Saranda 1913. L`Albania tragica di Isadora Duncan

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Saranda 1913. L’Albania tragica di Isadora Duncan
Autore: Olimpia Gargano
Categoria : Albania
Data : 2 ottobre 2011
Nella primavera del 1913, Isadora Duncan trascorse sei mesi in Albania. Era un momento
terribile per entrambi: sia per il giovanissimo Stato albanese, dilaniato dalle confinanti nazioni
balcaniche, sia per la celebre ballerina americana, che poche settimane prima, a Parigi, aveva
perso i suoi due bambini, annegati nella Senna. Fu suo fratello Raymond che, per scuoterla
dalla disperazione in cui era sprofondata, la invitò a raggiungerlo a Saranda, dove lui e sua
moglie Penelope aiutavano la popolazione albanese stremata dalla guerra.
Della sua esperienza albanese, Isadora Duncan lasciò testimonianza in My Life, l’autobiografia
pubblicata nel 1927 (ora disponibile in edizione italiana di recente ristampa: La mia vita, Roma,
Audino, 2010). Nata nel 1877 a San Francisco da madre irlandese e padre scozzese, Isadora
era cresciuta fra arte, musica e letteratura. Fu sua madre a mantenere la famiglia dando lezioni
dipiano, dopo che il padre, il banchiere Charles Duncan, aveva abbandonato la moglie e i
quattro figli. Ben presto si trasferirono tutti in Europa, dove Isadora, Elizabeth e i fratelli
Augustin e Raymond passavano le giornate nelle sale dei più importanti musei, ricopiando le
forme dei vasi di ceramica della Grecia classica. Il suo temperamento passionale le costò una
vita sentimentale tumultuosa.
Nel 1906, dalla sua relazione con l’attore e regista inglese Edward Gordon Craig nacque la
prima figlia, Deirdre (in irlandese, “amata dell’Irlanda”). Quattro anni dopo, dal suo compagno
Paris Singer, figlio del fabbricante di macchine da cucito Isaac Singer, nacque Patrick.All’epoca
del viaggio a Saranda, Isadora Duncan era al culmine della celebrità. Il suo ritratto era stato
inciso sul bassorilievo all’ingresso del teatro degli Champs Elysées. Aveva rivoluzionato il
mondo della danza col suo stile unico, del tutto personale, fondato sulla passione per la
mitologia e l’arte greca. Vestita di una semplice tunica, danzava a piedi nudi con movimenti
espressivi che valorizzavano le emozioni, infrangendo le regole della danza moderna che lei
trovava rigide e contro natura.
Il 18 aprile 1913, Deirdre e Patrick rientravano a casa insieme con la governante dopo aver
trascorso mezza giornata con Paris e Isadora. L’autista che li accompagnava era sceso dalla
vettura, dimenticando di azionare il freno a mano. L’automobile prese a scivolare lungo la
strada che finiva nella Senna: i due bambini e la governante, rimasti bloccati all’interno,
morirono annegati.
Dopo questa tragedia Isadora stava per impazzire. Suo fratello Raymond, che era già in
Albania con sua moglie, la invitò a raggiungerli a Saranda, dicendole che lì c’erano donne e
bambini bisognosi del suo aiuto. Raymond era un intellettuale poliedrico: artista, poeta,
ballerino, filosofo, credeva in un sistema economico mirato alla realizzazione personale degli
operai, più che alla produzione o al profitto. Viveva nei pressi di Atene con la moglie Penelope,
greca, e il figlio, in una villa di cui aveva personalmente disegnato arredamento, vasi e
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tappezzeria, ispirati all’arte classica. Il 28 novembre 1912, dopo oltre 400 anni di dominazione
ottomana, l’Albania aveva dichiarato l’indipendenza. Appena un mese prima era scoppiata la
guerra fra la Lega Balcanica (Grecia, Montenegro, Serbia e Bulgaria) e l’Impero Ottomano. In
seguito alla vittoria della Lega, l’Albania era stata invasa dai suoi confinanti, serbi e
montenegrini a nord, e greci a sud, che non
volevano riconoscerne l’autonomia. La popolazione era allo stremo; donne, bambini e anziani
avevano bisogno di cibo e assistenza. Raymond Duncan si trasferì a Saranda con la sua
famiglia per andare in loro soccorso, e fu lì che li raggiunse sua sorella.Non era la prima volta
che Isadora andava in Albania. Anni prima, partita da Brindisi per un viaggio in Grecia insieme
con suo fratello, aveva fatto tappa a Preveza. Ecco come lo raccontò nella sua biografia:
“Comprammo delle provviste, un grande formaggio di capra, abbondanti riserve di olive nere e
pesci essiccati. Poiché sulla barca non c’era un posto all’ombra dove tenere i viveri, non
dimenticherò mai quell’odore di formaggio e pesce esposti per tutto il giorno al sole
implacabile, tanto più che il nostro piccolo veliero aveva un dolce ma incessante rollìo tutto suo.
Spesso la brezza calava e noi eravamo costretti a prendere i remi”.
Nella percezione dell’Albania descritta da Isadora Duncan affiorano echi delle sue letture
preferite, in particolare Byron. Il mito del poeta inglese, morto a Missolungi nel 1824 mentre
sosteneva la causa dell’indipendenza della Grecia, aveva fortemente segnato la sua sensibilità
letteraria. Ed era stato proprio da Preveza che, il 12 novembre 1809, Byron aveva scritto a sua
madre una lettera in cui descriveva con entusiasmo il costume tradizionale albanese, da lui
indossato in varie occasioni: “il più splendido del mondo, fatto di un lungo kilt bianco, un
mantello trapunto di fili d’oro, corsetto e gilet di velluto cremisi orlati in oro, pugnali e pistole
dalla montatura d’argento.” E le diceva anche di aver acquistato “dei magnifici costumi
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albanesi, l’unico articolo
costoso in questo Paese. Hanno un prezzo di 50 guinee, e sono talmente ricchi di oro che in
Inghilterra ne sarebbero costate 200”. Nel secondo Canto del suo Childe Harold’s Pilgrimage, il
poema che ha come protagonista un giovane e inquieto viaggiatore che percorre le coste del
Mediterraneo in cerca di se stesso, Byron aveva dedicato all’Albania pagine struggenti di
ammirazione e romantica “nostalgi
a”: “Terra d'Albania! Dove nacque Iskander, modello per i giovani, faro per i saggi! […] Ora
Harold si sente finalmente solo, e dà un lungo addio alle lingue delle nazioni cristiane. Ecco che
si avventura in una landa inesplorata, che tutti ammirano, ma pochi osano visitare.”Se nella
letteratura inglese l’immagine dell’Albania era fortemente segnata dall’impronta lasciata da
Byron, sul versante francese il libro più noto era il Voyage en Morée et à Constantinople, en
Albanie, et dans plusieurs autres parties de l’Empire Ottoman di François Pouqueville.
Come Byron, anche Pouqueville era stato ospite a Janina (oggi Ioannina, in Grecia) presso il
potente pascià albanese Ali Tepelena. Nel maggio 1913, Isadora Duncan partì dunque alla volta
di Saranda. La storia del suo viaggio è stata raccontata da Luan Rama nel romanzo Santa
Quaranta : gërsheti i prerë i Isadora Dunkanit. Roman historik (Tirana, Argeta, 2005), che
prossimamente sarà pubblicato anche in Francia. Nato a Tirana, Luan Rama vive da tempo a
Parigi, dove svolge la sua attività di scrittore, giornalista e traduttore. E’ stato Ambasciatore
d’Albania in Francia, ed è membro dell’Haut Conseil de la Francophonie. Nel suo romanzo,
Rama parte dal dato autobiografico offerto dalla Duncan in My Life, e lo amplia inserendolo nel
contesto storico e culturale del momento, dando particolare risalto al modo in cui era stata fino a
quel momento rappresentata l’Albania nei racconti dei viaggiatori stranieri. Per esempio, nella
descrizione che ne aveva fatto Pouqueville, i dintorni di Saranda erano “poveri e mal coltivati,
come quasi tutta questa parte dell’Albania che affaccia sul mare”.
Quanto alla popolazione, il medico - viaggiatore francese aveva detto: “Gli albanesi, che si
potrebbero definire gli Sciti dell’Impero d’Oriente, hanno esigenze minime. In genere vivono in
abitazioni che hanno solo il pianoterra, e dormono su stuoie o nelle pesanti palandrane che li
proteggono dal freddo. Poco sensibili alle variazioni atmosferiche, conducono una vita
ugualmente laboriosa nelle diverse stagioni dell’anno; contenti di poco, si nutrono di latte,
formaggio, olive, verdure, di carne – ma in piccole quantità
– di pesci e uova, infine di pesci salati” (1). Immagini di questo tipo continuarono a essere molto
diffuse nei racconti di viaggio del secolo successivo, e potrebbero aver condizionato le
aspettative di Isadora Duncan al momento di recarsi in Albania. Ed è su questa base che,
unendo il vero e il verosimile con la libertà propria dell’opera narrativa, Luan Rama attribuisce
alla “sua” Isadora, protagonista di Santa Quaranta, un sentimento di stupore nel vedere sul
battello fra Saranda e Corfù dei passeggeri albanesi “vestiti all’occidentale, con scarpe tirate a
lucido. La cosa le fece piacere, perché spesso gli albanesi erano rappresentati come contadini
e montanari
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che si tenevano a distanza dagli stranieri.” Ma ritorniamo alle parole usate dalla Duncan in My
life.
Ecco come racconta in prima persona le sue sensazioni di fronte alle migliaia di rifugiati
bisognosi di soccorso: “Fui testimone di tante scene tragiche. Una madre era seduta sotto un
albero tenendo fra le braccia l’ultimo nato, mentre tre o quattro bimbi piccoli le si
arrampicavano addosso, affamati e senza un posto dove rifugiarsi. La casa bruciata, il padre e i
fratelli uccisi dai turchi, le greggi rubate, i raccolti distrutti, e la povera madre era là con i figli
superstiti. Era a questi poveri infelici che Raymond distribuiva sacchi di patate.” Isadora
Duncan parla con ammirazione di suo fratello, che “aveva concepito un modo molto originale di
organizzare un campo di soccorso per i rifugiati albanesi.” Il progetto realizzato da Raymond
era in piena sintonia con i suoi ideali filantropici: aveva allestito a Saranda un laboratorio tessile
in cui le donne filavano la lana grezza che lui andava a comprare al mercato di Corfù, per poi
realizzarne coperte che venivano vendute a Londra con un guadagno del 50 %. I loro disegni,
ispirati ai decori degli antichi vasi greci, ebbero successo: “Ben presto ci fu una lunga fila di
donne che lavoravano in riva vicino al mare, e Raymond insegnò loro a cantare seguendo la
cadenza del lavoro.” Col ricavato della vendita, Raymond fondò un panificio, e in breve tempo
ci furono i mezzi sufficienti a creare un villaggio: “Vivevamo sotto una tenda in riva al mare.
Ogni mattina, al levare del sole, ci immergevamo e nuotavamo.
L’Albania era un paese strano e tragico. Lì sorgeva il primo altare dedicato a Giove Tonante,
chiamato così perché in questi luoghi d’inverno come d’estate, ci sono temporali continui e
piogge violente.”
Ma per lei era arrivato il momento di partire. La sua vocazione per l’arte la richiamava con
prepotenza alla vita dalla quale avrebbe voluto fuggire dopo il dolore che l’aveva straziata.
“Quando mi tornarono la salute e le forze, continuare a vivere fra i rifugiati mi divenne
impossibile. C’è una grande differenza tra la vita di un artista e quella di un santo. La mia vita di
artista si risvegliava in me. Sentivo che mi era impossibile, con i miei mezzi limitati, arrestare
questo flusso di miseria che rappresentavano i rifugiati albanesi.”Prima di andarsene, tentò di
convincere suo fratello a seguirla: “Feci del mio meglio per persuadere Raymond e Penelope a
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lasciare questo triste paese d’Albania e tornare con me in Europa. Mi feci accompagnare dal
medico di bordo, contando sulla sua influenza, ma Raymond rifiutò di abbandonare i suoi
rifugiati e il suo villaggio, e ovviamente Penelope non voleva separarsi da lui. Fui dunque
costretta a lasciarlo su questa roccia desolata, col solo rifugio di una piccola tenda su cui
infuriava un vero uragano.” Con queste parole si concludeva la sua esperienza albanese,
sospesa nella dimensione mitica di una terra fuori dal tempo. La stessa dimensione affiora nel
romanzo Santa Quaranta, dove si dice che la vicenda della protagonista si svolse in una terra
“dove le braci della tragedia antica covano ancora qua e là sotto la cenere”.L’autobiografia di
Isadora Duncan veniva pubblicata nel 1927: qualche mese dopo, la sua vita veniva
tragicamente spezzata sul lungomare di Nizza, quando la sciarpa che portava intorno al collo si
impigliò nella ruota dell’automobile su cui era appena salita. Finiva così, a 50 anni, la vicenda
umana di una donna entrata nella leggenda della danza mondiale.
NDR. Traduzione in forma ridotta dell’originale in lingua francese: O. Gargano, « Le voyage en
Albanie d’Isadora Duncan, entre autobiographie et fiction romanesque », LOXIAS, n. 34,
Revue de Littérature Française et Comparée, Directeur Odile Gannier, CTEL, Université de
Lettres de Nice, 2011 http://revel.unice.fr/loxias/index.html?id=6864. In considerazione della
natura del presente articolo, destinato a pubblicazione giornalistica, si è preferito non
appesantirlo con riferimenti bibliografici, per i quali si rimanda all’edizione originale.
(1) Il testo di Pouqueville, così come i due testi di Byron citati in precedenza, sono qui presentati
in traduzione personale, finora inedita.
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