan spostò il braccio con cui il bassista teneva il bicchiere. L'infame lasciò versare la birra sulla ragazza che si mise subito a gridare. Richiamando l'attenzione del gruppo di amici con cui era uscita. Ci vollero pochi minuti prima che quell'episodio sfociasse in una rissa. Una decina di ragazzi lo chiusero in cerchio e ne prese di tutti i tipi. Calci, pugni e testate. Si salvò solo grazie all'intervento della polizia. Qualcuno fece arrivare 67 anche un’ambulanza che lo portò in ospedale dove fu ristabilito e dimesso. Duncan non sapeva se quella lezione fosse servita per cambiare il suo carattere di merda. Di sicuro aveva ricevuto lo stesso dolore fisico che provava lui ogni qual volta lo stendeva a terra per colpa della sua stupida mania di ruotare sul palco. Era giornata di registrazione. Aspettavano tutti il bassista. Con qualche minuto di ritardo si presentò all'appuntamento. Era pieno di lividi e decisamente scosso. Lo accolsero con una risata generale tanto da farlo innervosire. Mentre si accingevano a entrare nello studio, raccontò quanto gli era successo. Duncan ovviamente sapeva tutto. Agli altri suonò come una cosa talmente comica che si rimisero a ridere come dei pazzi. La sala di registrazione era attrezzatissima. Non come quella di Ascoli. Aveva di tutto. Gli vennero dati gli strumenti migliori per registrare. La sessione durò all'incirca tre ore. Tre ore in cui riuscirono a portare a termine l'incisione della base ritmica del pezzo. Nel pomeriggio avrebbero affinato la registrazione con l'incisione delle parti soliste. Philip impiegò mezz'ora per incidere la linea vocale. Il resto del gruppo impiegò un'altra mezz'ora per incidere i cori. L'ultimo era rimasto Duncan con le sue parti di chitarra. Il produttore restò convinto di tutte le particolarità solistiche, ma credeva necessario l'utilizzo di un assolo di chitarra. Spiegò all’italiano che nel rock era di fondamentale importanza. Come un flashback ritornarono in mente alcuni momenti vissuti in sala 68 prove a Montegallo. Quel momento in cui il resto de Il Gruppo lo spinse a costruire un piccolo assolo di chitarra per chiudere il loro primo brano. Dovette restare qualche ora in più per ascoltare la registrazione. Doveva creare al meglio quella parte di chitarra che avrebbe staccato, melodicamente, il secondo chorus da quello finale. Le idee erano chiare. Venti secondi di assolo. Veloce ma non esageratamente complesso. Mise le cuffie. Fece un cenno al tecnico che fece partire la base e alzò il volume dello strumento. Iniziò con una scala. Proseguì con un bending che allacciò a un ultimo fraseggio blues. Terminò con uno slide fino alla nota di chiusura. Registrazione perfetta fra gli applausi del resto del gruppo e il compiacimento di tutto lo staff. Avrebbero lavorato, nei giorni seguenti, al miglioramento del suono e delle incisioni. Uscirono dallo studio stanchi ma euforici. Entrarono nel locale vicino allo studio e iniziarono a bere birra fino a uscirne ubriachi. Il risveglio fu meno esaltante degli altri giorni. Aveva un cerchio alla testa. La bocca di un sapore strano. I vestiti addosso. Finì per inerzia sotto la doccia. Si diresse al bar per fare colazione con un caffè rigenerante ai fini fisici. Non ai fini puramente gustativi. Camminò per tutto il tragitto a testa bassa e con lo sguardo fisso a terra. Fino all'arrivo del bar riuscì a sfiorare un paio di lampioni rischiando di sbatterci con la testa. Appena entrò nel locale Aldo lo accolse come al solito. Con in mano un giornale che gli lasciò subito sul tavolo. Duncan non lo lesse subito perché aveva ancora quel fortissimo mal di testa. Quella 69 sensazione di malessere che si accusa ogni qual volta si finisce con l'ubriacarsi. Rialzò gli occhi non appena sentì il profumo del caffè. Aldo si accostò subito al suo fianco chiedendogli se avesse letto il giornale. Gli disse che ancora non ne aveva le forze. L’avrebbe letto subito dopo aver bevuto il caffè. Aldo ritornò a servire i clienti. Aveva notato sul suo volto l'aria di chi si era appena svegliato dopo una sbornia. Duncan macchiò il caffè con il solito latte freddo e aprì il giornale. La notizia era scritta in prima pagina. Parlava della terza edizione del festival rock dell'isola di Wight. Avrebbero partecipato al festival gruppi e musicisti importanti come Jimi Hendrix, gli Who, i Free, i Doors e tantissimi altri. Duncan guardò Aldo mentre serviva gli altri clienti. Aveva capito che voleva dirgli se ci sarebbero andati. Gli si avvicinò. Senza fare uscire niente di bocca ad Aldo affermò: «si che ci andiamo al festival.» All’amico si stampò un sorriso in viso. Con un cenno face capire a Duncan che ne avrebbero parlato a casa. La cosa che veramente lo aveva colpito di quel festival era la possibilità di vedere, dal vivo, quel ragazzo di colore che faceva cantare la chitarra e spiazzava il pubblico con dimostrazioni di genio e follia. Aldo bussò alla porta di casa affannato e in preda all'estasi. Ne aveva sentito parlare già dall'anno prima e voleva vivere quell’esperienza a tutti i costi. Alcune persone gli e lo avevano dipinto come il miglior festival di tutta Europa. Lui aveva già programmato tutto. Era salito proprio per mostrare l'itinerario 70 completo. Avrebbero preso l’autobus fino a Portsmouth, il traghetto fino al distretto di Fishbourne e poi treno locale fino all'Afton Down. In poco più di tre ore si sarebbero trovati in quell'enorme distesa piena di gente amante del rock e della libertà. Un itinerario perfetto e senza nessuna pecca. Bisognava solo aspettare il 25 Agosto per avventurarsi verso un’esperienza che li avrebbe sicuramente segnati. L'estate volgeva al termine. La tanto aspettata data finalmente arrivò. Nel frattempo il gruppo iniziava a vendere i primi dischi. Fortunatamente si era ricomposto grazie alla brutta avventura capitata al bassista. Scesero in strada per raggiungere la stazione degli autobus che era quasi mezzogiorno. Aldo aveva fatto scorta di tramezzini. Duncan di birra. Il viaggio sarebbe stato breve. Il pernottamento lungo e senza una dimora per riposare la notte. Giunsero a Portsmouth nelle prime ore del pomeriggio. Approdarono sull'isola quarantacinque minuti dopo e salirono immediatamente sul treno locale con destinazione Afton Down. La loro maggiore preoccupazione riguardava il soggiorno. Non avevano prenotato nessun hotel. Avrebbero passato il resto della giornata e della notte nella valle. In attesa che le luci di un nuovo giorno portassero con sé lo splendore del rock. Quello che però si presentò a loro fu un'immensa distesa già stracolma di persone. Erano arrivate da chissà quale parte del mondo e chissà quanti giorni prima. D'un tratto sparirono tutte le preoccupazioni. Furono assaliti dai pensieri più folli. Volevano trasgredire e fottersene della routine che ogni giorno 71 li accompagnava. A dire il vero, l’unico che viveva una metodica routine fatta di caffè, di tè e di tramezzini era Aldo. Duncan tra una serata e l'altra viveva qualche esperienza diversa. Il festival dell'isola di Wight andava ben oltre. Si accamparono vicino a un gruppo di ragazzi inglesi che subito li accolsero in un tripudio di tintinnii di bottiglie di birra e in mezzo alla nebbia della cannabis. Nell'euforia generale iniziò a circolare un quantitativo considerevole di alcolici e diverse fra le più disparate categorie di droghe. Dalla cannabis fino agli acidi. Duncan aveva avuto quella bruttissima esperienza con la droga. Aldo non aveva mai affrontato certe situazioni, infatti, mentre Duncan si accontentava di bere e di spararsi qualche tiro di canna, Aldo si trovò immischiato in un circolo vizioso fatto di allucinogeni di ogni tipo. Cercò più volte di dissuaderlo invano. Spesse volte ricevendo dei pesanti vaffanculo. Capì che avrebbe fatto meglio a farsi gli affari suoi. Avrebbe recuperato la carcassa del suo amico solo a fine campagna. La luce del mattino svegliò Duncan. Con il calore che gli ultimi giorni dell'estate portavano con sé. Come gli succedeva da un po' di tempo si alzava con un cerchio alla testa e con un sapore sgradevole. Aldo dormiva ancora steso sull'erba e con in bocca uno spinello spento. Aveva passato una notte fuori dagli schemi e Duncan dubitava in un suo risveglio. Dormì per tutta la mattinata. Duncan fece un giro di perlustrazione per vedere se riusciva a beccare qualche rockstar. Anche solo per stringergli la mano. La ricerca ebbe esito negativo. Una marea di gente ubriaca e drogata faceva da scenario a una valle che da 72 lì a poco avrebbe visto esibirsi alcuni dei più grandi musicisti del momento. Il pomeriggio si dimostrò leggermente più vivo e chiassoso. Lentamente si stavano riprendendo tutti dai fasti della notte prima. Tutti aspettavano con impazienza e con fibrillazione l'inizio del concerto. Aldo si svegliò vicino sera dopo i continui calci di Duncan che gli buttava per capire se fosse ancora vivo. Aprì gli occhi. Fece appena in tempo a dire qualcosa d’incomprensibile che il rumore delle casse li avvisò che stava iniziando la festa. Un applauso sancì l'inizio della serata e di quei giorni di musica. Passarono momenti indimenticabili. Aldo era sfinito. Portava in viso e in corpo i segni di quei giorni vissuti all'insegna della libertà più assoluta. Duncan stava decisamente meglio di lui. Lasciava girare nella sua mente tutti i gruppi visti su quel palco e i vari artisti. Quello che lo colpì maggiormente fu Jimi Hendrix. Era tutto vero quello che si diceva in giro. Faceva cantare la chitarra e la sua voce da bluesman, bassa e rauca, riecheggiava fra i fraseggi rock-blues-funky. Avevano da poco iniziato a suonare nei locali più importanti della città. Cominciavano a intravedere la via del successo. La gente li ascoltava. Comprava i loro dischi. Andava ai loro concerti. Li riconoscevano per strada e iniziavano a firmare i primi autografi. Cambiarono totalmente abitudini ma non rinunciarono mai a provare al Regent Sounds Studios. Il ritorno dal festival dell'isola lo aveva rigenerato anche sul piano compositivo. Aveva potuto notare tantissime cose per quanto riguardava l'uso dello strumento. Aveva così deciso di proporre 73 al gruppo qualche modifica per quanto riguardava l'approccio alle nuove composizioni della band. L'incontro era fissato per il primo pomeriggio. Dovevano provare la classica scaletta di brani da loro composti per la serata del giorno dopo. Duncan aveva notato che il volto del cantante era decisamente più concentrato e serio del solito. Ricoperto da un alone di tristezza e di delusione che mai aveva scalfito i suoi lineamenti. Philip li fece sedere tutti. Si lasciò cadere sulla sedia anche lui. Attese un attimo. Il tempo di respirare e di guardarli tutti fissi negli occhi prima di iniziare a raccontare la decisione presa riguardo il proseguo della sua avventura nel gruppo. Non aveva mai espresso una causa effettiva della sua scelta. Vagava continuamente fra problemi di tipo personale e problemi d’incompatibilità musicale. Erano consapevoli che il loro bagaglio musicale e la direzione stilistica presa dalla band non era consona alle sue caratteristiche. L'impegno con cui aveva affrontato tutto il viaggio, fino ad allora compiuto, aveva fatto credere in un’inversione di vedute. Per Philip quella sarebbe stata l'ultima giornata di prove. Decisero tutti che non ne sarebbe neanche valsa la pena. Forse una bella bevuta avrebbe lasciato intatti i rapporti. Riposti gli strumenti nelle rispettive custodie, s’infilarono nel primo pub per sbronzarsi fino a notte fonda. Passarono tutto il tempo a raccontarsi del periodo stupendo trascorso insieme. Le fortune si costruiscono col sudore e con la dedizione. Era forse maledizione di Duncan. Doveva per forza di cose 74 succedere qualcosa che interrompesse il sogno. Parlò direttamente col manager di quanto accaduto. La delusione accolse l’agente quanto accolse il gruppo. Il manager lo rincuorò dicendogli che avrebbe fatto di tutto per trovare un degno sostituto. Avrebbe organizzato una serie di provini per valutare, in linea con il progetto, la voce migliore da affiancare al resto della band. Lo informò che avrebbe richiesto un po' di tempo e che avrebbe rimpiazzato il gruppo, per le restanti serate, con un’altra band. Uscì dagli uffici dell'etichetta discografica camminando senza meta per la città. Tutto gli sembrava completamente surreale. Gli sembrava di rivivere gli stessi momenti che in Italia decretarono la fine della prima esperienza musicale. Si fermò per riposare in un parco della città. Rivalutò, ancora una volta, la sua permanenza a Londra. Si lasciò cadere su una panchina quasi alla fine del parco. Sotto l'ombra di un albero. Per ripararsi dal sole di quella bellissima mattinata. Aveva poggiato la testa fra le mani sorreggendola con i gomiti posizionati sulle gambe. A un tratto si sentì toccare e chiamare da una voce delicata. Una ragazza biondissima gli domandò se stesse bene. Se gli servisse aiuto. Le rispose che stava bene e che era solo affranto e deluso. Così, senza nemmeno conoscersi, iniziarono a parlare del più e del meno. Le raccontò quello che gli era appena capitato. Era strano come nonostante fosse uno straniero, in due circostanze difficili, trovò alcune persone pronte ad ascoltare le sue confessioni. Parlò per più di un’ora. Vedeva lei affascinata dal suo racconto e 75 completamente concentrata nell'ascolto. Finito il suo sfogo ebbe il coraggio di chiederle il nome. Da dove venisse. Che cosa facesse a Londra. Lei rispose con molto imbarazzo che si chiamava Monika Dannemman. Era una pattinatrice tedesca che si trovava a Londra per stare insieme al proprio uomo. La delusione di scoprire che fosse impegnata gli vietò di chiederle come si chiamasse il suo compagno. Da una confessione, molto intima della ragazza, scoprì che si trattava di Jimi Hendrix. Le rise in faccia perché si sentì per un attimo preso in giro. Pensava fosse il suo modo per risollevarlo di morale. La ragazza cercò in più di un’occasione di fargli capire che non si trattava di uno scherzo. Per convincerlo lo invitò a casa sua per passare una serata insieme a lei e al suo Jimi. Monika gli chiese come si chiamasse e Duncan, volendo restituire lo scherzo disse: «mi chiamo Flahertie Wilde» «Come Oscar Wilde?» rispose lei. Ducan, alla risposta della ragazza, iniziò a fantasticare. «Esattamente! Sono un pronipote dello scrittore. Diretto discendente di una delle due scopate eterosessuali che si era concesso durante il matrimonio.» Raccontò tutto così seriamente che gli e lo fece credere. Lei lo guardò folgorata come se avesse rivisto in lui il suo presunto parente. Si salutarono con il sorriso stampato in faccia e con la consapevolezza di aver fatto entrambi una gradita conoscenza. Doveva possedere un sacco di soldi la pattinatrice. Lo invitò al 20 del Samarkand Hotel sulla Lansdowne Crescent. Mise 76 l'abito migliore. Era convinto che quella bugia fosse un modo per attirare la sua curiosità. Lungo la strada non fece altro che rapportare lo stile di approccio da parte delle donne italiane con quelle tedesche. Nel suo paese era del tutto impossibile approcciare una ragazza senza avere il permesso del padre. In Germania era totalmente differente. Le ragazze tedesche si avvicinavano ai ragazzi ed erano loro ad attaccare bottone. La stessa cosa aveva fatto Monika il pomeriggio precedente. Gli si presentò davanti un immenso residence nella sua architettura e nella sua spettacolare colorazione biancastra. Impacciato e senza la minima idea di come trovare la ragazza, si mise a girare intorno al residence con la speranza di vederla o di farsi notare da lei. Il suo piano funzionò alla perfezione. Dopo neanche qualche minuto si sentì chiamare da quella dolcissima voce. Dal 20 del Samarkand Hotel uscì Monika. Si avvicinò. Gli diede un bacio sulla guancia e lo condusse nel suo appartamento. Erano da soli. Iniziarono a raccontarsi di quello che avevano fatto nella mattinata e senza pensarci su due volte iniziò a deriderla per quello che gli aveva raccontato il giorno prima su quella panchina. Lei rimase impassibile e compiaciuta della sua verità che Duncan continuava a non considerare come tale. Monika gli porse un bicchiere di vino rosso. Lasciò toccare il bicchiere con il suo. Brindarono all’incontro. A un tratto sentirono bussare alla porta. «È il mio Jimi» disse la ragazza. «Ah ah ah il tuo Jimi». 77 Un’ombra gigantesca si avvicinava verso il salone. Aveva gli occhi bassi sul bicchiere. A un tratto si ritrovò davanti Jimi Hendrix in persona. Monika lo guardò quasi orgogliosa di mostrargli che aveva ragione. «Idiota che non sono altro. Perché avrebbe dovuto raccontarmi una fesseria? È chiaro che non aveva senso dirmi che era la ragazza di Jimi Hendrix solo per attirare la mia attenzione. Se lo affermava con insistenza, è perché lo conosce veramente.» Archiviò la figuraccia con l'esclamazione «cazzo!» notando però che l'uomo era in chiaro stato confusionale. Aveva già abusato di droga e di alcool. Gli puzzava tremendamente il fiato e i suoi occhi erano come socchiusi. Dormienti. Si accasciò sul divano facendosi porgere un bicchiere di vino rosso. Lo deglutì in un colpo solo. Era senza forze. Devastato. Come se stesse fuggendo da qualcosa che non andava. Monika iniziò a raccontargli qualcosa. Scoprì che, dopo la performance al festival, aveva compiuto delle serate in alcune tv tedesche che erano andate decisamente male. Si era ritirato a Londra per ristabilirsi e ricominciare le registrazioni di un nuovo album. Da quanto aveva potuto capire il drogato stava dissipando tutta la sua fama per via dei suoi vizi. Un tour disastroso e qualche esibizione fischiatissima lo avevano portato anche sull'orlo di una nevrosi. Sempre confidandosi con la ragazza scoprì che il drogato stava facendo anche uso di tranquillanti. La conversazione tra Duncan e Monika divenne man mano sempre più confidenziale. Apprese che era stata una sua idea farlo arrivare a Londra. Farlo alloggiare nello stesso Hotel. 78 Voleva stargli vicino e voleva aiutarlo. La cosa che più sorprese l’italiano fu la considerazione che aveva lei del manager di Jimi. Michael Jeffery. Era considerato da Monika e da tutti gli amici del chitarrista, il vero artefice della caduta della rockstar. Rimase sorpreso da tali affermazioni. Si ritrovò di colpo spiazzato sul ruolo che avevano i manager. Quello che aveva contattato la sua band stava cercando di trovare il sostituto del loro cantante. Quello di Jimi lo stava definitivamente distruggendo. Chiusero la conversazione con quell'ultima confessione. Iniziarono a bere e a parlare di tantissime altre cose. Il drogato stava lentamente riprendendo conoscenza. Appena si rese conto della presenza di Duncan iniziò a delirare e a dirgli di uscire dalla stanza. Monika cercò di calmarlo e di spiegargli tutto. Con un cenno fece capire al ragazzo di uscire e di aspettarla nel giardino sul retro. Continuò a discutere con quel drogato di merda. Sentiva le urla da fuori. Più ascoltava quella lite patetica più le sue considerazioni sugli effetti negativi che la droga e l'alcool fanno sugli esseri umani, diventavano chiari. Si autoconvinse che il suo classico caffè macchiato freddo era un elisir di benessere e pace interiore. I toni della lite non attenuavano. Decise di rientrare nella stanza e di prendere parola. Per spiegare al coglione che non voleva rubargli la donna e che non voleva andare in giro a dire che aveva visto lui in quelle condizioni. Sembrò capire che le sue intenzioni erano altre. Aveva solo accettato l'invito di una ragazza conosciuta per caso nel parco. Lentamente il suo 79 umore ritornò su livelli accettabili di convivenza. Si sedettero. Si versarono un altro bicchiere di vino. Continuarono a farlo per tutta la serata. Erano ubriachi. Non avevano mangiato niente tanto che Monika decise che avrebbe preparato qualcosa da mettere nello stomaco. Per attenuare quella sbronza. Restarono per qualche minuto Duncan e Jimi da soli a guardarsi in faccia. Senza dire assolutamente niente. Come avrebbe preteso di parlare con un drogato alcolizzato che a mala pena si teneva in piedi? La fortuna di ritrovarsi con un altro grande musicista ma la sfortuna di beccarlo come il primo. Completamente sopraffatto dalle sostanze stupefacenti. Monika ritornò in camera invitandoli a raggiungere il giardino dove avrebbero cenato. Si accomodarono in cerchio. Cominciarono a mangiare. Riempirono i bicchieri con del vino fino a scolarsi l'ennesima bottiglia. Jimi si alzò di scatto e si diresse nella stanza di Monika. Lei stava dormendo con la testa poggiata sul tavolino. Duncan si mise a seguire il coglione per assicurarsi che non gli succedesse niente. Entrò piano in camera facendo attenzione a non turbarlo e non fargli venire qualche altra crisi di nervi. Si mise vicino a lui e cominciò a parlargli del suo gruppo. Di quello che era successo. Di quanto sperava si risolvesse la questione del cantante. A lui non parve interessare molto. Quasi sfinito da tutte quelle sue parole si mise a ridere. La sua risata fu talmente contagiosa che anche Duncan si lasciò andare a una risata liberatoria. Una risata che consacrò quell'incontro che di artistico non aveva niente. Per lui andava bene 80 ugualmente. Duncan aveva compreso le precarie condizioni psicologiche dell’energumeno. Si stupì quando il tossico gli chiese dall’alto della sua goliardia: «giochiamo a fondino?» Duncan si mise le mani in faccia. Non aveva mai sentito questo tipo di gioco. Sottomesso dalle risate del coglione, si fece spiegare le regole. Jimi gli rispose che l’unica regola era quella di bere piegando la testa in dietro fino a quando non se ne fosse più capaci. Duncan con un gesto della testa accettò chiedendo di partire per primo. Jimi lo fece sedere su una sedia. Gli fece piegare la testa in dietro, gli fece aprire la bocca e iniziò a versare l’alcool. L’italiano alzò la mano per fermarlo. Deglutì con forza sentendo in testa già gli effetti della sbornia. Si alzò dalla sedia lasciando il posto al chitarrista. Decise di togliersi la camicia restando a torso nudo. Piegò la testa e con un cenno della mano indicò a Duncan di versare il liquido. L’alcolizzato iniziò a deglutire senza nessuna difficoltà. La bottiglia si svuotava inesorabilmente fermando la sua corsa quando l’ultima goccia cadde dall’imboccatura. Hendrix non si muoveva. Aveva sgranato gli occhi. Aveva stampato un sorriso in volto. Si stese sul letto quando all’improvviso iniziò a spasimare. Come un vulcano in eruzione iniziò a vomitare senza pausa. Duncan restò immobile. Non riusciva a muoversi. La paura lo assalì lasciandolo incapace di compiere qualsiasi gesto. Monika dormiva fuori nel giardino. Non poteva svegliarla per chiederle aiuto. Sudava freddo. Gli tremavano le gambe. Gli occhi si appannarono di colpo. Pian piano e senza 81 far rumore scavalcò la sedia messa al centro della stanza. Lasciò Jimi immerso nel suo vomito dirigendosi verso l'uscita. Una volta fuori dal residence si mise a correre come un pazzo verso casa. Il tragitto non era lunghissimo. Due o tre soste dovute alla stanchezza e al vomito gli e lo fecero sembrare eterno. Non poteva credere a quello che era appena successo. La paura aveva provocato in lui una crisi d'ansia pazzesca. Respirava a fatica e sentiva il cuore esplodere. Riuscì comunque ad arrivare sotto casa sua. Mise le mani in tasca. Prese la chiave e, una volta chiuso il portone, salì nel suo appartamento senza neanche prendere l'ascensore. Salì i gradini a due a due per non perdere altro tempo. Per arrivare prima possibile in camera. Non accese neanche la luce. Si diresse in bagno. Alzò la tavoletta del cesso e cominciò a vomitare tutto il vino ingerito poco prima. Sfinito e con gli occhi spalancati dallo sforzo, sciacquò la faccia e si diresse in camera da letto. Non riusciva a dormire. Aveva paura che da un momento all'altro la polizia avesse potuto suonare al suo campanello. Arrestandolo per quello che aveva provocato. Guardava continuamente la sveglia. Le tre. Le quattro. Le cinque. Prima di addormentarsi definitivamente. Sentì dei colpi forti alla sua porta. Si svegliò di scatto. Impaurito. Uscì dalla stanza tremando. «Chi è?» Non riceveva risposte o forse la sua paura non lo rendeva lucido da capire il nome. Si avvicinò ancora di più. All'ennesima richiesta sentì esclamare in bassa voce: «Sono 82 Aldo. Che ti è successo. Sono due giorni che non ti si vede in giro.» I suoi nervi cedettero di colpo. Si accasciò a terra. Con le ultime forze rimaste aprì la porta ad Aldo. L’amico, preoccupato, lo risollevò da terra portandolo sulla poltrona. Non volle raccontargli niente. Gli fece credere che fosse febbricitante e stanco. Si fece accompagnare sul letto e si rimise a dormire. Aldo si assicurò che stesse bene. Dopo un sospiro di sollievo lo lasciò riposare. Ritornò nel suo appartamento. Il sole sbatteva sul vetro della sua finestra. Si rifletteva nello specchio e per riflesso sul suo volto. Si svegliò. Era tramortito. Non riusciva a mettere a fuoco l'accaduto. Pian piano si diresse verso la doccia. Un odore acido e disgustoso lo costrinse ad aprire la finestra del bagno. Ad aspettare che l'aria rigenerasse il locale. Nel frattempo aprì le restanti finestre per cambiare aria all'appartamento. Dopo aver constatato che il bagno era tornato agibile, s’infilò sotto la doccia per rigenerarsi. Poggiò la testa al muro lasciandosi cadere l'acqua in testa. Pensava e ripensava a quanto era accaduto. Deluso da cosa gli stesse succedendo. Incredulo su come una vita, la sua, tranquilla di provincia, si stesse trasformando in una caotica esistenza in città. Racimolò i vestiti più puliti e si diresse come di consuetudine al bar dove lavorava Aldo. Non aveva come al solito quel fastidiosissimo cerchio alla testa né si sentiva distrutto. Sentiva la pressione di quello che era successo e si guardava intorno. Impaurito. La ragazza non sapeva 83 esattamente il suo nome ma avrebbe potuto fornire una descrizione del suo viso. La polizia poteva identificarlo e arrestarlo. Arrivò al bar. Entrò salutando come al solito e ordinò il classico caffè. Era strano come in Inghilterra non si usasse salutare. In Italia quando entravi in qualsiasi locale e salutavi, tutti i presenti si giravano per ricambiare il saluto. In Inghilterra non gli era mai capitato. Aldo si scusò per averlo svegliato la notte prima. Non avendolo visto credeva gli fosse successo qualcosa. Duncan lo ringraziò e anzi gli chiese scusa per non aver dato sue notizie. Diede ai troppi impegni discografici la colpa della sua scomparsa. Salutò Aldo e uscì dal locale. Si avvicinò all'edicola e comprò il giornale. Era troppo curioso di sapere se della morte di Hendrix si sapesse qualcosa. Se ancora giacesse morto in quella camera. La notizia era in prima pagina. Una foto del chitarrista steso sul letto lo mostrava esanime. Tornò a casa senza aprire il giornale. Avrebbe voluto leggere l'articolo con calma. Capire se c'era traccia della sua presenza nel racconto che Monika avrebbe potuto fare di quella notte. Gli tremavano le mani. Le palpitazioni aumentavano in continuazione. La tensione gli provocò uno stato di affanno che dovette calmare con un respiro profondo. Aprì il giornale alla pagina che parlava della morte dell'artista e iniziò a leggere. L'articolo raccontava una versione totalmente diversa dell'accaduto. Gli sembrò più una personale proiezione mentale che la scrittura del giornalista. Si alzò, si diresse in bagno, sciacquò la faccia e ritornò a leggere l'articolo. Il racconto era 84 lo stesso che aveva letto prima. Hendrix era stato ritrovato morto sul suo letto nella 22 del Samarkand Hotel. Overdose da barbiturici. Non credeva a quanto era stato scritto. Non riusciva a comprendere cosa fosse potuto succedere dopo. Uno stato confusionale lo privò della ragione. In un delirio mai riscontrato prima iniziò a chiedersi: «l’altra sera mi trovavo in quella stanza oppure è stato solo un brutto sogno?» L'incredulità e lo sconcerto lo fecero per un momento ridere di gusto. Si diceva: «ma come ho potuto credere di aver ucciso Hendrix se in quella stanza non ci sono mai entrato?», continuava a ridere e a ripetersi che doveva cominciare a bere di meno. Doveva calarsi nel ruolo di musicista a tempo pieno. La mattinata fu un continuo ricordare e cancellare le memorie di quella notte. Finì la giornata in totale confusione tanto che si mise a dormire. Esausto. Decisamente stordito. Fu un continuo agitarsi. Il suo inconscio non lo fece dormire. Il pensiero di quella serataccia lo risvegliò regalandogli una bella notte insonne. Nel buio della stanza si sedette sulla poltrona. Fissò il buio e iniziò a pensare seriamente a quanto successo. Ricordava esattamente tutti gli attimi concitati di quella notte. Ricordava che Monika dormiva ubriaca sul tavolino in giardino. Che si trovavano al 20 e non al 22 dove fu trovato il cadavere. Diverse versioni dell'accaduto iniziarono a costruirsi nella sua mente. La più realistica versione di quanto letto era quella in cui Monika, una volta sveglia, era andata in camera sua per dormire quando trovò il corpo dell'uomo steso a terra. Sapeva che non poteva chiamare 85 i carabinieri. Avrebbe passato guai molto seri con la polizia e con la federazione sportiva. In un attimo di coraggio spostò il cadavere nell’altra stanza in modo da depistare le indagini. Facendo in modo che risultasse una morte causata dall'uso eccessivo di tranquillanti. Non dall’abuso di alcool e droga. Era l'unica ricostruzione plausibile della nottata. Doveva per forza di cose essere andata in quel modo. Rilesse l'articolo per dare conferma alla sua supposizione. A fine articolo sottolineò la dicitura “morte per incidente”. Tirò un sospiro di sollievo e ritornò a dormire in tutta tranquillità come se nulla fosse successo. 86 Capitolo IV Una notizia straordinaria aveva entusiasmato la giornata di Duncan. Il manager del gruppo, in stretto contatto con Albert Grossman, impresario di Janis Joplin, lo propose per una collaborazione con la cantante. Avrebbe partecipato alla composizione di alcuni suoi brani che sarebbero poi finiti nell’album “Pearl”. Era strafelice ed entusiasta di quanto gli era stato concesso. Lo studio e il lavoro erano stati ripagati nel miglior modo possibile. Doveva prendere un aereo e volare in America con destinazione Hollywood. Non stava nella pelle e non riusciva a immaginare cosa potesse aspettargli in quel posto. Non aveva mai lavorato per altri grandi musicisti. Aveva solo creato insieme con altri ragazzi con la sua stessa esperienza. Il volo per l'America decollò prestissimo. Quasi venti ore di viaggio per poi mettersi subito al lavoro. Le indicazioni del suo manager erano state chiare. Creare qualcosa d’importante per non far rimpiangere la vecchia band della cantante. La responsabilità di quanto gli era stato affidato lo inorgoglì moltissimo. Stava meritando tutto questo? Era veramente all'altezza dell'incarico? Furono solo alcune delle domande che 87 si pose durante tutto il viaggio. Viaggio in cui dormì pochissimo. Per due motivi. La preoccupazione di non essere all'altezza. La paura di volare. Era la seconda volta che prendeva l'aereo. In entrambe le circostanze solo ed esclusivamente per andare a cercare fortuna. Hollywood era spettacolare, minimamente paragonabile a Londra. Dava un senso di libertà e tranquillità, era soleggiata e allegra a differenza di Londra. Soffocante e triste. La tendenza hippie aveva profondamente modificato il modo di vivere. Persone stravaganti, vestite di colori accesi. Con magliette decorate da stranissimi disegni. Medaglioni che pendevano sul petto. Occhiali rotondi che nascondevano gli occhi sempre sopraffatti dall'uso di sostanze di ogni tipo. Londra manteneva la sua cultura. La Beat Generation aveva inculcato nei ragazzi e nelle ragazze uno stile di vita totalmente diverso. I vestiti erano decisamente più eleganti. Anche il taglio di capelli si basava sulla moda lanciata dai Beatles. Gli hippie avevano tutti i capelli lunghi e sporchi. Albert Grossman lo aspettava nel suo ufficio. Voleva vederlo. Spiegargli il lavoro da svolgere con l'artista. Gli raccontò tutto quello che era successo con la Kozmic Blues Band. Lo informò del caratteraccio che possedeva Janis. Duncan gli assicurò che avrebbe fatto del suo meglio. Avrebbe assecondato ogni richiesta dell'artista in modo tale da portarla alla realizzazione del disco secondo le sue preferenze. Gli furono concessi un paio di giorni prima di iniziare a lavorare. Lo studio di registrazione era vicinissimo al 88 Landmark Hotel. Dove risiedevano lui e la cantante. Il resto della band, la Full Till Boogie Band, l’avrebbe incontrata all'indomani. Avrebbero iniziato a discutere sul sound da dare al disco. L'incontro fu alquanto amichevole. I ragazzi rimasero incuriositi dal fatto che fu chiamato un italiano a suonare in quel disco. Decisamente fuori dagli schemi della musica che di solito si ascolta nel paese europeo. Non appena spiegò loro il perché della sua chiamata, si ricredettero e iniziarono a dargli più fiducia. Nessuno mostrò altri tipi d’interesse sul suo conto. La moda del momento imponeva pensieri più liberi. Ognuno era libero di interpretare la propria vita. Tutti i componenti della band facevano uso di droghe di ogni genere. La leggenda che la scena culturale americana era incentrata sullo slogan “sesso, droga e rock & roll” trovava conferma nella vita sregolata che conducevano i ragazzi. Joplin ne era chiaramente l'icona. L'attesa per l'arrivo della cantante fu spasmodica ed estenuante. Tardò quasi di un’ora. Non appena sentirono la sua voce riecheggiare nello studio si fiondarono sugli strumenti per farsi trovare pronti. Le direttive erano state chiare. Accontentarla per non rischiare di creare problemi alla composizione dell’album. Janis arrivava da un disco fallimentare più per quanto riguardava il consenso della critica quanto per l'elevata qualità musicale prodotta. Era infuriata e stravolta ogni qual volta si recava nella sala prove. Questo chiaramente influiva sulla composizione. 89 La band iniziò a suonare il primo pezzo. La stronza non si era neanche voltata per salutare il gruppo. Tantomeno per fare la conoscenza dell'ultimo arrivato. La strafottenza che mostrava nei confronti della band era patetica. Aveva assaporato il successo da qualche anno e già si sentiva superiore a chiunque. Duncan aveva imparato alcuni pezzi che avrebbero fatto parte del disco. Ora gli toccava arrangiarne qualcun altro partendo esclusivamente dal testo e dall'impronta che la cantante voleva dare al brano. Il blues del primo disco da solista riecheggiava in qualche fraseggio. La connotazione decisamente più folk di qualche altro passaggio sembrava accontentarla. Il batterista fu il primo della band a dargli più confidenza. Forse incuriosito dal suo trascorso o semplicemente perché molto più espansivo. Iniziò a raccontargli un bel po' di aneddoti riguardanti Janis. Scoprì subito che era una ragazza normale e semplice. Quando si trattava di musica, diventava esigente e riusciva a rompere le scatole a chiunque tentasse di rendergli il lavoro lineare e preciso. Amava improvvisare e ricercava la perfezione in questo. Gli raccontò che prima di scritturare la band aveva avuto esperienze con altri gruppi. Con questi, in più di una circostanza, si trovò in netto contrasto. Era una perfezionista. Era stata accompagnata sempre da grandi musicisti ma soprattutto da gente che viveva da rockstar. In un circolo vizioso fatto di sesso e di droga. Per Duncan furono confidenze 90 importanti perché adesso sapeva come approcciarsi a lei senza dover per forza scontrarsi. Non era esageratamente bella. Janis possedeva una voce potente. Uno stile hippie e una capacità compositiva al di fuori di ogni schema. Il suo graffio e il suo animo triste la rendevano produttrice di testi e musiche decisamente blues. Quelle composizioni portavano l'animo negli abissi e nel dolore prima che un vocalizzo facesse esplodere tutto per riportarlo alla luce. Dovevano portare avanti il disco nonostante la sua vita procedesse immersa nella sregolatezza. Dovevano suonare e provare e in più di un'occasione le sue condizioni lo impedirono. I fasti dell'estate riecheggiavano anche a settembre. La temperatura rendeva tutto più complicato. Spesso si arrivava all'esaurimento nervoso per stare al passo delle esigenze della stronza. Non c'era una seduta di prove che non terminasse con un’indecisione riguardo a qualche pezzo e che non terminasse con una critica nei loro confronti. Venivano spesso accusati di non saper suonare. Di non saper comporre ottima musica. Duncan incominciava a essere stufo di quel suo modo arrogante di porsi. Era pur sempre una star, ma per quel suo modo arrogante di fare nessuno voleva collaborare con lei. Albert Grossman gli ripeteva sempre di non ascoltarla e di continuare a fare il suo lavoro insieme alla band. Al prodotto finito ci avrebbero pensato lui e Paul. Certo quella sua affermazione non era rassicurante, ma, comunque risuonava come un incoraggiamento a svolgere diligentemente il lavoro senza preoccuparsi di Janis. 91 Un foglio con un testo scritto era rimasto in sala prove. Duncan arrivò per primo. Incuriosito, lo lesse. Era pazzesco. Un testo struggente e nello stesso tempo pieno di positività. Mentre lo leggeva, immaginava gli arrangiamenti, pensava a un'immensità di soluzioni ritmiche. Allo stesso tempo voleva renderlo più semplice possibile. Aveva analizzato il disco precedente registrato insieme alla Kozmic Blues Band. In quella produzione notò quanto Janis rendesse nel momento in cui gli si lasciava lo spazio per improvvisare. Far uscire quella parte di sé in cui mostra il suo talento e le sue potenzialità. All’arrivo degli altri componenti Albert li informò del ritardo della cantante. Il resto del gruppo si ritirò nella stanza accanto per fumare e per bere, come facevano di solito prima dell'arrivo della drogata. Duncan, al contrario, rimase nella sala prove per lavorare sul testo. Voleva dargli un’impronta blues ma nello stesso tempo renderlo armonioso. Ascoltabile. In modo che, in una riproposizione live, le persone potessero apprezzarne sia l'esecuzione vocale sia quella musicale. Segnò qualche accordo nelle prime due strofe e nell'inciso. Li provò per vedere se funzionassero bene. Se facessero parte di una melodia lineare e precisa. Era ormai mezz'ora che provava e riprovava il pezzo. Non lo rassicurava quel tipo di arrangiamento. In quel preciso momento sentirono la voce potente di Janis rimbombare per lo studio. Gli altri ragazzi si posizionarono con i rispettivi strumenti in spalla pronti a iniziare un'altra sessione di prove. La stronza come al solito non diede confidenza. Cominciò a dare ordini su quali pezzi provare. 92 Iniziarono a suonare le prime composizioni quando si accorse che sul suo testo vi erano annotati degli accordi. Si bloccò. Iniziò a guardarli con un’aria strana quasi pronta a esplodere in uno dei suoi attacchi. Incredibilmente non fu così. Con molta calma chiese chi avesse segnato quegli accordi sul suo testo. La paura immobilizzò il resto del gruppo. Per qualche istante non si sentì neanche un respiro. Duncan alzò il braccio per rispondere alla sua domanda. La stronza cominciò a chiedere sul perché si fosse permesso di scriverci sopra. Lui, senza alcun problema, iniziò a spiegarle quali erano le sue intenzioni. Era agitatissima. Non era abituata a ricevere consigli da un componente del gruppo. Non poteva accettare questo. Le continue ripetizioni di Duncan sulle cause che lo avevano spinto a fare quel gesto sembravano man mano convincerla. Forse sarebbe stato più opportuno provare e vedere se andassero bene, prima di sfociare in uno dei suoi soliti sfoghi. Duncan chiese alla band di eseguire un classico tempo blues. All'altro chitarrista e al bassista chiese espressamente di ritrovare nel giro armonico di accordi una continuità di esecuzione in modo da non denudare il pezzo della sua musicalità. Di rafforzarlo dall'inizio alla fine. A Janis spiegò dettagliatamente di cantare con quella tonalità perché la riteneva un ottimo punto di partenza. Sembrò piacerle l'idea tanto che volle provarla subito. Tre ore di prove costanti e ripetute si conclusero con un nulla di fatto. La stronza lasciò cadere il microfono a terra uscendo dalla stanza senza neanche salutare. 93 La vita in hotel era una figata. Aveva la possibilità di stare a contatto con grandi personaggi ma a lui interessava poco o niente. Fiumi e fiumi di champagne scorrevano nei suoi bicchieri. Cercava in tutti i modi di organizzare la sezione melodica delle canzoni di quella pazza esaurita strafatta di ogni tipo di droga. Dovevano preparare il disco nel minor tempo possibile. Perdevano ore e ore nell'attesa che Janis si presentasse. Passavano molto tempo a curare gli arrangiamenti che immediatamente venivano smontati dagli improvvisi cambi che la cantante proponeva appena si presentava in sala prove. Erano esausti e non riuscivano più a concludere una sessione di prove. Era passata ormai una settimana dove in sostanza si erano creati solo cinque brani. Altri tre erano in cantiere. La vita in hotel continuava a essere estremamente lussuosa. Era il luogo più vicino agli studi di registrazione della città. Intorno ruotavano decine e decine di persone che spacciavano. Lui se ne stava dalla finestra e si gustava lo spettacolo. Persone che si passavano la roba e che contrattavano. Capì subito che una delle attrazioni principali dell'hotel non era la sua architettura stile polinesiana, ma la possibilità di vivere anche a stretto contatto con i migliori spacciatori di tutta Hollywood. Vide Janis uscire dall'hotel in compagnia del suo ragazzo. Un certo Seth Morgan che viveva a San Francisco e che spesso andava a trovare la ragazza. Li osservò mentre abbracciati, si avvicinavano verso la Porche Carrera della cantante. Janis era 94 una vera artista. Il suo modo di vivere era talmente folle che fece dipingere la sua macchina con dei disegni psichedelici da un artista della zona. In un colloquio privato con l'altro chitarrista della band, riuscì a scoprire della fragilità emotiva della ragazza. Dei suoi repentini cambi d'umore. Della turbolenta vita che negli anni l’aveva totalmente stravolta. Era molto amica con altre due ragazze. Due stiliste che intrattenevano con lei rapporti morbosi. Con una di esse visse una breve storia d'amore. Erano rispettivamente l'angelo e il diavolo. Una devota al lavoro e alla vita tranquilla. L'altra la compagna di tante sbronze e di tante serate passate a fare uso di droghe. Come al solito Janis si faceva aspettare per ore. Il resto della band cercava in tutti i modi di portare a termine qualche composizione. C'era ancora da completare il brano su cui lavoravano da tre giorni. Non convinceva. A Janis questa cosa dava molto fastidio. Voleva la perfezione, dove la perfezione ancora non era stata trovata. Per una mezz'ora provarono e riprovarono senza nessun miglioramento. I suoi sguardi diabolici celavano una rabbia che da lì a poco sarebbe sfociata in un’offesa. Andò esattamente come immaginavano tutti. Conclusa quell'ennesima prova la psicopatica iniziò a urlare e a inveire contro la band. Li definì incapaci. Inutili. Musicisti da oratorio e senza un minimo di estro. Erano impietriti di fronte a quella bestialità. Non osavano rispondere né ribattere su quanto era stato detto loro. Non potevano mettere a rischio l'album. Il destino di Janis. Tantomeno volevano rinunciare alla voglia di 95 fare musica. Si notava chiaramente come lei volesse diventare una star. Per farlo doveva sfornare pezzi che fossero all'altezza o superiori agli altri. A loro, al contrario, bastava suonare. Essere buoni musicisti. Fare musica. Arrangiare canzoni. Scrivere. Paul Rothchild aveva avvertito le urla della dannata da fuori lo studio di registrazione. Come un fulmine si era diretto nella sala per calmare la ragazza e per tranquillizzare la band. Non che le parole uscite dalla bocca di una drogata li avesse colpiti più di tanto. Sapevano di quel suo caratteraccio. Quello che li preoccupava di più era come finire quello stramaledetto lavoro. Paul li rassicurò dicendo loro di prendersi qualche minuto di pausa. Lui avrebbe calmato la stronza. Duncan negli occhi degli altri componenti non ci vide nessuna preoccupazione. Nessun segno di rabbia. Fumavano e bevevano. Pensavano a suonare. Dopo quell’esperienza loro avrebbero comunque continuato a fare musica. Duncan invece si sarebbe trovato a un bivio. Continuare a fare musica o abbandonarla per sempre. Ritornare a Londra con alle spalle una collaborazione importante avrebbe sicuramente raddoppiato il suo valore. Ritornare con un fallimento, nella culla della Beat Generation, avrebbe significato la sua definitiva scomparsa. Uscì fuori ostinato a far sentire la sua voce. Non poteva restare inerme. Non poteva farsi prendere a pesci in faccia da una sprovveduta che, solo per via della sua voce, si credeva la star del secolo. 96 Mentre stava andando verso la stanza in cui Janis si stava calmando, fu fermato da Albert Grossman che gli disse di non compiere sciocchezze e di tirare avanti per qualche altra settimana. Si fermò solo perché era grazie a lui se stava realizzando quella magnifica esperienza. Sempre grazie a lui in hotel non gli mancava niente. Paul li richiamò e li fece rientrare in sala prove. In quei pochi passi, che lo separavano da una sala all'altra, ebbe una folgorazione. Il modo migliore per far decollare il pezzo era quello di dare sfogo alla rabbia di Janis. Un urlo dove la ragazza avrebbe intonato le due parole del ritornello. Spiegò le sue intenzioni al resto della band che accettò senza alcun problema. L'unico problema era come spiegarlo alla malata di mente. Non riuscirono mai a spiegarsi come fosse potuto succedere. Le sue intenzioni e quelle della band avevano colpito in maniera del tutto inconscia anche la cantante. Il batterista diede il tempo con quattro colpi di bacchette. Duncan intonò il primo accordo. Janis si mise a urlare, con un’intensità e una potenza mai sentite prima, le due parole Cry Baby. Il tanto ricercato e discusso particolare, che migliorasse la canzone, fece sì che il resto del brano scorresse tranquillamente e decretasse la fine di quella straziante giornata di prove. Nonostante la dura registrazione del pezzo, Janis continuò ad avere problemi con tutta la band. Il suo umore variabile non lasciava nemmeno il tempo di gustarsi una sessione ben riuscita. Subito iniziava a inveire per gli arrangiamenti degli 97 altri brani. Duncan decise che per quanto riguardava Cry Baby non si sarebbero verificati altri cambiamenti. Lo chiarì con la stronza e lo ribadì a Paul e ad Albert. I due con un cenno impercettibile del capo, quasi per non farsi notare dalla cantante, gli fecero un cenno d’intesa. Per sviare il discorso proposero alla band un pomeriggio di pausa. Decisero di andare a bere qualcosa tutti insieme. Anche Janis accettò. Quando si trattava di droga e alcool lei era sempre la prima a essere d'accordo. Lasciarono gli strumenti sparsi per la sala. A nessuno interessava più della registrazione. Anche il penultimo pezzo era quasi pronto. Con un ultimo turno di registrazione avrebbero concluso il sofferto disco. Si avviarono tutti insieme verso il Barney's Beanery. Il solito luogo di ritrovo della band. Molto di frequente, a detta degli altri, si potevano incontrare anche i Doors. L'altro gruppo prodotto da Paul Rothchild. Si sedettero alla fine del locale quasi come se stessero ricercando la tanto desiderata tranquillità. Janis si accomodò nell'angolo come se volesse essere protetta. Protetta da un mondo che gli stava togliendo la vita. La cultura hippie l'aveva liberata da ogni freno inibitorio catapultandola nell'abisso della droga. Il tastierista si mise vicino. Isolandosi dal gruppo iniziarono a parlare di musica e delle registrazioni dell'album. La stronza aveva il coraggio di parlare delle registrazioni nonostante fosse riuscita a fargliele odiare fino all'ultimo secondo. Era costantemente in ritardo. Non gli andava mai bene niente. Lottavano contro un muro. Contro una persona che non riusciva a stabilire un rapporto con 98 gli altri senza litigare o rispondere con toni decisamente da censura. Ordinarono tutti quanti una bella bottiglia di Southern Comfort. Era il whisky preferito della donna. Forse per via del suo sapore dolce e mieloso che le dava una sensazione di benessere alle corde vocali. Dava il massimo nei live. Sforzava la voce con tale veemenza che quasi sembrava volesse romperle. Qualche giorno prima, Duncan, aveva parlato con Paul. Gli spiegò come stesse cercando in tutti i modi di far fare esercizi vocali alla cantante. Aveva paura che da un momento all'altro le sue corde vocali potessero rompersi definitivamente. Distruggendo quello che era il vero punto di forza dell'artista. Lei non volle mai fare quegli esercizi. Dalle prime registrazioni a quelle attuali la differenza si notava. Nei primi dischi si notava un approccio potentissimo, più urlato. Nell'ultimo disco e in quello che stava per uscire le cose erano chiaramente migliorate. Riusciva a controllare la tonalità e capiva quando era il momento di vocalizzare. Quando doveva alzare e quando doveva usare il timbro basso. D’altronde una cantante blues doveva possedere una proprietà canora eccellente. Purtroppo quello che la stava rovinando era l'uso costante di droghe. Scoprì che Janis ultimamente stava facendo uso di eroina. Non sapeva neanche l'esistenza di quel tipo di droga. Negli ultimi anni, da quando era partito da Montegallo, aveva imparato a conoscere la cannabis e la cocaina. Di eroina non ne aveva mai sentito parlare. Fece finta di sapere di cosa stesse parlando. A lui interessava sapere altri particolari della vita di Janis. Tutto a un tratto la conversazione fu interrotta da una frase che scandì 99 Janis. Suonò molto particolare. «Siete la mia band! Non permettetevi ad abbandonarmi altrimenti vi ammazzo!» Dopo aver rotto con il gruppo precedente, aveva espresso chiaramente ad Albert che avrebbe voluto una band fatta esclusivamente di ottimi musicisti. Quattro canadesi, un americano e un italiano furono la squadra che fino a quel giorno l'aveva accompagnata nella registrazione del suo album. Avevano bevuto tantissimo. Dal whisky passarono a una miscela di vodka e succo d'arancia. Erano ad un passo dalla sbronza quando decisero che era ora di ritornare a casa. Duncan e Janis vivevano nel Landmark Hotel nel West Hollywood al 7047. Lei viveva nella stanza 105. Lui nella 107. Si offrì gentilmente di dargli un passaggio fino all'hotel con la sua Porche psichedelica e decisamente hippie. Il tragitto non era lunghissimo. La stronza, la identificava con questo termine per via delle continue liti durante le prove, decise che avrebbe compiuto un giro diverso in modo da non rientrare subito. Era perplesso. Da quando era entrato a far parte della sua band non gli aveva mai dato segni di considerazione. Ricordava ancora quando il primo giorno non si curò neanche di domandare chi fosse e cosa ci facesse lì. Iniziò a ringraziarlo per aver reso speciale il suo testo. Cry Baby. Per la pazienza mostrata durante tutte le registrazioni. Restò ad ascoltarla perché spiazzato da quel suo comportamento. L'aveva sempre conosciuta in tutt'altra veste. Diabolica. Schizofrenica. Gustarsi il suo lato più dolce e semplice, ora, era più importante che discutere. Continuò senza 100 mai fermarsi a parlargli di lei, della sua vita, di come già una volta era scappata dalla California per via della sua dipendenza dall'eroina. La California sarebbe diventata la sua tomba. Si era accorta che la vita a Hollywood la stava portando lontano dal mondo. Ritornarono nella sua mente momenti dell’infanzia. Gli raccontò della gioia provata quando, dal palco del festival di Monterey, ricevette quell'applauso consacratore. Fu il momento in cui la sua carriera prese la strada del successo. Era l'unica donna del rock. La regina del Rock. Dal suo parlare in continuazione notava che le mancava una persona con cui potersi confidare. Quel parlare con lui dipendeva più da quell’esigenza che dal fatto di volerlo conoscere. Continuò ad ascoltare ogni sua confessione. Da un po' di tempo stava insieme con un certo Seth Morgan. Presunto ereditiere del banchiere Morgan. Lei teneva molto a Seth tanto da volerlo sposare. Gli confidò che tanti suoi amici le fecero notare come Seth era affezionato al suo testamento molto più che a lei. Non credeva a quanto affermavano i suoi amici. Voleva veramente sposarlo. Suonava strano detto da una persona che amava uomini e donne senza nessun problema, che aveva sposato in pieno la cultura hippie e viveva secondo la parabola Peace & Love. La contraddittorietà che la caratterizzava raggiungeva livelli altissimi che in quel modo di vivere anche il matrimonio avrebbe significato qualcosa. Gli raccontò delle sue avventure con Leonard Cohen al Chelsea Hotel di New York. Delle notti infuocate con Peggy 101 Caserta. Le brevi relazioni con Kris Kristofferson. Le scazzottate con i maschi. La bottiglia rotta in testa a Jim Morrison. Il pugno rifilatogli da Jerry Lee Lewis e le tantissime notti passate a farsi di eroina. Duncan notò che la sua Porche Carrera aveva iniziato ad andare più veloce. Janis premeva sull'acceleratore facendogli notare, con aria di sfida e in piena schizofrenia, quanto fosse invincibile. Girarono in macchina per tutta la notte discutendo di moltissime altre cose. Stava rivalutando Janis. Il suo caratteraccio e il suo modo di porsi a loro, spesso disgustoso quanto rozzo, era un modo di difendersi. Vedeva sul suo volto un sorriso che in due settimane non aveva mai notato. La tristezza e la rabbia, con cui si presentava in sala d’incisione, la deformavano a tal punto da mostrarla diabolica e acida. Avevano imboccato la Franklin Avenue per far ritorno al Landmark Hotel. Vide sul lato destro della strada un gruppo di ragazzi che iniziarono a urlare “Janis, the Queen of Rock”. Lei non si era accorta di nulla. Per attirare la sua attenzione esclamò: «J.J, quei ragazzi urlano il tuo nome!» La pazza lasciò il volante per alzare le braccia in cielo in segno di saluto. Mentre lo faceva lo guardava divertita. «Nessuno mai mi aveva chiamato così. E’ strano e dolce sentirsi chiamare in questo modo.» Non stava nella pelle. Come se quel suo modo di chiamarla le avesse reso la serata veramente entusiasmante. Era fatta così la stronza. Urla, calci e pugni solo per nascondere un'anima spaventata e debole. 102 Mentre stava scendendo dalla macchina, notò che Janis lo guardava fisso. Come se volesse chiedergli qualcosa temendo in una sua reazione contraria. Trovò comunque il coraggio di chiedergli se potesse farle un favore. Duncan le rispose che non c'era nessun problema. Gli disse che aveva un appuntamento con un suo amico spacciatore con cui si era sentita nel pomeriggio. L’incontro sarebbe avvenuto proprio all'ingresso dell'hotel. Duncan restò immobile. Stava per cacciarsi in una situazione imbarazzante e pericolosissima. Non poteva dirgli di no perché sarebbe andato incontro a una litigata pazzesca. Secondo le confessioni della pazza poteva sfociare anche in una scazzottata. Aveva riso in macchina ma era troppo instabile mentalmente. Non voleva rischiare di farle cambiare umore e soprattutto non poteva permettersi di rifiutarsi visto che avrebbe potuto cacciarlo dalla sua band. In qualsiasi momento. «Devi aspettare l'arrivo di uno spacciatore di nome George. Lo riconoscerai subito perché è l'unico che riesce ad avvicinarsi e a entrare nell'hotel. Lui porta l'eroina a tutti i grandi musicisti presenti nel Landmark. Io salgo in camera per riposarmi un po'.» Doveva ritirare la droga di Janis. Si era messo in una situazione pazzesca. Non credeva a quello che gli stava capitando. Pensava alle cause che avrebbe potuto provocare quell'azione. Il gruppo faceva continuamente uso di sostanze. Sapevano che Janis faceva uso di roba molto più pesante. La sua reputazione da ragazzo tranquillo e poco propenso all'uso di droghe stava svanendo in un istante. Albert non gli e 103 l'avrebbe mai perdonata. Paul lo avrebbe cacciato fuori. Il lavoro svolto sulla cantante in quel disco era stato duro e stava gradualmente portando i suoi benefici. Janis non aveva mai cantato bene come in quel lavoro. L'idea che Duncan potesse rovinargli tutto lo avrebbe mandato in bestia. Non poteva neanche rischiare di litigare con la stronza. Si trovava in una situazione psichica disastrosa. Schizofrenica e paranoica avrebbe fatto crollare l'hotel se non gli avesse portato quella roba. Notò quel George. Aveva occhiali scuri e vestiva elegantemente. Il contrario di quanto si vedeva in giro. Si avvicinò a lui e, senza fare il nome di Janis, chiese se potesse procurargli una dose. Lo spacciatore guardò Duncan preoccupato. Aveva paura di finire in qualche guaio. Duncan si accorse che George si sentiva in pericolo e lo rassicurò. Gli disse che era da poco arrivato dall'Inghilterra. Stava suonando per un gruppo e aveva bisogno di quella dose. Si calmò. Iniziò a dargli confidenza e a parlargli del suo mestiere. Era uno spacciatore affermato. Si vantava di esserlo. Gli disse che la sua roba era testata chimicamente in un laboratorio, dove lavorava un suo amico. Gli effetti della roba, che lui vendeva, erano controllati. Non avrebbero provocato altro che uno sballo pazzesco. Lui mirava a miscelare l'eroina con altri prodotti in modo da provocare contemporaneamente sia l'effetto sia la durata dello stesso. Non fece mai il nome di Janis durante la conversazione. Aveva paura che qualcuno potesse sentirlo. Per George non era 104 altro che un acquirente. Non un conoscente della cantante a cui stava ritirando la droga. Mise in tasca tutto. Gli strizzò l'occhio in segno di ringraziamento e si allontanò. Le due camere erano divise fra di loro da un corridoio. La 105 finiva la serie delle camere sul lato destro mentre la sua camera, la 107, era la seconda sull'altro lato. Entrò prima in camera sua. Gli tremavano le gambe e la sudorazione corporea era salita a livelli altissimi. La tensione gli aveva provocato le solite palpitazioni. Nella sua testa ritornavano le immagini delle notti passate con Brian e con Jimi. Aprì la porta della stanza per notare se dalla camera di Janis si sentisse qualcosa. La stronza iniziava a innervosirsi. Sentì la sua voce urlare: «Che fine ha fatto quel fottuto pezzo di merda!» Si riferiva chiaramente a lui. Voleva ritardare l'entrata nella camera della donna ma, al suo ennesimo sfogo, non esitò a entrare. Appena lo vide si lanciò verso di lui per prendersi dalle mani la roba. Lo spinse verso il muro con veemenza. Con una tale rabbia che gli sembrò di fare a pugni con un uomo. Quando la schizofrenia s’impadroniva della ragazza, diventava quasi irriconoscibile. Un maschiaccio pronto a prenderti a cazzotti. Per difendersi o per ottenere quello che voleva. Nessuno sapeva del loro incontro. Neanche che avevano passato tutta la notte insieme. Nessuno lo aveva visto entrare in camera sua, tantomeno lui voleva restarci ancora. Senza dire niente alla pazza uscì da quella camera e ritornò nella sua. Stava lentamente mettendosi a letto. Notò che Janis era uscita dalla sua camera per scendere nella hall dell'hotel. Non volle 105 seguirla perché era convinto che non avesse combinato niente di pericoloso. Il sonno soggiunse non appena mise la testa sul cuscino. Due colpi alla porta lo fecero scattare in piedi. «Ma cazzo Janis perché non vai a letto?» «J.J e non Janis ricordi? Perché non vieni in camera mia? Non voglio passare il resto della notte da sola.» Duncan mise un paio di Jeans e andò con lei in camera. Una camera come tutte le altre. Abbellita da una coperta indiana e una miriade di candele che illuminavano l'ambiente. Gli saltò subito agli occhi tutto il mausoleo pieno di arnesi che le servivano per farsi di quella stramaledettissima robaccia. Un cucchiaio. Un panno e una siringa. Rimase sbalordito. Tutte quelle cose gli mettevano paura. Non aveva mai visto una roba del genere. Non sapeva neanche come funzionasse. Janis lo guardava con sguardo assente e non aveva notato in lui la paura. La preoccupazione di fronte a tutti quegli arnesi. Non sapeva come comportarsi. Si sentiva imbarazzatissimo. Era in preda al panico e alla più totale disperazione. La drogata continuava a ripetere quel nomignolo datole qualche ora prima in macchina. Era pazzesco come una donna, che dal palco emanava vigore e rabbia, potesse ridere per una semplice abbreviazione del suo nome e del suo cognome. Si stesero sul letto. Lei iniziò a raccontargli altri dettagli della sua vita. Di quando per ben due volte riuscì a sopravvivere a un’overdose di eroina. Con la sua amica e amante Peggy se ne iniettarono delle dosi che avrebbero ucciso chiunque. Duncan si trovava 106 nello stesso letto con Janis e nessuna intenzione di andare oltre che a una semplice chiacchierata. Mentre Janis raccontava della sua vita, s’interruppe immediatamente. Si girò verso il comodino e tirò dal cassetto la dose di eroina che gli aveva ritirato dallo spacciatore. La osservò silenziosamente senza dir niente. «Porco di un Dio» si ripeteva in testa Duncan. Quel suo caratteraccio lo immobilizzava. Aveva paura di una sua reazione. Scrutò ogni suo gesto. La drogata aveva messo un po' di acqua nel cucchiaio che teneva fermo sulla fiamma di una candela. Mise l'eroina nell'acqua aspettando che si sciogliesse bene. Stese un panno su di un bicchiere e fece in modo che colasse e ripulisse il miscuglio per poterlo aspirare meglio con l'ago. Strinse un laccio al suo braccio e, con molta delicatezza, lasciò che l'arnese bucasse la sua vena. Premendo sul dosatore dileguò nel suo sangue quel veleno. «Ora tocca a te!» «Ma che dici Janis?» Si mise a urlare e a piangere. «Devi farlo stronzo. Non puoi lasciarmi da sola.» «Ma non ho mai fatto uso di questa robaccia.» «Bastardo. Credevo fossi venuto qui per farti e non per parlare. Non ho bisogno di un confidente. Ho bisogni di staccare un po'. Di liberarmi da tutti i pensieri.» Per mezz'ora, fino allo sfinimento, ribadì con rabbia e rancore che era un bastardo. In più di un'occasione tentò di colpirlo con dei pugni che riuscì a schivare. 107 Continuava ad ascoltarla. Si guardava intorno e non trovava niente che potesse essergli utile. Si trovava in preda alla più totale disperazione. Poteva chiamare John Cook o Paul. Entrambe le scelte avrebbero compromesso il lavoro perché, se vista in quello stato, Janis sarebbe stata spedita a casa dei suoi genitori per un periodo di disintossicazione. Doveva ovviare a quella possibilità. Non sapeva come risolvere il problema, ma si sforzò di trovare una soluzione. Guardava la ragazza che si agitava come una matta. Tremava. Piangeva. Rideva. La tossica tentò ancora una volta di colpire l’italiano ormai assuefatta dalla dose. Non fece neanche in tempo a portare il palmo della mano vicino la faccia di Duncan che, perdendo l’equilibrio, finì a terra. Senza controllare la caduta e sbattendo fortemente la testa. Duncan cercò subito di rianimarla ma la troia non ne voleva sapere di rispondere. Il respiro sempre più affannato si affievoliva piano. Piano perdeva d’intensità. Duncan allora pensò bene di girarla e di tentare una respirazione bocca a bocca. Nel guardare il viso della ragazza provò una sensazione che non aveva mai provato prima. Rincoglionito per quanto gli stava capitando, in un attacco di perversione, pensò bene di allungare la lingua. Un urlo lancinante fece sobbalzare il chitarrista. «Ma posca puttsana! Che casso stai facendo lurida troia che non sei altro.» Fu la frase che uscì fuori dalla bocca appena sollevata da quella della drogata. 108 La psicopatica, sentendo le labbra dell’italiano poggiarsi sulle sue, in un gesto insulso, morse la lingua dell’uomo provocandogli una ferita e un dolore insopportabile. Duncan, in un raptus di pazzia miscelato a dolore, prese per i capelli la troia lanciandola con tutta forza sul letto. Janis, senza alcuna forza, sbatté contro la parete finendo dritta sul letto prima di svenire. Stesa tra il letto stesso e il comodino. La lingua si era gonfiata ed era sanguinante. Le lacrime, dal dolore, inondavano gli occhi dell’italiano che ancora non si era accorto di quanto fosse successo alla psicopatica. Quando iniziò a riacquistare senno, si voltò verso la ragazza che nel frattempo giaceva inerme per terra. Incazzato come una bestia. Preoccupato per il gesto appena commesso. Si avvicinò lentamente verso quel corpo fermo e immobile che fissava il pavimento. Provò a muovere la ragazza. Non dava nessun segno di vita. La chiamò più volte senza però ricevere risposta. Sperava si fosse spenta dalla stanchezza e da tutta la dose di droga che precedentemente aveva assunto. Restò fermo accanto alla ragazza per quasi tutta la notte senza però avere risposte. Il corpo continuava a diventare più freddo. Decise di non avvisare nessuno. Sperava che quella temperatura corporea fosse il risultato della droga assunta. La coprì con una coperta trovata nella stanza. La paura per quanto successo provocò in Duncan uno stato di agitazione che si tramutò in panico. «E’ morta la puttsana. È morta casso. È morta!» Non sapeva cosa fare. Chiamare qualcuno o aspettare che la drogata si svegliasse. Attese qualche altra ora prima di 109 abbandonare definitivamente la stanza senza nessun sostanziale miglioramento. Doveva prendere quella benedetta decisione. Più pensava alla voce del produttore che lo avrebbe rispedito dritto in Inghilterra, più scoppiava dentro di rabbia e si accecava di odio. La decisione più tragica e da paraculo era quella di infilare un ago nel braccio della donna. Se al mattino l’avessero trovata ancora dormiente, nel letto e priva di vita, avrebbero fatto cadere la colpa sulla drogata stessa che si era spenta per colpa di quella roba che assumeva senza nessun tipo di freno. Ritornò di nuovo nella stanza di Janis. Prese una siringa. Si avvicinò al suo braccio, senza mai aver compiuto quel gesto, infilò l'ago in quella vena maggiormente esposta sotto la sua pelle. In quel fottutissimo e drammatico istante poteva notare quanto delicata e splendida fosse la sua pelle. Da quando l'aveva conosciuta, aveva subito un continuo cambiamento. Ai capelli decisamente hippie aveva dato un tono nuovo con delle meches colorate. Anche la sua pelle bianchissima era diventata più scura. Probabilmente aveva passato molto tempo a prendere il sole nella piscina dell'hotel. Lentamente fece entrare il liquido nel suo corpo. Gli tremavano le mani. Sudava come non mai. La paura che qualcuno dello staff potesse entrare da un momento all'altro lo bloccò immediatamente. Guardò in faccia Janis. La salutò per l’ultima volta e scappò in camera sua. Era abituale per lui dormire con le finestre aperte. Lasciava entrare la luce del sole nella stanza per potersi svegliare senza lo stress della sveglia. Hollywood era estremamente colorata. 110 Affascinante e vivibile in piena gioia. Mai gli era capitato di vestire nel mese di ottobre ancora con una t-shirt. A Montegallo ottobre portava l'autunno. Le giornate iniziavano a diventare più tiepide. Le sere diventavano più fredde. Bisognava coprirsi per poter stare in giro. Londra era sempre cupa e triste. Pioggia e grigia. Hollywood, soleggiata e splendente, dava all'anima una voglia di affrontare la giornata con entusiasmo. Il pensiero di Janis lo assalì di colpo. Non aveva sentito nessun urlo provenire dalla sua stanza. Non voleva neanche provare a bussare alla sua porta. Mise la testa fuori nel corridoio per vedere se in camera sua stesse succedendo qualcosa. La porta era chiusa. Si tranquillizzò. Per tutelarsi e per non farsi notare da qualcuno si vestì in tutta fretta e si lanciò in strada per vagare nel vano tentativo di rilassarsi. Freneticamente si guardava intorno. Credeva che qualcuno potesse averlo visto o sentito entrare e uscire dalla stanza della ragazza. Hollywood era immensa. La mentalità hippie imponeva la cultura del liberismo e la droga circolava ovunque. Spacciatori in ogni angolo. Si fermò in un fast-food per mangiare qualcosa per poi andare nello studio. Avrebbero registrato l'ultima canzone dell'album. Cercò di mostrarsi tranquillo. Per non pensare a quanto accaduto si mise subito a lavorare all'ultimo brano. I ragazzi della band già festeggiavano la fine delle registrazioni. Pensavano al tour che da lì a poco li avrebbe portati in giro per il mondo. Lo staff della cantante aveva pensato in grande. 111 Volevano rilanciare Janis dopo lo scarso risultato del primo album da solista. Erano le sedici in punto. Un caldo infernale li costringeva a fare pochissimi movimenti. Non volevano farsi trovare sfiniti nel momento in cui la stronza fosse arrivata. Si sdraiarono sul pavimento della sala in attesa che la voce della cantante riecheggiasse nello studio. Ore spasmodiche e concitate. Qualcuno in un gesto di stizza si alzò per andare a prendere aria fuori e per fumarsi qualcosa. Il tastierista gli raccontava di come in Canada, già a ottobre, il freddo cominciava a rendere impossibile qualsiasi attività. Gli domandò se in Italia fosse la stessa cosa. Duncan rispose che in Italia ottobre è il mese in cui inizia a fare freddo, ma le temperature si mantengono ancora su standard accettabili. Due ore di attesa erano ancora il tempo classico di ritardo della stronza. I musicisti deliravano per colpa del caldo. I discorsi sviarono fino ad arrivare a trattare temi che riguardavano tutto a parte che la musica. Paul andò a controllare se fossero ancora tutti in sala prove. Spesso capitava che, dopo due ore di attesa, qualcuno di loro si perdesse. In quelle due settimane, in più di un’occasione furono costretti a suonare con un pezzo mancante. Li rassicurò che avrebbero provato. Che Janis sarebbe arrivata a momenti. Si voltò di scatto verso Duncan chiedendogli se sapesse qualcosa della ragazza. Sentì il suo cuore battere più forte. Gli tremavano le mani. Per non farsi notare le infilò di colpo in tasca. Cercò anche di indirizzare lo sguardo lontano da quello 112 del produttore. Aveva paura che in un sol colpo potesse cedere e raccontare tutto. Rispose che non l'aveva vista perché era uscito di buon mattino per godersi il sole di Hollywood e il caldo della Indian Summer. Era il nome con cui i residenti definivano il caldo di quel mese. Paul aveva creduto a quanto gli aveva detto. Sapeva che era un ragazzo a cui piaceva uscire presto la mattina per vagabondare lungo le strade di Hollywood. Paul chiuse la porta della sala lasciandogli il silenzio dell'attesa. Nessuno più parlava. Guardavano impalati il soffitto della stanza immersi ognuno nei propri pensieri. Duncan ripensava a Londra. Al suo appartamento. Alla mensola che aveva messo sulla finestra per evitare che la pioggia filtrasse e ammuffisse tutto l'ambiente. Sperava di ritrovarla ancora al suo posto. Altrimenti avrebbe passato di sicuro un inverno immerso nella puzza di muffa. Sognava con tutto se stesso di riappropriarsi della sua solitudine. Di quella strada che ogni giorno lo trascinava fino al bar dove lavorava Aldo. In quelle due settimane di permanenza non aveva bevuto nemmeno un caffè. Hollywood chiede di non bere caffè, offre ben altro. Champagne, birra, vino e whisky predominavano su tutto. A Hollywood il caffè aveva un gusto peggiore rispetto a quello di Londra. Altre due ore di ritardo. La pazienza di tutti era ormai giunta al limite. Duncan non poteva mostrarsi diverso da loro. Aveva paura potessero sospettare qualcosa. Era una paura creata dal suo inconscio. Era sicuro che nessuno avrebbe potuto indicarlo come colpevole. Temeva che lui stesso potesse cadere in 113 qualche errore facendo trapelare qualcosa riguardo a quanto accaduto in quella notte. Erano le diciannove e trenta. Stavano lentamente riposizionando gli strumenti nelle apposite custodie. Duncan era teso ma faceva finta di niente. A un tratto, in uno dei rari momenti di silenzio, sentirono la voce di Paul che imprecava contro Dio. Contro il Diavolo. Contro il mondo. Contro quel maledetto viziaccio di Janis. John Cook entrò nella stanza. Con in volto il nero di chi porta cattiva novella li avvisò che Janis Joplin era stata trovata morta nella sua stanza di albergo per un’overdose di eroina. Il suo corpo era stato trovato incastrato fra il comodino e il letto. Le gambe di Duncan cedettero immediatamente. Si piegò inginocchiandosi verso il pavimento. Sfinito. Dopo tanta attesa. Il gesto, per sua fortuna, fu frainteso dal resto del gruppo. Credendolo pronto a pregare, s’inginocchiarono tutti a terra iniziando a osannare la loro amica appena scomparsa. Per quasi mezz'ora restò immobile a terra a pregare con gli altri. Aveva bisogno di allontanarsi dal quel contesto. Tenersi più lontano possibile da quella situazione. Si alzò con un gesto impercettibile lasciando agli altri il compito della commemorazione. Raggiunse il Landmark Hotel, dove ancora stavano effettuando i rilievi nella stanza di Janis. Chiese la chiave della sua stanza. La 107. Entrò senza farsi notare. Ci restò chiuso per tutta la notte. Aveva ucciso Janis Joplin. Aveva ucciso la regina del rock. 114 Sentiva, al di fuori della stanza, i rumori e le parole dei poliziotti. Degli amici di Janis. Non riusciva a distogliere il pensiero da quanto era avvenuto poche ore prima. Devastato. In preda all'ansia. Girò per tutta la sua stanza come un pazzo. Sperava che tutta quella confusione smettesse il più presto possibile. Non poteva sopportare ancora tutto quel peso. Aveva bisogno di sentire il silenzio di una notte che avrebbe potuto dargli la giusta tranquillità. L'autopsia sul corpo della cantante stabilì che la morte era stata causata da una dose eccessiva di eroina. Quella che gli aveva iniettato Duncan. Consapevole del fatto che quella morte doveva essere additata alla droga. Non alla reazione animalesca avuta dopo che la stronza gli aveva morso la lingua. In poche ore e per tutto il giorno seguente, la notizia dell'accaduto fece il giro di Hollywood. Nel frattempo i genitori di Janis decisero che il corpo della star sarebbe stato cremato. Le sue ceneri gettate nell'oceano Atlantico. Duncan non prese parte al rituale. Restò chiuso in camera. Aveva sentito Paul a cui inventò la scusa di non voler assistere a quella scena perché ancora particolarmente turbato dall'accaduto. Chiamò il suo manager avvisandolo di quanto successo. Gli spiegò che avrebbe preso il primo aereo per Londra la mattina del giorno seguente. Stava gustando un bel bicchiere di vodka quando dal centralino gli allacciarono una chiamata. Era Paul. Gli chiedeva se era disponibile a prendere parte al completamento del disco. Gli spiegò che nonostante la scomparsa della ragazza, il disco era completo. Bisognava solo sbobinare tutto il materiale. 115 Completare il lavoro di produzione. Il disco sarebbe uscito postumo per dare l'ultimo saluto alla regina del rock. A quella paranoica e schizofrenica drogata che nell'eroina aveva trovato rifugio e morte. Avrebbero iniziato a lavorarci da lì a una settimana. Lo ritelefonò il manager dicendogli che aveva appena parlato con Paul. Lo avrebbe aspettato a disco ultimato per riprendere il lavoro con il gruppo a Londra. Aveva risolto il problema del cantante. 116 Capitolo V Paul lo guardò in faccia. La commemorazione della cantante doveva avvenire per mezzo del suo ultimo lavoro. Avrebbero dovuto lavorare molto per dare alla luce quel tanto atteso e sofferto disco. Le sezioni di produzione duravano dalle dieci del mattino fino a mezzanotte. Senza nessuna pausa. Con la concentrazione e la volontà di rendere tutto perfettamente completo. Dai brani fino alla copertina. L'immagine della ragazza riecheggiava in ogni foto presa in considerazione. Ne sfogliarono centinaia. Notarono che in ogni posizione da lei assunta splendeva un sorriso affascinante. Quasi volesse dimostrare quella felicità che, una volta spenti i riflettori, si tramutava in tristezza e solitudine. Le uniche pause che si concedevano erano quelle che gli permettevano di andare a mangiare. Per non rischiare di svenire durante quelle lunghissime sezioni di produzione. Paul e il resto della produzione amavano girare per i lussuosi ristoranti di Hollywood. Duncan amava sedersi e consumare qualcosa al fidatissimo Barney's Beanery. Locale situato vicino alla sala di registrazione e decisamente più alla sua portata. 117 Il succo d'arancia dà al corpo quella freschezza che nessun altro tipo di bevanda riesce a dare. Da quando si era trasferito a Hollywood, non aveva fatto altro che bere champagne. Birra. Whisky. Vodka. Il succo d'arancia associato a un pezzo di pizza era un abbinamento mai provato prima. Rinfrescò le sue accaldate membra. Avevano appena iniziato a definire le prime registrazioni che Paul dovette decretare conclusa quella giornata di prova. Doveva togliere dai guai Jim Morrison. Era caduto anche lui nel baratro del fallimento e della droga. Doveva tirarlo fuori dai guai e riportarlo al successo con un album che potesse scalare le classifiche. Decise che una tranquilla serata al Barney's Beanery l’avrebbe aiutato a riprendersi dalla bruttissima esperienza di Janis. Ritornare ogni sera in quell’hotel lo irritava. Lo associava a una delle sue esperienze più negative. Non poteva permettersi di andare altrove visto che Albert e il suo manager spendevano un bel po' di quattrini per mantenerlo nel lusso. Si riappropriò del posto che qualche giorno prima aveva ospitato Janis nella sua ultima serata insieme ai ragazzi della band. Ordinò una vodka e voltò le spalle alla porta in modo che potesse rimanere concentrato sui suoi pensieri. Non distrarsi ogni qual volta entrasse qualcuno. Voleva pensare a Londra. All'Italia. Alla sua famiglia che non sentiva da un sacco di tempo. Voleva pensare alla musica. Alla sua carriera. Doveva decidere se puntare ancora a suonare insieme al gruppo o intraprendere una carriera come turnista. La prima gli dava la 118 possibilità di continuare a produrre musica secondo le sue preferenze. L'altra scelta voleva significare eseguire perfettamente la musica composta da altri. La prima ipotesi gli lasciava il dubbio e il rischio. Non avere la sicurezza del successo. La seconda gli avrebbe fatto guadagnare un sacco di soldi. Ormai la richiesta di musicisti stava aumentando notevolmente. Il suo manager avrebbe potuto aiutarlo. Paul e Albert avrebbero potuto inserirlo in qualsiasi gruppo prodotto da loro. La serata non proponeva grandi alternative. Era lui che non voleva concedersi altri svaghi se non quello di guardare la strada e bere vodka. L'aria che si respirava nel locale era estremamente rilassante. Per un attimo, poggiandosi con la testa sul tavolino, si addormentò. Una mano leggerissima. Una voce delicata e angelica ripeteva: «Ehi, ti senti bene?» Inizialmente non riusciva a realizzare. Tutto a un tratto si accorse che una ragazza stava cercando di risvegliarlo. Si trovò con la schiena poggiata allo schienale della sedia e con la testa rivolta verso l'alto. Guardava il soffitto. Scosse la testa come per scrollarsi di dosso il sonno. Si bloccò alla vista di quel viso dolce e angelico che stava cercando di riprenderlo. Vergognandosi e scusandosi la ringraziò. Spiegò alla ragazza che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e si era addormentato. La pregò di accomodarsi in modo da potergli offrire qualcosa, per sdebitarsi dal disturbo e dalla paura che le 119 aveva arrecato. Ordinò un'altra vodka con succo d'arancia. Lei ordinò un Southern Comfort con ghiaccio. Occhi chiari. Capelli rossi. Qualche lentiggine in viso. Un'aria dolce e una voce delicatissima. Si presentò: «piacere mi chiamo Duncan.» Lei rispose quasi sottovoce: «Piacere. Io sono Pam.» Senza neanche conoscerla, iniziò a raccontarle di lui. Dagli inizi a Londra fino alla registrazione dell'album di Janis Joplin. Lei lo guardava e lo ascoltava con un velato interesse ma non particolarmente attenta. Era pallidissima e sembrava alquanto debole. Sorseggiò un po' del suo cocktail chiedendole di parlargli di lei. Iniziò dicendogli che aveva radici borghesi che col tempo le aveva rinnegate per via del suo spirito hippie. Gli raccontò delle sue avventure all'Orange High School e alla sua passione per la moda. Dalla conversazione con la sconosciuta giunse alla traumatica scoperta che Pam era anche la donna del leader dei Doors. Cazzo. Stava bevendo e parlando con la donna di Jim Morrison. Hollywood regalava tantissime sorprese. Quella di Pam era sicuramente la migliore che potesse capitargli. Aveva avuto a che fare con Janis senza mai conoscerla in situazioni di lucidità mentale. Aveva avuto a che fare con gli altri componenti del gruppo, anch'essi strafatti dall'uso eccessivo di droghe. Ora gli toccava parlare con un'artista del calibro di Pam. Donna di uno dei più famosi cantanti del momento. La strada verso l'hotel non era lunga. Pam decise che lo avrebbe accompagnato. Si sarebbe risparmiato quella 120 passeggiata. Salirono in macchina e si accorse subito che il posacenere era stracolmo di cicche di sigarette e di filtrini utilizzati per farsi gli spinelli. Doveva veramente far uso esagerato di droghe lei. Il suo colorito e l'espressione allucinata del suo sguardo confermavano pienamente la sua tesi. Un suo gesto ne fu il sigillo. Aprì la borsetta. Tirò fuori del tabacco e dell'erba. Una cartina e un filtro. Lo guardò in faccia e gli disse se poteva reggere il volante dell’automobile. Giusto il tempo di rullare lo spinello. Ci impiegò qualche secondo. In un attimo il profumo di quella roba si sparse per tutto l'abitacolo. Duncan aveva raramente provato quella droga. Si era sempre tenuto alla lontana da certe sostanze. Era incapace. Notò la mano di Pam vicino la sua bocca. Era il segno che gli avrebbe ceduto lo spinello. Avrebbe dovuto farsi qualche tiro. Non volle deluderla. Era in macchina con la donna di Jim Morrison. Non accettare quell'invito avrebbe significato ridicolizzarsi definitivamente. Sentiva il cuore pulsare molto più velocemente. Un sapore amaro in bocca. La saliva seccare lentamente. Un fischio nelle orecchie lo avvisava dell'aumento della pressione sanguigna. Si sentiva meglio. Quel freno inibitore lo liberò di scatto. Si lasciò scivolare svogliatamente sul sedile come se fosse sempre stato in quella macchina. Con quella ragazza. In pochissimo tempo finirono lo spinello. Si guardarono negli occhi e si misero a ridere per sancire la riuscita di un’azione compiuta egregiamente. La strada gli sembrava più lunga. Biascicava parole come se avesse una patata in bocca. Pam, in più di 121 un'occasione non riuscì a capire niente. Giunti davanti all'hotel chiese a Pam di salire in camera con lui. Le avrebbe offerto dello champagne fresco e di ottima qualità. Non accettò. Lo avrebbe fatto in un'altra occasione. Si salutarono baciandosi sulle guance. La lasciò andare via mentre lui si accingeva a tornare in camera. Era ancora tramortito dagli effetti dello spinello. Per giungere davanti alla porta della sua stanza ci impiegò tantissimo. Trovare la serratura fu un’impresa. Dopo esserci riuscito corse direttamente verso la doccia per darsi una rinfrescata. Mentre sentiva l'acqua scendergli lungo la schiena non faceva altro che pensare alla ragazza che aveva conosciuto. Imprecava come mai fosse innamorata di quella grandissima testa di cazzo di Jim Morrison. Che cosa ci trovasse di così bello da condividerci tutto. Certamente era il nuovo re del rock. Fisico perfetto. Capelli neri e lunghi. Sguardo tetro. Affascinante e con un carattere tutt'altro che tranquillo. L'accappatoio era bagnato e puzzava di umido. Da quando era arrivato a Hollywood, non lo aveva mai fatto lavare. Si asciugò in tutta fretta. Infilò un paio di Jeans e si sdraiò sul letto con due pensieri fissi in testa. Le registrazioni dell'album di Janis e la serata trascorsa con Pam. Un boato lo fece sobbalzare dal letto. Aveva fatto cadere l'enorme abat-jour posta sul comodino. Si era addormentato in posizione seduta, con le spalle poggiate sulla testata del letto e con le mani poste dietro la nuca. Sciacquò il viso con acqua 122 fredda per riprendersi. Si vestì. Scese subito per dirigersi agli studi di registrazione. Dovevano portare a termine il disco. Un sapore amaro in bocca lo riportò alla sera prima. Aveva consumato fiumi di Southern Comfort e uno spinello con Pam. Aveva bisogno di ridare sapore alla sua bocca. Decise di entrare nella prima caffetteria e ordinare un caffè. Era un bevitore assiduo di caffè. In Italia ne consumava tantissimo. In Inghilterra aveva imparato a macchiarlo con del latte freddo. In America era veramente una pena consumare quel tipo di bevanda. Vendevano dei bicchieroni colmi ma che di caffè avevano solo il nome. Né gusto né sapore. Doveva però rendere attivo il suo corpo. Portare a termine il lavoro significava ritornare a Londra. Continuare la sua carriera da musicista. Paul era già in cabina di regia. Le cuffie in testa e alcuni appunti su cui lavorare in quella sezione di masterizzazione. Si sedette accanto a lui annuendo a tutto quello che diceva riguardo il suono degli strumenti. Aveva accumulato un bel po' di esperienza. Adorava un tipo di suono in cui la combinazione di pulito e distorto si mescolava senza far perdere potenza alla chitarra. Non poteva contraddire Paul. Lui sapeva sempre che tipo di suono dare agli strumenti. Conclusero la masterizzazione in allegria. Avevano portato a termine il giusto riconoscimento a Janis. Sapevano che le loro strade si sarebbero divise quel giorno. Avrebbero brindato alla fine dei lavori con qualche bottiglia di champagne offerto generosamente dal produttore. Passarono qualche ora a parlare 123 e a bere. Paul svelò alcuni esaltanti retroscena sul suo ultimo progetto con i Doors. Jim Morrison, secondo quanto affermava Paul, era in netto declino. I suoi concerti iniziavano male e finivano peggio. I continui problemi con la legge gli avevano fatto perdere quella credibilità conquistata con i primi esaltanti lavori. Fu un piacere ascoltare che quel clima teso intorno a Jim era causato dalle continue vicissitudini amorose tra lui e la sua donna. Sgranò gli occhi. Aprì le orecchie e ascoltò tutto quello che Paul stava confidando. Pam stava sperperando i guadagni del suo compagno in continui viaggi a Parigi. Lei sperava di fare successo nel mondo della moda. Credeva di essere una promettente stilista e lui voleva ad ogni costo aiutarla in questa sua propensione artistica. Tormentato e decisamente logorato da questo, finiva spesso per tradire la ragazza che continuava puntualmente a perdonarlo. Era più il bisogno di mantenersi a Parigi che la voglia di stare insieme a quell'essere folle. La chiacchierata durò pochissimo. Paul dovette scappare per impegni di lavoro. Si strinsero la mano. Paul chiese a Duncan di portare i saluti al suo manager e gli promise che avrebbe sicuramente collaborato con lui. Restò entusiasta delle parole dell'uomo. Dopo aver abbracciato tutti i tecnici, uscì dagli studi per recarsi direttamente al Barney's Beanery. Voleva bere e mangiare qualcosa prima di ritirarsi in hotel. Doveva prepararsi per il viaggio di ritorno a Londra. 124 La passeggiata verso il locale fu sconvolgente. Aveva appena appreso che il rapporto fra Pam e Jim non era dei migliori. Con attenzione avrebbe potuto conquistare la ragazza. Aveva in mente solo ed esclusivamente il suo viso. Nella sua testa riecheggiava il suono dolce della sua voce. Un tavolino alla fine della sala avrebbe fatto al caso suo. Non conosceva nessuno. La solitudine gli avrebbe lasciato consumare in santa pace un hot dog e una bella birra fresca. Il ronzio delle voci di chi sedeva nel locale lo avevano isolato dal resto del mondo. Quel continuo pensare alla ragazza lo aveva trasportato in altri mondi. Ripercorreva sempre il giro in macchina con lei. Ricordava il gesto dello spinello. Il bacio datogli sulla guancia alla fine del viaggio. Un'ondata di pensieri cattivi lo riportò alla realtà. «Coglione che non sono altro. Come posso innamorarmi di una tipa che fa la spola tra Hollywood e Parigi. Che sta insieme con una grande rockstar e che fa della stravaganza la sua ragione di vita?» Poteva ancora godersi qualche giorno di vacanza fino alla fine del mese prima di lasciare per sempre il Landmark Hotel. Passeggiare per le strade di Hollywood l’avrebbe aiutato a trascorrere gli ultimi giorni di ozio. Frequentare il Barney's Beanery l’avrebbe accompagnato fino alla partenza con lo stomaco pieno. Di alcool. I fari di un’auto gli si piantarono in viso. Accecandolo. Rimase fermo. Chiuse gli occhi aspettando che l'auto gli passasse davanti. L'auto si fermò proprio al suo fianco. Intontito dal lustro dei fari, aprì piano gli occhi mentre una 125 voce delicata lo chiamava per nome: «Duncan son Pam!» Aprì di scatto gli occhi quasi illuminato dal volto della ragazza. Occhi verdi brillanti. Sorriso stampato in faccia. Una voglia matta di bere qualcosa. «Sali in macchina che facciamo un giro.» Saltò in macchina come un pazzo. Chiuse lo sportello lasciandosi trasportare in giro per Hollywood. Era in estasi. Quello che lo turbò fortemente fu vedere Pam in lacrime qualche secondo dopo averla vista sorridente. «Cos’hai Pam?» le chiese preoccupato. «Sto male. Ho bisogno di piangere e devo sfogarmi in qualche modo. Portami da te. Ti prego.» Svoltarono l'angolo e si diressero verso l'hotel. In preda a sensazioni contrastanti e a pensieri folli si chiedeva cosa potesse turbare l'animo di Pam. Era sicuramente colpa di Jim. «Ma no!» era sicuramente colpa di una collezione non apprezzata da parte di qualche stilista. L'unico modo per saperlo era quello di arrivare in camera e lasciare sfogare la ragazza. Volle accendere solo la luce della lampada. Le finestre chiuse e un piccolo sottofondo musicale. Amava Billie Holiday. Si commosse subito non appena la cantante intonò le prime parole. Si buttò sul letto e gli chiese di sedersi al suo fianco. Duncan mise la mano sulla sua schiena in modo che lei sentisse la sua presenza. Poteva sentire ogni suo singhiozzo. Non volle interrompere il suo pianto. Rimase immobile al suo fianco aspettando che la sua disperazione si placasse. 126 Trascorsero più di due ore prima che Pam smettesse di piangere. Si voltò verso di lui. Vedendolo ancora lì al suo posto, in attesa di un suo movimento, si calmò. «Sei dolce e premuroso.» Duncan fece solo il gesto di alzare le spalle come per dire che non c'era nessun problema. Asciugò le lacrime e senza nemmeno chiedergli di ascoltarla iniziò a confidarsi senza riserbo. Come se fossero sempre stati confidenti e conoscenti. Era il loro secondo incontro. «Penso che Jim mi abbia tradito. Stamattina sono tornata a casa e ho trovato il letto disfatto. Un cuscino macchiato con del rossetto. Quel maiale lo fa apposta. Crede di farmi un dispetto. Vuole allontanarmi ma lo amo da impazzire.» Stava involontariamente ascoltando la confessione di una donna tradita dal proprio uomo. Non gli era mai capitata una situazione del genere. Non sapeva come comportarsi. L'unico modo di sembrare tranquillo e sicuro di sé era quello di ascoltarla. Fare alcuni cenni, alcune smorfie che avrebbero dovuto significare sbigottimento. Rabbia. Comprensione. Dentro covava la possibilità di poter approfittare della debolezza della ragazza. Instaurare un rapporto più intimo con lei. In seguito, confidarle i suoi sentimenti. Si alzò di scatto. Gli chiese se avesse qualche asciugamano e si diresse in bagno. Incredibilmente la ragazza era passata a uno stato di felicità. Forse apparente. Era ritornata al suo abituale modo di vivere. Quasi da psicopatia. Sentiva il rumore dell'acqua scorrere. Sdraiato sul letto, la immaginava in tutta la sua bellezza. Viveva di sentimenti 127 contrastanti. In un paradossale senso di paura. Jim avrebbe potuto scoprire tutto. L’avrebbe di sicuro ridotto a pezzi. Era noto per le sue scazzottate. Per le continue denunce. Per conquistarla avrebbe anche rischiato tutto questo. La porta del bagno si aprì lentamente. La ragazza era avvolta solo da un telo bianco. I capelli bagnati. Lisci. Una sigaretta in bocca. Poteva saltarle addosso. Come un maniaco. Non poteva turbarla ancora. Lasciò che si coricasse al suo fianco. Strinse le sue braccia al braccio di Duncan e si mise a dormire. Restò di stucco. Una serata buttata via. Senza aver avuto la possibilità di corteggiare la ragazza. Che figura di merda. Che situazione imbarazzante. Di solito dormiva con la finestra e con la tenda aperta in modo che fosse il sole a svegliarlo. Il buio voluto da Pam gli impedì di guardare il cielo. Di notare se era ancora notte o se il nuovo giorno aveva rivitalizzato Hollywood. Piano sentì Pam muoversi. Avevano dormito insieme. Senza fare niente e nella stessa posizione. Cose da non raccontare a nessuno. L’avrebbero preso per folle, per frocio. Aprì gli occhi lentamente. Gli chiese di aprire la finestra. Non appena si accorse che era giorno si vestì di corsa per scappare a casa. Lo ringraziò. Lo guardò negli occhi. Lo baciò sulla guancia. Chiuse la porta e scappò via. Era rimasto immobile. Un bacio sognato e aspettato. Il suo pensiero era fisso a lei. Tutto lo spingeva a pensare che in un modo o nell'altro potesse conquistarla. Hollywood poteva regalargli centinaia di occasioni del genere. Per un 128 italiano di provincia contano più i sentimenti che le bandierine di conquista piantate su centinaia di fighe pelose. Era sdraiato sul letto rinchiuso nei suoi pensieri quando dal centralino dell'hotel gli girarono una chiamata. «Duncan sono Pam.» «Pam come mai questa chiamata?» «Volevo ringraziarti e volevo salutarti prima di partire.» «Partire? Per dove?» «Vado a Parigi. » «Jim viene con te? » «No! Lui resta quì. Addio Duncan.» «Arrivederci Pam.» Chiusero la conversazione, lei che lo salutò definitivamente mentre lui le aveva fatto intendere che non sarebbe finita. Il volo Los Angeles - Parigi sarebbe decollato il mattino seguente. Prestissimo. Aveva bisogno di arrivare a Parigi prima di lei. Doveva trovarlo lì e non rischiare di incontrarla nello stesso volo. Costringerla a ricambiare in odio tutta la stima conquistata fino a quel momento. La valigia ricolma di vestiti era già pronta. Da lì a qualche giorno avrebbe preso il volo per Londra ma quest’occasione di seguire Pam in Francia non poteva perdersela. Scese in strada prestissimo. Erano le sei di mattina. Chiamò un taxi e si diresse verso l'aeroporto. Il bagaglio imbarcato. Il biglietto solo andata per Parigi nelle sue mani. Terzo volo della sua vita. Questa volta non per motivi di lavoro ma per conquistare una donna. Follie imperdonabili per 129 un’aspirante rockstar che dovrebbe fare del sesso libero la sua scelta di vita. Potrebbe scoparsene mille e amarne nessuna, ma quella troia l’aveva rapito. Avrebbe sicuramente buttato via del tempo prezioso, ma voleva giocarsela. Undici ore di volo trascorsero velocemente. Sotto i suoi occhi aveva visto solo oceano. Quando mise i piedi sulla terra ferma, baciò l'asfalto. Ritirò la valigia e si diresse verso l'Hotel Castex al 5 di Rue Castex. Camera 12. L'arrivo fu emozionante. Non aveva mai visto Parigi. Solo nelle pochissime foto raffiguranti la torre Eiffel o l'Arc de Triomphe. Lasciò la valigia in camera e scese subito in strada per farsi una passeggiata. Illuminate e avvolte nella magia che circonda la città, ogni pietra, ogni casa, ogni statua simboleggiava la bellezza. Ritornò in camera. Era dovuto e logico contattare il suo manager per informarlo del suo viaggio a Parigi. La telefonata fu breve e colloquiale. Aveva ancora qualche giorno di pausa prima di ritornare a suonare a Londra. Alcuni problemi legati alla casa discografica gli consentirono di godere di altri giorni di vacanza. Quel poco che aveva mostrato a Londra gli aveva regalato tanta fama. Il suo manager continuava a concedergli tutto quello che gli chiedeva. Gli introiti dell'album erano discreti, ma il suo servizio per Janis aveva fruttato qualche quattrino perché gli fosse concesso tutto questo. Ne era sicuro, ma non volle comunque scendere nei particolari con il suo manager. Ringraziò l’amico assicurandogli che avrebbe fatto ritorno a Londra prima dell'inverno. 130 Pam sarebbe arrivata in città il mattino seguente. Gli sarebbe toccata una lunghissima giornata di ricerche e di figuracce. Non conosceva il francese. Doveva tradurre tutto con l'aiuto di un piccolo dizionario preso in prestito presso la reception dell'hotel. Pam avrebbe vissuto a Parigi senza quel drogato di Jim. Questa volta non si sarebbe fatto scappare l'opportunità di provarci definitivamente. Il sole sulla città splendeva inesorabile. Era strano come in ogni suo viaggio ci fosse il sole ad accompagnarlo. Successe così a Londra, a Hollywood e a Parigi. Quella banale considerazione lasciò subito il posto all'unico pensiero che da giorni affollava la sua mente. Non sapeva da dove iniziare e neppure se la ragazza fosse in città. Non sapeva minimamente dove avrebbe alloggiato né il motivo della sua venuta. Sapeva per certo che, dopo mesi di caffè orrendi bevuti in America, aveva bisogno di berne uno decente che gli desse la carica e l'energia per affrontare quei giorni. I tavolini di ferro battuto. Freschissimi. Comodissimi. Furono il parcheggio per quel tanto atteso momento. Si preparò la frase da dire al cameriere e ordinò un buon caffè. Sole in faccia. Occhiali scuri. Felicità stampata in volto. Voglia di bere finalmente un buon caffè. Il cameriere si presentò con un vassoio d’argento con al centro la sua tazza fumante. La poggiò sul tavolino e mise lo scontrino vicino al piatto dove era posizionata la tazza. Aspettava il pagamento. Duncan tirò fuori i soldi e gli lasciò la mancia. Il cameriere si diresse di nuovo nel locale in attesa di servire qualche altra persona. 131 L'attesa era terminata. Fece cadere lo zucchero e girò col cucchiaino il composto in modo da farlo scogliere. Avvicinò la tazza alla bocca. Sentiva il profumo salire dentro le narici fino a raggiungere il cervello. Provava una sensazione stupenda. All'improvviso il primo sorso della bevanda gli si stagnò in gola. Gli sembrava come se avesse masticato un legno bruciato. Un sapore orrendo lo assalì provocandogli rabbia e tristezza. Quando si dice che l'Italia è anche la patria del buon caffè non lo si dice per fanatismo. Dopo averne assaggiati tre tipi, avrebbe portato avanti quella tesi fino all'ultimo dei suoi giorni. Deluso e affranto, sia per il conto salato sia per il gusto orrendo del caffè, iniziò a camminare in lungo e in largo per le strade della città. Guardava dentro ogni taxi per scrutare il viso di Pam. S’infilava in tutti gli autobus sperando di incontrarla in uno di quelli. La notte aveva ricolorato la città con toni tetri e malinconici. Nei locali si sentiva suonare qualche band. Convinto della scellerata tradizione rock della nazione, non fu mai incuriosito dall'entrare per ascoltarne la musica. Camminava senza meta e con la sola preoccupazione di incontrare la donna. Un profumo di fiori e di bucato fresco lo cullò in un sonno profondo. Un sonno dovuto alla stanchezza e alla consapevolezza che anche il giorno dopo sarebbe stato altrettanto duro e faticoso. Un altro giorno di ricerche. Un altro giorno da affrontare con grinta. Un altro giorno in cui avrebbe reso al massimo solo bevendo un caffè. L'amara scoperta del giorno prima lo lasciava titubante. Berne o non berne più? Come aveva fatto a 132 Londra, avrebbe potuto correggere la bevanda con del latte freddo. Si fermò nello stesso locale del giorno prima. Chiamò l'attenzione del cameriere e ordinò un caffè macchiato freddo. Aveva notato Pam seduta qualche tavolino più avanti. Rimase per un attimo fermo e attento nello scrutare se fosse veramente lei o se fosse solo una ricostruzione mentale. Quei capelli rossi. Quegli occhi verdi e quel corpo esile erano chiaramente il disegno perfetto della ragazza. Fece finta di niente. Si voltò leggermente per non farsi notare e aspettò che anche lei finisse di bere quello che aveva ordinato. Non appena notò che la ragazza si stava alzando, la seguì per capire dove si sarebbe diretta. Seguì la strada che conduceva a Rue de Beautreillis al numero 17 di un palazzone sicuramente di epoca antica. Era al settimo cielo. Come per magia, aveva rivisto Pam. Sapeva dove abitava. Sapeva che era proprio vicino al suo hotel. Le coincidenze spesso si accumulano in un ordine assoluto che nel raccontarle sembra banale. In una città immensa come Parigi e in periodo estivo solo una serie di avvenimenti perfettamente coadiuvati dal destino possono regalare dettagli unici. L'ansia che lo aveva assalito già dalle prime ore del mattino lo abbandonò. Poteva regalarsi una camminata rilassante. Si diresse verso Pont de Sully e passò l'intera mattinata a guardare il moto continuo delle acque della Senna. Paragonò la sua vita a quel moto continuo. Da quando si era trasferito a Londra, non aveva fatto altro che vivere emozioni pazzesche. Aveva vinto la scommessa con la musica. Aveva 133 conosciuto Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Pam e tantissime altre persone. Stava vivendo contemporaneamente la Beat Generation e la cultura hippie. Guardando quell'enorme distesa di acqua pensava e ripensava a come avrebbe potuto incontrare la ragazza. Se avesse accettato quella sua presenza. Se mai avesse ricambiato il sentimento rivelatogli non appena l’avrebbe incontrata. Poteva sfruttare tante occasioni. Andare a qualche sua sfilata di moda. Farsi trovare per caso nello stesso locale da lei frequentato. Trovarla a casa. Parigi non era come Londra. A Parigi non trovavi locali affollati da pazzi esauriti, drogati pronti a saltarti addosso in preda all’euforia dettata da una bella canzone o da una schitarrata. Parigi era un sentiero di tranquillità. Di benessere mentale. C’erano solo locali pieni di ragazzi che leggevano libri, discutevano su film e opere teatrali. Poco sulla musica. Qualche pianoforte. Qualche violino. Qualche cantante si sentiva riecheggiare lungo le vie della città piena di artisti di strada. Qualche mimo. Qualche pittore disegnava lo stupore e il sorriso di chi si fermava a fissarli. A Londra gli era capitato di vedere qualche mostra d'arte. Il più delle volte, al quinto quadro, ritornava fuori fiondandosi direttamente in sala prove a suonare. Sapeva fare solo quello. Le luci che decoravano le strade l’avevano distolto dall'unico pensiero e dall'unica ragione per cui si trovava a Parigi. Rivedere Pam. Provare a conquistarla. Sapeva dove 134 abitava, ma doveva trovare il modo di parlarle. Sarebbe stato difficilissimo. Un compito arduo e pericoloso. Guardava, seduto a un tavolino del locale, un gruppo di persone in cerchio mentre parlavano e scherzavano animatamente. Un giovanotto di bella presenza intratteneva alcune ragazze con dei racconti divertentissimi. Almeno credeva questo. Non riusciva a capire nessuna parola del francese. Li vedeva ridere di gusto. Si avvicinò incuriosito. Avrebbe sicuramente fatto una figuraccia ma, dopo tre giorni passati a girovagare come un pazzo aveva bisogno di conoscere qualcuno. Iniziarono a presentarsi in francese. Riuscì a capire solo i nomi e faceva finta di capire tutto il resto. Con molta eleganza e un’aria da persona di classe gli si presentò un ragazzo di nome Jean. Intuendo la sua difficoltà nel linguaggio gli chiese se parlasse l'inglese. Duncan rispose di sì. Dopo le presentazioni incominciarono a parlare e a fare conoscenza. Jean fece la prima domanda: «Come mai ti trovi a Parigi?» Duncan, senza pensarci, iniziò a raccontargli tutto. Il suo viaggio da Ascoli a Londra. I suoi successi musicali. La voglia di fama che ancora coltivava e il viaggio a Hollywood per partecipare alla registrazione e alla produzione dell'ultimo disco di Janis Joplin. Rimase sconvolto dal suo racconto. Non pensava che dietro la figura di un emigrante italiano potesse nascondersi tutto quel mondo. Sorrise quando affermò che identificava l'italiano solo a un mafioso. Erano dicerie che si portavano avanti da decenni. Duncan lo rassicurò 135 confermandogli che i veri italiani emigravano per cercare il successo. Per portare avanti qualche esperienza professionale e personale. Con una pacca sulla spalla Jean lo tranquillizzò dicendogli che la sua era una semplice battuta. Non voleva certo offenderlo. Duncan capì. Proseguì la chiacchierata. Fu lui a chiedere informazioni sul suo conto. Jean gli rispose che era figlio di marchesi che possedevano delle proprietà nel nord Africa. Alla morte del padre aveva ereditato tutto e faceva la spola tra il Marocco e la Francia. Lo incuriosì molto quel racconto. Continuò a chiedergli che tipi di possedimenti avesse. Jean rispose che era proprietario di alcune testate giornalistiche francesi in terra africana. Non volle approfondire il resto perché lo reputava inutile. Reputare inutile un patrimonio di ricchezza voleva significare che non aveva proprio voglia di dedicare tempo a delle attività che commercialisti e avvocati mantenevano attive a suon di quattrini. Sentendolo parlare di Londra gli confidò della sua amicizia con Keith Richards. Sbigottito, gli chiese come mai quell'amicizia con un personaggio lontanissimo dai suoi stilemi di vita. Gli rispose che più che un’amicizia dovuta a passioni artistiche, quella che li univa era la passione per la droga. «Cazzo!!! Tutti i tossici del mondo li incontro io. Porca puttana mai una persona normale lungo il mio cammino.» Fece finta di niente lasciandogli confidare altre informazioni riguardo alla sua passione. Gli disse che con il chitarrista Inglese passavano un sacco di tempo insieme sniffando 136 l'impossibile. Bucandosi quasi fino all'overdose. Vendendo a Keith un sacco di roba anche per corrispondenza. Dal suo racconto uscì fuori il quadro fitto di un’intensa rete di traffico di sostanze stupefacenti che dal Marocco arrivavano in Francia. Si protraeva in Inghilterra fino ad arrivare in America. La particolarità che colpì maggiormente Duncan era il modo con cui avveniva tale traffico. L'ambasciata marocchina a Parigi gli faceva pervenire la droga tramite gli emissari presenti nella città. Gli emissari dell'ambasciata francese in America gli portavano la roba oltre oceano. Gli sembrava tutto allucinante e alquanto sconvolgente. D'altronde, dalla sua parte, aveva quell'alibi legato alla nobiltà di famiglia che lo teneva lontano da ogni sospetto. Poteva dedicarsi alla sua nuova attività da spacciatore senza nessun intoppo. Durante il discorso gli accennò, ma senza scendere in dettagli, della sua amicizia con un certo George. Un tipo di Hollywood che vendeva la sua droga nel circuito dello show business californiano. Restò impietrito. Iniziò a pensare a qualche settimana prima quando, in quella sala di hotel, un certo George gli aveva venduto la roba per Janis. Morta quella sera stessa per colpa di un’overdose da eroina. «Il mondo è piccolo.» Si ripeteva tra sé e sé. Jean continuava a raccontargli degli artisti celebri che teneva sotto custodia. Erano nomi importanti. «C'è da aspettarselo. Non è semplice coincidenza. Se entri in questo mondo, devi per forza scontrarti con certi personaggi.» 137 Curioso fu un ultimo appunto confidatogli da Jean. Ribadiva la qualità della sua merce che faceva testare in laboratorio in modo da offrire ai suoi acquirenti un prodotto di ottima qualità. Non dannoso. Duncan si mise a ridere ricollegandolo a George. Jean, sbalordito e quasi infastidito gli chiese come mai si fosse messo a ridere. Duncan si scusò confessandogli che quel suo modo di vivere lo affascinava molto e che rideva per l'entusiasmo. Il francese si calmò e ordinò una bottiglia di champagne. Bevvero fino a notte fonda. Durante tutta la serata più volte lo invitò a casa sua per partecipare ai party che organizzava per riunire i suoi amici. Accettò. Gli sembrava giusto visto la cortesia offertagli. Era anche un modo per allargare le conoscenze in una città nuova e straniera. Per tutta la serata aveva rimosso Pam dai suoi pensieri. L'unica ragione per cui era arrivato a Parigi. Conosceva la sua abitazione e poteva presentarsi a casa sua o incontrarla nei paraggi in qualsiasi momento. Doveva solo stare attento a non perderla di vista. Rischiare di aspettare troppo. Incappare in un suo ritorno a Los Angeles. Jean gli aveva lasciato un indirizzo. Rue des Beaux Arts. Ore 20:00. Le indicazioni stradali per arrivarci a piedi senza prendere autobus o taxi. S’incamminò dirigendosi verso casa di Jean. Aver visionato ogni angolo di strada in modo da ricordare il ritorno. Il marchese aveva organizzato il suo party proprio in una sala di un hotel. Uno del suo blasone come poteva pensare di organizzare tutto a casa sua. E poi chissà se era in possesso di una casa o dimorasse direttamente in hotel. Furono domande 138 inutili che fece sparire subito dalla sua testa. Voleva dedicarsi esclusivamente alla serata. Non appena arrivò, fu accolto immediatamente da Jean. Lo ringraziò cortesemente per aver accettato il suo invito. Gli fece conoscere l'ambiente e subito lo lasciò libero di mangiare e bere come se fosse a casa sua. Nella sala erano presenti una centinaia di persone. Uomini d'affari. Prostitute di ogni genere. Rappresentanti della cultura parigina. Spacciatori. Riusciva a distinguere le varie classi sociali. Ogni categoria era raggruppata per conto proprio. Vedeva gli uomini d'affari con i loro abiti elegantissimi accovacciati al tavolo dello champagne, delle tartine e del caviale. Le prostitute le riconosceva perché saltavano come cavallette da un uomo all'altro alla ricerca esasperata di una prestazione da farsi pagare. Gli spacciatori erano tutti seduti vicino a dei tavolini stracolmi di droga. Gli uomini di cultura si distinguevano da tutti perché non facevano altro che parlare di poesia, di scrittura e di arte. Duncan si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Non sapeva con chi parlare. Il suo francese era nullo e non sapeva neanche cosa fare. Poteva solo bere e mangiare. Accostarsi a quelle grandi personalità gli sembrava fuori luogo e decisamente fuori stile. Restò per molto tempo poggiato vicino alla finestra che affacciava sulla strada. Guardava fuori e poi dentro. Cercava di far trascorrere qualche ora per poi fare ritorno in hotel. Gli si avvicinò Jean dicendogli che avrebbe voluto fargli conoscere due suoi grandissimi amici. Non volle dirgli i nomi. Avrebbe 139 voluto farglieli conoscere in un'altra occasione. Per quella serata gli avevano dato buca. Restò col dubbio e con la paura che potesse fargli conoscere qualche spacciatore. L’avrebbe incaricato di traghettare la roba a Londra. Era stanco. Affamato. Era rimasto due ore in piedi senza toccare niente. Solo qualche bicchiere di champagne servitogli direttamente da Jean. Decise che era ora di fare ritorno in hotel per riposare. Prepararsi, l'indomani, all'inseguimento di Pam. Era lo scopo del suo viaggio a Parigi. Durante il tragitto più volte ripensò alla telefonata ricevuta da Pam la sera prima di partire. Valutava quel suo gesto come un avviso più che come un addio. Si erano incontrati in due occasioni. Poteva benissimo dimenticarsi di lui. Lei voleva informarlo della sua venuta a Parigi e voleva che lui la seguisse. Ne era convinto. Si addormentò con la ferma convinzione che lei lo voleva accanto. Nella sua follia si era costruito mentalmente qualcosa che realmente non si sarebbe mai avverata. Lo svegliò una telefonata passatagli dalla reception. Era Jean che gli chiedeva di raggiungerlo al ristorante. Voleva fare colazione insieme a lui. Duncan rispose chiedendogli dieci minuti. Il tempo di sciacquarsi, di indossare jeans e camicia e di recarsi al ristorante da lui indicatogli. Lo trovò più in forma che mai. Aveva sicuramente fatto l'alba. A lui non pesava. Qualche tiro di coca o di eroina e via, di nuovo pronto per l'ennesimo giorno fatto di nulla. Jean si alzò. Gli strinse la mano e lo invitò a sedersi. 140 «Ti ho invitato perché ieri sera ho notato che non eri a tuo agio. Volevo sdebitarmi con te offrendoti la colazione.» «Non dovevi preoccuparti Jean. Ieri sera non mi sono annoiato affatto. Purtroppo faccio parte di un ceto sociale diverso da quelli presenti ieri sera. Il mio non saper spiccicare una parola di francese mi penalizza moltissimo.» «Sai, anche io i primi mesi americani ho sofferto molto per questa condizione. Uno studio approfondito mi ha portato a imparare l'inglese in pochissimo tempo. Facilitandomi poi nello studio.» «Hai studiato in America?» «Certo. Ufficialmente frequento l'UCLA ma i miei impegni m’impediscono di frequentare attivamente.» Quello straccione studiava nella stessa università dove Jim Morrison si era diplomato e dove era iscritta anche Pam. Senza far capire niente al conte incominciò a vantarlo. Gli ribadì che molti artisti losangelini studiavano o avevano studiato in quell’università. Come un rullo compressore Jean iniziò a parlargli della sua esperienza americana. Aveva conosciuto una ragazza fantastica di nome Pamela. Divenne sua intima amica. Fidanzata del leader del gruppo rock Doors. Jim Morrison. Erano diventati confidenti e spesso faceva arrivare la roba a Los Angeles esclusivamente per accontentare la ragazza. Dopo avergli confidato questo non nascose che le persone che avrebbe voluto fargli conoscere erano appunto Pam e Jim. Dovevano arrivare a Parigi entrambi ma alcuni problemi con la legge impedirono al cantante di 141 venire in Europa. In città per il momento c'era solo la ragazza. Iniziò a raccontargli dei vari tradimenti che entrambi erano soliti riservare l'uno all'altra. Che nonostante quello stile di vita i due volevano stare insieme. Di Pamela gli confidò molte più cose. Il vero motivo per cui era venuta a Parigi. La ragazza era alla continua ricerca di nuovi abiti da visionare. Da riproporre per il mercato americano e vendere nella sua boutique di Hollywood. Non conosceva l'esistenza di quel suo atelier e annuiva come se conoscesse. Jean continuò dicendogli che lei spesso e volentieri veniva a Parigi. In più di un’occasione aveva tentato di convincere il compagno a raggiungerla. Per distoglierlo dal clima che si era creato a Los Angeles nei confronti della rockstar. Per disintossicarlo dall'uso costante di droghe e di alcolici. Confidenzialmente e premurandosi di non far uscire dalla bocca di Duncan certe indiscrezioni, gli confidò che questa volta Pam aveva convinto il compagno a seguirla. A Parigi Jim si sarebbe disintossicato. Avrebbe smesso di fare musica dedicandosi esclusivamente alla poesia. Attitudine principale di Morrison. Promise a Jean di non far trapelare alcuna indiscrezione. L'abitudine di bere il caffè dopo ogni pasto non poteva interrompersi solo perché Londra, Hollywood e Parigi non offrivano le stesse miscele italiane. Si fermò in un bar e ordinò il suo solito caffè macchiato freddo. Le parole e le confessioni di Jean gli risuonavano in testa lasciandolo incredulo, perplesso, e sbalordito. Incredulo perché 142 non riusciva a credere che stava stringendo amicizia con lo spacciatore/amico di Pam. Perplesso perché sapeva fin troppo della ragazza, quindi di sicuro poteva essere lui uno dei suoi tanti amanti. Sbalordito perché aveva avuto la conferma che Pam sarebbe rimasta a Parigi a lungo. L'unico problema era Jim. Quell'alcolizzato di merda si sarebbe messo in mezzo. Avrebbe di sicuro peggiorato i suoi piani. L’avrebbe costretto ad abbandonare l'ipotesi di instaurare un rapporto intimo con la ragazza. L’avrebbe costretto a vivere sempre nell'ombra vivendo di fugaci incontri con la donna. Il caffè gli aveva ridato slancio. Aveva risvegliato i suoi sensi ma lo stava costringendo a ritornare in hotel. Un forte mal di pancia lo piegava in due. «Sarà tutta colpa di quel maledettissimo caffè.» Riuscì a mala pena a tirare giù i pantaloni. Si stava liberando di un peso. Intanto pensava e ripensava a quanto confidatogli poco tempo prima da Jean. Pensò che sarebbe stato lui l'artefice del suo incontro con Pam. Doveva solamente trovare il modo di convincerlo a combinare un incontro con la ragazza. C'erano tanti modi per poter incontrarla. Andare a tutti gli avvenimenti organizzati da Jean. Far finta di essere interessato alla moda e indurre il conte a farlo partecipare a qualche sfilata organizzata da lei. Spiegare tutto allo straccione. Eliminò l'ultima possibilità perché troppo rischiosa e avventata. Parlare di moda sarebbe stato per lui difficilissimo e del tutto fuori portata. Era talmente negato per la moda che sapeva indossare a mala pena i suoi tre capi di abbigliamento 143 preferiti. Jeans. T-shirt. Camicia. Nelle giornate fredde un maglione. L'unico modo per incontrarla era quello di partecipare alle avventure di Jean. Nel pericolo e nella perdizione. Con la possibilità di finire in mezzo a traffici di droga. Di finire nel bel mezzo di orge. L'ultima ipotesi sarebbe stata la più interessante. Purtroppo la sua italianità gli impediva di compiere atti del genere. Alla base doveva esserci un briciolo di sentimento. Voleva liberarsi da quel blocco esistenziale. Patriottico. Non riusciva a immaginarsi con decine di donne senza conoscerne il nome. La provenienza. La pulita moralità. Jean lo chiamava sempre. Voleva che si unisse a lui per pranzare, per cenare, per un piccolo break o per far parte dei suoi ospiti. Si discuteva di musica. Di come il rock avesse cambiato il mondo. Di come le influenze pop dei Beatles avessero contraddistinto l'intera generazione del sessanta. Jean gli confidò che avrebbe organizzato un party per dare il benvenuto a Parigi a Morrison. «Porca puttana.» Jim aveva definitivamente deciso di trasferirsi. Quella notizia aveva visibilmente danneggiato i suoi piani. Gli avrebbe provocato sicuramente dei problemi. Jim sarebbe stato ospite nell'appartamento di Pam. Diventava impossibile per lui sostare davanti al portone del palazzo. Avrebbe dovuto trovare altre soluzioni. Jean gli stava raccontando dell'ultima consegna effettuata a Eric Clapton. Suo altro grande amico ed estimatore dei suoi prodotti. Gli aveva fatto assaggiare la nuova “Chinese”. 144 Entusiasta per gli effetti provocati ne aveva ordinato ancora. Jean si vantava con Duncan di questo suo impiego. Spesso, con delle battutine pungenti, cercava di spingerlo a provarla e a farne uso. Non ne aveva mai fatto uso se non miscelata all’alcool. Fu così con Jones, con Hendrix mentre a Janis la procurò per farle un favore. Lui non voleva e non poteva permettersi di entrare in quel circolo vizioso. Troppi sacrifici per portare avanti il suo progetto. Troppo rischiosa la possibilità di finire seppellito senza che nessuno si fosse ricordato di lui. Che senso avrebbe avuto tutto quel suo calvario musicale. Jean non aveva niente da perdere. Ereditiere. Famiglia benestante. Poteva permettersi di fare ciò che voleva. Riteneva giusto drogarsi. Vendere la droga ai grandi musicisti. Era libero di farlo senza che nessuno gli muovesse critica. Sabato sera avrebbe finalmente rivisto Pam. Il party in suo onore avrebbe coinvolto come al solito un mucchio di persone. Tutte legate all'arte. Probabilmente Pam si sarebbe aspettata di vedere quei volti. Di scrutarli uno per uno e di ritrovarci quel senso di fiducia e di amicizia. Sicuramente non si sarebbe aspettata di rivedere l’italiano. Non svelò a Jean del suo interesse per Pam. C'erano stati due fugaci incontri. Casuali. Per lei erano finiti com’erano iniziati. Solo avventura. Per lui avevano significato tanto. Lasciarsi scappare qualche segreto avrebbe compromesso tutto. La ragazza avrebbe disertato la festa in onore del compagno. Avrebbe fatto di tutto per non volere Duncan fra gli invitati. 145 La musica rimbombava per tutto l'hotel quando Pam entrò nella sala. Jean aveva preparato tutto. La moltitudine di personaggi presenti si diresse verso la ragazza per darle il benvenuto. Festeggiarla quasi fosse una diva. Duncan si era messo all'angolo. In attesa che la folla si dileguasse. Non volle farsi notare immediatamente. Accanto alla ragazza, nella sua maestosa presenza, apparve la sagoma di Jim. Barbuto. Capelli lunghi. Fisico appesantito. Occhi coperti da un paio di occhiali neri. L'esatto contrario di quello che aveva visto in qualche immagine nello studio di Paul. A mettere in seria difficoltà il suo piano ci si mise la sorte. Pam, notandolo, fece un cenno d’intesa con Jim. Lo allontanò facendolo accomodare insieme con altri ospiti. Si diresse verso di lui. Non sembrava né contenta né dispiaciuta. Visibilmente in stato alterato per via di qualche dose, lo baciò. Gli disse di ricordare qualcosa e poi si allontanò per raggiungere il suo compagno. Stampò sul suo volto un finto sorriso. Mostrò a Jean un’apparente tranquillità. Dentro di lui stava rosicando come un matto. «Grandissimo bastardo farai la fine che meriti. Non sei degno di stare insieme a Pam. La stai portando alla rovina.» Aveva legato le cattive abitudini di Pam a quelle di Jim. Non gli perdonava il fatto di lasciarla in quello stato. Lasciò la festa. Senza informare Jean. Si diresse in hotel per calmare il suo nervosismo con una bella bottiglia di champagne. A rompere le palle in continuazione, in quei giorni di permanenza parigina, ci pensava Jean. Quel tossico di merda sembrava essersi invaghito di Duncan. Conosceva centinaia di 146 persone ma al mattino voleva la sua compagnia perché era l'unico della sua cerchia che amava prendere il caffè al mattino. Questa passione condivisa per lui voleva significare tanto. Oltre la droga, con il resto dei conoscenti condivideva poco. Ogni notte dormiva con una donna diversa. Ogni mattina cercava uno svago per dimenticarsela. La sera ne conosceva un’altra. Duncan era diventato lo svago. Non si era accorto del saluto scambiato tra lui e Pam. Gli chiese se l'avesse conosciuta. Gli chiese anche un parere personale sulla ragazza. Disse che l'aveva vista nella sala insieme al compagno. Apparentemente gli sembrava una ragazza tranquilla. «Tranquilla un cazzo!» Rispose Jean. «Quella è matta da legare. Pensa che con Jim litigano in continuazione perché Jim odia l'eroina che Pam assume giornalmente. Lei è l'unica ragazza sulla faccia della terra capace di stare al fianco di Jim. Se Jim le chiedesse di tuffarsi dal ponte di Brooklyn lei lo farebbe senza pensarci due volte». Quell'ultima affermazione puntualizzò come il suo bizzarro tentativo di conquistare la ragazza fosse solo un’utopia. Lei era legata a quell'uomo. Solo qualche tradimento gli avrebbe permesso di passare qualche ora con lei. Niente di più. Jean continuava a raccontare dei due. Più lui raccontava più Duncan covava un senso di odio verso quell'alcolizzato esaltato che si sentiva un dio. 147 Bevendo il caffè si rilassò. Giusto il tempo di assimilare la solita dose di caffeina e ritornò a macinare nella sua mente pensieri di ogni tipo. Voleva vederlo morto quel cane. Decisero che una bella passeggiata lungo la Senna li avrebbe ristabiliti. Avevano passato una faticosa nottata. Per Jean fatta di sesso e droga. Per Duncan fatta di champagne e rabbia. Il conte gli ripeteva delle continue vendite. Del mercato della droga sempre in continua crescita. Continuava a fare calcoli. Elencava tutte le grandi rockstar che acquistavano la roba da lui. Dopo un paio di ore, Jean, aveva scassato notevolmente le palle. Non poteva credere che un tipo apparentemente fuori dagli schemi potesse diventare decisamente logorroico e rompicoglioni. All’improvviso dalla sua bocca uscì l'unica affermazione sensata di tutta la giornata. «Ho un problema Duncan. Dovrei consegnare dell'eroina a Pam. Non so come fare. Se Jim mi vede con la roba mi ammazza.» Di colpo le sue cellule iniziarono a manifestare in un senso di gioia e di ebbrezza. Sorridendo, senza rendersi conto di cosa stesse facendo, disse a Jean che avrebbe fatto lui la consegna. Jim non lo conosceva. Fu solo una scusa per farsi dare l'ok dal conte. Mentre parlava, aveva già in mente cosa fare per parlare con la ragazza. Per far fuori l'alcolizzato. Aveva pianificato tutto. Aspettava solo che Jean gli consegnasse la roba. Poi avrebbe compiuto la cattiva azione. Si sentiva decisamente meglio. Non aveva nessun timore. Le sue 148 gambe non tremavano. Era come se il codardo Duncan avesse lasciato posto a uno psicopatico Duncan. La stradina che conduceva all'appartamento di Pam era una classica stradina antica. Pavimentata con delle lastre di pietra sporche e male odoranti. Di piscio di animale. Di piscio dei barboni che spesso si accampavano in quella zona. Tutte perfettamente e parallelamente disposte. Un tappeto roccioso che l’avrebbe accompagnato fino al portone. Era maestoso e restaurato. Il palazzo era stato costruito durante il secolo precedente. Mostrava qua e là qualche segno visibile del tempo. Per arrivare al terzo piano sarebbe dovuto salire sei rampe di scale. Avrebbe dovuto suonare al 17. La porta a destra del pianerottolo. Il marmo che formava la struttura della scalinata stava perdendo colore. Sbiadiva da gradino a gradino. I continui sali e scendi degli inquilini e l'età davano risalto alla scala. Nella sua unica utilità, quella di essere il collante fra il piano terra e il resto della costruzione, raccontava un secolo di storia dell'arte francese. Pam era stata avvisata da Jean. Non aveva dato spiegazioni su chi fosse il tramite. Aprì la porta. Irrigidì spaventata. Preoccupata della reazione di Jim che nel frattempo era di ritorno. Era sceso in strada a comprare qualche altra bottiglia di whisky. Beveva in continuazione l'alcolizzato. Viveva perennemente nell'ebbrezza. Pam lo fece accomodare ugualmente. Gli chiese di pazientare perché avrebbe voluto chiamare Jean. Voleva la conferma che quella roba era destinata veramente a lei. Jean impiegò un bel po' a rispondere. 149 Era sicuramente impegnato a trombare e a sballarsi con l'ex di Mick Jagger. Aveva da poco conosciuto quella ragazza ma già se la portava a letto senza nessun problema. La accontentava con qualche grammo di roba. Vistosamente nervosa, Pam, riuscì finalmente a parlare con lui. Il conte confermò la consegna. Pam guardò negli occhi Duncan, gli confessò che, di quelle sere in cui si erano visti, Jim sapeva tutto. Lei aveva provato a convincerlo che non era successo niente. Se avesse saputo che lui era quel Duncan conosciuto a Hollywood, l’avrebbe riempito di botte. Duncan non volle credergli. Pam per non andare oltre gli fece riversare su uno specchio tutto il contenuto della bustina. Era eroina pura. La famosa “Chinese”. Leggermente più tranquilla continuò lo scrupoloso assaggio. Lo informò sul fatto che quel tipo di droga la possedeva soltanto Jean. Comprava da lui proprio perché era un amico fidato. I passi di Jim si sentivano sempre più vicini. Pam tremava. Aveva paura di qualche reazione spropositata del compagno. Al contrario Jim si rivelò essere sereno. Era talmente ubriaco che non fece caso né a Duncan né a Pam. Una cosa però lo turbò particolarmente. Vide lo specchio. Quella polvere bianca. Iniziò a urlare come un pazzo scagliandosi contro la ragazza. L’accusò di fare uso di quella schifezza nonostante era a conoscenza dell'odio del cantante per quella roba. Non si lasciava parlare. Pam pianse un paio di volte durante la lite. Lite a cui Duncan stava assistendo. Erano altre le cause che 150 l’avevano portato fin dentro quell'appartamento. Gli atteggiamenti di Jim si facevano sempre più violenti. Si scagliò verso la ragazza. La strinse forte per un braccio. Come a volerla fermare. Vietarle di fare uso di quella robaccia. Pam si liberò e corse veloce dietro di Duncan. Fu un gesto che diede molto fastidio all'alcolizzato. Si scagliò come una furia contro di lui sganciandogli un destro. Lo fece finire al tappeto. Non aveva mai preso un pugno in faccia. Quello appena ricevuto faceva un male cane. Si rialzò tenendosi la mandibola. Indolenzita. Biascicando alcune parole in attesa che il dolore attenuasse. «E' pura cocaina. È un regalo che vi fa Jean. Mi ha chiesto personalmente di consegnarvi la roba per ringraziarvi della vostra amicizia.» Disse Duncan a Jim. La bestia si calmò di colpo. Era ubriaco. Non poteva distinguere il tipo di droga. La reazione calmò anche Pam. Ancora in preda alla paura. Si piegò di nuovo verso la polvere e continuò nello scrupoloso lavoro di preparazione delle strisce. Era finalmente giunto il momento tanto atteso. Jim era ubriaco fradicio. Quella roba lo avrebbe sicuramente ucciso. Duncan fece un cenno a Pam come per dirle di iniziare a sniffare. La ragazza non ci pensò due volte. Aspirò la prima striscia. «Visto Jim che è come dico io. Pura cocaina. Non ti farà certo del male.» Convinto da Pam, l’alcolizzato si apprestò a sniffare la striscia di eroina. 151 Sarebbe toccato a Duncan. Approfittando delle pessime condizioni dei due, preferì bere un bicchiere anziché fare uso della droga. I due fidanzati non connettevano più con il mondo. Jim, cotto dall’alcool, non si reggeva in piedi. Sembrava un ebete attaccato alla vita da qualche macchinario. Si trovava in uno stato vegetativo. Fu proprio in quel momento che a Duncan salì l’embolo. Una sensazione di rabbia salì fino al cervello. Decise che si sarebbe vendicato per il colpo ricevuto qualche istante prima. Prese per i capelli l’alcolizzato. Lo avvicinò con il volto strisciandolo sulla polvere bianca sparsa sul tavolino. «Sniffa cane. Sniffa e vai a farti maledire per sempre. Rockstar dei miei coglioni. Sei un lurido alcolizzato di merda.» Col capo chino e con le forze che lo avevano abbandonato, costrinse Jim a consumare anche l'ultima striscia. Lui, senza muovere obiezione, non ci pensò due volte. Dopo aver inalato tutto, si accasciò a terra senza dare alcun segno di ripresa. Era vivo il cane. Respirava a fatica. Sudava. Pam in evidente shock iniziò a prendersi di agitazione. Alla felicità, per l'assunzione della roba, sostituì il panico. Piangeva. Non sapeva cosa fare. Chiese aiuto a Duncan, ma lui Voleva vedere Jim esalare l'ultimo respiro. I continui pianti della ragazza lo spinsero a effettuare un finto tentativo di ripresa. Aprì la porta del bagno. Riempì la vasca con dell'acqua fredda. Strascinò il bastardo immergendolo fino a fargli arrivare l'acqua al petto. Lasciò le braccia fuori dalla vasca per arenare il corpo ai bordi evitando che vi scivolasse per intero. 152 Cominciò a calmare la ragazza. La conversazione fu per lo più interrotta dai continui cedimenti psichici di Pam. Era visibilmente strafatta e non si reggeva in piedi. Era finalmente giunto il momento di compire quello che aveva sempre sognato. Fece stendere la ragazza sul letto. La denudò completamente. Lei, disinibita, sembrava essere a suo agio. Era felice. Stava riuscendo nell'impresa di fottersi Pam. All’improvviso un colpo di tosse, proveniente dal bagno, lo impaurì. Schizzò lì per vedere se Jim si era ripreso. Fu agghiacciante quello che era appena successo in bagno. Il colore cristallino dell'acqua si era colorato di rosso sangue. Quella tosse era stato l'ultimo segno di vita dato dalla rockstar. Stesa in una vasca col capo chino in avanti. Con le mani fredde. Dal naso continuava a fuoriuscire del sangue. Quella rabbia. Quella sete di vendetta verso chi non aveva nessuna colpa. Quella voglia di togliersi davanti l'unico ostacolo verso la conquista di Pam si stava materializzando sotto i suoi occhi. Chiuse la porta del bagno a chiave. Ritornò verso Pam che nel frattempo si era addormentata. «Troia che non sei altro. Vai a farti fottere.» Duncan si guardò intorno per vedere se stesse dimenticando qualcosa che potesse incastrarlo. Mentre raccoglieva i suoi occhiali, vide un quaderno. Erano gli appunti di Jim. Alcune sue poesie. Forse per elogio o per semplice spavalderia si sedette per dare un’occhiata agli scritti. Aprì una pagina. Erano tutte poesie scritte a mano. Vistose cancellature e dediche alla fine di ognuna. Su quella c'era 153 scritto: “Regina Coda, sii mia sposa, imperversa su di me nell'oscurità. Afferra l'estate nella tua arroganza. Lascia che sia!” a Pam. Guardò per l'ultima volta la ragazza. Chiuse la porta facendola sbattere dietro di lui. Si lasciò scappare una risata forte e un’imprecazione. «Vaffanculo Jim. Vaffanculo Pam.» La stradina deserta lo accompagnò fino all'incrocio con la strada principale. L’avrebbe condotto dritto in hotel. Aveva paura di una sola cosa. Jean avrebbe potuto raccontare tutto, anche se la confessione avrebbe significato, per lui, guai con la giustizia. Chiese la chiave al ragazzo della reception. Salì in camera. Fece una doccia calda. Si mise a letto come se nulla fosse successo. Un roboante suono di sirene lo tirò dal letto. Erano le otto di mattina. Aveva un cerchio alla testa che lo tormentava e pochissime ore di sonno. Non collegò inizialmente tutto quel trambusto alla morte di Jim. Non credeva che Jean o Pam avessero rischiato di farsi arrestare per quell'alcolizzato esaltato. Tutto quello per cui aveva lottato in quei giorni di permanenza parigina si era sgretolato sotto i colpi della droga. Sotto i colpi di un raptus di gelosia e odio nei confronti dei due. Ancora non riusciva a rendersi conto del folle gesto. Non sapeva darsi una spiegazione. In quei giorni aveva accumulato tanta rabbia durante le confessioni di Jean. Durante le altrettanti scandalose scoperte sulla relazione conflittuale della coppia. Quello stato d'animo travagliato e convulso si era scatenato come un impeto contro i due. La vittima sacrificale 154 fu l'uomo. Salvò la ragazza solo per riconoscenza. Per i sentimenti che provava nei suoi confronti. Finalmente era arrivata l'ora di tornarsene a Londra. Il suo manager era felice della notizia appena appresa. Mentre parlavano al telefono, gli chiese se aveva saputo di quello che era successo a Jim Morrison. Fece l'indifferente facendosi spiegare tutto. Secondo le ricostruzioni della polizia Jim era stato trovato morto nel bagno della sua abitazione. Un arresto cardiaco. Un’emorragia interna causata dal mix di droga e alcool ingerita quella sera. Pam aveva ritrovato il corpo solo al mattino seguente. Duncan si mostrò sorpreso ribadendo che non aveva appreso quella notizia. Lo rassicurò per l'ennesima volta che sarebbe ritornato a suonare a Londra. Aveva un contratto discografico pronto e una serie di concerti da portare avanti per la promozione del disco. 155 Capitolo VI Il fumo aveva ricoperto l'intera stanza. La cenere ricopriva i fascicoli poggiati sulla scrivania di Samuel Smith. Detective da venti anni. Impegnato sempre in particolarissime scene del crimine. In tutte era riuscito nell'impresa di scovare il più abile assassino. Molto apprezzato per la sua astuzia. Peccava solo per quel suo caratteraccio. Credeva di essere il nuovo Sherlock Holmes tanto da spulciare perfino nei fascicoli riguardanti gli omicidi di Jack lo Squartatore. Aveva trascorso nottate intere a leggere tutte le relazioni sulle vittime dell'assassino londinese. Londra era da sempre considerata una città tranquilla. Purtroppo, puntualmente, si accavallavano avvenimenti che lasciavano tutti senza fiato. Smith lo sapeva. Negli ultimi periodi aveva alzato l’allerta dopo che nel giro di poco tempo si era assistito alla morte di due importanti rockstar del calibro di Brian Jones e di Jimi Hendrix. Il mondo che abitava i locali notturni era pieno di figure poco conosciute. Dal passato tormentato e poco pulito. Il commissario lo sapeva bene. Per scovare informazioni riguardanti i musicisti, doveva addentrarsi in quel mondo. 156 Sapeva che la morte dei due doveva per forza coincidere con qualche figura che, nell’ombra dell’anonimato, poteva essere libera di fare quello che voleva. Smith sapeva che non poteva morire nessuno senza un apparente motivo. Il detective era alto, longilineo e di carnagione chiara. Odiava ogni tipo di droga ed era ghiottissimo di tisane e tè. Solitamente vestiva elegante ma nel suo lavoro indossava jeans e maglietta che gli permetteva di infiltrarsi in gruppi di ragazzi che spesso gli rivelavano tutti i dettagli dell’accaduto. Era un modo di mimetizzarsi per riuscire a scovare la realtà velocemente, senza passare per forza da interrogatori e ricerche. Non possedeva molto. Un piccolo blocchetto dove annotava tutto quello che vedeva. Aveva un dono particolare. Riuscire a identificare, dopo poche ricerche, il vero indiziato. A lui si dovevano molti casi risolti nella Londra cinica e fredda. Fatta di pochi rapporti interpersonali. Di personaggi che vivevano dietro le quinte di un nuovo mondo fatto di sesso, droga e rock & roll. Non voleva mai andare in ufficio. Per lui si trattava di un luogo triste e inutile. Da una scrivania non si poteva risolvere un caso. Il criminale non si sarebbe mai preso la briga di andare a consegnarsi alle forze dell’ordine. La cultura Beat, i Beatles e i Rolling Stones avevano contribuito a creare un clima teso in città. Tutti li osannavano e 157 tanti volevano farli fuori perché ritenuti falsi miti. Da poco era giunta a Londra la notizia della morte di Jim Morrison a Parigi. Smith sapeva che la star aveva problemi con le droghe ma non riteneva Morrison capace di morire per quella schifezza. Londra era piovosa. Fredda. Quella pioggia finissima, che cadeva ogni giorno sulla città, faceva risalire certi odori che, dalle fogne, salivano fino in cielo. Camminava ogni giorno disgustato. Disgustato per la gente che ci abitava e per la puzza che respirava. Perché ormai in giro non si faceva altro che parlare dei Beatles e del loro imminente scioglimento. Per lui, amante di musica classica e conservatore fino al midollo, quella nuova moda era solo un vizio. Sarebbe scomparsa col passare degli anni. La Denmark St. era sempre affollatissima. Tutti quei negozi erano meta e attrattiva per tutti. Inglesi e non. Tutti frequentavano quella strada ricca di misteri. Da quando sul Samarkand Hotel era calato lo spettro della morte di Hendrix, Smith si era messo a studiare ogni minimo particolare dell’incidente. Possedeva a casa centinaia di fascicoli riguardanti anche la misteriosa morte di Brian Jones. Studiava approfonditamente entrambi i casi. Cercava di identificare un punto di unione per scoprire se indagare verso un unico indiziato o concentrarsi su più soggetti. Non credeva molto nella seconda via di uscita ma era convinto ch dietro quegli omicidi si nascondeva un solo personaggio. Come da buon detective possedeva un muro dedicato alle mappe concettuali che servivano per risolvere il 158 caso. La ripuliva ogni qual volta riusciva a portare a termine un’investigazione. Ormai da un po’ di tempo le sue ricerche si erano bloccate sulle morti dei due musicisti. In alto aveva simbolicamente attaccato una chitarra. Per dare un nome a quella mappa. Divise la parete in due tronconi. Il primo, a sinistra, che riportava tutte le notizie sulla morte dell’ex chitarrista dei Rolling Stones. Il secondo, quello destro, riguardanti i dettagli della morte dell’americano. Sapeva che in entrambi vi era un punto in comune. Secondo lui non poteva esserci altra risposta. Tutti gli interrogatori avevano portato dei dubbi. Tutti i personaggi presenti in quelle ore concitate non erano riusciti a spiegare le cause dei decessi. Era uscito fuori l’uso e l’abuso costante di alcool e di droghe. Come al solito erano presenti conoscenti fidatissimi. Ovviamente in preda al caos nessuno era riuscito a cogliere particolari inquietanti. Particolari che avrebbero potuto indirizzare le indagini verso il binario giusto. Smith passava intere nottate a darsi una spiegazione che non riusciva a trovare. Si era avvicinato a un fornellino su cui posizionare il pentolino. Portava in ebollizione l’acqua. La versava in una teiera dove immergere gli infusi di tè, vicino a una poltrona di pelle nera, su cui i segni del tempo avevano apportato qualche taglietto. Smith fissava continuamente il muro. Spesso e volentieri si addormentava sulla poltrona. Si risvegliava con un forte mal di schiena. Alleviava il dolore scendendo in strada camminando e riflettendo su come riuscire a risolvere entrambi i casi. 159 La passeggiata di solito si svolgeva lungo le strade della città. Quel giorno l’aveva condotto fino al bar, dove anche Duncan si fermava a bere il suo caffè macchiato freddo. Smith aveva ordinato un tè. Adorava sentire il sapore forte della bevanda, simbolo della cultura Inglese. Quel giorno aveva deciso che avrebbe passato l’ennesima serata in giro per i locali della zona. Avrebbe sicuramente consumato un pasto veloce e ascoltato qualche esibizione live. I soliti gruppi che, sulla scia dei più famosi, cercavano la gloria nel panorama musicale locale e internazionale. Il palco ospitava gli strumenti. Sarebbe rimasto a vedere il gruppo. Da alcuni giorni avvalorava la tesi che bisognava frequentare quei luoghi per poter capire la vita di un personaggio famoso. Tutto quello che gira intorno a lui. Uno scrosciare di applausi accompagnò sul palco il gruppo che stava per esibirsi. Tutti capelloni. Tutti con i visi decisamente strafatti dall’uso di chissà quale droga. Tutti precisamente vestiti allo stesso modo. Era la moda del momento vestirsi alla Beatles. Anche se seguire le gesta della band, sarebbe stato impossibile visto l’enorme successo ottenuto dai quattro. Il primo brano era terminato. Un assolo finale aveva decretato la fine del pezzo. Un applauso aveva suggellato quanto fatto dal chitarrista. Tutti applaudivano quel tipo stranissimo e poco conforme al resto del gruppo. Condivideva con gli altri il look. Il vestito nero. Al contrario degli altri portava capelli cortissimi. Non era segnato dalla droga. Riusciva a mantenersi sul palco in posizione eretta senza 160 barcollare da una parte all’altre del palco come un assatanato. Era un comportamento poco congruo con il resto della band. Quel suo modo di suonare andava ben oltre il livello del resto dei musicisti. Aveva qualcosa di magico quel suo tocco di chitarra. Qualche chiacchiericcio portò alle orecchie del detective delle nozioni su di lui. Era italiano. Aveva partecipato al successo di quella band. Aveva avuto esperienze anche come musicista per l’ultimo disco di Janis Joplin. Quelle informazioni inizialmente non avevano destato nessun tipo di curiosità nell’investigatore. Trascorse il resto della serata ad ascoltare il concerto della band. L’italiano aveva suscitato l’interesse di tutti durante il concerto. Concedeva intermezzi musicali di alto livello e regalava sorrisi e sguardi a chiunque tentasse di destare la sua attenzione. Qualche seno scoperto lo aveva imbarazzato. Era il prezzo da pagare per quella fama che stava crescendo intorno a lui. Il ritorno a casa di Smith fu tranquillo come non mai. Di solito si ritrovava immischiato in qualche rissa che cercava di sedare per spirito di giustizia. Ronzava nella sua mente la musica del gruppo ascoltato poco prima. Pensava al chitarrista. Cosa spingeva un italiano a cercare fortuna in Inghilterra e soprattutto nel campo della musica? Come si era trovato a suonare nella band di Janis Joplin? Come mai era ritornato a Londra nonostante Hollywood offrisse più possibilità? 161 Furono domande a cui Smith non fece subito peso. Voleva concedersi quella lunga passeggiata, tranquillamente e senza pensare al lavoro. La poltrona era come al solito piena di cenere e macchiata di tè. Aveva attaccato il cappotto nell’entrata. Si era seduto sdraiando i piedi. Sfinito dal tragitto per tornare a casa. La poltrona era posizionata di fronte alla parete, dove l’investigatore aveva disegnato la mappa concettuale delle vittime. Guardava e riguardava le foto dei due musicisti. Non riusciva a collegare le due morti. Quei drogati e alcolizzati facevano uso eccessivo di alcool e robaccia. Eppure qualcosa lo riconduceva a quell’italiano. Non riusciva ancora a rendersi conto perché nella sua mente riecheggiava il pensiero del chitarrista. Non voleva escluderlo dalle sue ricerche. Diceva sempre che un buon detective non deve lasciare niente al caso. Non deve dimenticare nessuna informazione, anche la più banale. Il sole triste e tiepido della città illuminava il corpo stremato dell’investigatore, rimasto nella stessa posizione della notte appena trascorsa. Si era addormentato pensando al caso da risolvere. Aveva trascorso l’ennesima notte a dormire sulla poltrona. Una buona colazione avrebbe di sicuro dato energia al corpo e alla mente. Lo sapeva bene Smith. Per rigenerarsi mangiava una frittella per riempire lo stomaco e beveva una tisana rigenerante. 162 In centrale c’era un via vai di persone. Rimaste a dormire lì in stato di fermo dopo una tremenda scazzottata avvenuta in un locale. Era la prima volta che l’investigatore non si trovava in quella situazione. Suonò di buon auspicio per l’intera giornata di lavoro che lo aspettava. Entrò nella sua stanza con un sorriso che non gli si stampava in faccia dal giorno in cui fu lasciato dalla donna che aveva amato fin da ragazzo. L’aveva conosciuta in un locale, dove andava spesso a consumare un tè dopo un’intensa giornata di studio. Era bellissima. Occhi scuri. Capelli corvini. Un viso pallidissimo e perfettamente disegnato. L’aveva corteggiata per mesi prima che lei si lasciasse conquistare da quel ragazzo patito di tisane orientali e con il pallino dell’investigazione. Dopo qualche anno di fidanzamento i due avevano deciso di andare a vivere da soli. Affittarono un appartamento, dove vissero per cinque anni un amore folle. Poi la vita sfuggì di mano al detective. Passava intere giornate a fantasticare sulla vera vita di Jack Lo squartatore. Leggeva e rileggeva quei fascicoli dedicando pochissimo tempo alla ragazza. Il colpo di grazia lo diede l’ultima inchiesta che si era prefissato di portare a termine. Quella delle due rockstar trovate morte in situazioni inverosimili. Una mattina di novembre si alzò come al solito al fianco della ragazza. Fece colazione con lei prima di recarsi al lavoro. Fu l’ultima volta che vide la donna. Lei gli aveva lasciato una lettera, dove spiegava, chiaramente che quella sua folle 163 perversione verso quei casi lo aveva distaccato dal loro rapporto. Voleva trovare nuove strade per vivere la sua vita. Fu un colpo durissimo per il detective. Per qualche periodo cercò in tutti i modi di trovarla organizzando pedinamenti, aprendo un nuovo caso. Decise subito di archiviarlo perché ritenuto illogico. La separazione era stata dettata dal suo modo di comportarsi. Appena uscito dal locale, aveva telefonato un suo fidatissimo collega. Doveva procurargli la lista di tutti gli italiani presenti nella città. La richiesta fu subito esaudita. Quel fascicolo racchiudeva forse la chiave per arrivare alla risoluzione dell’enigma. Chiunque vivesse nella città doveva dichiarare dove risiedeva e il lavoro che svolgeva. Questo era quanto credeva il detective. Del migliaio d’italiani, presenti nella città, nessuno aveva indicato il tipo di lavoro svolto. Questo voleva dire che chiunque poteva essere quel chitarrista. Chiunque poteva fingersi un altro. Non tutti erano stati schedati con foto identificativa. Lanciò il fascicolo sulla scrivania. Sbattendo le mani sulla stessa imprecò contro quei vagabondi dei suoi colleghi che non avevano svolto in maniera ottimale il compito di schedatura. Il sorriso che accompagnava la lettura lasciò il posto a un viso imbronciato. Doveva ripartire da qualche altra pista ma non volle escludere dalle sue ricerche l’italiano. I giudici gli avevano sempre negato la possibilità di andare a interrogare conoscenti o amici delle vittime. I casi erano stati chiusi. Nessuno poteva più permettersi di oltraggiare chi aveva assistito alla morte 164 delle rockstar. Nessuno poteva scoprire altre verità. Nessuno poteva investigare sugli oscuri meccanismi che regolano le vite di un certo tipo di personaggi. Smith si era sempre mostrato contrario a tutto questo. Per non perdere l’affidamento del caso era sempre rimasto fedele a quanto aveva stabilito il giudice. Anche se lo riteneva un atto ingiusto, decretato solo per proteggere qualche losco personaggio. Smith lo sapeva bene che qualsiasi tipo d’informazione avrebbe ridato slancio alle ricerche. Per poterla ottenere doveva in qualche modo riuscire a parlare con qualcuno che avesse assistito alla scena. La compagna di Brian era irraggiungibile. Non poteva avvicinarsi a lei. Non poteva rischiare di infrangere le disposizioni del giudice. Parlare con il costruttore era l’azione giusta da compiere. Difficilmente avrebbe potuto intraprendere un colloquio con l’uomo in maniera formale. Un incontro casuale avrebbe in un colpo solo aggirato la legge e ottenuto qualche informazione preziosa. Frank Thorogood era stato indicato come unico colpevole, per via delle continue liti avute con la rockstar. Secondo il giudice, nonostante i due fossero amici, fu lui che organizzò la morte di Jones. Smith era riuscito a scoprire che il costruttore spesso si recava in una chiesa del Sussex per pregare. Decise che quel giorno avrebbe fatto visita all’uomo. Sperando di riuscire a scambiare qualche parola. 165 Maestosa e devota. La cattedrale si presentava con il solito portone aperto in modo che i fedeli vi entrassero anche solo per pregare. Senza per forza dover ascoltare la messa. Ogni bancale ospitava almeno tre persone. In silenzio rendevano omaggio al signore. Fra di loro doveva esserci per forza di cose Frank. Aveva un cappello che lo nascondeva da occhi indiscreti. Pregava sempre in un angolo, tenendosi alla lontana da tutti. Quello che era successo lo aveva segnato e ridotto quasi allo stremo delle forze. Aveva in tutti i modi cercato di dimostrare la sua innocenza senza riuscirci. I suoi legali avevano giurato di dare battaglia per rendere giustizia al loro assistito. Smith senza farsi notare si avvicinò all’uomo. Gli porse un bigliettino con su scritto il luogo e l’ora dove si sarebbero incontrati per parlare. Frank non fece nessun segno. Si sarebbero incontrati all’interno di un parco situato a poche miglia di distanza dalla chiesa. Qualche tiepido raggio di sole aveva rifocillato le piante che ora ridavano al parco un colore verde. Brillante. La brina bagnava i fiori nelle aiuole e cadendo dai rami sembrava pioggia. I due, dopo una stretta di mano, si accomodarono su una panchina ben nascosta dalle siepi. Smith spiegò subito il motivo dell’incontro. «Sto indagando sulla morte di Brian e di Hendrix. Non credo che la loro morte sia stata del tutto fortuita. Nemmeno che il colpevole per la morte di Brian sia tu. Nel racconto 166 emerso dalle indagini, risulta mancare un tassello importante per arrivare alla risoluzione del caso.» «Cosa vuoi sapere da me?» rispose Frank. «Voglio sapere tutto di quella tragica notte. Voglio che tu mi faccia una descrizione di tutti i presenti.» Frank aspettò qualche minuto prima di iniziare a parlare. Volle comunque riferire la sua versione dei fatti anche a quell’investigatore. Spiegò in maniera dettagliata tutto l’andamento della serata. Di quanta droga ci fosse nella villa. Di quanto alcool era presente nella stanza nel momento in cui era accaduto tutto quanto. Concluse il suo racconto con la descrizione dei partecipanti senza tralasciare alcun particolare. Dopo aver raccontato di Brian, della moglie, di lui e della sua compagna, disse che quella sera era presente un’altra persona. Persona che nelle indagini risultò essere al di fuori di ogni colpa. Di ogni sospetto. Frank però non riuscì a fare una descrizione dettagliata dell’uomo. Disse a Smith che la sua condizione estrema, dovuta all’uso di quelle sostanze, non gli permisero di mettere a fuoco il profilo di quell’uomo. Sapeva solamente che era uno straniero e che da poco aveva iniziato a suonare con Brian. Smith chiese a Frank se ne conoscesse la provenienza. A questa domanda Frank non seppe rispondere. I due si lasciarono stringendosi la mano con il patto che nessuno doveva sapere di quell’incontro. Smith aveva avuto poche conferme e molte incertezze. Come mai quella quinta persona fu estraniata dal processo? 167 Perché era ritenuto al di fuori di ogni sospetto? Era uno straniero? Non poteva affermarlo con sicurezza. Tanti personaggi approdavano nella città per trovarvi successo e fama. In quel periodo chiunque poteva suonare con Brian soprattutto dopo l’uscita dai Rolling Stones. Per quanto riguardava il caso Brian, era in possesso della confessione di Frank. Per quanto riguardava il caso Hendrix, non era possibile riuscire a parlare con nessuno. Secondo le supposizioni del giudice l’unica persona che si trovava sul luogo del delitto era la compagna del drogato. Si trovava in Germania impegnata nella sua disciplina. Chiuse la porta dietro di sé accorgendosi che il letto era ancora ben sistemato. Da qualche giorno non faceva altro che addormentarsi sulla poltrona. Davanti a quella fottutissima parete. A quelle fottutissime foto segnaletiche. A quei fottutissimi articoli di giornale. «Drogati di merda non so neanche perché continuo a perdere tempo con voi!» Erano passati ormai sei anni dalla morte di Hendrix e Brian. Nonostante tutto continuava a indagare su due vicende alquanto misteriose che non importavano più a nessuno. Chi avrebbe mai voluto scoprire il vero assassino? Se mai ce ne fosse stato uno! Erano le classiche domande che la notte, prima di addormentarsi, Smith si ripeteva come un’Ave Maria. Poteva vivere una vita tranquilla in giro per Londra. Mettere dentro 168 qualche ladro. Qualche delinquente. Invece no. Voleva risolvere quei fottutissimi casi. Brian aveva trascorso la sua ultima notte bevendo e ingerendo droga senza limite. Senza pudore. Poi era uscito di casa per dirigersi verso la piscina. Per cercare chi? Per cercare cosa? Smith non riusciva a darsi una risposta. Se veramente Frank aveva confessato in totale onestà, Brian sarebbe potuto uscire per parlare con quella quinta persona. Quella quinta persona perché avrebbe voluto uccidere la rockstar? «Pippe mentali e niente più.» Questo si diceva ogni notte prima di addormentarsi. Stronzate che lo stavano portando quasi alla pazzia. Anche i sogni erano tormentati da quelle vicende. Sognava puntualmente le scene del crimine. Come se inconsciamente fosse sicuro che nel sogno avrebbe potuto incontrare il vero assassino dei due musicisti. La schiena ormai a pezzi lo costringeva a svegliarsi di scatto. Effettuare subito qualche esercizio in modo da sgranchire le ossa. La solita colazione e poi dritto in ufficio. Leggere e rileggere le solite pagine. La solita routine. La solita giornata passata a spulciare negli archivi della polizia. Alla ricerca di qualche indizio da aggiungere alla lista di notizie riguardanti le morti dei due musicisti. Anche i colleghi erano esausti da quel suo autoconvincimento. Della sua caparbietà. Chiedeva a tutti di trovare qualche informazione. Su un cittadino. Su una zona. Su un locale. Spesso e volentieri 169 sfiorava l’impossibile quando chiedeva informazioni riguardanti personalità di un certo prestigio. Era tutto perfettamente costruito. Al detective mancava solo un tassello. Il vero colpevole. Credeva fermamente che la causa dei due decessi fosse dovuta a un personaggio oscuro che si era trovato a stretto contatto con le vittime. Ne era convinto. Non aveva voluto far archiviare i due casi proprio perché non credeva in quello che avevano affermato i giudici. Le amicizie nel mondo dell’investigazione spesso non si fermano al solo luogo di lavoro, circoscritto alla centrale dove si presta servizio. Un buon detective deve avere conoscenze anche oltre i confini della città. Oltre i confini nazionali. In un breve viaggio di lavoro, qualche anno prima, Smith si era recato in America per portare avanti un’indagine riguardante un traffico di droga. Le ricerche descrissero una fitta rete che si muoveva da ambasciata in ambasciata. Si scoprì un personaggio che rappresentava tutto fuorché uno spacciatore professionista. Le ricerche incastrarono un certo George. Spacciava la droga nel circuito dello show business che comprendeva anche affermate star della musica. Fu indagato per la morte di Janis Joplin e per altre morti eccellenti nel mondo degli affari e tra semplici cittadini. Smith aveva partecipato alle indagini perché la richiesta di arresto era partita proprio da Londra. In seguito ad un ritrovamento di quel tipo di droga presso le abitazioni di alcuni personaggi famosi. Smith sapeva che avrebbe potuto contare sui colleghi d’oltre oceano. 170 La telefonata durò circa un’ora. Smith raccontò tutto al suo collega. Spiegò che nella sua ricostruzione mancava un elemento importante che doveva rappresentare il colpevole. Fu in quel momento che capì che poteva risolvere il caso. Il detective americano rispose che nelle indagini per la morte di Janis Joplin figurava una persona esterna. Non era originaria del posto, che si trovava lì per portare avanti il progetto che la casa discografica della rockstar stava costruendo intorno a lei. L’uomo soggiornava nello stesso albergo, dove viveva la donna. Quella sera si trovava in camera sua e non figurava nel registro degli indagati in quanto fornito di un alibi perfetto. Era un personaggio, a detta dei pochi che lo conoscevano, che non amava stare in mezzo a certa gente, che non faceva uso di sostanze stupefacenti, che preferiva stare chiuso in camera anziché vivere la vita notturna di una città come Hollywood. Al detective saltò subito in mente tutto il discorso ascoltato qualche giorno prima in quel locale. In quel gruppo londinese suonava un musicista italiano che aveva partecipato alle registrazioni dell’album di Janis Joplin. Non ne era sicuro ma poteva rappresentare un primo indizio su cui incentrare le sue nuove ricerche. La sua mappa iniziava ad arricchirsi di nuovi personaggi. Di nuovi scenari. Sulla parete ora appariva, alla fine di tutto il quadro, una figura scura con un punto interrogativo. La figura di una persona presente in entrambi i casi. Rappresentava una nuova prova e la consapevolezza che aveva ragione. L’unico dubbio era legato alla morte di Hendrix. Nessuno, in quella 171 dannata sera, si era accorto di niente. Tantomeno la donna del chitarrista aveva lasciato dichiarazioni compromettenti. Il nuovo piano di Smith ora prevedeva l’identificazione del personaggio, il suo interessamento nei due casi. Per effettuare alcune ricerche riguardanti persone non incluse nelle liste degli indagati doveva chiedere il permesso al giudice. Quello scoglio lo rituffò in un senso di malessere che lo fece sprofondare nel sonno più totale. Convincere il giudice a riaprire il caso sarebbe stata un’impresa difficile. Sarebbe stato impossibile. Avrebbe sicuramente portato guai alla sua attività investigativa. Avrebbe attirato l’ira dei suoi superiori. Nel caso più estremo si sarebbe visto recapitare un ben servito dalla compagnia relegandolo di nuovo a servizi di ordinario controllo dei locali. Doveva fare in modo che quella sua nuova scoperta non giungesse alle orecchie dei suoi superiori. Chiese ad alcuni suoi colleghi di chiedere in giro per i locali se qualcuno fosse a conoscenza d’italiani, di farsi spiegare, sempre che qualcuno ne fosse al corrente, di che tipo di lavoro stesse svolgendo. Un gruppo cospicuo di poliziotti, in totale segreto, iniziò a investigare. Dovevano portare a Smith l’identikit del maggior numero d’italiani presenti nella città. Rinfrescata la ricerca ora spettava a Smith capire il senso della presenza di quell’uomo nelle morti dei due personaggi. Cosa c’entrasse realmente, perché ne fosse uscito indenne senza ricevere alcuna condanna. Erano tanti i quesiti appuntati sul blocchetto. Aveva inserito quel fantomatico personaggio 172 all’interno di un circolo casuale di avvenimenti. Avvenimenti successi proprio mentre il signor “X” si trovava insieme alle vittime. Era un appunto che non soddisfaceva completamente Smith. Chi si trovava in certe situazioni aveva legami diretti con la vittima o doveva trovarsi lì per conto di qualcun altro. Certo poteva essere il mandante di quel George arrestato a Hollywood. «Sì!» Poteva essere uno spacciatore che aveva portato la roba a Brian, a Hendrix e a Janis. Siccome tutti si erano rifiutati di offrirgli una ricompensa, lui li aveva ripagati commettendo il delitto. Oppure poteva essere uno scellerato in cerca di fama che voleva ad ogni costo affermarsi anche per merito di quei personaggi. Tutto poteva legarsi a “X”. Non riusciva a capire in che modo avrebbe potuto organizzare i tre omicidi. Nonostante quello di Janis fosse compito dei colleghi d’oltre oceano, era pur sempre un colpo dello stesso personaggio. Ne era convinto Smith. Straconvinto. Un forte temporale si stava abbattendo sulla città. Era arrivato in ufficio fradicio fin dentro le scarpe. Ogni richiesta da parte di un suo collega lo stizziva. Lo rendeva nervoso. Fino all’inverosimile. Dovette chiudere la porta a chiave in modo che nessuno entrasse nel suo ufficio. Poggiò la testa sorreggendola con le mani. Guardando fisso la scrivania notò un reportage del primo giorno d’indagini. Risultò che ogni gestore di locale conosceva un italiano. Perché aveva lavorato lì o perché spesso si riunivano in gruppo per passare una serata insieme. 173 Una forte bussata però lo riportò di nuovo sull’attenti. Da sotto la porta entrò un foglio. C’era scritto che, in un locale sulla Denmark st., un barista italiano conosceva un ragazzo connazionale giunto a Londra per cercar fortuna nel mondo della musica. «Sì! Conosco un italiano musicista. È un mio carissimo amico.» Furono queste le uniche parole che fuoriuscirono dalla bocca del barista, prima che una raffica di ordinazioni lo costrinsero a ritornare immediatamente a ricoprire il ruolo di cameriere. La lettura del fascicolo ebbe un effetto demenziale sul detective. Si mise a piroettare e a ballare come un macaco appena morso al culo da un serpente. Aprì le braccia come volesse volare. Cominciò a girare per tutta la stanza sbattendo di qua e di là provocando il continuo cadere di oggetti. Un rumore fastidioso rimbombava per tutta la camera dove lavoravano gli altri colleghi. Una risata isterica si sovrappose a un nervosismo che lo aveva accompagnato fino a lì. Stava gradualmente giungendo a una soluzione. Ora doveva identificarlo. Pedinarlo. Cercare di arrivare a lui per vie traverse. Spacciandosi un musicista. Intraprendendo con lui un rapporto d’amicizia. L’unico rammarico era dovuto alla mancanza di furbizia da parte del collega che non era riuscito ad accedere ad altre informazioni personali. Il luogo dove risiedeva. Un accenno di descrizione fisica. I locali maggiormente frequentati dal ragazzo. 174 Era già tanto sapere che fra migliaia d’italiani ora doveva indirizzarsi solo su una persona. L’astuzia del detective, spesso, si tramutava in sensazioni che gli percorrevano tutta la schiena fino a gelargli il collo. Secondo Smith era un dono concessogli come omaggio alla sua bravura. Alla sua caratura. In circostanze meno auto celebrative li considerava effetti di una fortuna sfacciata che identificava con lo slogan “botta di culo”. Sì. Spesso non riusciva a venir fuori da intricate relazioni che intrecciavano i suoi pensieri. Quando tutto sembrava ormai perso succedeva qualcosa. Qualcosa che lo distoglieva per un attimo. Che lo catapultava di nuovo nel razionale. Erano comunemente state identificate come scariche di diarrea. Lo colpivano perché amava tenere in bocca un bastoncino di liquirizia che era catalogata, in medicina, alla voce: “Lassativo naturale”. Quando meno se lo aspettava, doveva correre in bagno per liberarsi del demone che lo possedeva. Lì ricominciava a pensare a come portare avanti il lavoro. La botta di culo risuonò come risultato più naturale alle domande che si era posto. Dopo aver letto quel fascicolo. Il modo per scoprire la vera identità di quel personaggio era recarsi giornalmente presso il locale dove lavorava l’interrogato. Se i due si fossero conosciuti, il musicista sarebbe sicuramente andato in quel bar a consumare qualcosa da mangiare o da bere. La puzza che aveva infestato il locale lo costrinse a uscire in tutta fretta per non rischiare di morire asfissiato. 175 C’era un solo problema. Non poteva permettersi di assentarsi giornate intere dal lavoro senza una scusa plausibile. Ora doveva inventarsi qualcosa per poter uscire. Recarsi in quel locale senza che i suoi superiori esponessero lamentele e punizioni per la sua mancata presenza in ufficio. Era da un bel po’ di tempo che non godeva di meritate ferie. Dopo la rottura del rapporto con la sua ex compagna non si era mai assentato dal posto di lavoro. Perché usufruire di giorni di vacanza se doveva trascorrerli da solo? Decise che era giunto il momento di recuperarli tutti. Quindici giorni sarebbero serviti alla causa. Compilò la richiesta. La presentò al suo capo. Gli e le concesse perché meritate e un po’ per levarselo dai coglioni. Da quando si era fissato su quei due casi, era diventato insopportabile. Sulle scrivanie dei superiori giungevano giornalmente richieste di ogni genere. Spesso venne richiamato per essere riportato sulla retta via. Nonostante i richiami, dopo qualche giorno, spuntava l’ennesima richiesta. Il clima gradevole di quella mattinata aveva ridato nuova linfa al detective. Rinato sotto i colpi di quelle nuove scoperte decise che era giunto il momento di iniziare con il pedinamento. Doveva seguire l’italiano. Da casa sua il locale era parecchio distante. Per giungere lì di buon mattino doveva svegliarsi che era ancora buio. Doveva farsi trovare pronto nell’eventualità che il musicista si presentasse già dalle prime ore del giorno per rifocillarsi dopo una lunga nottata passata a suonare. Decise che, per non perdersi nessun tipo di dettaglio, 176 sarebbe stato utile compilare un diario. Avrebbe appuntato qualsiasi cosa potesse interessare l’italiano. GIORNO PRIMO D’INDAGINE. Si recò nel locale, dove Aldo, così si chiamava il ragazzo che aveva confidato l’amicizia con il musicista, si apprestò a servirgli una colazione appena preparata. Smith si guardava continuamente in torno. Con aria sospetta. Chiunque entrasse nel locale rientrava nel radar del detective. Spiava movimenti. Analizzava il linguaggio. Un italiano parla con l’altro italiano nella lingua madre o in inglese? Se fosse stata avvalorata la prima ipotesi, avrebbe immediatamente riconosciuto l’interessato altrimenti lo avrebbe potuto riconoscere dalla sua cadenza nell’esprimersi nella lingua straniera. Dopo due ore di attesa erano entrate almeno una cinquantina di persone. Tutte inglesi. Tutte visibilmente lontane dallo stereotipo di straniero. L’inglese si riconosceva dal modo di vestire. Dalle abitudini. Dal modo di interloquire. Dal modo in cui si atteggiava di qualsiasi avvenimento accadutogli il giorno prima. Nessuna traccia di persone diverse. Dopo un’intera giornata decise che era ora di ritornare a casa. Per riposare. Per continuare a cercare nuove piste che lo conducessero verso la risoluzione del caso. GIORNO SECONDO D’INDAGINE. Decise che si sarebbe recato qualche ora più tardi al locale. Un musicista che esce da un locale alle quattro di mattino difficilmente si reca alle otto in una caffetteria a fare colazione. Il locale era affollatissimo. Un cinguettio costante non permise a Smith di captare se nella 177 folla potesse esserci la persona da lui ricercata. Al contrario, quel senso d’impotenza e di malessere, lo spinse a uscire. A ritornare a casa. Infastidito da quanto accaduto, lanciò l’agenda in un angolo della sua abitazione. Quasi a voler dire che il secondo giorno sarebbe coinciso con l’ultimo di appostamento. Doveva escogitare un altro piano per reperire informazioni utili. L’unico modo per poter arrivare al musicista era quello di poter parlare con il ragazzo del locale. Con quale scusa si sarebbe presentato a lui? Dopo varie ipotesi decise che l’unico modo per riuscire a parlare con il musicista era quello di fingersi giornalista. Il guaio era come interloquire con Aldo. Arrivare a parlare del suo amico e poi fingersi interessato a lui per intervistarlo. Lui era un detective. In alcuni momenti, per riuscire a giungere a informazioni utili, svolgeva quasi lo stesso ruolo di un giornalista. Iniziava a fare domande sull’accaduto. Le appuntava. Le trascriveva sotto forma di report. Utilizzato poi per giungere alla risoluzione del caso. Ore otto e trenta. Il locale era vuoto. La prima ondata di persone si era dileguata per le strade della città. Aldo era impegnato nella risistemazione della sala. Solo dopo qualche istante si diresse verso Smith per servirlo. Nel frattempo il detective aveva aperto sul tavolino il giornale. Un quaderno di appunti e una penna. Aldo si avvicinò a lui chiedendo dove avrebbe potuto poggiare l’ordinazione. Smith fece cenno che poteva lasciarla anche sul giornale. Aldo ribatté dicendo che avrebbe potuto sporcarlo. Non era il caso di rischiare. Molti incappavano nella 178 disastrosa caduta della tazzina sulla pagina che si stava leggendo. Smith, per smorzare il clima ostile creatosi tra lui e il barista, esordì con una battuta. «Ho già letto tutto. Sono stato io a scrivere quell’articolo.» «Lei è un giornalista?» «Sì!» rispose il detective. «Scrive di qualcosa in generale?» «Scrivo qualsiasi cosa mi capiti sott’occhio. Ieri ho scritto di un brutto incidente avvenuto in una fabbrica in periferia. Oggi vorrei allietare la mia giornata cercando personaggi da intervistare.» Aldo rimase esterrefatto. Non aveva mai parlato con un giornalista. Il colloquio terminò lì. Smith aveva svelato la sua nuova identità. Avrebbe atteso il giorno in cui il musicista si sarebbe recato nel locale perché informato da Aldo. Aldo avrebbe potuto convincere l’amico a stringere amicizia con il giornalista in modo da strappargli un’intervista. Ne avrebbe giovato la sua figura. Il destino spesso si rende beffardo verso chi cerca di difendere ideali di giustizia. Trascorse i restanti dodici giorni di ferie senza che nessuno si presentasse nel locale. Senza che Aldo accennasse al finto giornalista che lui aveva un amico musicista che poteva fare al caso suo. Furono giorni collerici. Tesi. Smith continuava a brancolare nel buio più profondo. La speranza di poter parlare con quel personaggio si era disciolta come un gelato in piena estate. Consumato sotto il sole cocente. Il suo appartamento era 179 diventato un immondezzaio. Carte di ogni genere. Fogli con abbozzi disegni che nemmeno un bambino di tre anni riusciva a rappresentare peggio di lui. Montagne che sembravano piramidi. Alberi dritti e squadrati. Erano le uniche figure che Smith riusciva a disegnare in maniera comprensibile. Non chiuse occhio per tutta la settimana. Era straziante quella sconfitta. Non poteva aver perso tutti quei giorni. Non poteva aver creato un piano talmente inutile e inefficiente. Lui era una persona che calcolava tutto nei minimi dettagli. Era facile circoscrivere il raggio d’azione di un assassino normale. Difficile circoscrivere il raggio di azione di un musicista. Era come lasciare un astronauta in balia dello spazio senza nave su cui ritornare. Affranto e in piena crisi decise che era il momento di ritornare a svolgere il suo lavoro. Doveva dimenticare, per un po’ di tempo, quella vicenda. Se in alcune circostanze il destino ti volta le spalle in altri momenti, ti ritrovi a godere dei suoi servizi in maniera del tutto casuale. Quel giorno non fu la solita strada a condurre Smith al lavoro. Un profondo senso di disperazione lo condusse a calcare strade principali. Quelle strade che ai fasti del giorno rendono la baldoria di notti brave trascorse nei locali. Una folla di gente accerchiava un ragazzo che dormiva steso a terra. Insanguinato e visibilmente scosso per quanto accaduto. Smith sapeva bene che il suo ruolo lo costringeva a intervenire. Poteva essere quel segnale che aspettava da quindici giorni. Si avvicinò quasi mimetizzandosi. Nessuno si accorse di lui. La 180 polizia non riuscì a riconoscerlo. Alcuni addetti sollevarono da terra il giovane ferito. Lo adagiarono sul marciapiede. Iniziarono a rivolgergli le consuete domande. Allo stremo delle forze rispose farfugliando. Dopo qualche tentativo anche il corpo di polizia decise di demordere. Siccome quelle risse accadevano continuamente, decisero di lasciare lì il ragazzo a marcire nei suoi dolori. A riprendersi dalla baldoria della notte appena trascorsa. Si allontanarono tutti. Si doveva ritornare alla normalità. Nel momento in cui il ragazzo stava per alzarsi, Smith gli si avvicinò. Si propose di accompagnarlo da qualche dottore e il ragazzo si fece aiutare. Smith caricò il corpo nel primo taxi dirigendosi verso l’ospedale. Il tragitto non era lunghissimo. Bastò al detective per farsi spiegare quanto era successo. Il ragazzo, rinvigorito dall’aiuto di quello sconosciuto, raccontò l’accaduto. Spiegò che stava ascoltando un gruppo che si stava esibendo in quel locale. Dopo qualche brano iniziò a rivoltarsi contro i cinque componenti. Uno di loro si scagliò contro di lui prendendolo a chitarrate sulla schiena e a pugni in faccia. Smith chiese di avere descrizioni dettagliate dei componenti del gruppo. In quel modo poteva offrire aiuto. Avrebbe segnalato quei mascalzoni alla polizia. Iniziò a descrivere il profilo del cantante. Un tossico che non riusciva neanche ad aprire gli occhi talmente era sopraffatto dalla droga. Capelli lunghi che gli nascondevano le guancie. Carnagione cadaverica. Poi continuò con la descrizione del bassista. Una 181 specie di pazzo esaltato. Completamente pelato. Una cicatrice sullo zigomo destro dovuta a una lite che lo aveva visto coinvolto per via di un corteggiamento sbagliato. Terminò descrivendo il chitarrista. Basso. Tozzo. Un accento strano. Un taglio di capelli decisamente fuori moda. In quella descrizione poteva nascondersi la vera identità dell’italiano. Lasciò il ragazzo in ospedale con il taxi pagato per il ritorno. Si precipitò subito in ufficio. Doveva annotare la descrizione del musicista coinvolto nella lite. Ora aveva qualche base in più per continuare la ricerca. Sapeva che in quel bar avrebbe potuto incontrare quel personaggio. Decise che un ultimo tentativo meritava di essere portato a termine. Non aspettò il musicista ma si presentò ad Aldo sempre nei panni del giornalista con la scusa di voler intervistare un musicista. Il barista avrebbe sicuramente fatto il nome dell’amico. Aldo era sempre al solito posto, dietro il bancone. Indaffarato come tutti i giorni. Con il pensiero fisso su Duncan che non vedeva da un bel po’ di tempo. Smith si presentò nel locale come un fulmine a ciel sereno per Aldo. Salutò. Dopo aver ordinato un tè, chiese ad Aldo se poteva aiutarlo in qualche modo. Sorpreso, accennò a un sì ma avrebbe dovuto attendere qualche minuto. I due si sedettero uno di fronte all’altro. Smith aprì un’agenda e iniziò a spiegare al ragazzo perché aveva bisogno del suo aiuto. Il finto giornalista era lì per chiedere ad Aldo se conoscesse un ragazzo italiano che era giunto a Londra con lo scopo di diventare famoso facendo il musicista. 182 Ad Aldo si bloccò il respiro. Chiese il perché di quella domanda. Il giornalista prontamente rispose che aveva sentito parlare di quel musicista italiano eccellente con la chitarra. Voleva assolutamente intervistarlo. Aldo rimase sorpreso. Non sapeva se confidare la realtà al giornalista o far finta di niente. Alla fine cedette. Confidò all’uomo che era amico di un ragazzo italiano che ormai da anni viveva a Londra. Il ragazzo suonava in un gruppo della zona. Da più di un mese non aveva sue notizie. Eseguì una perfetta descrizione fisica dell’amico che risultò essere identica a quella rilasciatagli nella mattinata dal ragazzo ritrovato a terra dopo una scazzottata avvenuta proprio con l’italiano. Smith ringraziò il ragazzo. Aveva definitivamente ricostruito il profilo del ricercato. Si diresse verso casa. Iniziò ad appuntare su un foglio tutte le informazioni recepite nell’arco della giornata. Il presunto colpevole si mostrava agli occhi del detective come una persona bassa di statura. Tozzo nei suoi movimenti e nei suoi lineamenti. Capelli corti. Uno strano modo di accentare la lingua. Era ovvio che un italiano accentasse in maniera diversa la lingua inglese. Quello era il punto debole che avrebbe condotto Smith a scoprire il musicista. Aldo, durante la chiacchierata, aveva confidato che non lo vedeva da più di un mese. La vita del musicista si svolgeva perennemente durante le ore notturne. Non poteva combaciare con gli orari di lavoro di Aldo. Smith sapeva come arrivare al ragazzo. Avrebbe mandato i suoi uomini in tutti i locali in cui si sarebbe svolto qualche 183 concerto. La ricerca iniziò già dal giorno successivo. L’azione intrapresa risultò essere giusta ed efficace. Il giorno dopo gli si presentò un dettagliato report sul musicista. Smith era riuscito nell’impresa di scovare il personaggio misterioso che si era trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato secondo le deposizioni dei giudici. Per Smith ricopriva un ruolo fondamentale nelle morti di quei personaggi. Ora doveva convincere il giudice perché gli affidasse il caso permettendogli di indagare limpidamente su quella persona. Fu una battaglia dura. Dopo quasi venti richieste fu data a Smith la possibilità di sfogliare quei fascicoli. Di operare nel pieno potere che la legge offriva per risolvere quel caso. Il ricatto del giudice però fu pesantissimo. Un errore di valutazione e Smith sarebbe finito a ramazzare i giardini pubblici della città. 184 Capitolo VII La Beat Generation aveva lasciato il posto a una nuova corrente musicale incentrata sul rock più duro. I Rolling Stones tenevano testa. Una miriade di nuovi gruppi si affacciarono sul panorama musicale londinese. Costituivano un nuovo problema per chi cercasse di emergere puntando ancora su vecchi stilemi musicali. Le celebrità si eclissano. Dopo anni e anni di concerti ormai sono esausti. Rivendicano un meritato riposo. Ci sono personaggi che si eclissano perché non sono mai riusciti a emergere definitivamente. Domenico Volpe era partito dall’Italia in cerca di fama in quella nazione che aveva presentato al mondo due mostri sacri della musica. Sapeva che sarebbe stata durissima. Possedeva tutte le carte in regola per potersela giocare, fino alla fine, con gli altri musicisti. Gli inizi furono dei migliori. Era riuscito a suonare con Brian Jones e con Janis Joplin. Aveva conosciuto Hendrix e per pochi istanti anche Jim Morrison. Aveva da poco chiuso una tournee in giro per l’isola quando una chiamata del suo manager lo turbò per tutta la giornata. Il loro tour che sarebbe ripartito fra qualche mese era stato annullato. Nessuno voleva più il suo gruppo. Nessuno puntava 185 più su quel tipo di musica. Bisognava essere duri. Incazzati con il mondo. Produrre musica forte. Le canzonette non interessavano più. La telefonata lo fece incazzare così tanto da distruggere un tavolino del soggiorno del suo appartamento. Non riusciva a darsi pace. Nessuno poteva prendersi gioco del suo gruppo. Tantomeno del suo operato. Per anni aveva suonato in giro per l’Inghilterra. Cercava quella benedetta consacrazione. Mai gli era stata concessa l’opportunità di mostrarsi nel suo valore. Era un rancore che si portava dietro da un sacco di tempo. Aveva turbato il suo umore. Spesso concludeva le serate in risse furibonde insieme al bassista e al cantante. Fortunatamente trovava nella musica la sua valvola di sfogo. Nonostante cercasse di prodigarsi per produrre buona musica, ogni anno che passava, c’era sempre un altro gruppo pronto a rubargli la scena. Londra non offriva giornate caldissime. Era una città snob e nessuno si preoccupava di nessuno. Lo aveva capito bene Duncan. Si stava dirigendo verso gli uffici della sua etichetta discografica per discutere con il suo manager. Non voleva abbandonare tutto. Non meritava un simile trattamento. Per anni aveva fatto la fortuna del manager che stava alla musica come un rinoceronte sta alla danza. Quel figlio di puttana si era approfittato di lui e della band. Aveva messo sotto contratto una serie di gruppetti che poteva manipolare secondo la moda del momento per poi abbandonare come aveva appena fatto con loro. La porta dello studio si chiuse dietro di Duncan. Lo conosceva bene quel pezzo di merda. Non sarebbe uscito dallo 186 studio se prima non avesse sistemato per le feste quel coglione. Bastarono pochi pugni sferrati nei punti esatti del viso per mandare al tappeto il manager. Dopo averlo guardato negli occhi, lo minacciò dicendogli che se avesse raccontato qualcosa lui avrebbe agito di conseguenza provocandogli qualcosa di molto ma molto doloroso. Il Manager restò a terra sanguinante. Vide uscire la sagoma di Duncan. Dietro di lui tutta la rabbia di un uomo decisamente deluso. Si rialzò lentamente come se niente fosse successo. In stato confusionale Duncan vagava per le strade della città. Senza una meta. Si fermò incuriosito. Guardava le locandine che raffiguravano tutti quei nuovi gruppetti che affollavano i locali. Quei locali che prima ospitavano i grandi concerti che lui e la su band intrattenevano in città. «Luridi bastardi.» Furono le uniche parole che uscirono dalla sua bocca. Non riusciva a calmarsi. L’ira assaliva il suo corpo. Spesso qualche tic cercava di scaricare la tensione e il nervosismo. Non poteva mollare proprio in quel momento. Decise di organizzare un incontro con il resto della band. Sperava di riuscire a riportare in alto il loro nome. Avrebbero agito senza manager. Completamente secondo le loro voglie e le loro intuizioni. Avrebbero suonato nei locali e incassato l’intera somma. Una specie di azione punitiva contro quell’essere spregevole che li aveva appena scaricati. Il Regent Sounds Studios era il luogo perfetto per riunirsi. La discussione si portò avanti per molte ore. Ai segni di euforia si contrapponevano momenti di sconforto. Fu chiaro da subito 187 che dovevano rimettersi in moto. Portare avanti il loro progetto. Uscirono entusiasti e pronti a riprendersi i loro spazi. Molti gestori riconoscenti e rispettosi nei confronti della band offrirono una serata al gruppo. La band poteva ritornare a suonare in giro per i locali. Questa volta secondo le loro indicazioni. Per prima cosa cambiò il look. Camicia e giacca fecero spazio a nuove e sgargianti uniformi. Spaziavano dai maglioni più strani fino a camice improponibili. In alcune occasioni raggiunsero lo squallido. In seguito s’indirizzarono su un unico stile. Pantaloni e camicia di jeans sarebbero diventati i capi principali di quella nuova rinascita. Anche la musica cambiò. Non si sarebbero indirizzati sulle nuove mode. Era pur sempre il loro marchio di fabbrica. Avrebbero comunque utilizzato una distorsione diversa della chitarra. Cambiamenti che non convincevano i componenti ma che avrebbero sicuramente favorito un loro nuovo modo di presentarsi al pubblico. Una settimana di prove bastò al gruppo per risollevarsi da un periodo di stop prima di riprendere l’attività concertistica. La serata procedeva come al solito. La classica atmosfera da concerto live. Birre sul tavolino. Voglia di rilanciarsi nel panorama musicale locale. Era quello che voleva Duncan. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di ottenere quell’ambita benedizione chiamata celebrità. Prima che il manager li abbandonasse ogni serata era anticipata da un bagno di folla. Attendevano fuori dal locale 188 prima di entrare e gustarsi i quattro musicisti. Non si aspettavano la solita marea di persone ma neanche che il locale restasse semivuoto. Continuarono a suonare fino a quando anche l’ultimo dei superstiti decise di abbandonare la sedia. Fu un fallimento assoluto. Serata dopo serata si andava di male in peggio. Non restava che sciogliesi definitivamente e proseguire ognuno verso i propri obiettivi. Duncan sapeva che non poteva e non doveva arrendersi. Meditò notte e giorno nella ricerca di una soluzione al problema. Pensava e ripensava al momento della partenza. Quando mise per la prima volta piede nella sala di registrazione. Quando incontrò i primi musicisti. Brian Jones, Hendrix e Janis Joplin. Fu proprio l’ultimo nome a far scoppiare in lui la scintilla. L’unico modo per ritornare a fare musica era quello di ricontattare Paul. Lasciare Londra e ripartire da Hollywood. Era quella l’idea geniale di Duncan. Doveva solo chiedere a Paul di farlo partecipare a qualche suo progetto. Man mano riuscire a fargli conquistare la scena musicale americana. Lì sarebbe stato molto più facile inseguire il sogno di una carriera. Non sarebbero mancate le occasioni per suonare come turnista per personaggi di spessore. Non sarebbero mancate le occasioni per esibirsi dal vivo, in qualche locale, con qualche gruppo fondato proprio lì. Acqua e vento portarono Duncan fino al bar, dove Aldo lavorava come cameriere. Voleva rifocillarsi con il classico caffè macchiato freddo. Nella baraonda generale l’unica sua 189 certezza rimase che il caffè a Londra non era all’altezza di quello italiano. Si poteva bere solo mischiandolo con del latte. Una certezza alquanto bizzarra e che lo faceva sorridere. Una serie di ricordi gli passarono davanti. Il primo disco che andava a gonfie vele nell’underground musicale cittadino. I consensi che crescevano. Le piccole radio che li contattavano per registrare qualche intervista. Nel sentire l’odore del caffè ricordò quando, in quella piccola radio, lo speaker gli rivolse la fatidica domanda: «Ha qualche certezza di questa sua esperienza londinese?» «Certo! L’unica certezza che ho di questa esperienza è sapere che qui il caffè fa veramente schifo.» Fu una risposta che fece scoppiare tutti a ridere tanto che dovettero interrompere l’intervista. Allora la band si mostrava ambiziosa ma legata ad abitudini popolari. In quel periodo le radio non potevano mandare in onda un’intervista originale senza modificarne i contenuti. Non riuscivano ad accettare quel modo di fare e quella fu la causa principale del loro anonimato. In che modo potevano creare curiosità negli ascoltatori se non riuscivano a farsi mandare in onda? Duncan si recò presso l’ufficio del manager per chiedere il numero di Paul. I rapporti con quel bastardo si erano interrotti e incrinati. A lui doveva un favore. Avere il numero del manager americano era il minimo che potesse pretendere. Su un bigliettino da visita annotò il telefono. Si diresse verso l’uscita chiudendosi alle sue spalle l’avventura musicale londinese. 190 Una cabina telefonica sarebbe stata il luogo più adatto per contattare Paul. Dopo una serie di squilli rispose la segretaria che trasferì la conversazione direttamente all’impresario musicale. «Ciao Paul sono Duncan.» «Ciao Duncan. Che sorpresa. Come mai questa telefonata?» «Quel bastardo del tuo amico mi ha lasciato senza contratto. Ho bisogno di una mano. Ho pensato subito di rivolgermi a te». «Hai fatto bene a contattarmi. Ho per le mani un compito molto arduo. Hai chiamato al momento giusto.» A Duncan sembrò di svenire. Non credeva a quanto stava ascoltando. Avrebbe suonato nella band che accompagna il Re del rock. Elvis Presley! «Cazzo Paul non potevi offrirmi miglior incarico.» «Duncan devi partire immediatamente. Ti aspetto nel mio ufficio fra tre giorni.» Duncan mise immediatamente giù la cornetta e si diresse immediatamente verso casa per preparare la valigia. Lo spirito era lo stesso che percepì il giorno in cui decise di scappare dall’Italia per trasferirsi a Londra. L’America era dall’altra parte del mondo ma era l’unico tentativo rimastogli per proseguire nel suo sogno. Aldo stava asciugando i bicchieri appena lavati quando vide entrare il suo amico Duncan. Senza fermarsi si diresse dietro al bancone, dove lo abbracciò calorosamente. «Duncan?» 191 «Aldo. Lascio la città. Mi trasferisco in America. Grazie ad un amico riuscirò a seguire in tour Elvis. Questa nuova avventura mi terrà lontano per qualche anno. Mi sei stato di aiuto. Sei stato un ottimo amico. Un punto di riferimento su cui appoggiarmi nei momenti più difficili. Grazie di tutto!» Aldo lasciò cadere qualche lacrima. Lo abbracciò forte. Gli disse di stare attento. Di concentrarsi al massimo in modo da poter realizzare i suoi sogni. Duncan lo guardò fisso negli occhi prima di sparire fra le strade della città. Un taxi l’avrebbe portato fino all’aeroporto. Si sarebbe imbarcato nel primo volo per Hollywood. La tristezza conquistò lentamente i pensieri e il volto di Duncan. Nonostante tutto aveva vissuto positivamente l’esperienza appena conclusasi. Ogni locale e ogni luogo che fissava, da dietro il vetro dell’auto, riportavano in lui immagini di puro divertimento. Di magia. Paul era stato chiaro. Aveva parlato di Elvis. Di un lungo tour. Non aveva specificato altro. Cosa sarebbe successo? Non riusciva neanche a immaginarselo. L’entusiasmo che aveva provocato quella telefonata offuscò ogni ombra di dubbio. D’incertezza. Lo focalizzò sull’unico obiettivo. Suonare. Venti ore di viaggio sembravano non passare mai. Aveva già attraversato l’oceano durante il suo primo viaggio, quando partecipò alla produzione dell’ultimo disco di Janis Joplin. Quell’infinita distesa di acqua non riusciva a rasserenarlo. Passò tutto il viaggio a fissare dal finestrino il cielo. Come se 192 in quelle nuvole cercasse un riparo alla paura di affrontare una nuova avventura. Paul guardava fuori dall’enorme finestrone del suo ufficio quando sentì aprire la porta. Duncan era vistosamente provato dal viaggio. Si era presentato puntuale all’appuntamento. Si strinsero la mano come segno di saluto prima di parlare dei dettagli del lavoro. Duncan avrebbe accompagnato Elvis in tutte le tappe del tour tenutosi in America. Prima di partire alla volta dell’America avrebbe affrontato un periodo di sala prove. Approfondire la musica dell’artista. Studiare a fondo i dettagli dello spettacolo. Elvis era solito portare sul palco qualche spettacolo per mandare in visibilio le folle di fans che si accalcavano al palco, con la speranza di ricevere anche solo uno sguardo da parte del loro idolo. A Duncan sembrava un’offerta ragionevole e fattibile. I due, dopo aver dettagliatamente affrontato il discorso riguardante Elvis, iniziarono a conversare su quanto successo a Londra. Duncan spiegò che si era ritrovato insieme agli altri componenti del gruppo in balia del niente. Avevano perso il contratto discografico. La possibilità di esibirsi per i locali. Paul scuoteva il capo ogni qualvolta Duncan pronunciava il nome dell’ex manager. Spiegò all’italiano che ormai il mercato musicale si muoveva con una velocità infernale. Stare fuori dal circolo, anche solo per qualche anno, voleva significare eclissarsi definitivamente. Duncan diede ascolto a Paul. Non si spiegava come mai era stato scartato dopo aver dimostrato il suo valore. Paul gli si 193 avvicinò incoraggiandolo. Difendendo il suo amico confidando al musicista che ormai ogni manager pensa giornalmente alla sua attività e guarda al presente più che al futuro. Ascoltare qualcuno d’interessante e sfruttarlo anche solo per un disco o per una stagione l’avrebbero fatto senza scrupoli. Duncan chinò il capo in segno di resa a un sistema industriale che aveva abbandonato i principi di rispetto verso l’artista a dispetto dei guadagni. Paul, prima di chiudere definitivamente il discorso, consegnò una busta a Duncan. Lì c’era scritto l’indirizzo, dove si sarebbe dovuto recare per presentarsi allo staff di Elvis. Dove avrebbe ricevuto le ultime direttive. Si ristrinsero la mano e si salutarono. Paul sottolineò la stima verso di lui proponendosi per un futuro aiuto. Un piccolo motel appena fuori la città avrebbe ospitato Duncan prima di recarsi al 3734 del Boulevard Elvis Presley di Memphis. Presso la tenuta Graceland dove risiedeva Elvis e tutto il suo staff. Nella busta c’erano alcune informazioni riguardanti i componenti dello staff dell’artista. All’italiano saltò subito agli occhi il nome affibbiato a certi personaggi che ruotavano intorno alla figura di Elvis. La Memphis Mafia. Era una sorta di compagnia che viveva in simbiosi con Elvis. Si occupava di mantenere in auge il nome dell’artista. A Duncan fece molto impressione leggere quel nome. Conoscendo lo spirito americano credeva fosse solo un nome utilizzato per far impressione mediatica più che dimostrare l’esistenza di una cerchia di personaggi poco onesti. 194 Il sole si era svegliato su Hollywood. Non era estate ma quel giorno d’inverno si era presentato inspiegabilmente sotto mentite spoglie. Dolce come non succedeva mai durante quel periodo dell’anno. Si presentò come buon presagio prima della partenza. Un treno avrebbe portato Duncan a Memphis. Il viaggio si rivelò tranquillo. Sapere di viaggiare incollato alla terra faceva molto piacere. Aveva inquadrato per venti ore solo oceano. Ora poter osservare case e distese di alberi. Significava riconquistare una visuale più congrua alla sua vera appartenenza. Quando prendeva il treno per spostarsi oltre i confini della sua regione, perdeva molto tempo a fissare il panorama. Mai si voltava all’interno dello scompartimento. Volava con la fantasia lungo quelle distese di piantagioni e di distese incolte. Giunto alla stazione un taxi lo condusse verso l’indirizzo indicato nella busta. Non aprì bocca per tutto il tragitto. Rispondendo con un cenno di capo alle domande che l’autista rivolgeva all’italiano. Domande più che normali. Non era solito accompagnare qualcuno presso la residenza del grande Elvis. Quello che si presentò agli occhi dell’italiano fu uno spettacolo meraviglioso. Un’immensa abitazione si mostrò in tutto il suo lusso. Benvenuti nella dimora del Re del rock. Rimase a fissare la residenza per qualche minuto. Impaurito. Emozionato. Sbigottito. Affascinato. Non aveva mai visto niente di simile. A Montegallo e ad Ascoli esistevano palazzi lussuosi di vecchi principi e ricchi proprietari. Costruzioni che 195 si fermavano alla semplice architettura di palazzo. La residenza di Elvis andava oltre. Era una maestosa costruzione. Ad attenderlo al cancello vi era un addetto all’accoglienza degli ospiti. Aspettavano l’arrivo di questo nuovo membro. Lo accolsero con i dovuti saluti. Era cortesia ospitare i musicisti con tono leggero in modo da metterli a proprio agio. All’interno il lusso più sfrenato componeva ogni singola stanza della residenza. Un maestoso atrio con due leoni auguravano il benvenuto a chi entrava. Due scalinate conducevano al piano superiore, dove erano ubicate le stanze da letto. Duncan fu guidato da un componente della Memphis Mafia che spiegò brevemente l’architettura della villa. Ventitré stanze in totale con otto camere da letto e bagno. Il salone dove di solito soggiornava, durante il giorno, tutto l’entourage di Elvis. Alcune stanze dove l’artista si fermava a comporre e a suonare. La cucina. La sacra cucina che Elvis cercava di mantenere sempre ricca di alimenti. Le molte ore di viaggio iniziarono a segnare il viso di Duncan. Dopo aver varcato la soglia della sua stanza, si diresse in bagno per fare una doccia. Poi si stese sul letto. Riposò senza sosta fino al giorno dopo. Nella residenza tutti sapevano dell’arrivo di quel nuovo musicista. Tutti si fecero trovare nell’immenso salone per accogliere il nuovo arrivato. Tutti tranne Elvis. Era un periodo difficile per l’artista. Il divorzio dalla moglie lo aveva fatto piombare in una specie di crisi psicofisica. Lo costringeva a fare abuso di ogni tipo di tranquillante per cercare di riposare. Restava sveglio fino alle 196 cinque del mattino per poi dormire fino a sera. Quando si svegliava, succedeva di tutto. Il suo umore non era mai prevedibile. Da qualche tempo aveva sempre da ridire su tutto e su tutti. Gli scontri con il resto del gruppo e dello staff erano all’ordine del giorno. Duncan ancora non aveva incontrato Elvis. Gli bastò ascoltare le confessioni degli altri musicisti per capire che era finito all’inferno. Si sentì urlare in lontananza. Elvis si stava dirigendo proprio nella sala, dove di solito si svolgevano le prove. Si aprì la porta. Si presentò a Duncan uno spettacolo inverosimile. Un ammasso di lardo che superava il quintale di peso. Goffo nei movimenti. Vistosamente toccato psicologicamente. Sopraffatto dalla perplessità, non si accorse che Elvis aveva salutato il resto dei musicisti. Nessuno fece notare al Re che quel giorno avrebbe iniziato a far parte della band un nuovo musicista. Fu lo stesso Duncan a presentarsi. Elvis lo guardò senza mostrarsi interessato ma non gli negò il saluto. Diede il benvenuto al nuovo arrivato ma come un fulmine iniziò a suonare. Spiazzato. Senza nessuna direttiva. Duncan ascoltò in religioso silenzio le battute iniziali delle prove. Piano s’inserì all’interno della struttura musicale che era stata creata precedentemente. L’ammasso di lardo non riusciva a portare a compimento un brano. Buttava litri e litri di schifosissimo sudore. Non riusciva a mantenere una nota. Spesso si fermava prima di riprendere a cantare. La bravura della band non era quella di creare la musica. Era quella di bloccarsi e di riprendere l’esecuzione con la puntualità di un orologio 197 svizzero. Una situazione imbarazzante. A Duncan sembrò più una punizione che un rilancio della sua carriera. Le prove si protraevano per poche ore. L’artista, in netto stato confusionale, decideva di terminare senza nessun commento. Abbandonava la stanza e si dirigeva nella sua dimora. La stanza della giungla. Era denominata così perché era arredata in perfetto stile tropicale con tanto d’intelaiatura legnosa. Come a rappresentare una capanna. La follia regnava sovrana in quella residenza. Spesso si sentiva urlare l’ammasso di lardo. Si riferiva al manager e al dottore. Continuamente cercavano di fargli capire che lo stile di vita intrapreso lo avrebbe portato alla morte. Mangiava di tutto. Da enormi panini pieni di carne e salse fino a quantità esagerate di pizza o di dolciumi. Un ippopotamo affamato. Svegliato da pensieri a dir poco preoccupanti Duncan aveva deciso di bere un bicchier d’acqua. Si diresse verso la cucina. Esaminò l’ambiente. Notò che veramente la cura maniacale con cui Elvis chiedeva di riempire i frigoriferi era pura verità. Non si trattava di una stronzata usata per deridere l’artista. Duncan incuriosito iniziò a esplorare tutta la stanza. A ogni pensile aperto, seguiva una scoperta buffa e penosa. Quello che fece sorridere l’italiano fu la presenza, nel frigorifero, di scorte di Pepsi Cola e di latte scremato. «Ma che cazzo beve quest’ammasso di lardo?» Non credeva ai suoi occhi. Da quando aveva iniziato a frequentare l’ambiente musicale, aveva notato che le grandi rockstar facevano uso di ogni tipo di bevanda alcolica. Dal 198 whiskey all’assenzio. Dalla birra al vino allo champagne. Mai e poi mai avrebbe immaginato che un personaggio del calibro di Elvis potesse fare uso di bevande del genere. In preda ad una confusione esistenziale si precipitò di nuovo nella sua camera. Passò l’intera notte a fissare il soffitto. Pensava e ripensava a quanto gli stesse capitando. Paul sapeva del momentaccio dell’artista ma come con Janis pensò bene di rimandare lui a suonare con certi personaggi. Non riusciva a prendere sonno. Nel momento in cui le sue palpebre stavano per chiudersi, uno sparo squarciò il silenzio della notte. Balzò a terra. Spaventato. Si nascose dietro il letto. «Ma che sta succedendo? Maledetto Paul. Figlio di puttana. Dove cazzo mi hai mandato? Giuro che se riesco a rivederti ti spacco la faccia.» Dal corridoio si sentirono passi di persone che si recavano verso la stanza dell’ammasso di lardo. Duncan decise di affacciarsi. Di chiedere cosa stesse succedendo. Fermò colui che il giorno prima l’aveva accompagnato fino alla camera. Dalla discussione capì che Elvis, da un po’ di tempo, soffriva di depressione e spesso sfogava la sua malattia sparando con le armi che aveva collezionato. Di solito sparava verso il muro o verso qualche oggetto che si trovava sulla traiettoria. Quella notte aveva deciso di farlo contro la televisione. Nella stanza dell’ippopotamo si era riunito l’intero staff. Allarmato. Il medico gli somministrò una dose di tranquillante sperando che quel pazzo si calmasse. 199 Ogni notte succedeva il finimondo. L’ammasso di lardo non riusciva a dormire. Spesso si metteva a suonare con il suo pianoforte laccato in oro. Si trovava in una stanza dedicata solo ed esclusivamente allo strumento. Duncan non credeva ai suoi occhi. Mai aveva visto uno strumento laccato in oro. Mai aveva visto tanto oro in vita sua. Possedeva una catenina d’oro comprata da sua madre per il battesimo. Un anello che ereditò da suo nonno. Mai e poi mai poteva immaginare di ammirare un pianoforte così. L’artista vendeva milioni di dischi. Prima di arrivare al declino aveva girato il mondo. Era una banca di soldi. Il numeroso staff che girava intorno a lui la diceva lunga su quanto era fondamentale per loro mantenere viva la figura di Elvis. La stanza dove di solito si provava era deserta. Duncan aveva deciso di chiudersi a provare i brani presenti nella scaletta. Da pezzi rock & roll alle famosissime ballad gospel che avevano reso famoso l’artista. Tutto filava liscio. All’improvviso l’ammasso di lardo entrò nella sala inveendo contro l’italiano. Offendendolo in ogni modo. Dietro la bestia, il manager. Indicava a Duncan di stare zitto e di non dire niente. Voleva far sfogare l’esaurito. Avrebbe ricevuto le scuse da parte dello staff. Mai quelle della rockstar. A Duncan interessava suonare. Portare a termine quel tour e ritornare a Hollywood. A Duncan non piacque per niente la scenata da parte dell’ammasso di lardo. Sudato. Fradicio. Logorato nella mente, 200 come il peggiore dei pazzi esistenti sulla terra. Sapeva delle crisi psicologiche dell’uomo ma non avrebbe accettato di trascorrere le solite prove come accadde in passato con Janis Joplin. Era esausto di stare sempre al servizio di teste di cazzo che non avevano rispetto per i musicisti. Il motore degli spettacoli di Elvis erano proprio i musicisti. Precisi e pronti portavano a termine i concerti senza mai sbagliare un colpo, nemmeno quando il ciccione si esibiva in grotteschi balli. Elvis divenne famoso per le sue movenze quando aveva 100 in meno. La disposizione del gruppo sul palco era quella di sempre. Il batterista dietro a tutti. A sinistra un chitarrista e il bassista. Al centro l’altro chitarrista. A destra i fiati e il tastierista. Davanti a tutti Elvis. Il concerto era iniziato nel migliore dei modi. Il pubblico in visibilio. Migliaia di fans sotto il palco ad applaudire, a gridare a squarciagola il nome dell’idolo. Elvis era visibilmente stanco. Da anni non riusciva più a mantenere il ritmo di un concerto intero. Estasiato dal clamore che suscitava ancora nei suoi fans, pensò bene di tirar fuori un nuovo tipo di ballo. Era famoso per il suo movimento veloce di gambe, quando ancora un corpo snello e longilineo gli e lo permetteva. Adesso che il grasso gli scendeva fin sotto le ginocchia non riusciva a compiere quel movimento. Iniziò a eseguire figure di arti marziali, dei movimenti così goffi che fecero inquietare il resto della band. A Duncan tornarono in mente situazioni già vissute qualche anno prima durante i concerti tenuti con la sua band nei locali di Londra. Il bassista a un certo momento della 201 serata iniziava a dimenarsi come una trottola. Finiva vicino a lui colpendolo puntualmente al capo, facendolo arrivare a terra quasi sempre senza conoscenza. Un flash back. Giusto il tempo di accorgersi che quell’enorme ciccione, perdendo l’equilibrio, stava finendo direttamente addosso a lui. Lo schiacciò contro il palco, soffocandolo, ungendolo di sudore, spaccandogli quasi la schiena. Tra i due vi era solo la chitarra che, nonostante avesse tentato di sopportare il peso dell’ippopotamo, finì per spaccarsi in due. Duncan non riusciva a respirare, sopraffatto dall’enorme peso dell’essere insulso che era caduto sul suo minuscolo corpo. Gli interventi da parte dello staff durarono qualche secondo. Secondi infiniti che furono devastanti per Duncan. Il bottino dell’accaduto si chiuse con Elvis rialzatosi illeso ma imbarazzato. Una schiera di mentecatti continuava a osannare le sue gesta. Duncan ne ebbe la peggio, chitarra spaccata in due e numeri graffi sull’addome provocati dalle gigantesche collane che Elvis era solito indossare. La serata terminò ugualmente. Il resto del gruppo portò avanti lo spettacolo mentre l’italiano steso su un lettino nei camerini. Al rientro tutti andarono a domandarsi di come stesse il ragazzo. Tutti tranne l’ammasso di lardo che molto provato si ritirò immediatamente nel suo camerino. Quel pezzo di merda non si era neanche degnato di domandarsi delle condizioni dell’italiano. Quei comportamenti cominciarono a provocare in Duncan un odio che cresceva di giorno in giorno. Non passava prova o concerto in cui il grassone non concretizzasse 202 un’azione malvagia verso il chitarrista. Pur di non rovinare l’instabile equilibrio emotivo dell’esaltato incassava i colpi senza dire niente. Un temporale di fine maggio si era abbattuto sulla città. Nella tenuta Graceland nessuno riusciva a chiudere occhio. Elvis aveva deciso che per tutta la nottata avrebbe sparato contro ogni tipo di oggetto incontrato lungo il suo cammino. Non ne faceva tanto visto che non riusciva a tenersi in piedi. Aveva distrutto tutto nella sua Jungle Room. Piano si diresse verso la cucina per recuperare le calorie perse. In Duncan tutte quelle situazioni iniziavano a farsi sentire notevolmente. Da quando era arrivato a Graceland non aveva mai trascorso una nottata tranquilla. L’ammasso di lardo s’inventava sempre qualcosa. L’occhio destro iniziava a mostrare segni di cedimento nervoso. Un piccolissimo nervo, sulla parte superiore della palpebra, iniziò a tremare ripetutamente. Era il segno evidente che anche la pazienza di Duncan iniziava a subire forti colpi. L’estate era giunta anche a Memphis. Trentacinque gradi. Erano insopportabili. Aveva trascorso gli ultimi dieci anni in una città dove il sole si poteva scorgere solo in pochissimi istanti e nella più limpida giornata d’estate. I tecnici iniziarono di buon mattino. Caricarono tutto il necessario nella stiva dell’enorme aereo privato che Elvis possedeva. Lo utilizzava per lunghi spostamenti. Un Convair 880 rinominato “LisaMarie” avrebbe condotto il gruppo alla 203 volta di Rapid City. Il giorno dopo avrebbero portato in scena l’ennesimo concerto dell’artista al Rush More in Plaza Civic. Il viaggio fu confortevole. L’aereo conteneva tutto il necessario per permettere all’ippopotamo di affrontare anche un lungo viaggio. Il lusso regnava sovrano. Quell’essere immondo continuava a campare di rendita per via della fama conquistata anni prima. La Memphis Mafia lo teneva in piedi per non rischiare di perdere tutto quello conquistato fino a quel momento. Duncan rimase in silenzio per tutto il viaggio. Si dedicò alla lettura di un libro. Spiava sporadicamente i movimenti della bestia. Ogni sorriso, ogni risata falsa, ogni gesto di esaltazione provocavano in lui rabbia e un desiderio di annientare per sempre quell’essere inutile. Il sogno di Duncan era quello di sfondare nella musica. Fino a quel momento non c’era riuscito. Aveva suonato a stretto contatto con grandi artisti. In tutti aveva notato superficialità. Erano personaggi famosi che non avevano mai veramente capito il senso di fare musica. Jones era un tossico parassita che bruciò nella droga tutto il talento che aveva. Hendrix possedeva un dono eccezionale ma l’acido gli aveva corroso il cervello ancor prima che iniziasse a capire la sua arte. Janis durò il tempo di un disco, quasi due, Prima che la droga se la portasse via. Morrison viveva più per fare cazzate che per suonare, si alcolizzava al punto che a ogni concerto finiva chiuso in una stanza di commissariato con decine di accuse pendenti sulla sua testa. Ora Elvis. Perché quel destino ingiusto si era accanito contro di lui? Era una domanda a cui non riusciva a dare 204 risposta. Fin da bambino aveva iniziato a suonare la chitarra. Studiava e approfondiva ogni aspetto. Sapeva che il mondo della musica accettava solo musicisti preparati. Fino a quel momento si era accorto che niente si accostava minimamente a quanto da lui immaginato. L’odio verso certe figure iniziò a covargli dentro l’anima. Lo rendeva inquieto. Sempre più propenso verso lo sfinimento mentale. La convinzione che quella bestia non meritasse di stare al mondo lo aveva lasciato insonne. Si svegliava puntualmente più stanco del giorno prima. Questo suo malessere ne condizionava il lavoro. A ogni errore susseguiva un gesto di stizza da parte di Elvis. Ogni gesto di stizza dell’ippopotamo buttava benzina sul fuoco dell’odio che bruciava nell’animo dell’italiano. La platea come di consuetudine era piena. Persone scatenate non aspettavano altro di veder salire sul palco il loro idolo. Il manager entrò in camerino, esclamò che diciottomila persone non vedevano l’ora di sentir cantare il Re del rock. Il gruppo si presentò sul palco. Duncan decise di defilarsi, voleva evitare che l’abominevole uomo si ripetesse nel compiere quegli strani balli finendo di nuovo addosso a lui. Lo spettacolo si portò avanti senza alcun problema. Elvis continuava a lanciare fra la folla alcuni suoi cimeli, quei foulard sudatissimi e inzuppati finivano fra le mani di donne che svenivano e venivano trasportate fuori nel tentativo di riprendere fiato. Duncan sapeva che era per via del pessimo odore del sudore dell’uomo, non l’emozione di aver ricevuto in 205 dono un cimelio della rockstar. Ci rise su. Il gruppo contagiato dalla risata dell’italiano finì col ridere senza alcun motivo. Elvis sembrò non essersi accorto di nulla. Il manager decise di cambiare la scaletta. Sul palco sarebbero rimasti il pianista ed Elvis. Non riuscirono mai a capire se fosse stato il destino o qualche forza sovrannaturale. Per un istante in Elvis resuscitò quello spirito gospel che era sparito sotto i colpi dei panini con la carne. Sotto litri e litri di Pepsi Cola. Nella sala le note del brano Unchained Melody risuonarono nell’aria lasciando tutti senza fiato. A ogni frase seguiva un sospiro. Poi di nuovo tutti senza fiato. Era come se il vero Elvis, intrappolato nel grasso del finto Elvis, stesse cercando di uscire senza riuscirci. Un applauso scrosciante sancì la riuscita dell’esecuzione. Quel bastardo si era accorto e come della risata di Duncan durante il concerto. Appena giunti nel camerino iniziò a inveire contro di lui. Lo colpì con un gancio destro. Stese il musicista a terra con un vistoso taglio sullo zigomo destro. Ci vollero dieci uomini per sedare la rabbia che si era invaghita dell’ammasso di lardo. Tutti si preoccuparono di far uscire Duncan dalla stanza cercando di offrirgli i primi soccorsi e di fermare la fuoriuscita di sangue dalla ferita. Un’automobile portò il chitarrista nel più vicino ospedale. Lì fu curato al meglio. Perfettamente ristabilito per riaffrontare il viaggio di ritorno. Duncan si accomodò nello stesso posto dell’andata. Non lesse il libro. Sul lato destro del viso un’enorme benda gli impediva la visuale. Elvis si era chiuso in un piccolissimo ripostiglio che utilizzava per riposarsi durante il viaggio. Il 206 resto del gruppo cercò di sviare la tensione creatasi. Il tentativo fu vano. Nessuno riusciva a sorridere dopo quello che era successo. Le prove si erano rivelate durissime e sostenute. Dovevano rendere lo spettacolo perfetto e preciso. In alcune esibizioni Elvis aveva decisamente toccato il fondo dimenticandosi alcuni testi. Il ciccione si era subito chiuso in camera per cercare di riposare, strafatto dopo aver ingerito almeno una decina di tranquillanti. Il resto del gruppo si diresse nelle rispettive camere. Il giorno dopo avrebbero affrontato un altro spettacolo del tour. Si sarebbero recati a Indianapolis al Market Square Arena. Duncan si era rintanato nella sua stanza, sperava di riposare. All’improvviso un colpo alla porta lo svegliò. Non si era messo a dormire da molto tempo ma quel poco gli era bastato per cadere in un sonno profondo. Era un componente della Memphis Mafia. Duncan quando aprì la porta gli chiese cosa ci facesse lì e lui gli rispose all’italiano chiedendogli di seguirlo nella stanza di Elvis. Il capo avrebbe voluto parlare con lui. Inizialmente Duncan declinò l’invito ma dopo che l’uomo gli fece presente delle conseguenze a cui sarebbe andato incontro, si convinse. Spazientito si vestì e si diresse verso la stanza del ciccione. L’ammasso di lardo era seduto con i piedi distesi su di una poltrona di pelle. Sorseggiava un bicchierone di Pepsi Cola e stava ingerendo un enorme panino pieno di carne e di creme 207 preparate secondo il suo desiderio. L’agente chiuse la porta lasciandoli soli. «Vedi Duncan in che situazione mi trovo? Ho appena litigato con la mia compagna perché non vuole seguirmi nella tournee. Credi sia facile per un personaggio del mio calibro e della mia fama proseguire in questo modo? Sono diventato un ammasso di lardo. Non riesco a muovermi. Non dormo più. Continuo a suonare solo perché ho bisogno ancora che i miei fans acquistino i miei dischi. Vivo nel lusso grazie a loro. Per mantenere questo status devo per forza tirare finché le forze me lo consento.» Duncan non disse una parola. Continuava ad ascoltare Elvis che non si era neanche degnato di girarsi per guardarlo in faccia. Duncan sapeva che la situazione dell’artista era alquanto complicata. Sapeva delle condizioni in cui versava quell’essere immondo. Ormai non faceva altro che ingozzarsi senza pensare alle conseguenze. «Da quando ho deciso di intraprendere questa carriera ho sempre seguito il mio istinto. Ho inventato un passo che hanno imitato migliaia di artisti. Ho rilanciato canzoni che sembravano spacciate. Ho scritto dei classici. Ho lasciato migliaia di fans in giro per il mondo. Ora che sto quasi finendo di compiere il mio percorso, non riesco ad abituarmi all’idea che tutto questo un giorno possa finire. Le altre vicende personali mi hanno segnato profondamente. Non è facile separarsi da una moglie. Non è facile restare calmi nel 208 momento in cui il successo ti soffoca. Sai perché ho comprato Graceland?» Duncan disse di no con un filo di voce. «Perché non riuscivo a camminare per le strade senza che una marea di persone mi fermasse. Anche sotto casa si creavano giornalmente file interminabili di persone pronte ad accalcarsi su di me. Per una foto. Un autografo. Per baciarmi.» Duncan continuava ad ascoltarlo in silenzio e continuava a chiedersi del perché si stesse confidando in questo modo con lui. Magari era solo un modo leggero di iniziare un accesissimo diverbio che sarebbe terminato con il suo assassinio. Duncan più volte fissava intorno, esaminava se nelle vicinanze dell’ammasso di lardo fosse sistemato un fucile o una qualsiasi altra arma, pronta a far partire un colpo verso di lui. La paura lo aveva immobilizzato. Nessuno avrebbe saputo dell’incidente. Lo avrebbero seppellito sotto qualche albero della tenuta senza che nessuno si accorgesse dell’assenza dell’italiano. Un lavoretto semplice per i membri dello staff. Avrebbero occultato ogni prova per non lasciare il pazzo nella merda. Il sudore sulla fronte del maiale e dell’italiano scendeva con la stessa frequenza, con la stessa quantità di liquido. Sulla fronte dell’ammasso di lardo scendeva perché l’essere si trovava in netta difficoltà con il suo corpo. Su quella dell’italiano scendeva per via della tensione che iniziava a farsi sentire. 209 Il discorso di Elvis durò per quasi un’ora. La star raccontò ogni tipo di vicissitudine a cui legava un aneddoto. Raccontò l’episodio in cui fu trovato svenuto all’interno della sua Cadillac dopo che si era scolato due bottiglie di champagne, in compagnia di una prostituta che cercava di rianimarlo in pieno centro a Memphis dove visto da molti uomini cominciarono a deriderlo. Duncan scoppiò a ridere interrompendo il racconto di Elvis. Provocò in lui un silenzio agghiacciante. La risata durò pochi secondi. La tensione sul volto di Duncan iniziava a farsi notare sempre più. Le palpebre si aprivano e chiudevano a una velocità assurda. Con i denti continuava a mordersi il labbro inferiore. Trascorsero cinque minuti dal momento della risata fino alla reazione di Elvis. Minuti interminabili. In cinque minuti Duncan arrivava da casa sua a scuola. Da casa sua fino al bar in piazza. Quei cinque minuti per l’italiano significavano solo una cosa. La morte. Quello che sorprese il musicista però fu una realtà ben diversa. Lo scellerato invece di inveire contro di lui si mise a ridere come un bambino. La risata gli sopraggiunse mentre stava mangiando un altro panino. Tentò più volte, con un colpo sul petto, di riprendere fiato. Dovette intervenire Duncan porgendogli il bicchiere con dentro la bevanda. Fortunatamente si risolvette tutto senza nessuna conseguenza. La goffaggine dell’uomo non gli permetteva più neanche il lusso di ridere. Il suo corpo ne subiva inesorabilmente le conseguenze. La risata forte gli aveva provocato una fitta al collo. Dovette chiamare un altro componente della Memphis mafia che con un 210 massaggio veloce calmò il dolore. L’uomo sparì immediatamente. Elvis, decisamente più disteso, ricominciò a parlare con l’italiano portando alla luce i ricordi delle serate in cui cantava a squarciagola Volare di Domenico Modugno e quando incise un suo testo sulla base del successo di Pino Donaggio Io che non vivo. Duncan notò che parlare di quella che era stata la sua vita, lo tranquillizzava. I suoi ricordi s’intersecavano tra di loro, ricucivano quello strappo con il passato. Da un po’ di tempo si era allontanato dal mondo. Secondo Duncan era stato tutto il suo entourage a estraniarlo. I medici continuavano a mantenerlo in piedi, tranquillanti per farlo dormire, continue diete per farlo dimagrire. Erano tutte situazioni che al contrario infastidivano quell’ammasso. Era intenzione dell’uomo starsene in casa senza far niente, sbattendosene dei concerti, della fama e dei fans. Avrebbe sicuramente ritrovato la pace con se stesso dilapidando tutto il suo patrimonio, senza lo stress di portare avanti tutto quello che si era creato intorno a lui. Poteva benissimo decidere di finirla con la musica. Godersi la sua residenza. Le giornate trascorse a mangiare e a bere. Le attenzioni della seconda moglie. Trascorsero quattro ore a chiacchierare. Lo stronzo si era calmato. Non riusciva a prendere sonno. Aveva già ingoiato tredici tipi di tranquillanti. Nessuno gli aveva fatto effetto. Era una condizione che durante tutta la discussione rimarcò più volte. Per lui non riuscire a dormire era diventato un incubo. 211 Duncan, da parte sua, aveva gli occhi ormai quasi chiusi dal sonno. Erano le quattro e mezzo del mattino, voleva a tutti i costi mettersi a letto e riposare. L’ippopotamo non ne voleva sapere di lasciare andare via l’italiano. Si era scusato per il modo in cui si era rivolto verso di lui. All’insistenza di Elvis si era contrapposto un altro problema. L’essere inutile confidò a Duncan della costipazione di cui soffriva. Elvis non riusciva ad andare in bagno. Quella chiacchierata con l’italiano lo stimolò a tal punto che dovette accompagnarlo al cesso. Duncan non credeva alle sue orecchie quando ascoltò la richiesta dell’esaurito. Non poteva alle cinque del mattino contraddire quella specie di psicopatico. Avrebbe rovinato tutto. Avrebbe trascorso una notte in bianco cercando poi di sedare l’ira di Elvis. «Duncan parlare con te mi ha rasserenato. Ogni volta che cerco di parlare con qualcuno, il discorso vira sempre sui concerti, sui dischi e sui soldi. Con te ho finalmente avuto una discussione tranquilla, senza sentirmi addosso il peso della responsabilità. Per favore accompagnami fin sopra il cesso.» Da musicista ad accompagnatore di persone inabili. Che destino crudele si stava compiendo nei suoi confronti. Credeva di vivere in America per suonare, per diventare qualcuno, crearsi una fama, girare per la città attorniato dai fans. Invece eccolo con quel lurido raccoglitore di cibo e di sudore, in quel cazzo di lussuoso bagno. Che poi a cosa servisse un bagno extra lussuoso se non si riesce a cagare fu una domanda che affollò la mente di Duncan. 212 Elvis non si reggeva in piedi. Riusciva a camminare a fatica. Sembrava molto provato. Per quelle ragioni chiese a Duncan di aiutarlo. La lunga serata di Duncan non era ancora finita. Non contento Elvis chiese all’italiano di rimanere con lui chiuso nel bagno. Quello che si mostrò agli occhi del chitarrista fu uno spettacolo deprimente. L’ammasso di lardo si era seduto sul cesso con addosso solo i pantaloni del pigiama. Era il 16 di Agosto. A Memphis faceva un caldo pazzesco. Era riuscito involontariamente a sedersi centrando il buco. In quelle condizioni e con tutto quel lardo non ci sarebbe mai riuscito di sua spontanea volontà. Duncan era imbarazzato. Quando Elvis si accorse che l’italiano si sentiva a disagio si girò verso di lui e con una battuta ritornò su quanto successo la sera in cui era caduto rovinosamente sul chitarrista. Accennò a una risata interrotta da un tentativo di espulsione. Tentativo fallito. Duncan proseguì con il racconto di tutte le serate in cui il suo vecchio bassista lo aveva atterrato. Di quando sul palco iniziava a girare come una trottola impazzita. Elvis chiese a Duncan se mai gli e l’avesse fatta pagare in qualche modo. Duncan sorridendo fece sì con la testa. Elvis si fermò un istante. Dopo aver fallito anche il secondo tentativo di espulsione, si girò verso l’italiano e si fece raccontare tutto. Duncan ricostruì l’accaduto con molta precisione, incuriosendo molto Elvis. Raccontò che il giorno in cui si vendicò aveva visto l’amico in un locale di Londra. Ubriaco. 213 Cercava di adescare una ragazza che non voleva saperne di andare con lui. Lui e Aldo, un suo amico italiano, si erano accorti del disappunto della ragazza. Passarono dietro l’uomo senza farsi vedere. Con un gesto impercettibile toccò il braccio del bassista facendogli versare il composto del bicchiere sul vestito della ragazza. Lei si mise a urlare correndo nel locale dove chiese aiuto ai suoi amici. Appena giunti fuori dal locale usarono il bassista per sfogare tutta la rabbia. L’amico finì in ospedale tutto ammaccato, con dieci giorni di prognosi per alcune ferite che aveva riportato al capo. Elvis fissò Duncan per qualche secondo. Lo sguardo era assente. Quasi come se l’ammasso di lardo si stesse ricostruendo tutto l’accaduto. Quando il suo cervello giunse alla fine dell’ultima scena, scoppiò a ridere forte. Talmente forte che a un tratto iniziò a soffocare, a impallidire, a non riuscire più a emettere suoni. Duncan piombò nel panico più assoluto. Alle richieste di aiuto, da parte dell’ippopotamo, seppe rispondere solo colpendolo alla schiena per farlo respirare, aiutandolo ad alzarsi. All’ennesimo tentativo fallito decise di uscire dal bagno, di scappare dalla stanza. Chiuse immediatamente la porta e si diresse in camera sua. Dopo la lite avuta nella notte la donna di Elvis, si era recata nella stanza. Voleva parlare con l’uomo quando si trovò di fronte all’imbarazzante spettacolo. L’uomo era steso a terra. Privo di forze. Con la bocca serrata. Uscì dalla stanza gridando come una pazza. Accorsero i componenti della Memphis 214 Mafia, il padre dell’artista e il medico che si gettò subito sull’uomo. «E’ un attacco cardiaco! Chiamate subito un’ambulanza.» Gridò il dottore. La situazione era drammatica. Arrivò in bagno persino la figlia dell’artista che fu subito allontanata. Elvis non respirava. Ci vollero due persone per sollevarlo, per portarlo sul letto in attesa dell’ambulanza. Quando arrivò, vani furono i tentativi di rianimarlo. Durante il trasporto ne fu dichiarata la morte per arresto cardiaco. Nella baraonda che si era creata nessuno si era insospettito di nulla. Elvis la sera prima era rimasto a parlare con Duncan nella sua stanza. Nonostante quel particolare nessuno poteva accusarlo. L’uomo era al limite delle sue possibilità. Tutti sapevano che non avrebbe resistito a quello stato psicofisico. L’arresto cardiaco ne fu la causa più scontata. Duncan aveva già vissuto esperienze simili e sapeva come comportarsi. Uscì dalla sua stanza e si recò nella stanza, dove fu subito interrogato dallo staff. Disse che aveva trascorso qualche ora con Elvis. Che era ritornato in camera sua appena dopo il massaggiatore era uscito dalla stanza di Elvis alle due di mattina. La descrizione dell’italiano non destò sospetto. Fu incaricato di avvertire il resto della band su quanto era accaduto. I funerali furono strazianti. Tutti piangevano l’artista scomparso. Il re del Rock era deceduto dopo un arresto cardiaco. Aveva lasciato nello sconforto l’intera famiglia, i 215 membri del gruppo, lo staff e tutti i fans. Ne parlarono i T, i giornali e le radio. Il mondo intero commemorò la star. Duncan non riusciva a darsi una spiegazione plausibile dell’accaduto. Seduto sul letto, si preoccupava e rideva. Non riusciva ad arrendersi all’idea di quella morte talmente insulsa quanto strana. Voleva vendicarsi magari uccidendolo con un colpo in testa o facendogli bere qualche bevanda miscelata ai medicinali che assumeva. Non in quel modo. Decise comunque di cambiare aria. Con la scusa di dover ritornare in Inghilterra si divincolò senza problemi dal gruppo e dal resto della combriccola. Senza dare altre spiegazioni si diresse verso un’altra città. Non sapeva dove andare. Dopo aver attentamente vagliato la cartina dell’America, decise che sarebbe comunque rimasto nel nuovo continente. 216 Capitolo VIII Aldo fu accolto da un capannello di poliziotti. Pronti a fermarlo, per portarlo direttamente nell’ufficio di Smith. Teso e preoccupato restò muto per tutto il tragitto. Ogni tanto guardava in faccia i poliziotti. Non ebbe mai il coraggio di chiedere il perché di quella specie di arresto. In definitiva non si trattava di un arresto. Solo una semplice chiamata per deporre una testimonianza davanti al detective. Lasciare alcune dichiarazioni riguardanti l’italiano conosciuto qualche anno prima. Smith fissava Aldo con aria sospetta. Sapeva di non intimorire neanche un cefalo con quello sguardo. Gli serviva per trovare il coraggio di affrontare quei tipi d’interrogatori. «Quando hai conosciuto Duncan?» «Dieci anni fa.» «Come vi siete conosciuti?» «Si è presentato al bar per caso. Mi sono accorto che era italiano e ho iniziato a parlargli. L’ho aiutato a trovare casa. Da allora siamo diventati buoni amici.» «Cosa sai di lui?» 217 «So che suona la chitarra e che ha suonato in piccoli gruppi londinesi. So che ha viaggiato ma non lo vedo da molto tempo. Gli è successo qualcosa?» «Sta bene. Stiamo solo cercando di capire qualcosa in più su di lui.» «Perché?» «Queste sono faccende che non ti riguardano. Raccontaci qualche suo vizio, qualche sua mania, qualche sua caratteristica.» «Parla un Inglese poco corretto. Da quando ci siamo conosciuti, non ha fatto altro che parlarmi della sua passione per la chitarra e della nostalgia per la sua città.» «Non sai dirmi altro? Beve? Si droga?» «Ma no! In dieci anni gli ho visto bere solo ed esclusivamente caffè» «Caffè?» «Sì. Caffè.» Una smorfia di disappunto si stampò in faccia al detective. Non poteva credere in quello che aveva appena ascoltato. Mesi e mesi di presunti rapporti con il mondo più sporco dello star system disintegrati da una scioccante confessione. «Ne sei sicuro?» «Certo. Noi italiani amiamo il caffè. Anche se ci trasferiamo in un’altra nazione, non riusciamo a fare a meno di bere caffè. L’unico problema è quello del sapore. Totalmente diverso rispetto a quello prodotto nei bar italiani. Duncan per ovviare a 218 quel disgustoso sapore mi chiedeva sempre di macchiarglielo con del latte freddo.» Rassicurato del fatto che all’amico non fosse successo nulla continuò a parlare a ruota libera. Dopo due ore d’interrogatorio commise il più grande errore. Confidò al detective il vero nome di Duncan. «Per la fretta di lasciare il commissariato stavo dimenticando di dichiarare il vero nome di Duncan.» «Dimmi Aldo!» «Il vero nome di Duncan è Domenico Volpe.» Senza parlare Smith piegò la testa come segno di ringraziamento, per l’importante confessione. Anni d’indagini completamente buttati al vento. Per molto tempo Smith aveva indagato consultando gli archivi su tutti i delinquenti di Londra. Aveva spulciato archivi riguardanti arresti per droga. Aveva sempre creduto che la vita di Duncan si svolgesse all’interno di quell’ambiente. Se vuoi diventare qualcuno o se ti trovi a stretto contatto con alcuni personaggi, devi per forza fare uso di certe sostanze. Altrimenti vieni allontanato. Tutto da rifare. Tutto rimesso in discussione. Come poteva un idiota del genere trovarsi coinvolto in certe morti? Smith aveva rimesso in discussione anche le parole del costruttore, amico di Brian Jones. Non riusciva più a trovare un nesso logico a tutti quei collegamenti. E poi quel nome. «Sono un coglione. Un presuntuoso. Credo sempre di trovarmi chissà che criminale davanti per poi scoprire che sono sulle tracce di un perfetto idiota. Di uno che ha banalmente cambiato il suo nome 219 italiano facendo la traduzione letterale del suo cognome. Fox equivale chiaramente a Volpe.» In preda ad una crisi isterica iniziò a lanciare in aria tutti i fascicoli finiti sulla sua scrivania, creati appositamente per portare avanti quell’indagine. Il ritorno a casa gli risultò traumatico. Davanti a sé aveva il buio più totale. Il giudice era stato chiaro. Un passo falso e sarebbe finito a ramazzare i giardini della città. New York si presentò agli occhi di Duncan come un luogo di rinascita. Affascinante in tutta la sua bellezza. Voleva per sempre abbandonare la musica. Dedicarsi completamente ad altro. A cosa? Poteva solo ed esclusivamente lavorare in un negozio di strumenti musicali. Di dischi. Se mai non avesse trovato impiego in uno di questi settori, si sarebbe dedicato al lavoro di cameriere. Quando era a Londra, si fermava spesso a guardare Aldo. Lo fissava mentre portava ai tavoli le bevande ordinate. Aveva quasi appreso il lavoro spiando i gesti dell’amico. Smith doveva trovare una soluzione. L’indiziato di tutti quegli omicidi era ancora in circolazione ma non sapeva da dove iniziare. Non sapeva ancora esattamente se fosse a Londra. Se fosse già scappato altrove. Dopo quella brillante considerazione pensò bene di effettuare un controllo presso l’ambasciata italiana. Quando la fortuna deve girare, lo si capisce da alcuni gesti impercettibili. Una confessione utile appena portata a termine. 220 Una brillante idea dopo pensieri confusi. Il taxi pronto a portarti via appena uscito dal commissariato. Il viaggio verso l’ambasciata si dilungò moltissimo per via del traffico e dei continui semafori. Si rivelò oltremodo benefica per Smith. Nel silenzio di quell’abitacolo poté riordinare le proprie idee. Duncan aveva incontrato le sue vittime. Accecato dall’odio, decise di farli fuori tutti. Nei particolari delle vittime si notava che tutti facevano usi di sostanze stupefacenti, che si trattava di personaggi sull’orlo del declino. Qualche domanda qua e là e Smith si trovò con le informazioni necessarie. Duncan Fox aveva chiesto il passaporto e il permesso per poter volare in America. La scoperta fu meravigliosa. Sconvolgente allo stesso modo. Un continente vastissimo da setacciare scrupolosamente. Una cosa impossibile. Un’altra folgorante idea accese le speranze del detective. Si sarebbe recato all’aeroporto per chiedere la città di destinazione dell’ultimo volo di Duncan. Il direttore dell’aeroporto fu cortese. Cercò negli archivi la prenotazione di Duncan. Le ricerche portarono al risultato tanto desiderato. Duncan si era diretto a Hollywood. Smith non aveva mai fatto uso di stratagemmi particolari per scoprire alcuni presunti assassini. Questa volta era cosciente che doveva provare ben altro per giungere alla scoperta dell’italiano. Un suo vecchio compagno di università aveva intrapreso lo stesso percorso di Smith. Nella polizia. Poi finì nei servizi segreti. A lui avrebbe chiesto il favore di ricavare indicazioni precise sugli spostamenti di Duncan. 221 Passarono all’incirca tre settimane prima di ricevere la tanto attesa notizia. Nell’itinerario costruito dall’amico Smith poté notare gli spostamenti dell’italiano una volta giunto nel continente americano. All’arrivo a Hollywood aveva parlato con un produttore che lo aveva mandato a Memphis per suonare nella band di Elvis. Dopo la morte dell’artista si era trasferito a New York. Fu una scoperta agghiacciante. Qualche anno prima Elvis era morto per cause naturali mai accertate. Sulla sua morte veglia un’ombra di mistero. Smith sapeva che poteva esserci lo zampino di Duncan. Decise di richiedere tutti i documenti e di volare subito in America. Trovare un gruppo a New York non era facilissimo. Duncan aveva pensato bene di setacciare tutti gli studi di registrazione. Capire se per lui c’era la possibilità di suonare con qualcuno. La risposta che ricevette in tutti gli studi era quella di lasciare un suo recapito. Se ce ne fosse stato bisogno, lo avrebbero richiamato. Alloggiava in un Motel. Lasciò a tutti il numero del centralino. Sapeva che sarebbe passato molto tempo prima di una convocazione. Decise di trovarsi un impiego in modo da poter sopportare le spese dell’alloggio. In modo da mettere da parte qualcosa qualora avesse avuto bisogno di completare la sua attrezzatura per un’eventuale chiamata. Inizialmente cercò lavoro presso un negozio di strumenti musicali. La ricerca risultò essere efficace. Riuscì a strappare un contratto presso il Guitar Salon. Fu preso in simpatia dal proprietario tant’è che decise di affidargli un compito molto 222 importante. Gestire la clientela durante l’acquisto di una chitarra. Quel ruolo non gli fu regalato perché il proprietario si era impietosito. Durante il colloquio, Duncan, aveva riferito allo stesso tutte le sue partecipazioni come chitarrista nei progetti musicali di Brian Jones, di Janis Joplin e di Elvis. Il viaggio per Memphis fu alquanto faticoso e duro. Non amava volare. Una piccola tormenta, in pieno oceano, aveva provocato nel detective uno stato di ansia, sedato solo da qualche tranquillante somministratogli dal personale di bordo. Memphis era bellissima. La città di Elvis. Fu naturale per Smith gironzolare per la città. Pensò che doveva informarsi su come avrebbe potuto incontrare qualche membro dello staff di Elvis, in modo da poter chiedere di Duncan. Scoprire se realmente avesse preso parte agli ultimi giorni della star. Si accorse che la cosa non era facile come poteva sembrargli. Lo staff della star non rilasciava informazione per nessun motivo al mondo. Da quando era scomparso Elvis, polizia, servizi segreti e giornalisti attorniavano il quartier generale. Graceland. L’entourage si chiuse in un silenzio stampa in modo che nessuno potesse più speculare sulla morte dell’artista. L’unica cosa da fare era chiedere delucidazioni sul caso alla polizia locale, in modo da avere qualche dettaglio in più. L’interrogatorio ad Aldo aveva portato scompiglio nelle idee di Smith. Fortunatamente ogni cattiva novella nasconde sempre un lieto fine. Da quando aveva strappato tutti i fascicoli, aveva adottato misure investigative più semplici. Molto più congeniali. Come successe in Inghilterra, anche in 223 America avrebbe chiesto aiuto all’ambasciata inglese e italiana. Tutti i detective davanti ad un personaggio straniero chiedono conferma presso le ambasciate. Duncan si trovava in America. Precisamente a New York. Smith sapeva che adesso le ricerche potevano restringersi solo in quella città. Non sapeva da dove iniziare. Stanco dal lungo viaggio si diresse in albergo per distendersi, per rinfrescare i suoi pensieri distrutti dalla confessione di Aldo. Vivere in una città come New York voleva significare incontrare grandi star. Lavorare in un negozio di strumenti musicali ti permette di incontrare ogni tipo di personalità. Girava voce che da qualche tempo John Lennon avesse ripreso a registrare un nuovo album. John viveva a New York con sua moglie. Yoko Ono. Al Dakota Building, sulla 72a strada nell’Upper West Side. Portava avanti le registrazioni di alcuni brani che sin da giovane aveva iniziato a cantare quando si era cimentato nello studio della chitarra. Per la registrazione di quei pezzi si era affidato al suo tanto amato piano. Per la chitarra era alla ricerca di un nuovo modello che potesse dargli quel timbro moderno, in modo da rinfrescare alcune canzoni di venti anni prima. Nei locali musicali di New York non si parlava altro di questo nuovo ritorno. Lennon e Ono. Quando Duncan era a Londra, non si faceva altro che parlare dei Beatles, del loro successo mondiale, della capacità compositiva che avevano Paul McCartney e John Lennon. Ogni loro singolo schizzava in testa alle classifiche di vendita. Ogni loro canzone diventava un 224 successo. In quel periodo, in Inghilterra, solo un gruppo riusciva a tenergli testa. I Rolling Stones. Al contrario di quanto si vociferava i due gruppi non entrarono mai in collisione. Negli anni in cui Lennon decise di abbandonare la carriera musicale Mick Jagger tentò più volte di dissuadere l’ex Beatles. Sperava di convincerlo a comporre nuovi brani. Duncan ricordava che ogni concerto dei Beatles coincideva con il pubblico in delirio. Pazze assatanate pronte a gridare ai loro piedi. Duncan si chiedeva cosa ci trovassero di affascinante in quei quattro. Forse solo George Harrison poteva vantare qualche tratto somatico decente. Forse anche Paul McCartney. Per il resto Ringo Star e John Lennon non possedevano quella bellezza tale da indurre le donne a morire ai loro piedi. Ovunque andassero e qualsiasi cosa facessero erano considerati i migliori in assoluto. Duncan ricordava anche il periodo in cui nella band iniziarono i primi problemi. Il legame di John con Yoko coincise con i primi dibattiti fra i quattro amici. Il clima sempre più teso. Lennon impegnato sempre e costantemente su altri fronti complicò molto il cammino della band. Nel giro di pochi anni decise di sciogliersi definitivamente. Da quando Lennon aveva lasciato il gruppo, aveva creato solo problemi alla sua persona. Era costantemente sotto il bersaglio della critica. Spesso e volentieri gli veniva negato l’accesso negli Stati Uniti perché aveva fatto uso di droga. Spesso perché lasciava dichiarazioni scomode riguardo la guerra. 225 Smith aveva lasciato riposare il suo corpo e la sua mente stremata. Sapeva che doveva rimettersi subito a cercare il pazzo prima che compiesse qualche inutile gesto. Purtroppo non sapeva proprio da dove partire. Chi avrebbe potuto uccidere questa volta? New York era piena di artisti e di figure musicali importanti. Non sarebbe stato facile decifrare la possibile vittima. Decise comunque che si sarebbe incamminato per le vie della città in modo da farsi un’idea generale dell’ambiente e della vita frenetica del posto. Spaesato e vistosamente impacciato non ci pensò due volte a ritornare in hotel. Affranto e privo di speranza si accomodò su una poltroncina della hall. Cercò di trovare ispirazione per poter ripartire con il caso. Il Guitar Salon ogni giorno ospitava centinaia di musicisti. Famosi. Sconosciuti. Semplici appassionati. Tutti pronti ad acquistare uno strumento. Una muta di corde. Qualsiasi altro tipo di oggetto musicale. Era una mattinata soleggiata ma fredda. Il tepore estivo di settembre stava lentamente lasciando i fasti alla mite temperatura di ottobre. Duncan stava spolverando gli strumenti e nello stesso tempo stava consigliando un giovane ragazzo nell’acquisto di una chitarra elettrica. Lui optava sempre per la Fender. Il suo amore. Quando ne descriveva le caratteristiche, gli s’illuminavano gli occhi. Quel suo modo di presentare lo strumento ammaliava quasi tutti. Almeno tre volte al giorno riusciva a venderne una. Era diventato un discreto venditore. Il proprietario dell’emporio se ne vantava. Certe giornate si 226 contrapponevano a quelle in cui la pazienza arrivava al limite. Veniva oltrepassata. Proprio in quei momenti Duncan preferiva lasciare il negozio per fare quattro passi a piedi. Anche quella non era iniziata con il piede giusto. Una testa di cazzo gli aveva fatto perdere quasi tutta la mattinata senza però concludere l’acquisto perché incerto su alcune caratteristiche delle chitarre. Duncan era alterato ma fissando gli occhi del proprietario riuscì a calmarsi senza dover per forza abbandonare il locale. Ogni qual volta si apriva la porta c’era da aspettarsi sempre un personaggio diverso. Quello che era appena entrato non poteva paragonarsi a nessun altro di quelli passati nel negozio nella mattinata. Uno stile inconfondibile. Occhialini tondi nascondevano un viso longilineo. Capelli lunghissimi e un cappello nero. Faceva il suo ingresso nell’emporio John Lennon. L’ingresso non sembrò turbare il proprietario. Era abituato a vedere star della musica. Forse John l’aveva visto entrare più di una volta. Premuroso si avvicinò ugualmente per accoglierlo e accompagnarlo verso la stanza dove Duncan lo avrebbe sostenuto durante l’acquisto dello strumento. Il proprietario fece un cenno a Duncan come per dirgli di stare calmo e di assecondarlo in ogni sua richiesta. Sapeva che l’acquisto di John era facoltoso. Non poteva permettersi di lasciarselo scappare. John iniziò a guardare e a toccare tutti i tipi di chitarre. Da quelle acustiche a quelle elettriche. Ne prendeva una appesa e dopo averla provata, la lasciava poggiata sullo scaffale. Duncan doveva pazientemente 227 rimetterla al suo posto. In qualche occasione Duncan espresse il suo parere riguardo al modello. Furono parole che non sembravano urtare in nessun modo l’artista che scrutava inesorabilmente ogni modello, lo suonava e lo rimetteva a terra. Continuò così per qualche ora. La pazienza di Duncan era arrivata al limite. Ogni qual volta apriva bocca John lo fissava come per dirgli di stare zitto. Con quell’aria di superiorità che a Duncan faceva girare le palle. Gli faceva salire la pressione innescando in lui una specie di bomba a orologeria. Pronta a scoppiare da un momento all’altro. Si decise ad acquistare una chitarra. Dopo averla riposta nell’apposita custodia salutò il proprietario. Aprì la porta e uscì dal negozio. Senza nemmeno fare un cenno all’ormai esausto Duncan. «Pezzo di merda. Ti senti essere dio in cielo ma sei un coglione qualunque. Hai avuto solo la fortuna di vendere dischi e di combinarne una dopo l’altra accrescendo la tua visibilità. Ti permetti di sentirti importante. Con aria di superiorità non ti degni neanche di regalare un gesto a chi ha avuto la pazienza di starti dietro, chi ha avuto la pazienza di assecondare le tue manie. Stupide. Insulse. Vaffanculo stronzo di merda.» Duncan non riuscì a dire niente. Si sarebbe preso il resto del pomeriggio per rilassarsi e per dedicarsi anche alle sue attività. Aveva deciso che il giro degli studi di registrazione sarebbe continuato. Doveva far circolare il suo nome. Sperava che qualcuno lo scegliesse per farlo suonare in qualche gruppo. Le scoperte non arrivano mai con un nesso logico. Ci si accorge di aver capito il meccanismo solo quando tutto sembra 228 ormai finito. Si dice che leggere aiuta a istruirsi. Leggere i giornali ti fa capire come va il mondo, la politica e la cultura. Leggere una rivista ti dà qualche nozione in più riguardo a una pellicola cinematografica, a una scoperta scientifica e al mondo dell’arte. Smith senza nemmeno accorgersene e senza nemmeno farlo apposta si era trovato davanti la risoluzione del caso. Aveva appena letto che John Lennon si era rimesso a comporre e a registrare. Qui si accese la scintilla del detective. «Se quel coglione si trova a New York, se veramente appassionato di musica, se veramente voglioso di ribalta farà di tutto per finire a suonare con la star ex Beatles. Come cazzo ci arriverà mai a suonare con lui?» Fu una domanda a cui non riuscì a trovare risposta. L’unico modo per scoprirlo era quello di rimettersi sulle sue piste. Un musicista che vuole suonare gira tutti gli studi di registrazione, in modo da far circolare il suo nome. Da qui sarebbero ripartite le ricerche del detective. La scoperta fu esaltante. In ogni studio di registrazione scopriva che Duncan aveva lasciato il suo nominativo, in modo che venisse ricontattato. L’altra buona notizia, che aveva rallegrato la giornata di Smith, era la scoperta del numero di telefono e di conseguenza dell’indirizzo del motel dove Duncan alloggiava. Poteva seguirlo. Pedinarlo. Scrutarne ogni minimo movimento. Mai come in quel momento Smith si sentiva orgoglioso di tutto il lavoro svolto. Erano ormai anni che seguiva quell’esaurito. Non poteva affermare con certezza che fosse lui il vero colpevole di tutte quelle morti. Era solo 229 sicuro della sua presenza in quelle notti. Doveva solo attendere pazientemente. Fremeva dalla voglia di incastrare quella grandissima testa di cazzo. Voleva capire il perché di quei gesti. Cosa si nascondesse dietro quella sua apparente tranquillità. Il tabellino da seguire era pronto. Recarsi vicino la residenza dell’italiano. Pedinarlo. Scrutarlo. Capirne movimenti e atteggiamenti. Incastrarlo. Il motel dove alloggiava l’italiano non era molto distante dal suo hotel. Questo gli avrebbe permesso di poterlo sorvegliare con più frequenza. Con più cura. Lo vide uscire dall’ingresso principale e percorrere la lunga strada che conduceva fino al bar dove si fermava a fare colazione. Aspettò la sua uscita per continuare a pedinarlo. Dopo qualche miglio lo vide entrare nel negozio di musica. Vi uscì solo in serata. Smith era sconvolto per la lunga attesa. Dedusse che l’italiano lavorasse in quel negozio. Il pedinamento inverso. Duncan si fermò in un locale a mangiare qualcosa e poi dritto in motel. Dalle dichiarazioni di Aldo aveva capito alcune abitudini dell’uomo. Alla voce bar fece partire una freccia con sopra scritto caffè macchiato freddo. Alla voce negozio musicale una freccia con sopra scritto passione per la chitarra. Non sapeva effettivamente se Duncan conoscesse le intenzioni di John Lennon, se aveva avuto richieste di lavoro da parte dell’entourage dell’artista e se sapesse dell’esistenza dell’ex Beatles a New York. Questi furono dettagli che sottolineò dandogli comunque meno importanza. 230 Duncan non riusciva a dimenticare il comportamento di Lennon. Non poteva non provare odio per come si era comportato. Non riusciva a togliersi dalla testa gli sguardi scontrosi della testa di cazzo. Quel suo modo indisponente di trattare un semplice commesso di un negozio di musica. Per come si era approcciato e per come si era comportato, capiva bene il perché dello scioglimento del gruppo britannico. Le poche nozioni che aveva acquisito sul gruppo lo avevano messo alla guardia sul caratteraccio dell’infame. Le parole dette dai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Duncan aveva avuto la conferma che il coglione si era bevuto il cervello dopo tutta la cocaina che aveva assunto. Smith era sempre alle sue costole. Lo seguiva come un’ombra. In un paio di circostanze destò sospetti anche agli organi di polizia presenti sulle strade. La cosa più ridicola, ogni qual volta usciva per pedinare Duncan, era quella di incontrare qualche suo collega americano. Dover ogni volta dare delle spiegazioni. Ogni pedinamento era intervallato da colloqui con la polizia cittadina. Puntualmente farsi riconoscere diventava un problema. La diffidenza iniziale degli agenti difficilmente si lasciava frugare. Solo accurate spiegazioni lo resero libero di proseguire il suo lavoro. L’abituale cammino di Duncan incoraggiò il detective a portare la ricerca al livello successivo. Decise che avrebbe sostato nel bar dove abitualmente si fermava a fare colazione. Voleva confermare la veridicità delle affermazioni di Aldo. 231 La mattinata non era delle migliori. Non faceva caldo ma la temperatura fresca non permetteva di stare in giro senza aver addosso un capo. Il locale non era pienissimo. C’era il solito via vai di persone che entravano. Solo per un caffè o solo per mangiare qualcosa. Smith non sapeva come riuscire ad avvicinare l’italiano. Lo vide entrare e sedersi in un tavolino in fondo al locale. Con aria disinvolta e con molta calma riuscì a sedersi qualche tavolino prima. Duncan attendeva l’arrivo di un cameriere. L’attesa fu spasmodica. Il cameriere impiegò qualche minuto. Appena si diresse verso l’italiano Smith cercò di stare attento alle parole che uscivano dalla bocca del cliente. Un boato tremendo dovuto a un incidente avvenuto appena fuori il locale non permise al detective di ascoltare la conversazione fra i due. Vistosamente incazzato, per non essere riuscito a capire l’ordinazione di Duncan, uscì dal locale per seguire le vicende dell’incidente. Stizzito come non mai, si diresse in hotel. Avrebbe valutato qualche altra azione da intraprendere per scovare l’italiano. Un altro giorno d’inseguimento non sarebbe servito a niente. Doveva rimanere concentrato in modo da trovare qualche soluzione. Doveva inventarsi un modo per poter fermare quel pazzo prima che si preparasse a compiere un altro folle gesto. Smith aveva letto di Lennon. Sapeva che a New York erano tante le celebrità musicali che registravano e suonavano lì. Non poteva e non doveva fissare l’attenzione solo su uno di essi. Il modo migliore per evitare l’ennesima vittima era quello di 232 bloccare l’italiano. Farlo confessare. Consegnarlo alla polizia. Spedirlo direttamente in prigione. Farlo processare. Già immaginava i titoli sui giornali. “Il Detective Smith scova il killer delle celebrità”. Non faceva altro che pensare a come sarebbe cambiata la sua vita portata a termine quella missione. La sua fama sarebbe accresciuta talmente tanto che una promozione non gli e l’avrebbe negata nessuno. In Inghilterra e nel resto del mondo il suo nome sarebbe finito su ogni tipo di giornale. Di rivista. Avrebbe concesso interviste a tutti. Sarebbe diventando il primo detective a risolvere quegli enigmatici omicidi. Per fare questo doveva escogitare un modo per incastrare l’italiano. Sguardo fisso al cielo. I pensieri barcollanti tra il caso Duncan e le presunte interviste da rilasciare, pensò bene di fare il passo più semplice. Riuscire a lavorare in quel locale in modo da seguire per qualche giorno Duncan. Entrarci in confidenza. Fargli uscire dalla sua bocca qualche confessione. Nel bel mezzo della chiacchierata smascherarlo. Arrestarlo. Tutto talmente semplice a parole ma non nei fatti. Lui non aveva mai lavorato prima in un caffè. Non sapeva preparare una colazione. Non sapeva neanche servire ai tavoli. Doveva trovare un modo per convincere il proprietario ad assumerlo. Duncan era riuscito a vendere una chitarra. La classica spiegazione. I vantaggi di suonare quella marca. Il perché suonare quel modello. Il musicista non poteva non acquistare il prodotto. Duncan lo sapeva che quel suo modo di fare poteva rivelarsi efficace con chiunque. Più pensava a Lennon più gli 233 marciva il sangue. In quei giorni era entrato in contatto con molti musicisti. Tanti anche famosi. Clapton era entrato a comprare una chitarra. Aveva le sue affidabili fender. Aveva bisogno sempre di modelli nuovi da integrare nel suo pacchetto di chitarre utilizzate durante i live. Nonostante Clapton fosse allo stesso livello di Lennon, si era mostrato molto più umano. Aveva conversato con Duncan regalando nuove nozioni all’italiano. Era sempre felice di accrescere le sue conoscenze riguardo la chitarra. Bryan May dei Queen era finito in quel negozio. Anche lui aveva parlato con Duncan raccontandogli la storia della sua chitarra personale nata dalle mani del padre e di quel suo modo originale di suonare le sue corde con una moneta e non con il classico plettro di plastica. Non tutti si dimostrarono aperti verso l’italiano. Tanti altri grandi personaggi famosi fecero a meno dei consigli di Duncan. Comunque si dimostrarono gentili e cortesi allo stesso modo, salutandolo e ringraziandolo prima di uscire dal negozio. Il pranzo Duncan lo acquistava in una rosticceria molto vicina al negozio. Lo consumava nel retro insieme al proprietario e agli altri commessi. Quel giorno aveva deciso di consumarlo seduto al tavolino del locale in modo da distrarsi un po’ dal lavoro. Si era da poco trasferito a New York e non conosceva nessuno. Girovagava per le strade e per i locali della grande mela. Oltre a scambiare qualche sguardo con qualche ragazza, mai ripagato, non riusciva a interagire con nessun altro. 234 Fare la conoscenza di qualcuno avviene in maniera casuale e spesso per futili coincidenze. Duncan come al solito era seduto alla fine del locale. Davanti a lui un tavolino vuoto. Al tavolino seguente un ragazzo. Sul tavolino che divideva i due ragazzi, era poggiato il giornale. Lì era riportata la notizia dell’uscita del nuovo album di Lennon. I due senza accorgersene si fiondarono a prendere il giornale per leggerlo. Duncan si fermò non appena vide la mano dell’altro già posata sui fogli di carta. Lo guardò in faccia. Facendo segno di sì, con la testa, gli fece capire che avrebbe potuto leggerlo per prima lui. Il ragazzo, però, decise che si sarebbe trasferito al tavolino dove sedeva Duncan, in modo che entrambi avrebbero potuto leggere la notizia. Magari cambiare anche qualche parola. Qualche opinione. «Ciao! Io sono Mark. Tu come ti chiami?» «Ciao! Io sono Duncan.» «Ho visto che sei interessato all’articolo su John Lennon.» «Sì. Sono curioso di leggere qualcosa su di lui. Sono italiano ma vengo dall’Inghilterra e lì ho assisto all’ascesa musicale dell’ex Beatles.» «Wow! Io sono un suo grande estimatore. Ho tutti i dischi dei Beatles. I suoi primi lavori da solista. Ho appoggiato ogni sua provocazione riguardo alla guerra. Ho letto tutte le sue interviste dove si contrappone agli eserciti.» «Io ho sempre sentito parlare di lui quando nei primi anni incitava tutti i suoi amici a dare il meglio. Ho sentito dei suoi 235 difetti caratteriali, dei suoi viaggi in India finiti con l’uso di sostanze stupefacenti. Della sua rottura con il gruppo.» «Cosa si raccontava in Inghilterra riguardo allo scioglimento della band?» «John aveva tante ombre sul suo conto. Leggende metropolitane affermavano che il suo primo matrimonio fu tenuto segreto. In modo che le fans del gruppo non perdessero quella voglia di seguire i quattro di Liverpool. L’arrivo, dopo qualche anno, di Yoko Ono aveva un po’ incrinato i rapporti fra Lennon e il resto del gruppo. Gli veniva accusata la continua presenza della donna durante le prove. Di manipolare l’artista in maniera molto prepotente. Lo allontanava giornalmente dagli altri. Per quanto mi riguarda Lennon non è altro che un personaggio che ha avuto la fortuna di trovarsi nei Beatles. La furbizia di cavalcare alcune situazioni per accrescere la sua fama. Si è approfittato della sua celebrità per farsi pubblicità. Secondo te le proteste attuate erano esclusivamente uno slogan contro la guerra o campagne promozionali? Secondo te alcune dichiarazioni volevano giungere come proteste o erano dichiarazioni provocatorie studiate a tavolino?» «Cazzo! Non ci credo! Non ho mai visto John Lennon da questa prospettiva. Ho sempre avvertito nei suoi testi e nelle sue parole un forte senso di dovere. Io credo in quello che dice e professa.» «Come tutti gli artisti anche lui ha avuto problemi con la droga. Per anni gli è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti. 236 Non è la persona per bene che credono in tanti. Anche lui ha i suoi difetti. Non ha mai avuto a che fare con il suo primogenito. Si racconta che abbia lasciato le scene musicali per dedicarsi anima e corpo al figlio avuto da Yoko Ono.» Mark per qualche secondo rimase fermo. Fissava Duncan per capire se dicesse il vero o stesse cercando di infangare la figura dell’artista. Cosa poteva interessare a uno sconosciuto infangare la vita privata di John. Duncan finì di mangiare il suo pranzo e dopo aver salutato Mark si recò nuovamente verso il negozio. Mark rimase seduto per tutto il pomeriggio. Leggeva continuamente la notizia del nuovo disco di Lennon. In testa gli circolavano le confessioni di Duncan. Non poteva crederci. Sapeva che Lennon era legato a certi temi umanitari. Rivedere con un’ottica diversa alcune sue dichiarazioni rendeva tutto estremamente confuso. «Povero coglione che non sono altro. Certo che John ha creato tutto per farsi solo ed esclusivamente pubblicità. Uno che lascia i Beatles manipolato da una donna, se non crea polemiche e aspettative sul suo conto non può farcela. Ed io che credevo nelle sue idee. Bastardo pezzo di merda. Inglese del cazzo. Con la puzza sotto il naso. Con la presunzione di sentirsi chissà quale personaggio. Hai preso per il culo generazioni di ragazzi che credevano in te. Nelle tue parole.» Finire a lavorare in un bar non era facile. Smith lo sapeva bene. L’unico modo per riuscire a far parte di quello staff era andare a parlare direttamente con il proprietario. Sperava che 237 gli concedesse l’opportunità. Non tutti si rendevano disponibili ad accettare certe responsabilità. Si rischiava comunque di creare disagi alla clientela. Il titolare si mostrò subito pronto al dialogo. Smith sapeva che doveva affrontare il problema con molta delicatezza. Decise di iniziare il suo discorso partendo da molto lontano. Il direttore del locale sembrava molto interessato. Guardava fisso in viso il detective. Ascoltò tutta la spiegazione di Smith che terminò con la richiesta di assunzione. In modo da poter acciuffare il criminale. Sembrava convinto. Una buffa risata, forte, intensa e intervallata da lunghi affanni interruppe il discorso. Il direttore non riusciva a trattenersi. Aveva ascoltato tutto il racconto e non riusciva a credere al detective. A tutte quelle minchiate, che secondo lui, erano uscite dalla bocca dell’uomo. Vistosamente in imbarazzo cercò in tutti i modi di far ricredere il direttore sulla veridicità di quanto detto. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. Uscì dal locale con un nulla di fatto. Con una figura di merda galattica. Stare dietro a quel mentecatto gli stava costando un crollo nervoso. Anni di ricerche e di presunte coincidenze. Di ricostruzioni campate su presentimenti e poi il crollo della torre dopo le confessioni di Aldo. Il viaggio in America che gli costava un possibile futuro come spazzino. La possibilità di chiudere anticipatamente la sua carriera. Doveva trovare un modo per fermare l’italiano. Non era sicuro che avesse compiuto qualche altro gesto impensabile. 238 Comunque voleva risposte sulle morti e capire realmente come mai si trovasse sempre presente sul luogo del misfatto. Il cielo limpido di New York brillava di luce. Regalava una bellissima giornata per poter svolgere ogni tipo di attività. Duncan come al solito si era svegliato con la priorità di recarsi sul posto di lavoro. Smith con la priorità di pedinare Duncan. Mark non aveva chiuso occhio. Sulle pareti della sua camera appariva John Lennon raffigurato con i Beatles e da solista. I suoi dischi riempivano il suo armadio. Le parole di Duncan suonarono per tutta la notte nella testa di Mark. Si era riscoperto fragile. Aveva impostato ogni suo movimento secondo una morale costruita sulla base dei pensieri del suo mito. L’inseguimento condusse Smith fino al negozio musicale, dove Duncan svolgeva il suo ruolo di commesso. La solita attesa fino alla pausa pranzo. Seguire Duncan fino alla rosticceria e poi seguirlo fino al negozio. La routine si era impossessata anche di quel giorno d’autunno. Seduto su una panchina, pensava e ripensava a come fermare l’italiano. Poteva interrompere il quieto vivere dell’uomo arrestandolo. Interrogandolo. Con il rischio concreto di non riuscire a cavargli niente di bocca. Costringerlo con la violenza alla confessione. C’era il rischio che quel suo modo di fare gli avrebbe causato problemi disciplinari. Non gli restava altro che pedinarlo. Sperando che Duncan lo conducesse verso una sua nuova avventura. Doveva coglierlo in flagrante. Mentre uccideva qualche altra star. 239 Mark passò la mattinata confuso. Girovagò per la città senza meta. Pensando e ripensando alle parole dell’uomo conosciuto il giorno prima al tavolino di una rosticceria. «Tutta colpa tua. Bastardo di un Inglese. Ci hai fatto credere che ogni tua protesta fosse legata veramente a una lotta contro la guerra. Contro la fame nel mondo. Era tutta una presa per il culo. Una trovata commerciale per mantenere in vita il tuo fottutissimo personaggio. Quel personaggio che fuori dai Beatles sarebbe scomparso inesorabilmente.» Mark aveva sempre mantenuto un comportamento esemplare nella sua vita. Quel giorno non riusciva a tenere a freno la sua rabbia. Riuscì a bere litri di caffè. In qualche occasione attaccò lite con alcuni passanti che senza volere gli tagliarono la strada. Strada che percorreva barcollando e turbato psicologicamente. L’ombra della sera stava lentamente abbracciando la città. Duncan aveva riposto sullo scaffale l’ultima chitarra lucidata prima della chiusura. Di solito ritornava direttamente a casa per mettersi a letto. Quella sera aveva pensato bene di mettere nello stomaco qualcosa d’italiano. Non molto lontano dal locale dove lavorava, aveva notato una pizzeria italiana. Avrebbe volentieri mangiato una gustosa pizza margherita. Smith sorpreso dal cambio di programma dell’italiano decise di seguirlo. Incuriosito. Convinto che quella poteva essere la volta buona. Duncan si guardava intorno perché incerto sulla strada che aveva preso. Smith travisò quel suo gesto. Credeva che l’uomo 240 si stesse dirigendo a casa di qualcuno e non voleva che occhi indiscreti ne notassero la presenza. Smith accelerò il passo per stargli il più vicino possibile. Doveva farsi trovare pronto in modo da entrare subito in azione qualora ce ne fosse stato bisogno. Purtroppo si trovò davanti ad una spiacevole sorpresa. Duncan si stava recando in una pizzeria per comprare una semplicissima pizza. Il sangue nelle vene di Smith si raggelò improvvisamente. Iniziò a muovere nervosamente la bocca. L’occhio sinistro gli si chiudeva e apriva in un tic che non aveva mai avuto prima. Non appena vide uscire dalla pizzeria l’italiano gli si scaraventò addosso. Colpendolo con un pugno in pieno viso. L’italiano rispose all’attacco. Con un altro pugno. In modo da divincolarsi dall’aggressore. Si trovarono faccia a faccia. Smith afferrò per il collo l’italiano urlandogli contro. Come un pazzo collerico. «Pezzo di merda di un italiano. Sono dieci anni che ti cerco. Che cerco di guardarti in faccia per dirti quanto mi fai schifo. Quanto inutile sia stato il tuo continuo scappare per paura di finire in galera. So tutto di te. Della tua presenza nella villa di Brian Jones il giorno della sua morte. Nella villa di Elvis. Sono sicuro che nelle morti di Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison ci sia il tuo zampino. Lo zampino di una persona frustrata, delusa per la sua inettitudine e per i suoi fallimenti musicali. Ero sicuro di coglierti in flagrante in quest’occasione. Sono giorni che ti seguo. Che controllo ogni tuo movimento. Che spero in un tuo passo falso.» 241 Duncan lo fissava negli occhi. Non riusciva a credere a quanto gli stava dicendo il detective. Sapeva che qualcuno avesse potuto rivelare la sua presenza. Sapeva di avere la fedina penale pulita e qualche alibi perfetto. Non aveva mai colpito o ucciso qualcuno. Si era trovato per pura casualità immischiato in certe situazioni spiacevoli. «Ma che cazzo stai dicendo? Coglione che non sei altro. Come fai a dire che sono io il colpevole? Non so di cosa tu stia parlando. Non ho mai ucciso nessuno. Mi sono trovato in quelle situazioni ma mai per sete di vendetta. Io volevo diventare una star. Non avrebbe avuto nessun senso uccidere chi avrebbe potuto portarmi al successo.» Smith mollò l’italiano si piegò con le ginocchia a terra piangendo come un bambino e confidando all’italiano tutto quanto. «Dopo la morte di Hendrix a Londra mi sono interessato al tuo caso. Ritornando anche alla morte di Brian Jones. Mi ero convinto che dietro a determinate morti doveva esserci la figura e la mano di qualcuno di losco. Di oscuro. Avevo parlato con il costruttore della villa di Brian accusato dell’omicidio. Mi aveva confessato che in quei giorni era presente nella dimora del chitarrista anche un’altra persona. Dopo anni sono riuscito a completare il tuo profilo. Ora che ti ho trovato scopro che sei un perfetto idiota. Una persona inutile. Non sai fare altro che strimpellare una stupida chitarra. Che da sogni di fama e gloria sei finito a vendere chitarre in un negozio di New York. 242 Lontano migliaia di chilometri dalla tua terra. Senza conoscere nessuno.» Mark non riusciva a trattenere la sua rabbia. Aveva appena deciso di sfogare la sua frustrazione contro l’essere che credeva divino. Colui che era diventato il faro, la linea guida per andare avanti senza subire i torti di un mondo diventato crudele. Aveva appena acquistato una pistola. Un biglietto della metropolitana. Un panino da sbranare nell’attesa di trovarsi faccia a faccia con quell’uomo. Quello che fino a qualche ora prima era il centro del suo universo. Turbati da quanto accaduto, si erano poggiati su una panchina. All’improvviso cinque spari squarciarono la notte di New York. Un suono di sirena si avvicinava velocemente seguita dal suono di un’ambulanza. I due si guardarono negli occhi. Senza pensarci due volte si diressero entrambi verso il punto in cui erano radunate alcune auto della polizia e l’ambulanza. Sulla 72a strada nell’Upper West Side. All’ingresso dell’enorme edificio denominato Dakota Building. Residenza lussuosa di prestigiose personalità della città. Appena uditi gli spari, si erano precipitati sul luogo della sparatoria. Fu proprio lì che Duncan fece una scoperta allucinante. Pazzesca. Ammanettato e notevolmente in stato confusionale, in un’auto della polizia, giaceva il ragazzo conosciuto il giorno prima in una rosticceria. Rimase perplesso. Incredulo. Fece solo qualche altro passo in avanti. Disteso a 243 terra, esangue, giaceva il corpo di John Lennon. Ferito con quattro colpi di pistola sferrati proprio dal ragazzo. Smith guardò fisso Duncan. Fissò il corpo disteso di Lennon. Guardò di nuovo Duncan e senza dire niente si allontanò. La sua carriera era ormai giunta al termine. Al ritorno in Inghilterra avrebbe intrapreso la sua nuova avventura. Spazzino nei giardini della città londinese. Duncan non riusciva a credere a quanto era successo. Aveva conosciuto quel ragazzo il giorno prima. Gli aveva raccontato una miriade di cazzate lette sui giornali. Quelle cazzate avevano provocato in Mark qualcosa che aveva scaturito quella reazione. Duncan non riusciva a capacitarsi. Si diresse verso il motel. Sarebbe ripartito per ritornare a Londra. Avrebbe cercato un lavoro. Magari nella stessa caffetteria del suo amico Aldo. Senza chiedere più niente alla musica. Il volo per Londra era in partenza. Smith decise che avrebbe messo nello stomaco qualcosa per sopportare il viaggio. Poggiò la valigia vicino il bancone del bar e ordinò una frittella e una tazza di tè. Assonnato dopo una notte insonne, Duncan colpì involontariamente Smith mentre stava mangiando la frittella appena ordinata. Si scusò, si mise vicino a lui e ordinò una buona tazza di caffè. Macchiato freddo. 244 Autore: Angelo Salvatore Borelli e-mail: [email protected] Blog: http://uncaffemacchiatofreddo.altervista.org f t https://www.facebook.com/uncaffemacchiatofreddo https://twitter.com/uncaffeAsB 245