INSOUND magazine - Area International Popular Group

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB Como - Bimestrale - anno VII n. 71 - novembre/dicembre 2012
MUSICA
STRUMENTI
I festival d’inverno
e le uscite discografiche.
Tutte le fiere del 2013:
Musica e teatro:
NAMM, Musikmesse e MIS il suono è sulla scena.
Area Live 2012,
quei bravi ragazzi.
PRODUZIONE
Le novità sul mercato
italiano.
A Bergamo, la musica
incontra la scienza.
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INSOUND
magazine
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SOMMARIO
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RICORRENZE PROG: BANCO E PFM; DINO RUBINO,
DAVID WEINBERGER, PARMAJAZZ, FENDER REWIND,
SPAZIOMUSICA, BUSONI REMIX, GLI ASCOLTI DI INSOUND.
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AREA - LIVE 2012
IL NUOVO ALBUM DI FARISELLI
TAVOLAZZI E TOFANI…
di Maurizio Principato
Direttore Responsabile
Piero Chianura
[email protected]
Hanno scritto su questo numero
Roberto Arbarello, Claudio Chianura, Johann Merrich,
Maurizio Principato, Hans & Alice Zevi.
Publisher: Claudio Chianura
[email protected]
Casanova e Chianura Edizioni s.r.l.
C.so XXII Marzo 49 - 20129 Milano - tel. 0287388664 - fax.
0287388716
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Grafica e impaginazione: Auditorium Edizioni Milano
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INSOUND
INSOUND è una pubblicazione bimestrale.
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MUSICA È TEATRO: L'ESPERIENZA DI ZONE
CON PACTA DEI TEATRI DI MILANO
di Piero Chianura
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UNFOLDING SPACES: CONCERTO
PER CHITARRE, LIVE ELECTRONICS,
VIDEO E TRADUZIONI SONORE
DALLO SPAZIO COSMICO
di Piero Chianura
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FIERE DI MAGGIO: VECCHIE E NUOVE PROPOSTE
CERCANO DI TENERE VIVO
UN MERCATO IN SOFFERENZA
di Piero Chianura
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EDITORIALE
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ELECTRONICA
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STRUMENTI
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IMAGINE
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ELECTRONICA
L’ARTE
DEL SABOTAGGIO
JOHANN MERRICH
A
ncor prima del Traitè des objects musicaux di Pierre Schaeffer (Parigi, Editions
du Seuil, 1966) si era insinuata nella
mente dei compositori l’idea che il suono di un oggetto “trovato” o di un rumore della vita di tutti i giorni, presentato in una situazione artistica, potesse divenire veicolo
di un’attenzione estetica completamente diversa da quella
assegnatagli dal quotidiano. Schaeffer aveva le idee ben chiare circa gli errori in cui s’era persa la musica occidentale:
1) in primo luogo il sistema di notazione tradizionale è inadeguato: è ormai solo una vecchia carcassa
che non riesce a tenere conto di tutto quell’universo sonoro che lo sovrasta di cui esso rappresenta solo una minima parte;
2) la musica occidentale non riesce a cogliere la portata rivoluzionaria dei moderni strumenti tecnologici (il nastro magnetico, la radio, i diffusori, il campionatore, ecc.), in grado di capovolgere completamente i processi di composizione e
di fruizione della musica;
3) la musica occidentale non ha una visione universalistica del linguaggio sonoro; esclude dal proprio alveo la musica di
culture lontane, scarsamente studiata e
destituita senz’appello di ogni pretesa artistica; ma soprattutto ignora completamente la vastità del concetto di suono, chiudendosi in un cieco isolazionismo, incapace di guardare all’ampiezza del linguaggio sonoro universale.
Così, grazie al potere del nastro magnetico, la decostruzione
e la ricostruzione della musica poterono proseguire, gli slanci creativi crebbero sensibilmente generando macchine, tecniche e con esse infiniti argomenti di discussione ed espressione: il suono andava ascoltato senza pregiudizi intorno alla sua causa.
Benché già negli anni Cinquanta Louis Barron facesse collassare circuiti nella sua casa di New York, è solo tra il 1966
e il 1967 che nasce il circuit bending. Padre di questa bizzar-
ra disciplina è Reed Ghazala assieme alla sua “Odor Box” (nella foto) con la quale avvia intere generazioni di creativi alla
manomissione di giocattoli e dispositivi elettronici. Trent’anni
dopo, nel 1992, la definizione di circuit bending viene ufficializzata da Ghazala nella rivista Experimental Musical Instruments, in un articolo dedicato alla nuova arte. Gli strumenti del chirurgo sonico sono facilmente reperibili in qualsiasi negozio di elettronica: saldatore, stagno, cavi, coccodrilli… la sala operatoria è pronta. La radiolina giocattolo diventa allora un discendente del wobbulator di lontana memoria e le cianfrusaglie accumulate a casa in anni di superamenti tecnologici rivivono una nuova
vita, scoprendo un’utilità mai udita.
Possiamo sventrare, saldare, cortocircuitare, collegare archeologie e nefandezze elettroniche diventando novelli
designer, perdendoci nell’ideazione di
sofisticati case, sobri, grezzi o eleganti. E la piezoelettricità aiuta poi i chirurghi veri come quelli sonici: i primi
possono utilizzare le sonde ecografiche, i secondi possono approfittare dei
famosi microfoni piezo (o microfoni a
contatto) per far suonare qualsiasi cosa provvista di superficie, catturandone le vibrazioni trasformate poi in un
segnale elettrico amplificabile. L’arte del circuit bending è
un’arte a portata di tutti e non prevede conoscenze specifiche ma piuttosto il coraggio del tentativo e l’accettazione
dell’errore.
I più timorosi possono stare tranquilli: i voltaggi richiesti dai
piccoli apparati elettronici da sabotare sono bassi, generalmente da 3 a 9 volt. A incrementare il fascino della costruzione del proprio strumento vi è poi l’attesa di sentire che
cosa accadrà. Disse una volta John Cage: “Le idee sono una
cosa. Quello che succede è tutta un’altra faccenda”.
Quest’anno la bambola Cicciobello compie cinquant’anni, chissà se sarà pronta a ricominciare la sua esistenza sotto i riflettori dei concerti di musica sperimentale.
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MUSICISTI
PARMAJAZZ FRONTIERE
1-16 dicembre 2012
XVII Edizione
Il ParmaJazz Frontiere Festival torna celebra la diciassettesima edizione alternando esibizioni di attempati veterani con giovani talenti del jazz italiano e internazionale. Il 1° dicembre alla Casa della Musica apre l’Atlas Trio,
progetto del clarinettista francese Louis Sclavis affiancato da Benjamin
Moussay (piano, Fender Rhodes e tastiere) e Gilles Coronado (chitarra elettrica). Il 2 dicembre, sempre alla Casa della Musica, è la volta di Mario Piacentini (pianoforte) in doppio set col Roberta Baldizzone Ensemble. Il 5 dicembre il palco ospita il concerto dei Vidya, che mischia jazz e musica dell’India più tradizionale. jazz elettrico e psichedelia del gruppo di culto degli
anni ‘70. Il 7 dicembre alla Sala Grande del Teatro Due l’appuntamento da
non perdere è con il trombettista norvegese Nils Petter Molvaer, grande esponente della più recente contaminazione fra jazz ed elettronica: Molvaer (foto a lato) presenta il suo nuovo lavoro discografico Baboon Moon, affiancato da Stian Westerhus alla chitarra ed Erland Dahlen alla batteria. L’8 dicembre (Casa della Musica) Roberto Bonati, con il suo Ensemble, propone Roses
and Blue Arghawan. Il 9 dicembre (di nuovo alla Casa della Musica) è la volta di Gianluigi Trovesi con Vaghissimo ritratto, un progetto in cui Trovesi ai
clarinetti, Umberto Petrin al piano e Fulvio Maras alle percussioni e agli electronics, presentano un percorso all’insegna della musica europea dal Rinascimento all’Ottocento, dalla musica popolare agli originali composti dagli stessi musicisti. Il 12 dicembre (Casa della Musica) è la volta delle nuove proposte con i Pericopes, duo uscito dalle aule della classe jazz del Conservatorio
“Arrigo Boito” di Parma: Emiliano Vernizzi (sassofoni) e Alessandro Sgobbio
(piano) propongono il loro The Double Side fresco di stampa. Il 15 dicembre
(Casa della Musica) tocca a Voci dalla collina, progetto Spoon River Ruvido Insieme diretto da Roberto Bonati. Il Festival chiude a Palazzo Sanvitale il 16 dicembre con la tradizionale Una Stanza per Caterina, appuntamento con la musica e la memoria: sul palco della Sala delle Feste (sede di Banca Monte Parma) tornano la violoncellista Anja Lechner e il pianista François Couturier con
Impressions intimes, un programma che impagina musiche di Georges I. Gurdjieff, Frederic Mompou, Couturier e Anouar Brahem.
Info: ParmaFrontiere associazione culturale - tel. 0521.633728 - tel/fax 0521.238158
[email protected] - www.parmafrontiere.it
GLI ALBUM POP DELL’ANNO
Il cantautore americano Bobby Womack si è aggiudicato il riconoscimento della rivista britannica Q per il miglior album del
2012 con The Bravest Man In The Universe; l’album vede la collaborazione di Damon Albarn e Richard Russell in veste di
produttori ed è stato pubblicato dall’etichetta XL Recordings. La rivista Mojo lo ha giudicato “il suo miglior album dai tempi
di The Poet” (1981), mentre Q ha scritto del suo ritorno “nello stile più spettacolare” e Sunday Times lo ha definito
semplicemente “trionfante”. Dal mese di novembre Bobby Womack promuove il suo nuovo lavoro con un tour europeo che
parte da Londra. Invece sul versante del britannico Mercury Prize per il miglior album dell’anno, il riconoscimento della
discografia d’Oltremanica (vinto lo scorso anno da PJ Harvey con Let England Shake) è andato alla band rock di Leeds Alt-J
per il loro album An Awesome Wave.
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Scott Walker
Bish Bosch
(4AD/SELF)
La pubblicazione di un nuovo album di Scott Walker è sempre un avvenimento, e non solo perché avviene con tempi lunghi,
insoliti nella discografia di qualsiasi altro musicista. Tutto il suo percorso artistico è originale, stimolante, controcorrente. Dalle vette delle classifiche pop negli anni Sessanta, attraverso l’innamoramento per Jacques Brel e il definitivo ritiro dalle scene
che lo ha tenuto lontano dai riflettori, Scott Walker è via via diventato uno di quei “musicisti per musicisti”, molto più influenti di quanto il pubblico non osi sospettare. Bish Bosch, che fa seguito al precedente The Drift,
non si discosta dai lavori più “recenti” di Walker, con la sua cupezza, i suoi scarti dinamici, la sua
claustrofobica qualità sonora, la sua programmatica oscurità. Bish Bosch segue quindi un percorso
iniziato nel 1978, con il canto del cigno dei celeberrimi Walker Brothers, Nite Flights, e continuato
con Climate of Hunter (1984), Tilt (1995), The Drift (2006), distante da quanto aveva fatto di Walker una stella del pop e perseguendo uno stile più autentico, siderale e senza compromessi, in
compagnia del co-produttore Peter Walsh e dei suoi più fidati musicisti: Ian Thomas (batteria),
Hugh Burns e James Stevenson (chitarre), Alasdair Malloy (percussioni) e John Giblin (basso). Il
direttore musicale Mark Warman conduce l’orchestra e si occupa delle tastiere, che insieme a tromba e pedal steel guitar arricchiscono la tessitura timbrica quando nei silenzi sospesi e sullo sfondo
di un buio profondo si aprono varchi sonori improvvisi e potentissimi. (C.C.)
G.Knox/A.Vesterman/S.Lemêtre
Saltarello
(ECM)
Nell'album D'amore del 2008 il violista Garth Knox - in compagnia della violoncellista francese
Agnès Vesterman - compiva un'esplorazione delle possibilità timbriche ed espressive della viola d'amore, strumento a quattordici corde (sette melodiche e sette di risonanza) in auge nel XVII e nel
XVIII secolo. D'amore offriva un repertorio che partiva dalla musica rinascimentale arrivando ai
giorni nostri. I due tornano ora, con le percussioni di Sylvain Lemêtre, in un nuovo, straordinario
lavoro che, a dispetto del titolo, non è incentrato esclusivamente sulla tradizione musicale medievale ma spazia tra passato remoto, presente continuo e futuro prossimo. Nelle intenzioni del violista quest’album è “una struttura mobile di 'istantanee' musicali estrapolate da circa mille anni di
storia della musica”. Niente di più vero: accanto a Dowland (“Flow my Tears”), Purcell (“Music For A
While”), Vivaldi (“Concerto per viola d'amore in Re minore”) e al tradizionale irlandese “Black Brittany” (già ripreso e adattato da Berio) troviamo le plumbee e raschianti tensioni irrisolte di Kaija
Saariaho (“Vent Nocturne - Sombre miroirs” e “Vent Nocturne - Suopirs de l'obscur”, entrambe per
viola e suoni - incluso il respiro del violista - trattati elettronicamente). Dodici composizioni eseguite in modo eccellente,con
rispetto e creatività, disposte nell'album con un'ordine “estetico e non meramente cronologico, affinché la contiguità suggerisca similitudine e differenze tra i vari brani”. (M.Pr.)
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MUSICISTI
RICORRENZE PROG
1972-2012
I PRIMI 40 ANNI DI BANCO E PFM
Novembre 2012: la classifica dei dischi più venduti e dei brani più scaricati (a pagamento) redatta da F.I.M.I., Federazione Industria Musicale Italiana, è popolata da artisti come Franco Battiato, Giovanni Allevi, Tiziano Ferro, Pooh,
Stadio, Irene Grandi & Stefano Bollani, Biagio Antonacci,
Cesare Cremonini. Come a dire: questa è l'Italia, terra del bel
canto, della tradizione melodica, della musica di sottofondo, dell'entertainment sonoro remissivo e omologato? Sì. E
il fatto che nella top ten di F.I.M.I. ci siano un paio di stranieri innocui e tutt'altro che sagaci come Muse e Adele non
è che la conferma di come, nel nostro paese, abbia vinto la
filosofia del “se puoi fischiettarlo sotto la doccia, allora funziona”. Il fronte dissidente del pop nazionale, tuttavia, pur
entrando di quando in quando in classifica, non è morto e
annovera artisti – più poeti che musicisti – come Caparezza, Frankie Hi-NRG, J-Ax e Club Dogo, giusto per citarne alcuni, mentre resistono con strenua dedizione Subsonica, Afterhours, Verdena, Teatro degli Orrori e aleggiano nell'aria
Vasco Rossi e Luciano Ligabue. Il quadro generale mostra un
dato evidente: il mercato italiano vuole la forma canzone.
Eppure non è sempre stato così: c'è stato un momento della nostra storia in cui il marasma indistinto di canzonette
da mangiadischi Geloso fu sconquassato da chi voleva cambiare, rompere con il passato, alzare il tono e il suono, rendere l'aria elettrica. Facciamo un salto indietro nel tempo.
Quarant'anni fa, 1972. Tra gli artisti di maggior successo c'erano già all'epoca gli immarcescibili Pooh e, accanto a loro,
tanti cantanti dai buoni sentimenti come Claudio Baglioni,
Massimo Ranieri e Loretta Goggi. Al contempo spopolavano
– e stravendevano – gli stranieri che facevano hard rock (Led
Zeppelin, Deep Purple), afro e soul (Osibisa, Isaac Hayes),
rock sinfonico detto anche progressive rock (Yes, Jethro Tull,
Emerson Lake & Palmer, King Crimson, Genesis – inseriamo
un po' a forza in questa categoria anche i Pink Floyd). In
quegli anni effervescenti nel nostro paese si costituirono
gruppi musicali che – intercettando le tendenze con congruo anticipo – puntarono e colpirono un pubblico straordinariamente vasto. Nel 1972 debuttarono con un primo disco – seguito a pochi mesi di distanza, nello stesso anno,
da un secondo disco – la Premiata Forneria Marconi (da Milano) e il Banco del Mutuo Soccorso (da Roma). I primi pubblicarono Storia di un minuto e Per un amico, i secondi Banco del Mutuo Soccorso e Darwin. Lo stile delle due formazioni non era paragonabile ma entrambe avevano degli elementi basilari in comune: squisita competenza tecnica, esuberanza creativa, energia adolescenziale, tenacia irriducibile, gusto
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peculiare per la denominazione (della band) strampalata e voglia di conquistare – musicalmente parlando – il mondo.
Per celebrare il quarantennale degli album sopra citati Sony
Music ha pubblicato due appetitosi cofanetti, Banco del Mutuo Soccorso 40 anni e PFM Celebration 1972-2012. Il primo
contiene, oltre al disco di debutto della formazione romana e
ad alcuni brani live del 2012, anche lo loro prima – e sino a
oggi inedita – opera rock dedicata a San Francesco d'Assisi.
Il secondo contiene Storia di un minuto, Per un amico e una
selezione di esecuzioni live realizzate tra il 1985 e il 2010.
BANCO DEL MUTUO SOCCORSO – 40 ANNI
Il cofanetto Banco del Mutuo Soccorso – 40 anni contiene
due cd (l’album Banco del Mutuo Soccorso, tre brani dall’opera rock Francesco d’Assisi e altri tre pezzi registrati dal vivo a Roma il 28 aprile 2012) e un bel libretto con la storia
del Banco, corredata da numerose fotografie (molte inedite). Un oggetto di pregio – per appassionati e neofiti – di
cui abbiamo parlato direttamente con Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi.
Vittorio Nocenzi e Francesco Di Giacomo: chiudete gli occhi e
tornate indietro nel tempo. Siamo nel 1972...
Francesco Di Giacomo - 1972: inverno, autostrada RomaMilano. Viaggiamo a bordo di un furgone Mercedes quasi dismesso acquistato qualche giorno prima. Tre persone sedute
sui sedili anteriori e tre persone sui sedili posteriori, con gli
strumenti addosso. Stiamo andando a registrare un provino
per la Ricordi. Quando arriviamo Milano è sepolta dalla neve. Siamo intirizziti.
Com'era la sala d'incisione della Ricordi?
Francesco Di Giacomo - Macché sala d'incisione, era un cinema parrocchiale che nei giorni feriali veniva usato per far
suonare i gruppi. Comunque eravamo lì, montammo la nostra roba e suonammo tre brani. Il direttore artistico Gianni Saint Just fece un gesto come a dire “Basta così!” e io
dissi sconsolato: “Vabbe' raga', 'amo sonato in una maniera
scandalosa, se ne tornamo a casa”.
E invece?
Francesco Di Giacomo - E invece Saint Just ci invitò a pranzo, dicendoci che avremmo firmato il contratto.
Peché pensavate di aver suonato al di sotto delle vostre possibilità?
Vittorio Nocenzi - Eravamo in un posto sconosciuto, affa-
ticati e infreddoliti. Il Banco era agli inizi, suonavamo insieme da meno di un anno e non c'era ancora un vero affiatamento tra noi. Se fosse successo oggi – o vent’anni fa –
sarebbe stato completamente diverso.
Francesco Di Giacomo - Vittorio e Gianni avevano le mani
irrigidite. A me sembrava di aver lasciato la voce a Roma. E
poi 'sto freddo insostenibile, avevo una sciarpa legata tutto
intorno alla testa come l'ultimo dei poveretti.
Vittorio Nocenzi - Quel provino, per noi, era una verifica,
un esame. Nel 1972 la registrazione era una prerogativa esclusiva della discografia: oggi puoi incidere il tuo demo a casa,
nel 1972 incidevi solo se avevi un contratto con una casa
discografica.
Un elemento peculiare del Banco, sin dall'album di esordio, è
stata la componente ritmica. Il compositore Aaron Copeland
scrisse, nel saggio divulgativo What to Listen For in Music,
che in epoche remote la musica iniziò con il battito di un ritmo. Che ne pensate?
Vittorio Nocenzi - Hai citato uno dei maggiori compositori
del Novecento e, personalmente, uno dei miei preferiti. Sì,
per il Banco è proprio così. Il ritmo è basilare. Quando Francesco e io studiamo un nuovo pezzo poniamo grande attenzione sugli accenti ritmici della melodia, non pensiamo soltanto alla struttura della linea melodica. Le note sono una
strada ma la scansione vitale che ti fa percorrere quella strada è il ritmo.
Parliamo del cofanetto Banco del Mutuo Soccorso – 40 anni
e del suo contenuto…
Vittorio Nocenzi - Il nostro primo disco, il cosiddetto “salvadanaio”, ri-registrato a partire da una fonte analogica. Non
intendo i nastri originali – che non ci sono più – ma un vinile intonso, stampato all'epoca e rilavorato, masterizzando
interamente in digitale. In aggiunta ci sono tre canzoni registrate dal vivo. E poi ci sono circa venti minuti di registrazioni inedite, ovvero tre brani estrapolati dall'opera rock
dedicata alla vita di San Francesco d'Assisi che noi scrivemmo proprio tra il 1972 e il 1973. Si tratta di incisioni recenti (maggio 2012) perché, anche in questo caso, i nastri originali sono andati perduti. Abbiamo cercato di ricreare l'atmosfera di quarant'anni fa, ci siamo calati nella stessa condizione di attesa e stupore che ti fa pensare: chissà come
verrà questo nuovo lavoro.
Vittorio Nocenzi - Il regista Vincenzo Gamna stava lavorando all'idea di un'opera rock basata sulla vita di Francesco
d'Assisi e ci sottopose il testo da cui noi avremmo tratto spunti per scrivere le canzoni. Francesco d’Assisi è il simbolo dell'utopia: un eretico che diventa santo patrono, quasi per caso. Un uomo coraggioso che sfida il potere, un innovatore forte soltanto della propria umiltà e del proprio carisma. Purtroppo vennero a mancare i fondi per completare il lavoro e
così il progetto di Gamna non andò in porto.
1972: come ve lo ricordate?
Vittorio Nocenzi - Mi piace la tua idea di farci viaggiare nel
tempo con flashback di sincera auto-identificazione. I primi
anni Settanta furono caratterizzati da un formidabile movimento giovanile su scala mondiale. C'erano il bisogno e la volontà di pensare che ogni cosa poteva cambiare.
Il Banco aveva dei manager o dovevate pensare anche agli
aspetti gestionali oltre che a quelli artistici?
Francesco Di Giacomo - Noi avevamo dei manager ed erano
pure nomi di un certo rilievo nell'ambito della musica rock.
Ma, da un certo punto in poi, cominciammo a mettere il becco dappertutto: essere condotti sì, ma teleguidati no.
Vittorio Nocenzi - Abbiamo sempre rivendicato l'autonomia
artistica. Le questioni manageriali le abbiamo affrontate solo diventando, per così dire, adulti. E non è stato bello diventare adulti. Inizialmente volevamo fare soltanto gli artisti: studiare, scrivere e suonare dalla mattina alla sera. Così
ci affidammo totalmente a un manager e, in poco tempo, ci
ritrovammo ad essere gli ostaggi delle banche, con debiti e
interessi alle stelle (si parla di un costo del denaro pari al
32%). Ci vollero cinque anni per onorare quei debiti e, in seguito, l'esperienza ci portò a interessarci anche dei famigerati aspetti gestionali, ma che sofferenza! Francesco Di Giacomo - A volte i musicisti scelgono come manager un amico che la pensa più o meno come loro, cioè che parla la stessa lingua. Il problema vero è che un manager è e deve essere, o diventare, un manager. A quel punto l'amicizia non esiste più: c'è solo la logica del profitto.
Quando nacque il Banco tu, Vittorio, cercavi un cantante bello e conturbante, alla Robert Plant…
Vittorio Nocenzi - Sì, io volevo un frontman attraente: hai
presente Billy Bis, il personaggio a fumetti creato da Antonio Mancuso e Loredano Ugolini per la casa editrice Universo? Ecco, volevo uno così.
Francesco Di Giacomo - Quando mi presentai sentii su di me
gli sguardi perplessi. Poi mi misero alla prova: dovetti cantare “Heaven in Their Minds” da Jesus Christ Superstar. Superai l'esame e iniziò l'avventura.
E cosa ha significato per te essere il cantante del Banco?
Francesco Di Giacomo - Ha significato molto. La voce è uno
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MUSICISTI
strumento che hai dentro e che, nelle canzoni, arriva per ultimo in ordine di tempo. La voce deve essere consonante con
gli accordi ma, quando canto, non so cosa si aspettano i musicisti. Porgo la mia voce. Io canto in base alla mia sensibilità. Sono un autodidatta.
Vittorio Nocenzi - Forse se tu avessi studiato ti saresti stancato di meno perché avresti adoperato di più il diaframma.
Avresti avuto la vita più comoda ma sono convinto che saresti rimasto lo stesso, il tuo istinto potente non sarebbe
evaporato. La tecnica non frena la spontaneità: più la padroneggi, più sarai libero di usare l'istinto. Sono convinto
che la tecnica debba necessariamente essere di altissimo livello affinché l'istinto sia libero. Francesco è musicalmente
un miracolo, unico e irripetibile. Cantare è una fatica tremenda, soprattutto in un concerto rock. Le prove sono una
sofferenza enorme - con il batterista che pesta come un ossesso e il chitarrista che continua ad alzare il volume dell’ampli – che viene ripagata in concerto, dove il cantante è
l'elemento che ha maggiore visibilità. Quindi gli oneri sono
ampiamente ricompensati.
Concerti e musica dal vivo: cos'è cambiato dal 1972 a oggi?
Francesco Di Giacomo - Per me non è cambiato assolutamente nulla: la musica è la cosa più importante. Ma la musica oggi è spesso il corollario di uno spettacolo fantasmagorico, basti pensare a San Remo.
Vittorio Nocenzi - Anche negli anni Settanta esisteva il concetto di spettacolo ma si trattava, almeno per noi, principalmente di performance musicale e questa necessità la sentivamo profondamente. Abbiamo sempre creduto nell'utopia
dell'arte totale. E la gente, in quegli anni, voleva l'arte totale. L'ascoltatore aveva un ruolo attivo. Oggi come allora,
fare musica vuol dire suonare, sì, e al contempo significa
pensare alla poesia, al gesto, alla luce, al desiderio di proiettare il suono nello spazio. Un tempo anche le copertine dei
dischi erano importantissime, perché non si trattava soltanto di una bella confezione ma del prolungamento visivo del
contenuto di un album, testi e canzoni. Nella testa di Peter
Gabriel o di Roger Waters dei Pink Floyd c'era proprio questo e non la semplice spettacolarizzazione che abbaglia con
gli effetti speciali. Uno degli spettacoli che ci rimase più impresso, e che ancora portiamo nel cuore, fu la messa in scena di Riccardo III curato da Carmelo Bene: lui indossava un
costume rinascimentale e se ne stava seduto, in un silenzio
immobile. Un altro “lui”, accanto, recitava… Si fa per dire:
era un sosia che muoveva la bocca mentre un nastro, con la
voce di Carmelo Bene, diffondeva la registrazione. Una finzione straordinaria.
Qual è la tua strumentazione sul palco oggi, Vittorio?
Vittorio Nocenzi - Da parecchio tempo ho scelto di rinunciare a master keyboard splittate e iper-programmate. Preferisco eseguire la mia musica dal vivo senza concessioni alla tecnologia: sei pedali del volume per sei strumenti e una
tastiera master. I sei strumenti sono: pianoforte acustico e
Fender (AK S20 Roland analogico), organo Hammond (U 220
Roland), archi (U 220 Roland), brass (U 220 Roland), pad U
220 Roland e un Minimoog del 1972. L'esecuzione prevede
la scelta degli strumenti da mixare in tempo reale durante
la performance attraverso i sei pedali del volume. La master
è la migliore: 88 tasti pesata prodotta dalla FATAR di Ancona che, oltre ai propri strumenti, costruisce da sempre tastiere per tutte le grandi marche nipponiche e americane.
Cosa significa per voi scrivere musica nel 2012?
Francesco Di Giacomo - Assecondare un impeto, guardarsi
dentro e capire cosa c'è fuori, per arrivare a dire “ecco, ho
trovato”.
Vittorio Nocenzi - È come respirare. Se sei un compositore
componi sempre, ogni giorno, tutta la vita. Sono sempre stato affascinato dalla sapienza dei mestieri, da quella saggezza che raggiungi “facendo”. L'ispirazione non arriva dal nulla, ma la incontri mentre segui la tua strada. E questa è sempre la cosa più importante.
PFM – Celebration 1972-2012
Un vecchio articolo pubblicato nel 1972 sulle pagine del
magazine Ciao 2001 – che visse tra il 1968 e il 1994 – iniziava così: “La Premiata Forneria Marconi si è presentata
ufficialmente al pubblico italiano lo scorso anno, interpretando il ruolo del gruppo di spalla nei concerti dei Procol Harum, dei Deep Purple, degli Yes. Da quella gavetta di
lusso i cinque ragazzi milanesi sono arrivati a guidare la
classifica italiana dei 33 giri (...)”. Non è elegante e nemmeno rispettoso parlare di “gavetta di lusso”, ma presumiamo che l'obiettivo del giornalista fosse quello di dimostrare a chi leggeva che i musicisti italiani erano all'altezza dei colleghi stranieri. In effetti la gavetta – e non sempre “di lusso” – c'era stata. La Premiata Forneria Marconi
– o PFM – nacque dalle ceneri dei Quelli, gruppo beat che
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INSOUND
proponeva canzoni come “Una bambolina che fa no no no”,
e altri con il testo tradotto in italiano (“Happy Together” dei
Turtles, che diventò “Per vivere insieme”).
La formazione originaria comprendeva Franco Mussida alla
chitarra, Franz Di Cioccio alla batteria, Giorgio Piazza al basso, Pino Favaloro alla chitarra e Teo Teocoli alla voce. La fuoriuscita di questi ultimi vide l'ingresso del 17enne tastierista Flavio Premoli. Il quartetto continuò la propria carriera
e, parallelamente, prestò le proprie competenze in sala d'incisione ad autori come Lucio Battisti e Fabrizio De André.
L'arrivo di Mauro Pagani (violino e flauto traverso) coincise
con un cambio radicale: dal beat al progressive rock. Non si
trattò di un cambiamento indolore, almeno agli inizi. Ma anche il pubblico stava andando in quella direzione, aprendosi alle nuove evoluzioni del rock e così, come ha recentemente affermato Mauro Pagani, “Eravamo al posto giusto nel
momento giusto. I gusti del pubblico, pure in Italia, stavano cambiando. Esattamente come erano cambiate le nostre
prerogative”.
Il cofanetto PFM – Celebration 1972-2012 ripropone oggi i
primi due dischi del gruppo rimasterizzati in modo eccellente da Paolo Iafelice/Adesiva Discografica, nonché una consistente selezione di pezzi registrati dal vivo – tra il 1985 e
il 2010 – sempre provenienti da quei due album.
Riascoltare la PFM del 1972 permette di constatare, ancora
una volta, quanto il quintetto fosse perfettamente equilibrato e capace di mettere in relazione – con grande intelligenza musicale – il rock, la canzone, la musica popolare e
qualche sapore jazz. Ogni canzone ha una sua ragion d’essere, senza momenti interlocutori, sin dalla “Introduzione” che,
in poco più di un minuto, fa emergere sia il volto romantico
che quello viscerale del gruppo. “Impressioni di settembre”
ottenne un grande successo diventando uno dei cavalli di
battaglia della band, “nonostante” il testo di Mogol (“Quante gocce di rugiada intorno a me/cerco il sole, ma non c'è/Dorme ancora la campagna, forse no/è sveglia, mi guarda, non
so”…). Ma negli anni Settanta i testi non erano certo il punto di forza del gruppo e, soprattutto in questi primi dischi,
non andavano molto oltre la bella poesia pre-adolescenziale, anche se nell'edizione originale del disco erano riportate
riflessioni – aggiuntive rispetto ai testi – che, nelle parole
di Mussida: “Erano pensieri. Ovvero il mondo di un diciottenne che cerca di orientarsi nella vita di tutti i giorni, ponendosi delle domande. Che non sono soltanto quelle sull'amore tra uomo e donna, ma domande profonde, esistenziali”. Si può essere d'accordo oppure no, ma la musica, invece,
era inattaccabile. Un altro esempio che ha fatto storia si intitola “È festa” (“Celebration” nella versione in lingua inglese) e a proposito di questa canzone Franz Di Cioccio dice: “La nostra scommessa fu innestare un tempo rock alla
Deep Purple su una tarantella. Lo dico da abruzzese: la musica della mia terra è il saltarello. Quel modo di portare il ritmo è nel mio DNA musicale”.
Esempio di orchestrazione raffinata e solida allo stesso tempo è invece “Grazie davvero”. Secondo Flavio Premoli, arrangiatore del brano “La musica prog di solito si esaurisce in un
quintetto. Mi tentava l'idea di una incursione nel classico, la
dimensione in cui mi ero formato, classico inteso non come
scrittura ma come arrangiamento”.
L'album Per un amico è la perfetta continuazione del precedente: meno vario e più compatto, servì da trampolino di
lancio per la lunga “gita anglo-americana”, ovvero per il tentativo – in parte riuscito – di affermare la propria musica
fuori dagli angusti confini nazionali.
Il terzo cd contiene infine una dozzina di brani registrati live nell'arco di 25 anni. Notevoli le versioni di “Mr. 9 Till 5
(Generale)”, con Premoli in forma strepitosa, e l'epica “La
carrozza di Hans”. Purtroppo “Impressioni di settembre”, presa dal lontano 1985, risente degli orrendi suoni sintetici tanto in auge in quel decennio. Uno scempio a cui pongono rimedio le ottime versioni di “Dove...Quando...” e “Il banchetto”. (Maurizio Principato)
The Parlotones
Journey Through The Shadows
(EAR MUSIC/SELF)
Journey Through The Shadows è il quarto album in studio della più nota band sudafricana, a due anni dal precedente Stardust
Galaxies, doppio disco di platino che li ha imposti anche nel nostro continente. Il nuovo album contiene dodici brani originali
di pop-rock melodico mai sdolcinato, fresco, a suo modo originale e sempre positivo. Nelle loro
stesse parole “Journey Through The Shadows è una metafora della condizione umana. Nessuno di
noi alla nascita riceve una mappa che indichi quale sia il percorso più confortevole. Alla fine è
come se tutti camminassimo con in mano una candela che ci permette di vedere solo davanti a
noi stessi. Non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo.” Potenzialmente sulla strada delle maggiori
rock band del pianeta (suonano nel loro Paese davanti a oltre diecimila spettatori e hanno aperto
i campionati del mondo africani come anche le date dei Coldplay), i Parlotones non fanno mistero
della loro ricerca di affermazione, sia con la rotonda levigatezza del proprio sound, sia con l’avvolgente costruzione di liriche ballate da spiaggia, sia con l’esplicita programmaticità di titoli
quali “I Am Alive” e “We Just Want To Be Loved”, che risvegliano dal torpore della più banale musica pop con stratagemmi triti ma irresistibili. (C.C.)
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“ZENZI” DAL VIVO
IN CONCERTO L’“OMAGGIO A MIRIAM MAKEBA”
DEL DINO RUBINO TRIO
Dino Rubino, musicista catanese oggi
poco più che trentenne, dopo aver
assistito a un concerto di Tom Harrell
nel 1994 decide di abbandonare il piano
e intraprendere lo studio della tromba e
del jazz. Nel 2001, dopo un periodo di
crisi, decide di lasciare la tromba e
ricominciare lo studio del pianoforte. Ma
nel 2007 riprende a suonare la tromba e
nel 2008 incide un disco con Francesco
Cafiso in veste di trombettista, entrando a far parte del suo
gruppo come pianista. Vi gira la testa? Non finisce qui: lo
stesso anno Rubino registra il primo disco da leader per
l'etichetta giapponese Venus, quindi si diploma in pianoforte
e inizia la specializzazione in Jazz presso il Consevatorio “A.
Corelli” di Messina. Registra un secondo disco con l'Island
Blue Quartet di Francesco Cafiso e poi con il New Quintet di
Giovanni Mazzarino; nel 2010 registra con il 4OUT di Cafiso
e come componente del duo RubinoCafiso. Siamo al febbraio del 2011
quando Rubino registra in trio con Dalla
Porta e Bagnoli Zenzi, album dedicato a
Miriam Makeba e prodotto da Paolo
Fresu per la Tuk Music. “Non è stato un
lavoro ‘di testa’: più cose andavo
scoprendo di Miriam Makeba, più la
sentivo mia”, ha dichiarato Rubino.
Ora quel lavoro prende la strada del live
con Dino Rubino insieme ai due compagni d’avventura
Paolino Dalla Porta (contrabbasso) e Stefano Bagnoli
(batteria): le prime date sono il 12 novembre all’Art Blakey
Jazz Club di Busto Arsizio, il 15 novembre al Padova Jazz
Festival, il 4 dicembre alle Cantine Arena di Verona, il 5
dicembre al Panic Jazz Club di Marostica, il 21 dicembre al
Fano Jazz Club.
Info: www.dinorubino.com - tukmusic.paolofresu.it
David Weinberger
La stanza intelligente
(PP. 280 EURO 22,90 - CODICE EDIZIONI)
“La conoscenza come proprietà della rete”, questo il sottotitolo del lavoro che il tecnologo della
comunicazione David Weinberger (New York, 1950) ha pubblicato lo scorso anno in edizione
originale col titolo Too Big to Know: Rethinking Knowledge Now That the Facts Aren't the Facts,
Experts Are Everywhere, and the Smartest Person in the Room Is the Room ed è ora tradotto da
Codice Edizioni di Torino come La stanza intelligente. Il sapere, la conoscenza, sono oggi per la
prima volta nell’epoca di Internet alla nostra portata in modo pressoché illimitato. Nella stanza in
cui ci troviamo, discutiamo, pensiamo – cioè Internet – dove le fonti sono molteplici ma non
sono certe e nessuno è mai d’accordo su nulla, circola molta più conoscenza di quanto sia mai
stato possibile immaginare, una conoscenza gestita e organizzata con capacità superiori a
quelle delle nostre singole menti e delle singole istituzioni. Internet, afferma Weinberger, non
ci rende più stupidi per questo; al contrario, questa enorme fonte di conoscenza sempre a
disposizione ci consente di prendere decisioni migliori di quelle di un qualunque esperto.
Nelle parole dell’autore: “La conoscenza in rete è meno certa ma più umana. Meno definita
ma più trasparente. Meno logica ma molto più ricca. Ogni blogger è un’emittente. Ogni
lettore è un redattore”. Il testo raccoglie e organizza le molteplici impressioni che ogni utente di
Internet vive ogni giorno nella propria esperienza con sorpresa, fastidio, frustrazione, sconcerto, sospetto,
organizzandole in un discorso che non risolve le molte contraddizioni della Rete, ma ne evidenzia la specificità e l’enorme
utilità. Nella stanza intelligente non esistono gerarchie né certezze, ma più risposte di quante l’essere più intelligente sul
pianeta potrebbe essere in grado di fornire. (C.C.)
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MUSICISTI
SPAZIOMUSICA
“SUONI DELLE DIVERSITÀ”
A CAGLIARI DAL 25 OTTOBRE AL 15 DICEMBRE
“Suoni delle diversità” è il titolo dell'edizione numero 31 che
il festival Spaziomusica regala quest’anno al pubblico cagliaritano della musica contemporanea. Lo storico appuntamento
autunnale con Spaziomusica, che ha avuto inizio nel 1982 per
impulso del compositore nuorese Franco Oppo, per le dieci serate di quest’anno ha scelto come tema “le risonanze sonore
nelle loro varie modalità - acustiche, elettroniche, vocali, strumentali – e nei loro possibili incroci”. I concerti, tutti a ingresso gratuito, sono ospitati al Ghetto di Cagliari, il centro
d'arte e cultura di via Santa Croce, nel quartiere di Castello.
Giovedì 25 ottobre alle 21, il New MADE (New Music And Drama Ensemble), formazione attiva nel campo della musica e del
teatro musicale contemporanei propone brani di John Cage,
Alessandro Solbiati, Cesare Saldicco, Morton Feldman, Giorgio
Colombo Taccani, Giacomo Manzoni, Cathy Berberian, Luciano Berio,
Henry Cowell, Emanuela Ballio, Rossella Spinosa, Charles Ives, Roberta Silvestrini e Maurizio Ferrari, nell’interpretazione del soprano Akiko
Kozato, del clarinettista Gaetano
Nenna, del violinista Raffaello Negri, dei pianisti Alessandro Calcagnile e Rossella Spinosa (foto in
basso).
Due diversi pianisti sono in scena
venerdì 26 ottobre: la lussemburghese Cathy Krier (musiche di Claude Lenners, Elio Martusciello, Luigi Ceccarelli, Arthur Stammet) e il
cagliaritano Fabrizio Casti. Domenica 28 è invece il turno della giapponese Aki Kuroda, che esegue composizioni di Yuji Takahashi, Yoichi Sugiyama, Alexander Scriabin, Sylvano Bussotti e Gabrio Taglietti.
Lunedì 29 ottobre alle 18, nell'auditorium del Conservatorio,
per “A Manuel”, appuntamento musicale in memoria di Emanuele Bellinato, oboista e docente scomparso quattro anni fa,
sono in scena allievi e colleghi del musicista veneto riuniti in
vari organici per interpretare pagine di Mozart, Schumann,
Gordon Jacob, Jean Françaix e Luigi Lai in un concerto organizzato in collaborazione con il Conservatorio "G.P. da Palestrina".
Al Ghetto il Quartetto d'Archi di Cagliari formato da Attilio
Motzo e Corrado Lepore ai violini, Dimitri Mattu alla viola e
Oscar Pistrelloni al violoncello, propone uno dei brani più popolari di Steve Reich, “Different trains”, e “Sette variazioni sul
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cielo”, composizione di Fabrizio Casti con i video di Marcello
Cualbu e Michele Casanova, e la regia del suono di Marcellino
Garau.
Martedì 30 è dedicato alla proiezione dei video vincitori dell'International Competition for CyberArts 2011, la competizione annuale che si tiene a Linz (Austria) dedicata ad arti
multimediali e nuovi media.
Al Ghetto, mercoledì 31, il Modular Ensemble di Marco Caredda, Francesco Ciminiello, Roberto Migoni e Roberto Pellegrini, organico di soli strumenti a percussione alle prese con pezzi di John Cage e David Lang.
Venerdì 2 novembre i francesi Olivier Dumont (chitarre preparate) e Nicolas Thirion (computer, impro/noise) eseguono
il loro Death in Death Valley, progetto ai confini fra improvvisazione free, musica elettroacustica e noise.
Ancora il pianoforte sabato 3 novembre, quello della bulgara Nadejda Tzanova (classe 1986) con un
programma di autori dell'est che va
da Mussorgsky a Schostakovic, da
Schnittke a Kazandjiev.
Il corpo principale del Festival si
chiude con l’attore Senio G.B. Dattena, il percussionista Alessandro
Cau, le musiche e le elaborazioni
elettroniche dal vivo di Daniele Ledda, la scultura di Mariano Corda: sono questi i protagonisti di Orlando… Brandelli Di Fughe Follie Nitriti E Clopete Clopete, performance
tratta dall'Orlando furioso di Ariosto, domenica 4 novembre.
E siamo all'ultimo atto: sabato 15, sempre al Ghetto, il Coro
dell'Università di Sassari e la Piccola Orchestra d'Archi diretti
da Daniele Manca eseguono Te Deum, lavoro a più mani improntato alle note e al testo dell'inno gregoriano “Veni Creator Spiritus” e commissionato dall'associazione “Coro dell'Università degli Studi di Sassari” a quattro compositori sassaresi: Stefano Garau, Davide Soddu, Gabriele Verdinelli oltre allo stesso Daniele Manca.
Associazione Spaziomusica
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Società soggetta a controllo di EKO Music Group SpA
MUSICISTI
REWIND
50 ANNI DI FENDER IN ITALIA
DAL 16 NOVEMBRE AL MUSEO DELLA MUSICA DI BOLOGNA
Torna dal 16 novembre 2012 al 3 febbraio 2013 presso il Museo della Musica di Bologna
“Rewind”, mostra a cura di Luca Beatrice sui 50 anni di Fender in Italia. Il progetto è
promosso da Casale Bauer, distributore italiano di Fender, in collaborazione con il Museo Internazionale e la Biblioteca della Musica di Bologna.
Tre anni fa il Museo della Musica di Bologna ospitò “Love Me Fender”, mostra-omaggio al
mito di questa fantastica chitarra attraverso le opere di diversi artisti contemporanei chiamati a dialogare con la musica rock. Oggi prende il via la seconda tappa di questo viaggio attraverso suoni e immagini: “Rewind. 50 anni di Fender in Italia” offre uno sguardo
retrospettivo, come riavvolgendo il nastro del tempo, attraverso tre diverse chiavi di lettura: cuore dell'allestimento saranno le Fender customizzate e reinterpretate da ventuno
artisti italiani e internazionali chiamati a rileggere il mito attraverso stili e linguaggi molto diversi, dalla pittura figurativa all’arte concettuale, dall’oggetto all’installazione, dalla street painting alla sound art. Nelle sale storiche del Museo della Musica queste inedite Fender d’autore “dialogheranno” con gli elementi visivi e scenografici di una microstoria della musica italiana, a partire dall’inizio degli anni ’60 fino a oggi: il Rock del primo Adriano Celentano e dei seguaci
di Elvis (Bobby Solo, Little Tony), quello contemporaneo di Vasco e Ligabue, dei Litfiba e degli Afterhours, ma anche il rock
che incontra il pop e le “voci” dei grandi interpreti italiani, da Gianni Morandi a Tiziano Ferro, da Mina a Laura Pausini; e poi
una serie di fenomeni più alternativi, il Beat (dal Piper alla contestazione del ’68), la psichedelia e il pop sinfonico (gli Area
e i Pooh) l’indie rock, fino alla canzone d’autore (Paoli, Tenco, Lauzi, Bindi, Gaber, Guccini, Dalla), senza dimenticare culture come la dance, l’electropop, il rap e l’hip-hop.
La storia degli ultimi cinquanta anni sarà infine ripercorsa attraverso la fotografia, con una serie di scatti di Guido Harari,
Efrem Raimondi, Caterina Farassino e Paolo Proserpio, per disegnare un percorso che parte dal 1962, quando avvenne il debutto di Fender in Italia.
Preview di Rewind su Facebook | su Pinterest | su casalebauer.com
Info: museomusicabologna.it
Mary Gauthier
Live at Blue Rock
(PROPER RECORDS)
Il country è un universo musicale particolarmente vasto e articolato, al cui interno trovano spazio artisti che, contrariamente
ai più triti luoghi comuni, cantano vicende tragiche, angoscianti, spesso biografiche. Nel firmamento del cosiddetto “gothic
country” (o “country noir”) brillano stelle come Jim White, Edith Frost e anche la schiva Mary Gauthier, che nelle sue
canzoni, con voce dimessa e sincera racconta le vite di chi, solitamente, non viene preso in
considerazione dalla Storia ma, giorno dopo giorno, affronta le difficoltà (e le sporadiche gioie)
dell'esistenza. Negli ultimi anni lo stile di Mary Gauthier è maturato e, disco dopo disco (in
particolare nel ruvido Mercy Now del 2005 e nel ricercato The Foundling del 2010) ha saputo
scarnificare le sue canzoni aggiungendo, al contempo, intensità e bellezza. Sentirla in azione dal
vivo, accompagnata soltanto da chitarra e armonica (e da due musicisti: Tania Elizabeth al violino e
ai cori, Mike Meadows alle percussioni) è davvero emozionante. Pezzi come “Blood Is Blood” o “Our
Lady Of The Shooting Stars” disegnano un paesaggio assolato e distante, una terra sperduta nel
nulla dove si muovono looser senza volto e senza nome, disperati che cercano solo di condurre – in
qualche modo – la propria anonima esistenza. Un approccio narrativo à la Raymond Carver, che
l'autrice riconosce tra le sue fonti di ispirazione. Il live si chiude con la lunga (quasi quindici
minuti) e avvincente cavalcata di “Wheel Inside The Wheel”. (M.Pr.)
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Rusconi
Revolution
Nik Bärtsch Ronin
Live
La formula musicale del trio Rusconi - Stefan Rusconi
(tastiere), Fabian Gisler (contrabbasso), Claudio Strüby
(batteria) – può essere etichettata come “jazz allargato”.
Allargato a cosa? Alle possibilità che l'improvvisazione
estemporanea può creare. Non sono rivoluzionari, a
dispetto del titolo, i nove brani di questo disco, bensì
rivelatori, perché mostrano apertamente l'attitudine dei
tre giovani e brillanti musicisti. A volte i pezzi iniziano
con l'enunciazione di un tema che, dopo akcune battute,
viene bruscamente accantonato per fare spazio a qualcosa
di melodicamente e ritmicamente diverso. Altre volte,
invece, i temi restano dominanti e intorno a essi prende
corpo l'intero sviluppo. Il blues meccanico e instabile di
“Berlin Blues” è seguito dalla suite “Massage the Story
Again”, dove i primi quattro minuti fusion si stemperano
in un assolo di basso che sembra voler avvicinare
l'Eberhard Weber degli anni Settanta allo spirito dei primi
King Crimson. La rassicurante e dolciastra “Milk” precede
l'apice dell'intero lavoro, “Alice In The Sky”, lunga
parentesi ambient in cui la presenza dell'ospite Fred Frith
aggiunge un'eleganza e
un'intensità inaspettate: le note
di chitarra emergono da un
paesaggio desolato in cui la
musica sembra spegnersi e
rigenerarsi senza tregua. Un jazzrock deforme e bislacco (non
privo di piccoli riferimenti ai
crossover cantabili à la Pat
Metheny e/o Yann Tiersen) anima
le successive “Kaonashi” e “False
Awakening”. Ben strutturata e
quasi da ascolto radiofonico
(serale/notturno) “Templehof”. Chiudono due ottimi brani
live, “Hits Of Sunshine” e “Theresa's Sound-World”. (M.Pr.)
Negli anni Settanta e Ottanta l'etichetta ECM portò l'attenzione su un inedito filone musicale che miscelava e faceva dialogare musica classica, contemporanea, jazz,
avantgarde e – elemento non marginale – silenzio. Emersero talenti speciali come Keith Jarrett, Jan Garbarek, Meredith Monk, Terje Rypdal, Pat Metheny. Dagli anni Novanta l'ECM ha consolidato il proprio ambito operativo, riducendo la spinta verso il nuovo ma continuando a guardarsi
intorno al fine di dare voce ad artisti o ensemble degni di
nota. Nel 2005 sono entrati in scuderia i Ronin del pianista svizzero Nik Bärtsch che, dopo tre ottimi album incisi
in studio ("Stoa", "Holon" e "Llyrìa") pubblicano oggi il
loro primo disco live. I generi
intrecciati dal gruppo? Jazz,
funk, minimal. Strumenti?
Acustici. Attitudine? Zen.
Bärtsch ha scritto: “Per me la
musica è azione, simile alla
danza o alle arti marziali.
Queste ultime cercano di unire
il cervello e il cuore, supportando il corpo con la giusta
tensione. Solo con mente e
muscoli agili sarà possibile
produrre intuitivamente la
giusta risposta in un combattimento”. Il doppio cd contiene estratti da diversi concerti (Europa e Giappone) e spiccano i brani estratti da “Holon” (in particolare “Modul 4117” e “Modul 42” - nota: le composizioni di Bärtsch & Co
si intitolano sempre “Modul qualcosa”), saggi esemplari di
improvvisazione strutturata, tradizionale nel suono (il
timbro degli strumenti acustici) e moderna nell'esecuzione, impeccabile sotto il profilo formale ed estetico.
(M.Pr.)
(BEE JAZZ RECORDS)
(ECM)
SOS A MILANO - MUSICA PER SOCRATE
SOS: Socrate Oggi Suono. È il titolo di un ciclo di tre serate organizzate da MMT Creative Lab sui seguenti temi: Il rumore del
mondo è forse diventato così assordante e invasivo che non siamo più in grado di ascoltare? Come è cambiato il nostro
rapporto col suono? E svolge ancora una funzione di rilievo nella nostra vita? È ancora in grado la musica di sorprenderci,
mutarci profondamente? E quale può essere lo stato attuale della ricerca musicale, anche in relazione al disastroso contesto
culturale del nostro Paese? Tutte queste impegnative riflessioni, assieme a interventi sonori e filosofici avranno luogo il
16.12.2012, il 20.01.2013 e il 18.02.2013 presso il Teatro Arsenale di Milano in via Cesare Correnti 11. Interverranno agli
incontri Simone Broglia, Giuliano Corti, Giovanni Cospito, Roberto Fabbi, Mario Garuti, Daniele Goldoni, Xabier Iriondo,
Claudio Lugo, Claudio Marconi, Franco Masotti, Roberto Masotti, Matteo Pennese, Walter Prati, Veniero Rizzardi, Francesco
Ronzon, Giancarlo Schiaffini, Riccardo Sinigaglia. Con la partecipazione dell'Università Ca' Foscari di Venezia, il Conservatorio
di Musica di Milano e il sostegno del Comune di Milano.
L’ingresso è gratuito ed è possibile prenotarsi all’indirizzo web di MMT Creative Lab: http://www.mmt.it/sos/
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MUSICISTI
BUSONI REMIXED
A TRENTO E A BOLZANO
UN OMAGGIO AL COMPOSITORE E PIANISTA
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Busoni remixed è il titolo dell’omaggio che l’ensemble Sonata Islands guidato da Emilio Galante (ospite Gabriele Mirabassi) ha proposto dal vivo, prima a Trento e poi a Bolzano,
nel mese di novembre. Un omaggio curioso, aperto a musicisti (e stili musicali) che busoniani non sono poi tanto, ma
che proprio in questo modo intende accendere una luce sulla figura particolare, interessante e del tutto originale del musicista vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, tra lingua tedesca e italiana, tra virtuosismo pianistico, composizione e impegno didattico, tra un “prima” e un “dopo” la Prima guerra mondiale che ne hanno spezzato crudamente l’avventura artistica e umana, facendone un esule in terra d’Europa, a dispetto della sua visione così fortemente europea.
nea, fra musica scritta e improvvisata”, la figura di Busoni
viene qui parecchio annacquata da spunti eterodossi, programmaticamente eterodossi. E questo non è necessariamente un male. Ma allora perché non puntare più in alto, non
frammentare e mescolare ancor più le carte, uscendo da una
sorta di melange neoclassico che prende di ogni scenario stilistico “solo” gli ingredienti più commestibili? Volendo “rimescolare” la musica del Maestro, pur nella esplicita celebrazione, bisogna considerare che ne è trascorso del tempo dai
giorni suoi, e quello che era innovativo allora nel linguaggio
di Busoni oggi non sarebbe più sufficiente a rendergli un doverosamente omaggio. Insomma, io credo che o lo si “rispetta” fino in fondo o si cerca di riproporne almeno l’intenzio-
In questo concerto-omaggio, più un insieme di individualità
che un collettivo vero e proprio, il clarinetto di Mirabassi e il
flauto di Galante hanno svettato, con la tecnica e la solidità
della loro esecuzione, soprattutto intrecciando serratissimi
visrtuosismi in solo e in duo. Rispetto ad altre occasioni, la
voce di Gaia Mattiuzzi, qui limitata a un (spesso poco nitido) recitato, è parsa più matura e fornita di un’ampia tavolozza timbrica, che fa sperare di vederla presto alla prova di
musiche più strutturate e, perché no?, nell’interpretazione di
vere e proprie canzoni. Inappuntabile, anche se poco utilizzato, il contrabbasso di Stefani Senni e un po’ fuori contesto
il batterista Francesco Cusa, che avremmo preferito meno invasivo, soprattutto sulla voce recitante di Gaia Mattiuzzi. Infine, non sempre preciso il contributo di Isabella Turso, e per
una pianista questa sarebbe stata forse un’occasione da sfruttare in modo migliore.
Trattandosi di “crossover fra musica classica e contempora-
ne, la spinta, quando non la “tragica” figura di genio perdente
e in parte trascurato. Oltretutto, l’ispirazione del progetto nasce da un saggio recente di Giuseppe Calliari, Ferruccio Busoni - trascrivere in musica l’infinito (Margine, 2011), che questi aspetti pare averli colti molto bene, soprattutto nel concetto di “contemplazione”. Ecco, dove sta qui quel concetto
in questa messa in scena? Si sarebbe desiderata una maggior
tensione, una qualche magia, un chiaroscuro più esplicito. Invece i sei musicisti sono rimasti sul palco dall’inizio alla fine, ben visibili, come protagonisti di un saggio scolastico. E
questo non ha reso onore né al progetto nel suo complesso,
né alla bravura degli esecutori. (C.C.)
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Busoni Remix
Bolzano - Teatro Cristallo
30 novembre 2012
I TRE INOSSIDABILI
LE NOVITÀ DISCOGRAFICHE
DI BOB DYLAN, NEIL YOUNG E VAN MORRISON
Non si può dire che faccia ancora notizia, forse. Ma un
nuovo album di questi grandi musicisti fa sicuramente
piacere, soprattutto quando non delude, anzi, rinverdisce
la fama di chi ha scritto già molte pagine memorabili della
musica rock sin dalla sua culla. Avrete ormai già sentito
parlare di capolavoro per Tempest di Bob Dylan, e se pure
non mi spingerei a tanto, l’album offre alcuni dei momenti
migliori del suo ultimo periodo; la sua profondissima voce
cattura l’ascolto fin dalla prima scintillante “Duquesne
Whistle” in cui l’ultrasettantenne poeta del rock porge
tutta la sua esperienza, tutta la sua sapienza spingendo un
po’ verso Tom Waits, un po’ verso Paolo Conte (per dare
qualche coordinata irriverente). Non fugge l’età, la
sottolinea, ne fa una bandiera: non ci sono inganni qui. E
i temi delle canzoni sono quelli di un uomo che ha “visto”
la Guerra del 1812, il relitto del Titanic, l’assassinio di
John Lennon. Nella desolazione di “Scarlet Town” o di
“Long and Wasted years” ci sono tutto lo spirito e il vigore
di cui Dylan si è mostrato capace nei momenti più alti. E
poi ci sono “Tempest”, quattordici minuti di deriva verso
l’affondamento del Titanic a tempo di walzer irlandese, e il
blues di “Early Roman Kings”: “Non sono ancora morto, le
mie campane suonano ancora…”. Tempest è così un album
già classico, classico fin dal suo concepimento.
Ma si potrebbe dire lo stesso del doppio Psychedelic Pills di
Neil Young and Crazy Horse come di Born to Sing: No Plan
B di Van Morrison.
Il doppio disco di Neil Young è sostenuto da una verve
sinceramente invidiabile, capace anche di poderose
cavalcate elettriche oltre i sedici minuti di durata quali
“Ramada Inn” e “Walk Like a Giant”, come della più dolce
“Drifting Back” che arriva a 27’ e 36”. Il lavoro è il
risultato di una jam collettiva fra amici di lunga data che
si ritrovano all’istante. La naturalezza, la leggerezza anche,
di alcune fra le canzoni di Psychedelic Pills, sono la prova
di questa familiarità, e chi ama il musicista canadese
ritrova qui tutto il distillato del suo stile, senza le asperità
estreme del pur notevole Le Noise.
Ed è il caso soprattutto delle song più folkeggianti e quasi
pop, come “Born In Ontario”, “Twisted Road”, “She’s
Always Dancing”, “For the Love of Man”, dove si ritrova
tutto il genio gentile del songwriter canadese.
L’album è disponibile, oltre che in doppio cd, anche come
triplo album in vinile. Sebbene Neil Young and Crazy Horse
stiano promuovendo Psychedelic Pills suonando live negli
States e in Canada, per il momento nessuna notizia fa
pensare a un possibile tour europeo.
L’irlandese Van Morrison, va da sé, è uno degli interpreti
più intensi e convincenti di sempre. La sua musica, come
quella di Dylan e Young, non ha bisogno di rinnovarsi, è
semplice, pura, cristallina classicità. Tornato a incidere per
la storica Blue Note con questo suo 35esimo album solista,
Morrison affronta qui forse per la prima volta i temi
dell’attualità, in questo caso della crisi economica,
suggerendo modestamente che “i soldi non ti fanno sentire
soddisfatto / i soldi servono solo a pagare i conti”; in
“Educating Archie” si rivolge all’interlocutore dicendogli:
“Sei schiavo del sistema capitalista / governato da una
élite globale”. Certo, è la presa di posizione di un autore
che non è mai stato un
cantante di protesta e che si
pone con naturalezza e
semplicità di fronte alle vicende
della quotidiana lotta per la
sopravvivenza, risultando
egualmente credibile perché
rimasto sempre estraneo allo
star system, conservando il suo
originario profilo da “working
class hero” anche quando nella
sua musica filtravano le pur
pagane suggestioni di un
qualche sfuggente spiritualismo.
Ispirata dal più profondo blues
di Hank Williams e di Muddy
Waters, la canzone venata di
soul e jazz tipica di Van
Morrison parte dal cuore della
tradizione celtica per arrivare
alla musica di Ray Charles, con
tutta la sua forza dirompente e
la sua capacità di reinventare
ogni cosa, dal rock al blues, dal
jazz al soul, compresa ogni
diversa sfumatura della musica
più tradizionale. Proprio la
capacità di restare legati alle
radici sviluppando solide
ramificazioni di modernità è la
chiave di questi inossidabili
evergreen. (C.C.)
INSOUND
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INTERVISTA
AREA
LIVE 2012
QUEI BRAVI RAGAZZI
MAURIZIO PRINCIPATO
G
li Area sono stati e continuano a essere uno
degli ensemble più creativi e imprevedibili
tra quelli attivi nella scena musicale non solo italiana, ma mondiale. Il loro nuovo album – che dopo alcuni decenni vede tornare insieme Patrizio Fariselli, Ares Tavolazzi e Paolo Tofani, accompagnati dal capace Walter Paoli - è un lavoro decisamente notevole. Ci sono brani classici del passato, riletti in chiave attuale. E ci sono lunghi, soddisfacenti momenti di improvvisazione, in solo o in duo, che testimoniano l'agilità
mentale e la grande capacità di creare “composizioni istantanee” di questi straordinari musicisti evergreen.
Chiunque abbia amato in passato o ami oggi la musica
degli Area attribuisce al vostro lavoro due valori fondamentali: onestà intellettuale e coerenza. Cosa significa
tornare a unire le forze dopo tanti anni e dopo tanti cambiamenti professionali o umani?
Paolo Tofani - Significa che ci piace ancora suonare insieme.
Patrizio Fariselli - Sì e ci sta facendo un bell'effetto. È un
discorso in continua evoluzione. Noi non facciamo gli Area,
noi siamo gli Area e continuerà a essere sempre così. Ognuno di noi ha portato o porta avanti svariati progetti. Tra un
progetto e l'altro si creano degli spazi temporali in cui avvengono e si aggiungono altre cose, parallelamente al percorso intrapreso da un gruppo che, a fasi alterne, sparisce per
poi ritornare.
Mettere in piedi una band negli anni Settanta era molto
diverso?
Patrizio Fariselli - Era profondamente diverso. In quel periodo il vero gruppo musicale era un nucleo solido, granitico,
quasi monolitico, all'interno del quale si operava una forma
di controllo condiviso per convogliare nella stessa direzione
le energie. Adesso è ancora così? No, adesso ci sono e agiscono altri meccanismi.
Paolo Tofani - Lassativi, direi.
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INSOUND
Com'è stato costruito il vostro nuovo lavoro Area – Live
2012?
Patrizio Fariselli - Ci sono due diversi cd. Il primo contiene
brani basati sull'improvvisazione in cui ognuno di noi – a seconda dei momenti – si esprime da solo oppure in coppia con
un altro, creando delle empatie che nascono dal mettere in
gioco le rispettive individualità. Il secondo disco contiene
classici come “Cometa rossa” o “La mela di Odessa”, riarrangiati.
Come funzionava l'interazione fra voi – musicisti di ricerca, sempre con lo sguardo puntato all'orizzonte – nel periodo di maggior creatività degli Area, cioè tra il 1973 e il
1978?
Paolo Tofani - Aveva un metodo affascinante che si basava
sul voler comunicare musicalmente gli elementi che facevano parte della realtà. Il suono doveva corrispondere al quadro sociale, politico, religioso ed economico dell'epoca. Ognuno di noi batteva sentieri diversi. Io, per esempio, me ne andavo in giro con un furgoncino Wolksvagen su cui avevo allestito una stazione audio che conteneva il mio Tcherepnin e
interagivo costantemente con questa macchina, lavorando
sulle sonorità che poi andavo a collegare al disegno – diciamo così – filosofico di questo o di quel pezzo.
Dedicavate molto tempo alla ricerca dei suoni?
Patrizio Fariselli - Sì. Ed è un tema molto più complicato di
quanto sembri perché noi, come Area, abbiamo sempre avuto un credo: non privarci di nulla. Intendo dire che tutto, proprio tutto può concorrere ad alimentare ed arricchire la progettualità, seguendo due direttrici basilari: da una parte approfondire il rapporto con lo strumento da cui siamo partiti
(il pianoforte per me, la chitarra per Paolo, il contrabbasso
per Ares), arrivando ai capire quali sono i limiti espressivi dello strumento stesso. Dall'altra parte, superando questi limiti
con il contributo degli altri musicisti in azione».
Allo scopo di...?
Patrizio Fariselli - Svelare l'inaudito, anche attraverso suoni
sintetici o manipolati. Il tema del comprendere quale sia la
soglia che divide il suono dal rumore è piuttosto antico. Credo che il secolo appena trascorso sia stato contraddistinto
dalla ricerca, da parte di molti compositori, di una pietra filosofale. Ognuno sembrava voler dimostrare a tutti gli altri
qual era il modo corretto di scrivere e fare musica. Noi ci siamo inseriti in questo discorso, sicuramente, ma abbiamo anche operato – proprio attraverso il suono – su noi stessi e sull'improvvisazione.
Nella musica degli Area l'improvvisazione è sempre stata
un aspetto dominante...
Patrizio Fariselli - Nel modo più assoluto. È il nostro principale strumento di elaborazione della materia sonora. La mu-
sica è un fenomeno temporaneo, invisibile, impalpabile. Certo, ci sono i registratori, che però sono dei ladri di situazioni, degli “stereofonizzatori”. Mentre la musica è fatta dalle
persone, che si incontrano e che vanno in giro, suonando. Un
buon improvvisatore ha molte frecce al suo arco, ha molti
schemi a cui fare riferimento.
Paolo Tofani - Parlare di improvvisazione vuol dire affrontare un argomento piuttosto intricato. Ho letto di recente “Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica”, un interessante saggio scritto trent’anni fa dal chitarrista Derek Bailey
che mette in evidenza i limiti e le opportunità dell'improvvisazione. La pratica dell'improvvisazione è l'atto di spingersi
verso territori inesplorati. Questo porta sempre a scoprire qualcosa di nuovo. L'improvvisazione è un veicolo di comunicazione: nessuno sa a priori cosa succederà durante o dopo. Indipendentemente da chi sei e dallo strumento che suoni, quando improvvisi non puoi avere la certezza di raggiungere uno
scopo, ma è un tentativo che va fatto. Un sacco di musica co-
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INTERVISTA
struita con razionalità e che, sul momento, sembrava grandiosa, poi si è sgonfiata, è stata schiacciata dal peso della
storia.
Patrizio Fariselli - È proprio così. Molte delle cose che sembravano modernissime sino a poco tempo fa oggi mostrano
tutta la loro modestia, mentre ci sono improvvisazioni che non
perdono in freschezza e in bellezza, perché erano frutto di una
notevole agilità mentale.
Cosa serve per essere pronti a improvvisare?
Patrizio Fariselli - Partiamo da un concetto fondamentale:
tutti improvvisiamo continuamente. Io sto parlando e parlare significa improvvisare con le parole. Nella musica il discorso non cambia, ma cambia il linguaggio. Tra chi suona e chi
ascolta succedono cose che non è esagerato definire incredibili. Se mi mettessi a suonare davanti a un pubblico una variazione di Bach so che verrei valutato sulla base di qualcosa
che è già noto. Intendo dire che l'oggetto della valutazione
sarebbe l'esecuzione, cioè come affronto una certa nota in un
determinato passaggio. L'improvvisatore elude e ribalta tutto ciò: può darti qualcosa di inaspettato in qualsiasi istante.
Quindi l'ascoltare entra in uno stato mentale speciale. Tu prima hai parlato di onestà intellettuale e questo è un aspetto
primario, perché indica che stai dando tutto ciò che puoi dare.
Paolo Tofani - Credo che l'improvvisazione sia la capacità di
poter condividere le differenze. Siamo tutti diversi e ognuno
di noi improvvisa la vita. Il primo modello di improvvisazione reale non è sul palco e si basa sul rispetto dell'altro. Perché quando la mia differenza e la tua si toccano posso nascere
delle osmosi interessanti. Quando incontrai Derek Bailey a
Londra....
Patrizio Fariselli - Che ti ho fatto conoscere io, mettiamolo
agli atti.
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Paolo Tofani - Sì, certo, che mi fu presentato da Patrizio. L'hai scritto? Bene. Dunque, quando incontrai Bailey io stavo
cercando di uscire dalla “dolorosa” dimensione della chitarra.
Lui mi fornì delle indicazioni che mi portarono a fare delle
modifiche, nel mio approccio allo strumento, da cui partirono i primi vagiti di una ricerca che continua tutt'ora. Dall'analisi delle modalità di Bailey – così diverse dalle mie – ricevetti molti stimoli. Sono gli stimoli che ti fanno progredire.
1973: il tuo ingresso negli Area, Ares, colma un vuoto improvviso. Come ti integrasti con il gruppo?
Ares Tavolazzi - Suonando. Non c'era altro modo. Venivo da
esperienze musicali molto diverse e mi lasciai andare alla musica, che è l'unica cosa da fare in questi casi. Non cercai di
dimostrare niente a nessuno e tutto andò come doveva andare, cioè bene.
Paolo Tofani - Ares non è mai stato un “aggregato”. Sin dal
suo arrivo diventò un membro effettivo e insostituibile della
formazione, contribuendo a uno scambio produttivo con tutti noi. Ares ha l'innata capacità di saper esprimere il suo talento e la sua diversità. È quanto stavo dicendo poco fa: generare stimoli. C'è sempre stata una grande stima reciproca e,
per noi, il suo arrivo fu una grande fortuna anche se, in un
primo momento, perdere dalla sera alla mattina il precedente
bassista (Patrick Djivas – attratto dal “sogno americano” e
dalla prospettiva di guadagni sostanziosi – lasciò gli Area senza preavviso per unirsi alla PFM, NdR), ci destabilizzò e pensammo seriamente di scioglierci. Quindi, a distanza di quasi
quarant'anni, dico: benvenuto Ares!
Cosa significava stare sul palco negli anni Settanta? Intendo dire: come si sentiva la musica sul palco?
Paolo Tofani - Si sentiva benissimo! Eravamo abili nel riusci-
re a mantenere un equilibrio nell'emissione sonora e questo
ci rendeva felici dei risultati. Non potevamo certo permetterci dei tecnici, quindi pensavamo noi a tutto, bilanciando in
modo perfetto. Avevamo un mixer “interno” che ci consentiva di trovare la dimensione giusta.
Patrizio Fariselli - Sul palco c'era un grande suono, quello degli amplificatori. Oggi si va tutti in linea, è una cosa molto
meno veritiera. All'epoca venivi investito dal tuo suono e, poi,
da quello degli altri che erano lì con te.
Paolo Tofani - È sempre una questione di umiltà: devi lasciar
passare ciò che fanno le persone con cui suoni. È necessario
essere disponibili a condividere e solo l'ascolto ti può dare
ciò. Prima di tutto: ascolta. Se ascolti, le cose possono davvero funzionare. Recentemente ho fatto un concerto a Roma
con Alvin Curran. Non ci vedevamo da più di trent'anni e io
pensavo un po' preoccupato: cosa faremo stasera? Suonando,
io lo ascoltavo con attenzione e anche lui faceva la stessa cosa. Il nostro ascolto intrecciato ha prodotto un'ottima performance. Quando l'ego o il narcisismo prendono il sopravvento allora si arriva a una disgregazione distruttiva. Negli
Area non abbiamo mai avuto questi problemi. Ti faccio un
esempio: suonare con Giulio Capiozzo non era mica facile, perché Giulio martellava. Allo stesso tempo, però, aveva una grande sensibilità che gli consentiva di “muoversi” timbricamente, in accordo a ciò
che ascoltava.
tatti con il PCI e, per noi, fu una sorta di liberazione perché
sembrava che loro una specie di struttura organizzativa ce l'avessero. Ma durò poco, perché quando sentirono che dal vivo
facevamo brani come “Caos parte II”, in cui ci furono persone con le lambrette che irruppero sul palco spaccando tutto,
ci venne detto: “ragazzi, ci dispiace ma non possiamo più ospitarvi”. Essere fuori dall'establishment rendeva tutto più complicato.
Ares Tavolazzi - A pensarci bene non fu poi così difficile. Bisognava sapersi adattare alle situazioni. Nessuno di noi ambiva a diventare una rockstar. Volevamo fare musica, non ci
interessava lo star system.
Patrizio Fariselli - Tutto vero, ma è sempre l'aspetto pratico
a risultare determinante: quando vai in tour con le tue sole
forze e poi ti trovi, sera dopo sera, a dover caricare e scaricare dal furgone (il nostro autista di fiducia era Tofani) l'organo Hammond di Demetrio... be', la fatica aumenta esponenzialmente.
Cosa ha significato e cosa significa, per gli Area, il verbo
“schierarsi”?
Era difficile andare in tour negli anni
Settanta?
Patrizio Fariselli - Manifestare il proprio pensiero e il proprio
impegno, senza sottostare a compromessi o vincoli provenienti dall'esterno. Come gruppo abbiamo contribuito – per dieci anni – a sostenere il movimento affinché potesse esprimersi liberamente. Si può
fare politica con la musica.
Paolo Tofani - Altroché. Non c'erano strutture, non c'era organizzazione negli ambiti in cui noi ci muovevamo, cioè sotto
le bandiere di Lotta Continua o del Movimento Studentesco. Avemmo dei con-
In che modo?
Patrizio Fariselli - Proponendo buona musica e quindi portando chi ascolta a usare il proprio cervello. Quando ci sono anche dei testi il discorso può farsi ambi-
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INTERVISTA
guo, ma il nostro paroliere Gianni Sassi era abilissimo nello
scrivere testi che focalizzavano costantemente su assunti basilari: “pensa con la tua testa, non lasciare che altri lo facciano al posto tuo, ragiona e, soprattutto, datti una mossa”.
Aggiungo che, nella produzione degli Area, ci furono anche
gesti smaccatamente politici, come quando eseguimmo “L'internazionale” allo scopo di raccogliere fondi per sostenerne
le spese processuali di un anarchico. Provammo a dare una
mano, prendendo e massacrando l'inno dei lavoratori.
Walter, che effetto ti fa suonare con gli Area?
Walter Paoli - È una grande esperienza. Sono perfettamente
a mio agio con questi “giovinastri”. Rispetto a tutte le band
degli anni Settanta gli Area avevano il loro punto di forza proprio nella grande capacità di improvvisare. Erano aperti e capaci di includere o assorbire qualsiasi cosa. Non sono mai stati vittime del manierismo musicale e questo li rende attuali
ancora oggi.
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Paolo Tofani - Walter, benvenuto negli Area!
Che strumenti usate sul palco attualmente?
Paolo Tofani - Uso una Trikanta Veena, strumento che ho inventato io stesso, e anche un Mac: ho una ricca libreria di suoni e uso il software Ableton Live 9, con un convertitore Midi
Axon suggeritomi da McLaughlin.
Patrizio Fariselli - Non ho più l'ARP Odissey dei tempi d'oro.
Suono prevalentemente il piano acustico. Ho anche un controller Midi e un Mac.
Walter Paoli - Batteria Gretsch con cassa da 20” stoppata e
piatti UFIP: uso modelli in commercio e alcuni prototipi.
Ares Tavolazzi - Uso un basso a quattro corde costruito dal
liutaio Emiliano Nencioni (che mi sta preparando un nuovo
modello a otto corde) e amplificazione Mark Bass.
Tutte le foto in queste pagine sono di Paolo Soriani
AUDITORIUM EDIZIONI è casa editrice ed etichetta discografica specializzata nelle diverse musiche del nostro
tempo: jazz, rock, world, elettronica e contemporanea. Le pubblicazioni sono iniziate nel 1989 con il trimestrale di critica musicale AUDITORIUM e del 1994 sono i primi volumi di saggi.Ai titoli della collana principale,
RUMORI, negli anni si sono aggiunti quelli di nuove collane: SCRITTURE, dedicata alla narrativa su temi musicali;
CHANGES, titoli monografici sui protagonisti della scena nazionale e internazionale; Book Disc, cofanetti multimediali libro + cd o dvd. L'attività della casa editrice si è sviluppata nel tempo attraverso la pubblicazione delle riviste InSound, BigBox, GTR&Bass e importanti iniziative come il PREMIO INTERNAZIONALE "DEMETRIO STRATOS", il TROFEO INSOUND e l’ INSOUND PIANOFEST, la mostra video-fotografica IL GESTO DEL SUONO.
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