la musica secondo coolcub

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Amo queste quattro mura, questo confine confino in cui è il mondo a trovare casa. Annosa diatriba è il viaggio dell’abbandono che
ignorare mi piace. Perché, a ben cercare, questa terra è piena di cose che non ti aspetti e invece ci sono. La sorpresa per chi ha
orecchie e mani tese arriva come gli acquazzoni di marzo, all’improvviso, a cambiare i piani di una giornata. Già un anno è trascorso
da quando, sempre in queste pagine, ci interrogammo sulla Puglia.
Con la curiosità dei bambini più ci guardiamo intorno e più questo posto ci piace; testardi come i bambini ci incapricciamo e
restiamo, e golosi come i bambini ne facciamo scorpacciata. È bello sentirsi a casa, ovunque essa sia. Le cose fatte in casa,
diceva mia nonna, sono le più buone. In questo nuovo tour della regione ne abbiamo trovate di appetitose. Pugliesi senza il pallino
dell’appartenenza, della cultura e della radicazione ma gente che vive e crea. La rivoluzione parte dal tacco, si potrebbe dire.
Basta impugnare un tamburello, una chitarra o una penna per firmare la propria dichiarazione di libertà. Da questo ci siamo lasciati
affascinare per questo nuovo numero di Coolclub.it. Da improbabili imprese, coraggiose scommesse, piccoli miracoli che la nostra
terra ospita e che a questa appartengono anche se non lo diresti mai. Abbiamo scelto di dedicare la copertina a una band che
sembra in vacanza dalle nostre parti, esule della terra di Albione, che ti aspetteresti di incontrare in un uggioso pomeriggio londinese
e che invece trovi in un paesino a pochi chilometri da Lecce. Sono gli Studio Davoli, una delle band elette (e non da noi) tra le più
interessanti del panorama indie nazionale. Loro che parlando di negramaro si riferiscono solo al vino, loro che vivono la pizzica come
un brusio in sottofondo, arrivano al secondo episodio discografico edito dalla Recordkicks di Milano. Il disco è Decibel for Dummies
ed esce in tutti i negozi in questi giorni. Contro altare doveroso è la nostra prima concessione alla musica tradizionale salentina.
Abbiamo incontrato i Mascarimirì anche loro in uscita con il nuovo album Trìciu. Figli della tradizione, ma dall’appartenenza musicale
apolide, i Mascarmirì sono Salento, Mahgreb, Francia, Africa. Sono la pizzica, sono il rock, sono la trans. Nel mare dei gruppi fotocopia
dal repertorio striminzito addobbati come le attrazioni turistiche, i Mascarimirì rappresentano l’incontro tra tradizione e innovazione, la
così tanto citata ma alla fine quasi mai realizzata contaminazione. Dal Salento poi su passando per Brindisi e al suo passato, neanche
tanto remoto, custode di una scena che non si può dimenticare. Dalla Puglia che viene prodotta ed esportata nel mondo, alla
Puglia che produce il mondo. Per la serie “forse non tutti sanno che”, esiste chi da noi produce, investe sull’arte e sulla musica. La
risposta a chi crede che le cose si possano fare solo fuori sono due etichette discografiche che abbiamo scovato in Puglia. Perché a
scavare a fondo l’underground offre frutti insperati. La Psychotica records di Taranto e la Small voices di Andria da anni si muovono
nell’ambito della musica sperimentale, producendo dischi di band e artisti provenienti da ogni angolo del pianeta. Infine abbiamo
colto l’occasione, forse anche motivo scatenante del tema scelto, per parlare di Arezzo Wave che, mentre scriviamo, si avvia alle
battute finali delle prime fasi, quelle provinciali e regionali. Convinti ancora che ne valga la pena, siamo qui.
Osvaldo
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Via De Jacobis 42 73100 Lecce
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Sito: www.coolclub.it
Anno 3 Numero 23
marzo 2006
Iscritto al registro della stampa del
tribunale di Lecce il 15.01.2004 al
n.844
STRANO MA QUI
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Collaboratori:
Giancarlo Susanna, Valentina
Cataldo, Sergio Chiari, Davide
Castrignanò, Rossano Astremo, Rita
Miglietta, Daniele Lala, Fulvio Totaro,
Federico Vaglio, Lorenzo Coppola,
Nicola Pace, Giacomo Rosato,
Nino D’Attis, Luca Greco, Emanuele
Carrafa, Francesco Lefons, Camillo
Fasulo, Federico Baglivi, Lorenzo
Donvito, Gianpaolo Chiriacò,
Livio Polini, Bob Sinisi, Eugenio Levi,
Giancarlo Bruno, Davide Rufini,
Loris Romano, Dario Quarta, Carlo
Chicco, Anna Puricella, Antonio
“Loveless” Olivieri, Papa Ciro,
Giovanni Ottini, Massimo Ferrari,
Claudia Attimonelli
Ringraziamo Maurizio Buttazzo e le
redazioni di Blackmailmag.com,
RadioErre di Foggia, Primavera Radio
di Taranto e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase (Le) e
Pugliadinotte.net.
In copertina
Studio Davoli
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Roberto Pasanisi
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione in un giorno
bisestile ma solo per noi.
Per inserzioni pubblicitarie:
Antonietta Rosato
T 3404722974
[email protected]
Nella foto
Matilde De
Rubertis
4-5 Studio Davoli
17 Bellini
18 La Crus
6-7 Small
Voices
9 Keep Cool
23 Coolibrì
27 Isabella
Santacroce
29 Be Cool
30 Johnny
Cash
34 Mascarimirì
35
Appuntamenti
38 Fumetti
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MUSICA PER MINCHIONI, I NUOVI
Distanti come gli alieni a cui sono stati
paragonati da Alberto Campo sulle
pagine di Rumore, vicinissimi perché
amici di una vita e conterranei. Questo
sono per me gli Studio Davoli, un asteroide
atterrato nelle vicinanze di Lecce e
carico di altri suoni. Nati quando il Salento
era solo pizzica, reggae e un certo rock,
gli Studio Davoli, ai tempi Valvole Davoli,
sono arrivati da un giorno all’altro nel
panorama italiano portando un suono
nuovo e fresco. Lo hanno fatto con la
semplicità del pop unita alla ruffianeria
del lounge, ci hanno messo dentro
una formazione classica, la passione
per il brasile e il jazz, una Stereolabica
partenza, le frenate malinconiche dei
Blonde Redhead, la psichedelia dei
Pink Floyd e degli Air, le impennate tra
Komeda e Northern Soul.
Il loro primo album Megalopolis è stato
accolto da critica e pubblico con
entusiasmo; i concerti in tutta Italia, gli
incontri e le collaborazioni li hanno fatti
crescere.
Abbiamo incontrato i fratelli Gianluca e
Matilde De Rubertis, per parlare con loro
del nuovo album Decibel for Dummies.
Abbiamo scelto gli Studio Davoli perché
rappresentano un presenza deviante
rispetto alla scena salentina, capostipiti,
forse, di un nuovo filone. Una bellissima
mosca bianca, un caso musicale che
non riesci a localizzare: pugliesi, salentini,
alieni, inglesi, poco importa. Quello
che conta è la musica e in Decibel for
Dummies ce n’è tanta e bellissima.
Parliamo un po’ della genesi degli Studio
Davoli.
Gianluca: Tutto comincia precisamente
nel gennaio 2001, eravamo in tre io
Matilde e Riccardo. All’inizio provavamo
in maniera approssimativa, poi si
aggiunse Giancarlo al basso. Era una
specie di miscuglio, in parte era basato
sul mio modo di suonare l’organo, una
fascinazione per l’hammond groove, il
lounge. Dall’altra, la nostra passione per
i Blonde Redhead, i Portishead, i Pink
Floyd. Due cose in netto contrasto, ma
già c’era in nuce, un’ascendenza, un filo
conduttore con le ultime cose. Poi dopo un
anno c’è stata la vittoria ad Arezzo Wave,
una sorpresa, un successo inaspettato,
anche arrivato prematuramente. Le
selezioni provinciali sono state una specie
di miracolo, suonavamo da poco, il mio
organo a un certo punto si ruppe e loro
tre si espressero come mai avevano fatto.
Dopo una serie di concerti in cui abbiamo
acquisito esperienza siamo arrivati alla
registrazione. Il disco Megalopolis nasce
come una demo, da un incontro casuale,
un cd regalato che arriva alle orecchie
di Nicolò della Recordkicks che decide
di aprire le produzioni della sua neonata
etichetta con noi.
Megalopolis viene accolto molto bene,
in Italia non c’era niente di simile e forse
a tutt’oggi non c’è, siete accostati a una
serie di gruppi, forse alcuni anche a voi
sconosciuti.
Beh si, in effetti il disco è piaciuto molto
e da subito. Anche con questo disco
succede di essere accostati a gruppi che
non ci hanno influenzato, in un’intervista
qualche giorno fa hanno detto che
sicuramente siamo influenzati dai My
Bloody Valentine. Io all’epoca avevo
dodici anni e confesso, pur conoscendoli,
di non averli mai ascoltati...
Che approccio avete con il pop? L’effetto
all’ascolto, la risultante della vostra
musica è pop, ma se si scava si scopre
che c’è molto di più, un approccio più
colto.
I nostri ascolti non sono prettamente pop,
e questo penso influisca. Io ad esempio
ho un background classico, Matilde
ascolta molto jazz e bossanova anche se
la cassa è in quattro e il pezzo è pop la
struttura armonica dei suoi brani è fatto
di accordi jazz... io come approccio
sono più cervellotico, Giancarlo, anche
lui impegnato nella scrittura, è ancora
diverso. Questo disco in particolare
arriva con un lavoro diverso alle spalle.
Megalopolis è nato sui palchi, in sala
prove, è composto di brani già rodati.
Questa volta, tranne che per due canzoni
che già facevamo dal vivo, ognuno di noi
ha lavorato individualmente, arrivando
in sala prove con un pezzo quasi finito,
anche negli arrangiamenti degli altri
strumenti.
Questa fiducia, se così la possiamo
chiamare, denota una personalità
matura, un progetto nelle sue sfumature
comunque omogeneo e nel disco si
sente.
Si, tranne un paio di canzoni, Decibel for
Dummies è un lavoro molto omogeneo,
frutto tra l’altro di una scrematura
notevole. Considera che all’inizio, prima
di entrare in studio, i brani erano circa
il doppio. Nell’arco di un anno e mezzo
abbiamo scritto una trentina di pezzi
nuovi. Rispetto a Megalopolis, che nasce
come una demo fatta bene, senza
quindi l’idea che sarebbe diventato
un disco edito, e distribuito, nasce con
la consapevolezza dello studio e dei
mezzi a disposizione per realizzarlo. È un
disco diverso, molto diverso dal primo,
ragionevolmente dovrebbe essere un
disco più difficile del precedente, però
alla fine, come ascolto intendo, secondo
me risulta più facile.
In che senso?
Nel senso che la struttura interna è più
ragionata, articolata, però l’effetto finale
ha più le sembianze di una canzone pop.
In Megalopolis avevamo un’attitudine
più stereolabica, l’attitudine stereolabica
è quella di cominciare un pezzo con una
struttura, di trovare a un certo punto un
nuovo riff, una specie di punto fuga, non
seguire più quello che si stava facendo
all’inizio, non portarlo a termine e perdersi,
smarrirsi in questo altro ramo in una sorta
di scrittura episodica. In questo disco le
canzoni iniziano e finiscono, sono canzoni
dalla a alla z.
Si nota, ascoltato i brani, che alcune
frasi, siano esse musicali o cantate si
ripetono quasi ipnoticamente... è voluto,
fa parte del vostro stile o è assolutamente
involontario?
Si è vero, questa è una di quelle cose però
che ascolti a posteriori, di cui ti accorgi
dopo, ma non è ragionata. Credo sia
CoolClub.it
I DECIBEL DEGLI STUDIO DAVOLI
una cosa spontanea che magari deriva
dai nostri ascolti. Ad esempio, giusto
una curiosità che serve per farti capire
l’approccio alle canzoni. In un brano del
disco il cantato insiste su una nota, il sol,
gli accordi invece su cui si poggia quella
nota cambiano continuamente, quindi è
un gioco, vedere quella nota su quanti
accordi può stare bene.
C’è anche un altro brano che nel suo
essere pop ha un effetto straniante, c’è
un quattro quarti che insegue un sei
quarti o qualcosa del genere, ci spieghi
come nasce?
La canzone è Stay on ed è uscita così
quasi casualmente. Matilde aveva
registrato il provino chitarra e voce e non
c’era modo di arrangiarla, il riff era molto
jazz, una chitarra bossa. Poi Riccardo ha
avuto l’idea di metterci sotto una cassa
in quattro, quasi house, che sfasa ma
poi rientra nel giro, quindi poi il rientro
sul giro non fa che spostarsi. La chitarra
era ternaria, il giro in sei quarti, la batteria
in quattro quarti, quindi alla fine tutto
quadra.
Ma tutto questo, questa cura negli
arrangiamenti, sono seghe mentali, o
cose che alle orecchie dell’ascoltatore
medio arrivano?
Beh tu te ne sei accorto, quindi sei un
ascoltatore sopra la media, normale
che non tutti se ne accorgeranno, non
se ne fregano neanche niente. Questo è
il gioco, se prendo un giro, qualcosa di
improponibile per il pop e lo riesco a far
funzionare in uno schema pop...
Questo è il vostro compromesso con il
pop?
Io personalmente non sono un amante
del pop, della musica leggera in
generale, io ascolto pochissime cose.
Matilde e Riccardo ascoltano moltissima
musica... grazie a Dio altrimenti saremmo
un gruppo ignorante. Se devo esprimere
una preferenza sulla composizione
dei brani direi, che anche se parto da
un’idea complessa preferisco che l’esito
sia in un certo modo semplice, per gli altri
ma anche per me stesso... che scivoli
all’ascolto. Come il gioco della nota
che ti raccontavo prima, se non te ne
accorgi significa che ha funzionato, se te
ne accorgi troppo è un artificio.
E l’idea del titolo del disco... da dove
viene?
Il disco si doveva intitolare The Hitchhiker’s
Guide to the Galaxy, che è il titolo di un
libro delle edizioni Urania divertentissimo.
Dopo un anno uscì il film tratto dal romanzo
e abbiamo dovuto cambiare. Decibel
for dummies viene da un manuale per
fonici che abbiamo sfogliato in studio.
Decibel for dummies è qualcosa che
riguarda la massimizzazione...o che ne so.
Poi riguardo ai Dummies puoi dire quello
che vuoi...il pubblico, dei pupazzi, dei
minchioni, le interpretazioni sono tante...il
fatto che ci sia questa massa informe che
non capisce niente che ascolta il disco
lo compra...poi magari il disco ha un
discreto successo e capisci che in quella
massa ci sei pure te.
Parliamo un po’ degli ospiti del disco.
Matilde: Beh, sicuramente Andrea
(Populous) ci ha aiutato molto in fase di
mixaggio, poi ha realizzato la base ritmica
di I prefer, ha seguito il lavoro in studio e
a casa guidandoci in alcune scelte, poi
sicuramente Stefano Manca che è stata
parte integrante nella realizzazione del
lavoro. Poi Marco Tuma che ha suonato il
flauto in Crystal camp e poi un flicorno di
Andrea Perrone????.
È un album molto più acustico, c’è questo
incontro tra chitarre soft e elettronica
minimale...
É un po’ il risultato del lavoro di scrittura,
usando il computer come sala prove
ci è venuto spontaneo usare strumenti
più acustici, lo stesso mood musicale
si è creato in studio ed è il suono che
cercheremo di riproporre nei live.
Nel disco c’è veramente tanta roba, è pieno
di sfumature, arrangiamenti, strumenti,
suoni, addirittura orchestrazioni...come
farete dal vivo?
È un problema che stiamo affrontando,
sicuramente i brani live saranno
semplificati, altri probabilmente non
potranno essere eseguiti perché se
spogliati della loro particolarità finiscono
per avere poco senso.
Questo numero di Coolclub.it è dedicato
alle cose che proprio non ti aspetteresti
in Puglia e invece ci sono, il disco degli
Studio Davoli è sicuramente la cosa più
interessante e più bella (Matilde sorride
nda) che sboccia in Puglia questo mese,
quale è la tua idea della scena pugliese
o salentina, cosa ti piace?
A parte le mie diverse collaborazioni
(Populous, Giorgio Tuma, Amerigo
Verardi) ho tanti amici che suonano, ci
sono i Superpartner...e tanti gruppi che
fanno bella musica. Non sono molti anni
che mi muovo nella scena, sono anche
la più giovane del gruppo, diciamo che
sono quattro anni che mi guardo intorno
con più attenzione e noto che quando
abbiamo cominciato c’erano più gruppi
e si suonava di più. Secondo me la
musica salentina, tranne pochi casi, sta
attraversando un momento di crisi.
Nel panorama indipendente italiano,qual
è l’aspirazione per un gruppo come gli
Studio Davoli?
Per un gruppo come il nostro l’aspirazione
è riuscire a mantenersi a fine mese,
secondo me è una cosa possibile, magari
lavorando solo in Italia no, ma se ci fosse
l’opportunità di aprirsi all’estero... per il
momento non è in previsione ma si vedrà.
Qualche nostro pezzo è già stato suonato
da radio inglesi.
Una cosa che mi piacerebbe molto fare,
anche per far crescere la qualità delle
produzioni, è creare un gruppo di persone,
amici che fanno musica, cosa che in
parte già succede, che si alimentano a
vicenda, che sono in stretto contatto.
Un po’ come succede tra gruppi come
Broadcast e Stereolab, creare una scena
che diventi con il tempo di riferimento
e che ruoti intorno al Sud est studio di
Stefano Manca.
Tre dischi che consigli ai lettori di
Coolclub.it.
Kind of blue di Miles davis, Phanerothyme
dei Motorpsycho, l’ultimo disco di
Madonna e le bosse di Jobim e Gilberto.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
PICCOLE VOCI IN UN POSTO SILENZIOSO
Anche il deserto più spietato può
nascondere nelle sue lande impietose
oasi generose e benefiche per il corpo
e l’anima di ogni buono e timorato
esploratore musicale. È così che mi sono
imbattuto con sommo sbigottimento
nella Small Voices, questo sotterraneo
antro del piacere sonico, del vizio fonico,
della libidine auricolare. Una fucina
della rumorosità in piena terra arida,
alimentata da due loschi figuri dalle strane
perversioni musicali ben camuffati da
ordinari bacchettoni dell’entroterra. Non
classico e innocuo rock indipendente, nè
astruso noise o jazz-core o now wave, ma
sonorità estreme, putride, maledette che
potremmo accostare a definizioni quali:
crudità industriali, sperimentazioni spinte,
follie strumentali, destrutturazioni digitali,
minimalismo dronizzato. Il turbamento
che mi ha lasciato per mesi insonne mi
ha costretto a pensare assiduamente a
quale deviazione dello sviluppo eticosociale possa aver dato vita a tanto
fanatismo satanico del suono. La mia
risposta, che mi ha riportato infine a un
salutare stato di lucidità mentale, è che,
proprio condizioni socio-culturali così
estreme (nel senso di estremamente
elementari, banali, meschine) possono
provocare in taluni soggetti più sensibili
delle reazioni drastiche: qualcuno si
inizia a fare, qualcun altro si fa villette,
poste e tabaccai, e qualcun’altro, più
soggetto alle pulsioni dello spirito che del
corpo, si inizia a dedicare alla produzione
di strumenti di alienazione psichica. È
chiaro che in certi posti del sano r’n’r può
attecchire: quel che serve qui è qualcosa
di definitivamente altro rispetto alle leggi
ordinarie della società che ci circonda.
Pertanto, gli stessi suoni che si ricercano
devono appartenere a mondi così lontani
da non permettere in alcun modo alla
nostra mente di ricordare alcunché della
quotidianità che ci è avversa e ostile. Ma,
non ancora del tutto soddisfatto del mio
ragionare solitario, ho deciso di affrontare
di petto la situazione e chieder conto
direttamente a questi spiriti inquieti del
perchè di cotanto sublime orrore.
Quale mostruosa mutazione genetica ha
prodotto due menti deviate amanti delle
zozzure sonore di cui vi siete fatti promotori? e i vinili sono perlopiù dei picture disc.
In altre parole: come è possibile che ad Inoltre ogni nuovo articolo è quasi sempre
Andria si possano incontrare due scoppiati realizzato in diverse edizioni a tirature
che perdono la testa appresso a ‘ste cose limitatissime. L’ultima, l’album dei My cat is
così estranee al loro ambiente sociale?
an alien, ha addirittura tre diverse edizioni
(Ehi, a chi scoppiati?!?!?!) Le motivazioni di cui una in sole 19 copie. Credete
sono molteplici... prima di tutto c’è la pas- che, nella catastrofe delle produzioni
sione per la musica e per il caro vinile, poi discografiche commerciali dovuta al
appunto c’è la voglia di evadere dalla trionfo del downloading, queste scelte
realtà “sociale” contingente. La musica siano le uniche vincenti?
(e tutti gli altri nostri
Sì infatti, paradosinteressi) come sfosalmente
stiamo
go, come alternativa
riscontrando che è
a quella quotidianità
più vendibile il caro
schiacciante di una
e vecchio vinile ricittà di cui non riusciaspetto al cd. Il mermo a scorgere lati pocato è comunque
sitivi.
subissato di produSembra
incredibile,
zioni su cd e cd-r e
ma so che, sebbene
l’appassionato non
sconosciuta ai vostri
riesce a districarsi.
conterranei, la vostra
Ecco perché la noetichetta è nota un
stra scelta editoriapo’ in tutti gli angoli
le è stata quella di
del globo. A quanto
lavorare molto con
( J enni F er gentle )
pare, quando si tratta
il vinile e con microdi produzioni così di nicchia, cambia edizioni dal forte impatto artistico (giustatotalmente il target a cui puntare: non una mente citi il box in 19 copie dei My Cat Is
determinata area geografica ma punti An Alien: questo lavoro infatti contiene un
dispersi nei meandri delle differenti realtà dipinto di Roberto Opalio/MCIAA). Non
sociali di tutto il mondo. Quanto è stato sappiamo se le nostre scelte siano vincenti
difficile crearsi un pubblico così nascosto e in maniera assoluta..., ma per il momento
sparso? Mi viene da pensare che prima di ci stanno soddisfacendo.
internet voi non avreste avuto vita facile.
Ho visto che nel vostro catalogo ci sono
Sì la nostra etichetta è pressoché alcune produzioni di Ivan Iusco della
sconosciuta dalle nostre parti (direi Minus Habens, l’altra storica etichetta
fondamentalmente in Italia), ma non nostrana di musica di ricerca. Ultimamente
è un grosso problema; le motivazioni però questa si sta dedicando sempre
possono essere molteplici (ad esempio più a produzioni di più facile consumo
fondamentalmente in Italia la tendenza è (commerciali è un po’ troppo). Come la
l’esterofilia, sai l’erba del vicino e sempre vedete voi questa sua scelta, e da cosa,
più verde) per questo motivo il prodotto secondo voi, è stata dettata? Avete mai
che proponiamo è di nicchia; materiale avvertito il brivido di terrore per il rischio di
per collezionisti (come noi), gente sempre finire a produrre cose pop?
alla ricerca del nuovo. Sì internet è un Per nostra buona (e sana) abitudine non
grosso canale e una grossissima fonte di entriamo nel merito delle scelte editoriali
contatti e possibilità, ma allo stesso tempo di altre etichette, figurarsi quelle del
nell’era di internet è sempre più difficile caro amico Ivan, con il quale abbiamo
vendere dischi.
appunto prodotto un paio di 7” sotto i
La specificità dei vostri prodotti non è solo suoi due moniker storici (Nightmare Lodge
nei contenuti musicali, ma anche nelle e it). Ivan è sulla scena da più di 15 anni,
ricercate vesti grafiche dei supporti. I cd quando produrre il vinile era la regola ed
sono spesso chiusi in speciali confezioni, il CD solo una novità...la sua etichetta è
CoolClub.it
( M Y cat is an alien , in basso aidan ba K er )
cresciuta in un periodo di forte crescita
e grande cambiamento tecnologico (vi
ricordate il Virtual Reality Hand Book?).
Ivan non ha mai nascosto la sua propensione
in tal senso e non ci stupiremmo se più in
la dovesse abbandonare definitivamente
i supporti analogici in favore del “digitale
totale”...noi ci limitiamo ad andare
esattamente in direzione opposta! E forse,
proprio per questo motivo, lo spettro delle
produzioni “pop” non ci spaventa affatto...
più semplicemente pubblichiamo ciò che
ci piace!
Non contenti delle già radicali e specifiche
produzioni della S.V., avete deciso di tirar
su una mini-etichetta sussidiaria, la “A silent
place”, dedita esclusivamente a suoni
tendenti a certo psich-folk contaminato.
Che nomi inserirete e vorreste inserire in
questo nuovo contenitore?
Per la A Silent
Place sono
appena usciti
i primi due
album. Un LP
dei My Cat
is an Alien
(Different
shades
of
Blue) di cui
sopra
e
un CD del
poliedrico
artista canadese (musicista, scrittore,
etc.) Aidan Baker, in trio con altri due
suoi connazionali, in una formazione nata
spontaneamente durante un festival a
Toronto e diventata gruppo qualche
tempo dopo...
Le prossime uscite sono davvero
interessanti. Siamo riusciti a “strappare”
una licenza all’americana Sub-Pop
(l’etichetta dei Nirvana, Soundgarden,
etc., per intenderci) che ha sotto
contratto gli italianissimi Jennifer Gentle
(duo padovano di ispirazione Barrettiana).
Con i Jennifer è in uscita un vinile dal
titolo Sacramento Session registrato dal
vivo durante una session in radio negli
states (appunto a Sacramento). In seguito
uscirà un CD di brani inediti...a seguire
Tom Carter, Acid Mothers Temple, Makoto
Kawabata, Aidan Baker (solo), Fear Falls
Burning, e tante altre belle sorprese.
Potrete iniziare ad approcciare (ma
con sospetto) con questi due loschi
figuri durante i concerti che Kawabata
Makoto (il mitico leader del gruppo cult
giapponese Acid Mother Temple) terrà in
sud Italia (a Bari il 1 marzo e a Squinzano
il 3 marzo) in occasione dell’imminente
uscita di un suo album per la SmallVoices.
www.smallvoices.it
Davide Rufini
LA PUGLIA ALLA CONQUISTA
DI AREZZO WAVE
La Puglia in questi anni ha lanciato musicisti
e gruppi interessanti da molti punti di vista
e per tutti i generi. Questo numero di
Coolclub.it indaga sulle cose che non ti
aspetteresti in un territorio come il nostro
ma esiste tutto un brulicare di situazioni
diverse che sarebbe stato troppo lungo
elencare ed analizzare: dai Negramaro
(ai quali dedicammo la copertina nel
marzo 2005) a Caparezza, dai Sud Sound
System ai Folkabbestia, dai Radiodervish
ai Bludinvidia, da Fido Guido ai Lotus.
Arezzo Wave rappresenta per molti di
questi gruppi (tra cui gli Studio Davoli ai
quali dedichiamo la copertina) il primo
confronto con un vero palco, un pubblico
esigente, una giuria e una opportunità di
emergere. In venti anni di attività sono stati
più di 20.000 le band e gli artisti emergenti
che hanno partecipato alle selezioni.
E anche quest’anno, dopo la prima
selezione su demo e le finali provinciali, il
festival gratuito italiano più importante e
seguito giunge alle finali regionali dalle
quali usciranno i gruppi che aproderranno
nella settimana del festival di Arezzo (11 16 Luglio 2006).
La Puglia parteciperà con due band
selezionate nel corso della finale di Bari (10
e 11 marzo allo Zenzero Club) che vedrà
alternarsi dieci gruppi giunti dalle varie
province. Lecce sarà rappresentata da
Crifiu, Manigold e Shank. A Bari le selezioni
hanno premiato Jolaurlo, Compagni di
Merengue e The carling. A Foggia la vittoria
è andata ai Contrada Capiroska. Le
province di Brindisi e Taranto decideranno
i propri finalisti nei primi giorni di marzo
(putroppo a giornale già in stampa ndr).
Tra i premi di Arezzo Wave 2 giorni
di registrazione gratuiti negli studi
convenzionati con fAWI e la possibilità
di far parte del cast di Arezzo Wave On
The Rocks 2006, la tournée italiana delle
band di Arezzo Wave. Inoltre le migliori 10
faranno parte della Compilation ufficiale
del festival e le migliori 5 si esibiranno
sul Main Stage, il palco principale della
manifestazione. Infine tra tutti i gruppi
regionali la fondazione Arezzo Wave Italia
assegnerà uno speciale premio di merito
consistente in una borsa di studio di 1.000
Euro come sostegno alla carriera artistica
delle nostre giovani formazioni musicali.
CoolClub
.it
DALLA NEW WAVE ALLA NEW NEW WAVE
Venti anni di storia del rock brindisino - Prima puntata
L’idea di scrivere una breve storia della
musica a Brindisi era già in cantiere da
tempo, poi, l’invito di CoolClub.it mi ha dato
lo stimolo per raccontare un fenomeno
affascinante, come del resto lo è il rock
ormai da 50 anni. Forse non sono la persona
più adatta a raccontare una vicenda che
è più vecchia di me. Per questo mi sono
rivolto agli “storici” del rock brindisino come
Roberto D’Ambrosio, fondatore dei Birdy
Hop che in questa prima puntata racconta
il passato, il presente e anche il futuro del
caso Brindisi, una città industriale che nasce
come porto di mare verso l’oriente e nei
tempi contemporanei vive all’ombra del
contrabbando di bionde e di una centrale
elettrica scomoda. Come Napoli anche
Brindisi, negli anni, ha risentito delle influenze
musicali portate dagli Americani (fino ad un
decennio fa era attiva una base Nato a San
Vito dei Normanni).
Nel corso della nostra chiacchierata Roberto
parte da un anno, il 1984, che secondo lui
segna l’inizio della scena rock. Un anno nel
corso del quale un bel numero di gruppi,
con diversa tipologia musicale (dal gruppo
dark al gruppo progressivo,dal gruppo punk
a quello rock’n roll), calcavano i palchi
della città. In quel periodo insieme a Davide
Miccoli e Nanni Surace, Roberto fonda i
Birdy Hop. Alla base del loro sound c’era del
buon rock’n roll, del pop beatlesiano e tanta
voglia di avvicinarsi a gruppi già collaudati
come i Blackboard Jungle di Vincenzo
Assante. Interessante come a quei tempi
ci fosse grande collaborazione tra i gruppi
che a partire dalla seconda metà degli
anni 90 fino ai nostri giorni si è trasformato
in una sorta di individualismo collettivo, ad
eccezione di alcuni casi.
Negli anni ’80 un grande contributo alla
scena musicale brindisina è stato apportato
da Marco Greco con il suo programma ra-
diofonico che andava
in onda sulle frequenze di Canale 94 e che
ospitava i gruppi locali.
La grande svolta per
tutta la scena musicale brindisina si è avuta
però con l’apertura
del Centro Sociale in
Piazza Duomo.
Uno spazio fondamentale, una fucina d’arte
dove le energie diventavano sinergie, un
centro dove ci si poteva confrontare con
le realtà musicali europee e non. Da non dimenticare che agli albori degli anni ’90 anche Mr. Mark Lanegan
e i suoi Screaming Trees
calcarono il palco del
Centro Sociale. Il “centro” fu fondamentale
per le band brindisine
perché offriva anche
una sala prove a tutti i
gruppi della città.
In quegli anni la scena
musicale crebbe molto. Nel 1989 i Birdy Hop
pubblicano un mini Lp, due anni dopo gli
Allison Run di Amerigo Verardi, escono con
la High Rise di Federico Guglielmi, redattore
del Mucchio Selvaggio. Nello stesso anno
anche gli amici Blackboard Jungle pubblicano il loro primo mini lp per la stessa etichetta dei Birdy hop (alla batteria c’era un
altro nostro amico: Maurizio Vierucci).
Intanto la stampa musicale (Rockerilla, il
Mucchio Selvaggio e altre riviste) parla di
una vera scena brindisina. Ma nella prima
metà degli anni 90 qualcosa cambia, gli
spiriti, un tempo vivaci, si affievoliscono,
inizia l’emigrazione verso il Nord di questa
generazione che ha sicuramente lasciato il
segno in una città che funge da passaggio
tra il Salento e il Barese, tra l’Albania e il
resto d’Italia.
Il Centro Sociale perde la lucentezza di un
tempo, soprattutto dopo l’incendio del
capannone dei concerti nel 94 e la partenza
di Joe Banana (una delle menti del centro
sociale) verso le capitali europee.
Un anno prima nel 1993 Nanni Surace esce
dai Birdy Hop e fonda i Gleba; prende il suo
posto Claudia Stella che sarà cantante e
bassista fino al 2000, anno in cui la band si
esibisce sul palco di Arezzo Wave.
Lo stesso Nanni Surace riprende un po’
quel concetto di fucina artistica che era
prerogativa del Centro Sociale aprendo
uno studio di registrazione e sala prove.
Dal suo studio sono passati i Miele June,
gli Psycho Sun, i Negramaro, i Mon Ame,
Amerigo Verardi, gli Ulisse Zero di Ennio
Ciotta, gli Scriba dei fratelli Leoci ora
produttori e musicisti di musica elettronica
con il progetto Fantasmagramma, gli
Hasting, i Prometeo, 05 di Contrabbando e
molti altri. Sicuramente ce ne saranno altri
che io non conosco, ma l’importante è non
dimenticare che il Pure rock studio è stato
un punto di sviluppo e informazione per
tutte le band degli anni 90, non solo della
provincia di Brindisi ma anche del territorio
leccese. Anche un’altra corrente musicale
si è sviluppata a Brindisi negli anni ’90: quella
della scena hip-hop.
Brindisi ha dato i natali a Wany uno dei
maggiori graffitisti italiani ed europei. A lui
si affianca un altro writer di nome Buz; ora
produttore di un progetto dancehall style,
che vanta grandi collaborazioni. Nel 1999
i Birdy Hop pubblicano Papier Mais, un
disco in italiano, ben accolto dalla critica.
Nel 2001 Claudia Stella esce dalla band e
rientra nella linea-up Nanni Surace con il
quale esce Invisibile.
Attualmente a Brindisi c’è un nuovo fermento
musicale. Gruppi come Petri (vincitori di
Arezzo Wave Puglia nel 2005) e Mamaroots
sono pronti a pubblicare un nuovo disco. Lo
stesso Creme, al secolo Maurizio Vierucci, gli
Accanito Fun e Amerigo Verardi insieme a
Silvio Trisciuzzi (Lotus) lavorano a un nuovo
album. In provincia gli Scamnum e la
Piccola Compagnia Instabile sono in studio
di registrazione. Dovrebbe uscire a breve
anche il nuovo album dei Lova. Intanto
Roberto d’Ambrosio ha concluso nel 2002
la sua esperienza Birdy hop, ha aperto una
sala prove con negozio di strumenti annesso
e sta preparando il suo disco da solista.
(To be continued...)
Giuseppe Scarciglia
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge, Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Mogwai
Mr. Beast
Matador
****1/2
Qualcosa di interessante sta accadendo
nelle rigogliose lande musicali in terra di
Scozia. Lo si percepiva già da un bel po’.
È come se il suffragio nazionale dello scorso
anno, che decretava i Belle and Sebastian
miglior gruppo scozzese di sempre, abbia
risvegliato una nuova e più forte coscienza
nazional-musicale, un istinto primaverile
a cambiar pelle, uno stimolante pretesto
da “anno zero” per rimettersi un po’ in
discussione. Lo si legge tra le pagine
dell’“ultimo romanzo” degli Arab Strap che
suona sorprendentemente rock e lo si nota
dall’audacia che permea lo sbarazzino
nuovo album dei succitati Belle and
Sebastian. Ovviamente non sfuggono alla
regola i Mogwai che, con i dovuti distinguo
stilistici, hanno molto da spartire proprio con
gli eroi nazionali. Non è solo il condividere lo
stesso produttore (Tony Doogan) o respirare
la stessa aria di fermento in città (Glasgow),
parliamo di due gruppi che al giro di boa dei
dieci anni di carriera decidono di scrollarsi
di dosso quella patina di iperproduzione e
compiaciuta autoreferenza che avvolgeva
(e un po’ soffocava) i loro rispettivi ultimi
lavori. A detta dello stesso leader Stuart
Braitwaite, l’istinto principale che ha spinto
la realizzazione di Mr. Beast è stato di creare
delle canzoni che riducessero la differenza
tra i loro dischi e le relative esecuzioni dal
vivo, canzoni che suonassero “louder”.
Perciò via quasi completamente archi e
fronzoli elettronici per lasciar spazio a suoni
più concreti e tangibili, inequivocabilmente
più rock. Le atmosfere oniriche rimangono
ma si tingono di colori più vividi e contrastati,
come nell’iniziale Auto Rock, che si apre in un
magico ed intenso crescendo di pianoforte
scandito da un drumming ossessivo. Il disco
si piega subito dopo sotto il peso del muro
di chitarre della seguente Glasgow Mega-
Snake, forse il pezzo-manifesto dei “nuovi”
Mogwai, quello in linea d’aria più distante
dalle diluite Happy Songs For Happy People
di tre anni fa. Fanno seguito i due unici pezzi
cantati del lotto: una quieta ballata dal
gusto acido con tanto di slide guitar bucolica
in chiusura (Acid Food) ed una Travel Is
Dangerous dal notevole impatto emotivosonoro. Si alternano poi il sobrio chiaro/scuro
del bel singolo Friends of the Night a episodi
di vigoroso rumore (Folk Death 95, We’re No
Here), in mezzo il meglio del registro Mogwai
senza però i tipici crescendo apocalittici da
cattedrale sonora, marchio di fabbrica dei
loro primi dischi. Tutto è più organico: fragore
chitarristico e introspezione melodica sono
uniti in nuovi ed affascinanti amalgami
sonori. Ancora una volta i cinque di Glasgow
regalano intense emozioni evitando, non
senza sforzo, di ripetere se stessi.
Giovanni Ottini
KeepCool
10
Clap Your Hands Say Yeah
Clap Your Hands Say Yeah
Wichita-V2/Edel
Indie rock / ***
Sono
bastate
poche
entusiastiche chiacchiere
volate di blog in blog, il
passaparola della rete,
insomma, per trasformare
questa band nel caso
dell’anno, e tutto senza
godere assolutamente di appoggi
discografici. Poi il contratto è arrivato
(ovvio!), ma a questo punto una domanda
sorge spontanea: tanto rumore per cosa?
La risposta è tutta in queste 12 songs che
fanno parte dell’omonimo album dei
Clap Your Hands Say Yeah. Qui dentro c’è
tutta la Big Apple: dalla disperazione dei
Velvet Underground alla beata indolenza
degli Strokes, c’è tutta la freschezza di chi
parte dalle idee per arrivare allo scopo,
ci sono canzoni, energia, sfrontatezza,
ingenuità. In un mondo di finti maledetti
senza talento sembra quasi un miracolo
tutto questo. Entusiasmo eccessivo? Può
darsi! Resta il fatto che adesso c’è un
precedente con cui fare i conti. (E già
si fa un gran parlare degli inglesi Arctic
Monkeys, altro fenomeno alimentato dal
web… Ma questa è un’altra storia…). Ci
troviamo di fronte ad un debutto che
ha fatto saltare dalla sedia gli addetti ai
lavori più disincantati. Salutiamo allora
anche noi questa opera prima dei Clap
your hands say yeah con tutto l’onore
che meritano. I requisiti non mancano.
Intanto c’è padronanza strumentale
e un solido background forgiato nei
sempreverdi eighties di gruppi seminali
come i Talking Heads e i Violent Femmes,
ma soprattutto c’è una freschezza di
idee e un’irriverenza naif che fa di questi
folletti metropolitani una
rivelazione
quantomeno elettrizzante. Un debutto
che ha portato una ventata di novità
su questa triste palude culturale in cui ci
si dibatte da un po’ di tempo a questa
parte.
Camillo Fasulo
Ryan Adams
29
Mercury
Country Folk / **
Quando
il
troppo
stroppia. Afflitto da
iperprolificità
Ryan
Adams
sforna,
a
brevissima
distanza
dal
precedente,
il
disco che dovrebbe
concludere un ciclo di
album dedicati dall’autore alla riscoperta
delle radici del sound americano. E 29 è
un disco classico in cui il blues più rurale
e il country vengono passati e ripassati in
rassegna. Ci sono brani che non possono
non piacere, ancorati a vibrazioni
che non possono non emozionare o
suggestionare (vedi la travolgente
tiltle track, il guizzo latineggiante di
The Sadness). Ma sulla lunga distanza
ci si comincia ad affaticare. Sembra,
soprattutto nei momenti più riflessivi,
mancare un po’ di quella ispirazione
che ha sempre contraddistinto Adams.
Il problema quando si imbraccia una
chitarra e si sfida la storia è di cadere al
confronto con i mostri sacri. (O.P.)
Midaircondo
Shopping for images
Type/Wide
Elettropop / ***
Shopping for images
è il frutto di un anno
di performance live.
Concerto
dopo
concerto tre giovani
ragazze svedesi hanno
“strutturato” ciò che
prima
erano
suoni
astratti e sperimentazioni strumentali,
giungendo alla registrazione di questo
disco dagli originali pezzi elettroacustici.
Midaircondo rimane comunque una
band dal forte impatto live - come
piace sottolineare alle stesse artiste
- e durante i loro show le componenti
visive, creative sperimentazioni video
da loro prodotte, giocano un ruolo
di fondamentale importanza. Un mix
di synth, laptop e strumenti acustici voce, sassofono e flauto - avvicinano
l’elettronica al pop arrivando ad una
suggestiva combinazione di melodie
tradizionali e musiche sperimentali. Se
l’improvvisazione rimane il punto di forza
del trio svedese, come dimostrato al
Kals’Art di Palermo dove hanno suonato
insieme ai dEUS, queste undici tracce
registrate rappresentano una buona
prova discografica. Aspettando di
vederle dal vivo, una canzone su tutte:
Serenade.
Valentina Cataldo
Ant
Footprints Trough the Snow
Homesleep
Acustic Pop / *****
Antony
“ANT”
Harding a lungo è
stato il batterista di
una delle band che
meglio ha saputo
unire negli ultimi
anni sonorità indie a
gusto pop: gli Hefner
(poco
conosciuti
nella nostra terra ma apprezzatissimi in
ambito indie). Dopo il primo disco da
solista Fortune & Glory ecco che arriva
questo Footprints Trough the Snow per
l’italiana (e lungimirante) Homesleep.
Tredici tracce in cui l’autore si cimenta
con tutti gli strumenti e lo fa in modo
egregio. Fin dal primo ascolto il disco mi
colpisce per la sincerità con cui è stato
scritto e prodotto. Un piccolo capolavoro,
maturo, essenziale, minimale ma che
giunge dritto al cuore di chi lo ascolta. E
lo fa in modo mai scontato, riuscendo a
creare atmosfere malinconiche in cui si
scorge una fantastica alba.
Cesare Liaci
The Spinto Band
Nice and Nicely Done
Bar/None Records
Indie Rock / ***
Hanno dai 19
ai 23 anni e
prendono
il
nome dal nonno
del cantante,
tale Roy Spinto
chitarrista.
Sanno
di
aria
fresca
e
fondono
insieme - seppur conservando grande
originalità - le parti migliori di Shins, The
Flaming Lips e qualcosa dei Pavement,
senza voler troppo esagerare. Sono sette
giovanissimi statunitensi provenienti dal
Delaware che, senza prendersi troppo
sul serio, hanno sfornato un album
energico e pungente. Piccole canzoni
dai giri semplici e disinvolti, ripetuti più
volte e facilmente memorizzabili. Chitarre
morbide, tastiere e persino mandolini,
come in Oh Mandy che potrebbe far
pensare ad una cover di Barry Manilow,
ma che è invece un originalissimo pezzo
dai passaggi molto personali, con
delicati e timidi picchi vocali e divertenti
e stuzzicanti coretti. Niente da ridire su
questo bel disco, debutto della band per
una major. Radiante, scanzonato e senza
dubbio ben fatto.
Valentina Cataldo
Hypocrisy
Virus
NuclearBlast/Audioglobe
Death-Metal/****
Ritorno
della
band
deathmetal
Hypocrisy, con il loro
decimo lavoro:
Virus. Ogni volta che ritornano sul mercato
è una sorpresa,
infatti non si sa
mai come suoneranno, se più brutali, oppure proponendo un album ricco di mid-tempo e quindi
più melodici. Questa volta il risultato è
una sintesi delle varie soluzioni stilistiche.
Inoltre, aiutati dall’ingresso in formazione
del nuovo batterista, hanno schiacciato il
piede sull’acceleratore delle loro esecuzioni, scrivendo alcuni fra i brani più brutali, avventurandosi in territori blak-metal.
Quindi un lavoro che alla cattiveria di
molti brani contrasta la voglia di episodi
melodici. Per quanto riguarda le liriche,
oltre a parlare delle solite invasioni aliene,
i nostri riprendono tematiche tanto care
al death.metal della prima ora, ossia:
mutilazioni, trasfigurazioni ed autopsie, in
una parola “splatter”. Virus è un album
compiuto dal punto di vista musicale,
concettuale e soprattutto della produzione. Consiglio l’ascolto a tutti gli amanti
del death-metal, esclusi i soli estimatori
della scuola americana.
Nicola Pace
KeepCool
11
Sea Dweller
Sea Dweller
Autoprodotto
Pop / ***
Due brani, entrambi molto belli
ed intensi, per il
debutto su demo
di questo giovane
trio romano con
lo sguardo rivolto
all’Inghilterra dei
primi ‘90. She whispers e Sister of my
dreams ci riportano alla mente il dreampop di Slowdive, My Bloody Valentine e
Ride. Melodie sussurrate immerse in un
mare di chitarre avvolgenti e liquide, ma
anche capaci di esplosioni improvvise
alla maniera dei Catherine Wheel e malinconiche fughe psichedeliche da sogno; sezione ritmica pulsante. Se soffrite
di cuore o se almeno avete un debole
per le più romantiche produzioni della
Creation non fateveli scappare.
Antonio Olivieri
Gogol Bordello
Gipsy Punks: Underdog World
Strike
Side One Dummy
Klezmerindieskapunk / ****
Fanatico
del
pogo selvaggio?
Frikkettone
all’ultimo stadio?
Ecco il tuo gruppo!!! I Gogol Bordello (dal nome
dello
scrittore
ucraino Nikolai
Gogol e dalla semplice parola Bordello
con il suo significato letterale) sembrano
essere la nuova “way of entertainment”
in fase di lancio nel panorama festaiolo festivaliero estivo. Nati qualche anno
fa da un’idea di Eugene Hutz cantante
ucraino trasferitosi nel 1996 a New York
(anno anche di fondazione del gruppo),
questa strampalata band propone nel
suo terzo disco una serie impressionante di generi e soluzioni musicali vicine ad
artisti come Bregovic, alla musica klezmer, a certe sonorità nordafricane, ma
anche a furiose scorribande punk, indie
(stile Pixies) e ska… incredibile ma vero.
Somiglia al brodo che mia nonna fa il sabato… non manca davvero nulla. Il risultato (come il brodo di mia nonna) è più
che buono, anche perché, dall’ascolto
viene subito fuori una verve ludico-zingaresca (a quanto pare sottolineata negli
infuocati live della band) che rende tutto
molto piacevole e di semplice ascolto.
Non mancano testi raffinati, altri di protesta (in puro stile combat, folk, rock) e
colorito linguaggio carico di parolacce
e bestemmie (che nella canzone Santa
Marinella sono anche in italiano!!!). Insomma, antipasto dell’estate prossima
ventura che li vedrà protagonisti su numerosi e importanti palchi europei. Italia
compresa.
Cesare Liaci
Wolfmother
Wolfmother
Modular/Universal
Hard Rock / ***
Ogni volta mi lascio fregare. Lo so che
non dovrei, ma ogni volta ci casco.
Appena sento quelle chitarre, quel
ritmo, quella voce non resisto. Sono
drogato di anni ’70, sono un fan dei
Led Zeppelin e questo disco mi piace.
Vengono dall’Australia, terra non nuova
a questo genere di band (vedi Datsun
e Jet) e sono sintesi ed espressione di
quello che Black Sabbath, Led Zeppelin,
Deep Purple, un po’ gli Yes, e, giusto per
arrivare alla nostra decade, i Mars Volta
ci hanno gentilmente regalato. Granitici,
compatti, tirati ma al contempo capaci
di impennate emozionali dai picchi vocali
a tratti imbarazzanti i Wolfmother hanno
confezionato un disco che potrebbe
sembrare scolastico ma che non dà il
tempo di pensarci. Hard rock, un po’
heavy, decisamente classic, i Wolfmother
non scrivono niente di nuovo ma lo fanno
benissimo. Per i nostalgici un po’ tamarri
come me. Rock and roll. (O.P.)
Oceansize
Everyone Into Position
Beggars Banquet/Self
Rock / ****
Arrivano da Manchester, ma sono
in giro già da qualche anno. Hanno
sempre usato dilatate dosi di melodia
all’interno però di
notevoli porzioni di
rumore. Nel 2003 le
esplosioni drammatiche di Effloresce, prima uscita ufficiale per Oceansize, trac-
ciarono il solco che portò al mini album
Music For Nurses dell’anno dopo. Due
episodi questi, che, con il più recente
Everyone Into Position, confermano gli
Oceansize tra i più ispirati testimoni di
un rock convulso e fiammeggiante, che
prende forma dalle intuizioni più illuminate della scuola post punk e poi post
rock anglosassone. Rock che si nutre di
chitarre allucinate, voce profonda, ritmiche secche e nevrotiche e fiumi di melodie narcolettiche. Un po’ schizofrenici e
difficilmente adattabili ad una qualche
scena, gli Oceansize confessano candidamente che le loro band favorite di
tutti i tempi rispondono ai nomi di Aerogramme, Elbow, Pink Floyd, Black Sabbath, Can, Jane’s Addiction, Verve, Beach
Boys, Nine Inch Nails, Gong, Talk Talk e
Mogwai … tutte influenze più o meno affioranti in Everyone Into Position che alla
fine resta, comunque, uno straordinario
delirio di romantica psichedelia che solo
a Manchester sanno creare. È l’estrazione
proletaria di tutti e cinque i componenti
degli Oceansize la miccia che fa esplodere la visione disincantata che la band ha
della realtà che la circonda. Ma non c’è
solo rabbia e potenza in questo album.
C’è spazio anche per ballate stellari, che
ti fanno tremare lo stomaco nell’attesa
della devastante esplosione che puntualmente arriva fracassandoti il cuore in mille
piccolissimi fiammeggianti frammenti.
Camillo Fasulo
Satellite inn
Inthe land of the sun
Urtovox
Alternative country / ****
Si apre come se i
Calexico si recassero
in vacanza a casa
dei Mogway. Tra
folk sottile, sognante
psichedelia
alla
Hope of the state,
articolato
come
Bonnie Prince Billy in
coppia con i Tortoise, il nuovo disco dei
Satellite Inn è un viaggio nell’alternative
country che passa dalle parti dei Wilco
per poi farsi rock. In the land of the Sun è
un disco pensato come un’unica opera,
un concept dei nostri giorni. Un disco
come una corsa in macchina, una lunga
strada, paesaggi mutevoli che scorrono
fuori dal finestrino, e storie, una per
KeepCool
12
ogni canzone. Le trame fragili, ricche di
arrangiamenti e strumenti, mai invadenti
ma suadenti, avvolgenti a tratti struggenti
sono il trampolino per un volo planato
lungo e piacevolissimo. Tra le note della
band si legge di un glorioso passato.
Quello che è sicuro è che dinanzi a loro
c’è un grande futuro.
Osvaldo Piliego
The Shadow line
You ain’t nothing but a lot of talk
and a badge
Autoprodotto
Rock / ***
Partono
convinti
fin dal primo riff gli
Shadow line. Apertura
con chitarrone quasi
surf che dirompe in
un rock and roll che
trascina e decolla
tra chitarre graffianti,
sinth e una voce chiusa in una scatola
troppo stretta. E il disco corre via
veloce tra rimembranze punk anni 80,
suggestioni sixties, il tutto tenuto insieme
da una propensione indie figlia dei nostri
giorni. Gli Shadow Line sembrano aver
imparato bene la lezione e studiato a
fondo prima di riuscire a sintetizzare le
svariate influenze che emergono qua e
là in un disco che tra momenti più ruvidi
e concessioni pop che ricordano i primi
Oasis rivela una band che scrive e suona
la musica con la passione di chi vive
per il rock. Senza fronzoli o troppi effetti
speciali, ci regalano un disco che è come
una dichiarazione d’amore a quello che
è stato. Sette brani ricchi di sana energia
suonati con la marcia giusta.
Cesare Liaci
Liars
Drum’s Not Dead
Mute
avanguardia / ****
Indubbiamente
sono una delle più
interessanti
band
newyorkesi, i Liars,
trio capitanato dal
frontman
Angus
Andrew. Dopo due
lunghi ed estenuanti
anni di tour e dopo
un eccellente secondo disco (They Were
Wrong So We Drowned), inquietante e
psicotico quanto affascinante, giungono
ad un nuovo e terzo capitolo, un concept
album intitolato Drum’s Not Dead, da
molti critici già definito un capolavoro.
Per registrarlo la band ha deciso questa
volta di spostarsi nel cuore d’Europa, a
Berlino, culla di cultura non solo musicale,
una scelta decisiva per il loro sound,
ancora più lontano dagli schemi, dai
generi tradizionali e dalle mode, dalle
strade già segnate. I Liars sono pura
sperimentazione, cupa, visionaria, a tratti
violentemente psichedelica, sono un
pugno nello stomaco creato al fine di dar
sollievo, un dolore lancinante di cui non
puoi fare a meno, sono gli incubi che non
sapevi di possedere nella tua mente, nei
tuoi ricordi. I pochi fortunati che hanno
avuto il piacere di vederli all’ultimo
Arezzo Wave sanno di cosa sto parlando,
la loro energia è trascinante dal vivo,
un’esperienza onirica, un viaggio. Un
messaggio per gli amanti della musica
dagli approcci tenebrosi, provate ad
ascoltare, non vi pentirete.
Livio Polini
Beth Orton
Comfort Of Strangers
Astralwerks
Folk / ***
Sono
passati
ben quattro anni
da
Daybreaker,
forse l’album più
rap pres e n t a t i v o
della
carriera
di
Beth
Orton,
cantautrice
folk londinese. Il
nuovo album, il
quarto in ordine discografico, Comfort
Of Strangers, manifesta delle importanti
differenze nel suono, si può notare
immediatamente la voglia di un ritorno al
classico, segnato dall’abbandono della
chiave elettronica che aveva arricchito
e contraddistinto in passato lo stile
delle composizioni. Se prima si poteva
tranquillamente parlare di folktronic,
grazie ad importanti collaborazioni di
artisti come ad esempio William Orbit,
adesso non più. La produzione di questo
disco è assegnata a Jim O’Rourke,
molto bravo nel suo ruolo, equilibrato
nelle scelte. Questa volta, dicevamo,
siamo di fronte ad uno spettacolo dove
protagonista principale è la voce. È
una splendida interpretazione quella di
Beth, che ancora una volta ci regala
gioielli di mirabile finezza. Qualcuno non
sarà contento di questa “nuova” veste
musicale, ad un ascolto superficiale certi
passaggi possono sembrare ripetitivi.
Pian piano, invece, ci si rende conto che
lo scenario creato è di buon spessore,
le punte di qualità molto alte. Lo spirito
malinconico e gioioso a seconda dei
momenti, la natura richiamante il pop,
tutto entra in contatto senza difficoltà.
Livio Polini
Burning Seas
Sweet Coma
Autoprodotto
Metal / ****
Trovare oggi una
metal band che
sia
quantomeno
interessante
nella
marea dei demo e
promo che ormai ci
travolge è diventata
un’impresa ardua.
Ma se il genere
è suonato con intelligenza e se al suo
interno s’incorporano elementi che
potrebbero definirsi, perché no, anche
antitetici fra loro, allora le possibilità
di trovarsi di fronte ad un gruppo
interessante e maturo potrebbero
aumentare. Prendete i Burning Seas ad
esempio. Sweet Coma è figlio diretto del
nu metal di scuola Korn e dei suoni più
estremi provenienti dal nord Europa (In
Flames, Dark Tranquillity, Anathema), ma
con un’attitudine sottilmente influenzata
dalla melodia tanto cara alla vecchia
scuola hard rock (Black Sabbath su
tutti). La componente “nu” tradisce però
anche una radice strettamente metal più
vicina al thrash evoluto, un po’ sulla scia
di Pantera, Sepultura e Machine Head,
se vogliamo. Per farla breve: antico e
moderno si fondono perfettamente nel
“dolce coma” dei pugliesi Burning Seas.
Avrete capito che ci troviamo di fronte
ad un prodotto di qualità superiore alla
media, ma che lascia anche spazio ad
un ulteriore margine di miglioramento.
Contatti: www.burningseas.it
Camillo Fasulo
Julie’s Haircut
After Dark, My Sweet
Homesleep
Indierock/ ****
Da Sassuolo con una valigia carica di
energia e stimoli ritornano in scena i
Julie’s Haircut per il loro quarto album. In
questa occasione troviamo nel gruppo
un nuovo membro, Andrea Scarfone,
specializzato in chitarra ed effetti. Cresce
in questo modo indubbiamente il livello
qualitativo, sembra davvero raggiunta
la cercata maturità. Passati in questi anni
dal garage rock al noise ad esperimenti
di varia natura indierock, i Julie’s Haircut
virano in questa occasione ancor di più
verso la strada psichedelica, strada per
certi tratti già incontrata. La particolarità
di questo disco è data dal fatto che gran
parte dei brani sono di lunga durata,
soltanto quattro brani su undici sono
cantati e cinque sono registrati in take 1
(traduzione: buona la prima!), in questo
modo si può percepire amplificata
l’emozione e la forte potenza del
gruppo, le sfumature, l’improvvisazione.
Si possono notare certi richiami in alcuni
brani al post-rock anni ’90 e al kraut-rock
seconda metà ’70. La parola d’ordine
che contraddistingueva questi generi,
come sappiamo, ancora una volta
è sperimentazione, ma è il richiamo
psichedelico degli anni ‘60 il richiamo più
forte, quello dominante. Davvero una
piacevole sorpresa, un buon disco.
Livio Polini
KeepCool
13
Sarah Jane Morris
After All These Year
Irma
Non solo jazz / ****
Tiga
Sexor
Pias belgium
Tunz tunz/**1/2
E così Tiga, il canadese che, dopo gli innumerevoli trascorsi techno djistici, con
Sunglasses At Night aveva fortemente
contribuito a far bruciare (e riportare) in
club una generazione, taglia un nuovo
traguardo, quello dell’album. E delude,
parzialmente. Sì, perché di fronte a un remixatore di cotanta classe ci si attendeva
qualcosa di più. Anzitutto una produzione
più a fuoco. E poi a fronte anche dei soli
singoli che avevano anticipato questo lp
(qui tutti presenti per altro) non si può dire
che gli altri pezzi che lo costituiscono sortiscano gli stessi eccitanti effetti. E allora
succede che: Far From Home bazzichi il
pop facilone con una filastrocca un po’
deboluccia, da sottoscala british. Capita
di imbattersi in Down In It, cover piuttosto
imbarazzante, come da una compila di
trip hoppers versione demo che omaggiano NIN. Per fortuna You Gonna Want
Me ci riporta ai fasti dell’electroclash più
houseggiante. Neanche tanto tempo fa.
High As School rappresenta l’urgenza del
disco. Se avessi ancora 15 anni…Un’urgenza, come dicevamo, che a volte
si tramuta in pasticcio, come la cover
(l’ennesima!) di Burnin Down The House, che tanto spaccherà sul dancefloor
quanto poco influirà nell’economia del
disco. O 3 Weeks, molto Marc Almond
via Punx Soundcheck, che se pasticcio
non è, suona comunque scivolata via. Si
riscatta con il protagonista del dramma,
l’infame Sexor cantata con piglio sumneriano, il pezzo più “New Order”, quello più
commovente, uno sguardo finalmente
obliquo, senza pilota automatico da singolo boombastico scuoti-le-chiappe alla
Pleasure From The Bass (che tanti mostri
ha creato), e con Good As Gold, inquietante e notturna. Forse il problema ha a
che fare con le aspettative che si nutrivano di fronte a un disco come questo.
Verrebbe da dire “lasciatelo lavorare”.
Pressioni da parte delle case discografiche? Ma Tiga non è Mr. Hollywood. E i
dischi costano..
Sergio Chiari
Lo stile di Sarah
Jane
Morris
è
incondizionatamente
poliedrico. Partendo
dal canto jazz, si è
presto
allontanato
dalla tradizione alta,
quella che annovera Ella Fitzgerald,
Billie Holiday, Sarah Vaughan e poche
altre tra le stelle incontrastate e un
numero imbarazzante di seguaci dalla
personalità miserella. Con una curiosità
bulimica, e un occhio alla classifica, la
vocalist inglese si è così rivolta al rhythm
& blues, al rock, alla musica leggera
– con una vittoria al festival di Sanremo
al fianco di Cocciante – e finanche alla
disco music. L’energia e la grinta vocale,
il timbro scuro e la pronuncia sempre
intelligibile, poi, trovano nelle esibizioni live
un punto di fusione tale da accattivarsi
sempre il pubblico, sciogliendo tutte le
possibili riserve nei confronti delle scalette
eterodosse. Il doppio After All These Years
ripercorre abilmente il percorso sghembo
e tortuoso condotto dalla cantante: si
tratta infatti di una raccolta che mette
insieme le sue diverse anime. E ci riesce
piuttosto bene, proprio perché evidenzia
il carisma sul palco e la capacità di
affrontare un imbarazzante ventaglio di
cover, da Piece Of My Heart (registrata lo
scorso anno nel memorabile concerto a
Villa Celimontana) e Mercy, Mercy Me a
River Man (un pezzo di Nick Drake molto
amato dalle vocalist moderne) e Chelsea
Hotel.
Gianpaolo Chiriacò
Projecto Heleda
Roma – New York – Baires
Club Records
Tango / ***
Roma è la città di
partenza per questi
musicisti, New York
è la metropoli di
passaggio
per
antonomasia,
e
Baires rappresenta
il porto d’attracco,
quello di Buenos
Aires.
L’estetica
del Projecto Heleda è incentrata sul
tango, e su tutte le diramazioni, intrise di
passionalità drammatica, della musica
argentina, inquinate poi da un approccio
quasi jazzistico e una distensione
tipicamente lounge. L’uso esclusivo di
strumenti “tradizionali”, con la fisarmonica
e il Rhodes in grande evidenza, si inserisce
tra le elaborazioni del Gotan Project e le
evoluzioni di Javier Girotto e i suoi Aires
Tango. Il sound generale è godibile,
con una predilezione per la corposità
dei timbri. Minimi sebbene ben mirati, gli
interventi in produzione lasciano spazio al
flusso disinvolto dei piccoli assoli, sorretti
dalla pulsazione costante (a tratti pure
troppo costante) di basso e batteria. Nei
pezzi più attraenti fanno capolino anche
altre voci strumentali – come la tromba in
My Noche Tango e il bel solo di chitarra
in Ocho – in grado di colorare i quadri
sonori senza denaturarli. Un disco in fondo
onesto, senza orpelli né ricami, ma dagli
ampi orizzonti.
Gianpaolo Chiriacò
Tosca
Souvernirs
G-Stone
Down tempo – Chill out / ***
Il ricordo di quel
che è stato, filtra
ed è cangiante, si
ripropone in nuova
forma
quando
riaffiora. Questi sono
i Souvenirs di Tosca,
sedici tracce affidate
ad una manciata
di manipolatori che gli hanno dato
nuova vita. E si passa dall’effetto quasi
cut up dell’apertura per avventurarsi in
escursioni nel dub, momenti più chill out,
altri più groovy quasi funk e un delirio
chachacha virato samba a cura di
Senor Coconut. Non mancano morbide
casse dritte accarezzate da acustiche
quasi ambient, ritmiche più tribal, altre
più trans. Nel complesso la raccolta è
ben calibrata, non manca di varietà e
qualità, si lascia ascoltare con grande
godimento, e, verso la fine, invoglia alla
danza morbida. Vestire di nuovo pezzi di
per se belli non ha fatto altro, in questo
caso, che impreziosirli. (O.P.)
Fat Freddys Drop
Based On A True Story
Self
Dub-reggae / ****
La
“true
story”
del
titolo
del
disco
potrebbe
benissimo
essere
la loro: un allegro
e
ben
assortito
collettivo di sette
musicisti provenienti
da
contesti
stilistici differenti che dopo essersi
costruiti una solida reputazione da
live band, passano dalla carboneria
della discografia underground al primo
posto della classifica nazionale (doppio
platino incluso) con una produzione
indipendente dub/reggae oriented.
Aggiungeteci che i nostri vengono da
Wellington, Nuova Zelanda, e la storia,
oltre che vera, diventa esemplare. Le
dieci succulentissime tracce del loro
disco d’esordio sono un abile miscuglio
di suoni e stili diversi. In ognuna di esse
convivono le influenze portate in dote
dai singoli musicisti in un ideale somma
algebrica di roots reggae, elettronica,
funk, jazz e dub. Denominatore comune
è la suadente voce soul di Dallas Tamaira
(al secolo Joe Dukie) che ammalia e
ipnotizza in ogni episodio, sia esso il down
tempo dal sapore rnb di Ray Ray, il ritmo
in levare con battuta funk di Roady o la
KeepCool
14
ballabilissima Wondering Eye. Le canzoni
si sviluppano, crescono e si evolvono
più volte nella loro lunga durata media,
si dilatano, rallentano, si caricano di
tensione, implodono per poi ricostruirsi
e cambiare direzione senza mai uscire
dal seminato. L’atmosfera generale è di
raccolta intimità con quei ritmi rilassati
e dilatati e quell’attitudine da sound
system montato in salotto. Il tutto è stato
minuziosamente creato e assemblato
nella casa/studio del Dj Fitchie (capo
della banda e attualmente il produttore
più osannato in patria) nonché quartier
generale
del
gruppo,
chiamato
affettuosamente “the beach” perché a
pochi passi dal mare. Bella storia (vera).
Giovanni Ottini
Gomo
Best of Gomo
Santeria/Homesleep
Pop elettronico / ***
Dopo il grandissimo
successo
ottenuto in casa,
il
portoghese
Gomo
dilaga
anche in Italia.
Tormentone bombardato a raffica
da Mtv Gomo non
può non piantarsi
nel cervello. Pop elettronico sbarazzino,
ritmo preso in prestito dal cugino americano Beck a cui molti lo paragonano.
Ma tolta una certa attitudine in bilico
tra indie e dancefloor poco accomuna
i due. La formula che compone questo
best of Gomo è semplice ma efficace: 12
brani, 12 singoli. L’apripista e riempi pista
Feeling Live con tanto di vocine strecciatissime non può non invitare alla danza
felice. Sempre in equilibrio tra quello che
può piacere all’appassionato e quello
che può sponsorizzare una macchina
o una compagnia telefonica. Alla fine
Gomo è un compromesso, un Bignami
per approcciare senza approfondire la
materia. Ma nel pop, tutto questo, va più
che bene. (O.P.)
Bassi maestro
Hate
Saifam
Hip-hop / *** 1/2
Nuovo disco e nuova etichetta per uno
dei pionieri del rap made in Italy: Bassi
Maestro. Abbandonata la Vibrarecords
propone il suo ultimo lavoro, Hate, dopo
aver
resistito
alle lusinghe di
cambiare il suo
flow a favore di
ricchi contratti e
passaggi televisivi.
Ognuno fa delle
scelte e Davide
Bassi
nel
suo
ottavo album fa la
scelta di tornare alle origini con un soundnostalgia che tanto ricorda i suoi primi
lavori, come lo splendido Foto di gruppo
(1997). In questo disco, che spazia dalla
emozionante Dedicated, atto d’amore
verso il rap, alla amara protesta di Knock
‘em out in cui prende alla berlina il
mondo della musica commerciale, Bassi
dimostra di non essere finito e di avere
ancora tanto da dire. Con delle riserve.
Perché se è vero che la sua capacità di
denunciare senza remore o censure non
viene mai meno, è altrettanto evidente
in lui il bisogno di rinnovarsi, almeno
nelle tematiche sempre agganciate al
microcosmo milanese e a una sorta di
disfattismo. Non un capolavoro quindi,
ma un disco onesto e come sempre
appassionato, per uno degli interpreti più
sinceri e longevi del panorama italiano.
Per appassionati.
Papa Ciro
Mondo marcio
Solo un uomo
Virgin
Hip-hop / ****
Diciannove anni,
tre
dischi
alle
spalle e un futuro
da star. Queste
le
credenziali
di
Gianmarco
Marcello, in arte
Mondo
marcio,
nuovo fenomeno
dell’hip-hop
italiano proveniente dai bassifondi
milanesi e da qualche settimana in cima
alle classifiche italiane con il singolo
Dentro alla scatola. Un’infanzia difficile
alle spalle, una famiglia poco unita, la
droga, gli assistenti sociali. E la musica.
Già, la musica, senza la quale la sua vita
avrebbe preso una piega diversa. Ed è di
questo che racconta Solo un uomo, urlo
di dolore e al momento stesso di riscatto,
piccolo fiore cresciuto fra le macerie di
una periferia troppo grande per poter
essere ascoltata. Temi duri dunque, ma
anche reali, così come il talento di questo
ragazzo che riesce ad unire sonorità
americane tipiche di 50 cent e Jay-Z al
racconto appassionato di una realtà che
ci è vicina. Singolo a parte, l’anima di
questo disco passa da pezzi commerciali
come Segui la stella a motivi interessanti
come Purple weed, che rendono d’un
colpo solo l’idea di un lavoro variegato
e di sicuro successo. Che ha riscritto le
regole dell’hip-hop italiano.
Papa Ciro
Niccolò Fabi
Novo Mesto
Virgin/Emi
Pop Italiano / ****
Dopo dieci anni di carriera e molti singoli
di successo (forse meno di quanto
meritasse) alle spalle, Niccolò Fabi
esce con Novo mesto e entra subito in
classifica a ridosso dei primi dieci posti
della classifica: miglior risultato di sempre
(per usare una espressione sportiva) per
il cantautore cresciuto nella “scuola
romana” con Daniele Silvestri, Max
Gazzé, Federico Zampaglione, Riccardo
Sinigallia e molti altri. I dieci brani,
registrati nella località slovena di Novo
mesto (appunto) ripercorrono, in maniera
delicata e musicalmente raffinata, il tema
del viaggio. Novo mesto (l’aria intorno),
Oriente, Mettere le ali, il bel singolo
Costruire (dove forse i vocalizzi indugiano
un po’ troppo nel finale), Dentro mettono
in evidenza la capacità di scrittura tra
dolci ballate e sonorità jazz, tenue rock
e pop d’autore, sempre e comunque
disegnate per la inconfondibile voce.
Mai banale, mai scontato, nelle linee
melodiche come nei testi, Novo Mesto
è, (come si dice retoricamente) il lavoro
della maturità di Fabi.
Sandro Lattes
KeepCool
Francesco De Gregori
Calypsos
Caravan
Melodia italiana / **1/2
Neanche un anno
dal già deludente
(almeno
per
me) Pezzi e il
mio cantautore
preferito – butto
le mani avanti
per sottolineare
il mio dolore sforna un nuovo
album alquanto zoppicante. Sulla
poetica del principe nulla da dire ma nei
nove nuovi brani fatico a trovare quello
indimenticabile. Rispetto al precedente,
Calypsos è un album che parla d’amore,
di sentimenti, lontano da qualsiasi
riferimento alla politica e alla cronaca. Un
rifugio nell’attuale marasma elettorale,
un ritorno alla poesia e alle canzoni
d’amore tra piani e ritmi più blandi, poco
rock, poche chitarre elettriche, molti
coretti, voce meno dylanizzata, melodia
italiana. Impossibile non citare la prima
volta per De Gregori della frase “ti amo”
(presente nel primo singolo Cardiologia)
che un po’ spiazza considerata la voce di
chi pronuncia la frase. L’album prosegue
con il terzinato de La linea della vita,
con la costruzione de La Casa, con ritmi
vagamente hawaiani de L’angelo (che
richiama Matilda di Harry Bellafonte),
con cantilene un po’ esagerate di In
onda, con le sonorità alla Dire Straits di
Mayday, con il bluesettino di Per le strade
di Roma, con il lento oscillare de L’amore
comunque, e con l’avvio stile Una donna
per amico di Tre stelle. Calypsos non
girerà spesso nel mio stereo.
Pierpaolo Lala
Marco Notari
Oltre lo specchio
Artes/Mescal
Rock italiano/**
Opera prima acerba e poco a fuoco
quella del giovane Marco Notari che,
supportato nella produzione artistica da
Giulio Casale (Estra), non va oltre un pallido
indie-pop fortemente imparentato a
quelle esperienze nazionali che in epoche
più o meno recenti hanno costituito la
via italiana al rock indipendente. Poco
personale e con una voce che fa il
verso a Marlene Kunz e Verdena, senza
avere l’afflato poetico dei primi e la
compattezza stilistica dei secondi, Oltre
lo Specchio ha dalla sua comunque delle
15
discrete intuizioni
pop,
come
il
radiofonico
singolo apripista
Ninfee e la titletrack
forse
l’episodio
più
riuscito - ma i
pregi si fermano
qui: il resto è un
indistinto calderone caratterizzato da
un sound vecchio di dieci anni, con
accenti grunge e pop, senza particolari
illuminazioni. Anche a livello di liriche, il
cantautore non sorprende, cantando
storie piuttosto comuni prive di quel
guizzo poetico che ci si aspetterebbe
da un’opera prima dal siffatto codice
genetico. Gli arrangiamenti, piuttosto
piatti, non aiutano a diversificare l’offerta
generale, rendendo Oltre lo Specchio un
esordio da dimenticare.
Ilario Galati
Masoko
Bubù7te
Snowdonia
Pop wave/***
Debutto ufficiale per i romani Masoko.
Dal ’99 ad oggi tantissimi concerti e
varie autoproduzioni promettenti, tra cui
l’ottimo “Notanga”. I quattro guardano
alla wave nervosa (quando non proprio
schizoide) di Talking Heads (dai quali
mutuano anche l’attitudine “arty” poco
seriosa e mai troppo snob) Gang of four,
Polyrock, Sound, ma anche -in tempi
recenti- Art Brut (cui i nostri hanno avuto
l’onere di fare da opening act). Un
immaginario sintetizzato dal casermone
in copertina da cui sbucano Diana Ross
e Britney Spears versione zombie: storielle
suburbane raccontate per assurdità
nonsense; discoteche, storie brevi,
l’ennesimo stupido party, “un porno da
finire e un altro da iniziare”,etc. Nel lotto:“
Cool”, “Alfonso”, (canzoncina punk su
un transessuale) “Comfort” (la cosa più
vicina a un hit single che abbiano mai
fatto) e una vecchia chicca,“Prima
colazione”
tirata
a
lucido
(intro
praticamente Strokes). Riffs di chitarra tesi
ed essenziali rincorrono le geometrie di
una formidabile sezione ritmica frullando
discodance, funky danzereccio, pop
anni ’80 (colto e nazionalpopolare).
Simone è una scheggia e picchia sui
tamburi con stile fantasioso ed energico,
trovando un partner perfetto nel basso
dinamico ed incessante della bella
Ivana , Davide è nevrotico e sprezzante,
e Alessandro si conferma come uno dei
nostri chitarristi più inventivi, senza strafare
mai. Spruzzate di elettronica vintage e
attitudine punkeggiante che esplode nei
trascinanti live in giacche e cravattine.
Da non perdere il 31 marzo allo Zenzero
di Bari e/o il 1 aprile all’Istanbul di
Squinzano.
Antonio Olivieri
Gianna Nannini
Grazie
Polydor/Universal
Rock italiano / ****
Primo
nelle
classifiche
degli album
più venduti in
Italia, più in su
di Capossela,
c’è il nuovo
disco
di
G i a n n a
N a n n i n i ,
G r a z i e ,
uscito
nei
negozi il 27 Gennaio per l’etichetta
Polydor. Oltre a una produzione attenta
e meticolosa, oltre ad arrangiamenti
intensi e impeccabili, c’è tutta la
Nannini in questo lavoro. Un’esplosione
di sentimenti ed emozioni che fa quasi
male al cuore. Perché lei è una donna
forte, innamorata, arrabbiata e la
sua forza, il suo amore, la sua rabbia
sono tutte qui. Urlate come urla chi ha
urgenza di dire tante cose, un mondo
intero. Sputa la sua dolcezza la Nannini
e nonostante quel suo aspetto che sa
di anima sicura e grintosa anche lei ha
le sue debolezze, che svela in questi
testi. Parla del rapporto contrastato col
babbino caro per cui accenderebbe il
sole, degli amori che si allontanano o da
cui ti strappi senza sapere perché. Addii
e confessioni, schiaffi e carezze, il fuoco
malinconico di una Nannini donna e
bambina. I pezzi di questo disco sono belli
come i pezzi più belli della sua carriera.
C’è un po’ di quell’Amandoti che era
un inno all’amore. A chi è innamorato,
a chi lo è ma non vorrebbe esserlo più,
a chi non sa amare. C’è la poesia delle
Notti senza cuore e la dolcezza di quella
Sorridi che chiunque vorrebbe sentirsi
dedicata. Dopo l’autobiografia Io in
cui l’artista si raccontava, esce questo
disco che è più di un racconto. Pezzi
lucenti di malinconia ed esplosivi come
l’amore. Variano i toni nelle diverse
canzoni, slanci grintosi e atmosfere
più melodiche grazie all’inserimento di
KeepCool
16
archi e pianoforti, ma rimane un album
deliziosamente rock. E non basta fermarsi
al singolo o alla titletrack per sentirlo
davvero. Il lavoro, prodotto insieme a
Wil Malone, già al fianco di Skin e Verve,
vanta collaborazioni illustri (Mesolella
alla chitarra, la pianista Ani Martirosyan,
Isabella Santacroce alla stesura dei
testi, con la quale la Nannini aveva già
lavorato in passato).
Valentina
Fido Guido
Terra di nessuno
Zuingo communication
Reggae/****
Dopo quindici anni vissuti pericolosamente
- dietro i tamburi dei So Fuckin Confused,
hardcore band tarantina che ha calcato
anche palchi internazionali e suonato con
gente di tutto rispetto - Fido Guido sembra
aver trovato la sua vera dimensione.
I ritmi in levare hanno preso il posto
dello sconquasso sonoro, ma la voglia
di denunciare soprusi, di cantare storie
di marginalità sociale e antagonismo
politico resta la stessa. Terra di Nessuno
è il vero esordio del nuovo corso di Fido
Guido, anche se è doveroso menzionare
il demo che lo ha preceduto, Patrune e
Sotte, che ha fatto da apripista facendo
di Guido un vero e proprio caso nella
scena musicale tarantina (dove invero,
si continua a sonnecchiare). Un pugno
di canzoni ‘oneste’, dirette, semplici, che
usano il veicolo del dialetto e intessono
trame sonore profondamente roots:
questa la formula che pare abbia rapito
una buona parte dell’audience reggae
nazionale, se è vero che anche i grossi
network commerciali si sono accorti di
questa opera prima. Canzoni immediate,
dicevamo, ma che spesso mostrano
scampoli di vera e propria poesia urbana,
raccontando la vita dura di chi tira a
campare nei quartieri dormitorio delle
nostre città, dove regna la malavita e
dove un posto di lavoro ed un riscatto
sono solo chimere, a meno che non si
voglia lasciare la propria terra e tentare la
fortuna altrove. Fido Guido è portatore di
“buone vibrazioni”, senza che però questo
passi necessariamente per il politicamente
corretto o l’edulcorato, a cominciare dalla
intro nel quale si palesa con energia la
rabbia contro l’occupazione del territorio
da parte della marina militare e della
Nato. Totalmente fatto in casa, Terra di
Nessuno è un bel cazzotto nello stomaco
che nasconde, dietro ritmi gentili, una
‘voce contro’ credibile e coerente.
Ilario Galati
SONGS FOR ULAN: LA NUOVA VOCE DELL’INDIE
È il disco italiano rivelazione del 2006. You
Must stay out (recensione sul numero 22 di
Coolclub.it) è il secondo album di Songs
For Ulan, al secolo Pietro De Cristofaro,
un cantautore napoletano ma con il
Mississipi nel sangue e il cuore in America.
Abbiamo scambiato qualche battuta
con lui.
Innanzitutto complimenti. Il nuovo album
è intenso, maturo, ha un sapore spesso,
ci parli un po’ della sua genesi, quali
sentimenti lo hanno popolato, ispirato?
Grazie dei complimenti, davvero. You
must stay out, in realtà, è ben più vicino,
nonostante li separino circa due anni, al
precedente Songs for Ulan di quanto si
possa immaginare. Quest’ultimo venne
di getto, ideale scrematura fatta in studio
con quanti ne presero parte (Francesco
Cantone, Tazio Iacobacci e Cesare
Basile) del materiale scritto al termine
della mia prima e finora ultima esperienza
discografica “major”, in italiano. Sette
brani in inglese, uno scheletro chitarra e
voce che Cesare ha vestito per bene.
Di qui in poi, sin dalle stesse registrazioni,
continuai a scrivere canzoni e, qua e là,
suonarle. Dalla pasta cresciuta grazie alla
collaborazione dei miei musicisti (Fulvio
Di Nocera al basso, Floro Pappalardo
alla batteria ed Enzo Mirone alla chitarra
nonché all’organetto) ed al medesimo
team, è nato l’album. Per me i due si
completano, anche se questo ha più
spigoli, in tutti i sensi. Circa i sentimenti,
beh, direi quelli forti. Conditi da una
grande dose di autoironia e, soprattutto,
distacco. Dal bene quanto dal male.
Parlando di te si sprecano paragoni, da
chi o da cosa ti senti realmente ispirato?
Da ciò che vedo tutti i giorni, proibito
sognare. Da quanto mi accade allo
stomaco ed al cuore. Ogni volta che
tocco le corde e canto. Dalle storie che
ascolto e quelle che vorrei raccontare.
Come, in un artista come te, presente e
passato si conciliano, la tua storia
a un certo punto ha subito una
brusca svolta...ce ne parli?
In breve: circa 18 anni di R’n
Roll, sottoboschi stravissuti. Un
bel giorno la proposta di fare un
disco vero, la richiesta di cantare
in lingua Italiana. Poi la fine di una
storia, un compromesso voluto
e pagato abbastanza. Infine,
mettere su disco ciò che sono
realmente.
Perché Songs for Ulan e non Pietro
De Cristofaro?
Ulan era il mio cane. È stata la
prima volta che ho desiderato
qualcuno in maniera ossessiva.
E di perderla. Credo di essermi
ripreso qualcosa.
L’indie italiano, quello fatto in
inglese, ha acquistato in questi
ultimi anni sempre più dignità,
un prodotto da esportazione che
nulla ha invidiare alle produzioni
estere. Cosa ne pensi?
A nome di tutti: vorremmo suonare
di più. E, piuttosto che perdere
tempo a sentirsi descrivere simili
a Laneghan, Buckley o che so io,
qualcuno ci esportasse davvero,
se lo meritiamo.
Qual è il tuo rapporto con il blues,
il folk, il rock e come questi suoni o
generi entrano nella tua musica?
Ho ascoltato ed ascolto di tutto.
Ciò che è fondamentale sono
le Canzoni!!! Sangue e Pancia.
Niente pippe. Forse questo è il
Blues…
Consiglia tre dischi ai lettori di
Coolclub.it.
Difficile quanto odiosa. Sparo:
Violent Femmes, Harvest ed una
bella raccolta di Piero Ciampi.
Osvaldo Piliego
KeepCool
17
IL RITORNO DEI BELLINI
Sono di nuovo in carreggiata i Bellini, dopo
un periodo non proprio facile: nel 2002, la
defezione di Demon Che (già con i Don
Caballero) e le tante date cancellate a
causa dell’uragano Lily, avrebbero potuto
spingere la band a gettare la spugna. In
un momento davvero nero però Agostino
Tilotta e Giovanna Cacciola, già animatori
degli Uzeda da più parti indicati come uno
dei momenti più alti del nostro rock, hanno
trovato la forza di reagire. Imbarcato il
nuovo batterista, Alexis Fleisig (Girls Against
Boys, Soulside), hanno dato alle stampe il
loro miglior lavoro, questo Small Stones
(Temporary Residence Limited), un disco
potente e variegato che vede ancora
una volta Steve Albini dietro la consolle.
Di questo e di altro abbiamo parlato con
Giovanna, affabile e cortese portavoce
del combo siculo-americano.
Questo disco arriva dopo un periodo non
proprio sereno per i Bellini e credo che
in qualche modo rappresenti un ritorno
importante dopo una serie di situazioni
che potremmo definire rocambolesche
ma che ormai avete superato.
Già. Questa comunque credo che sia una
caratteristica comune alle persone del
Sud. Siamo abituati a non avere vita facile
soprattutto quando ci occupiamo di
creatività e arte ma non abbiamo mollato
perché siamo stati fortunati nell’incontrare
una nuova persona, splendida, alla quale
vogliamo molto bene e con la quale ci
troviamo benissimo.
I Bellini sono una band che proviene
da Catania-Sicilia, Austin-Texas e New
York-New York City e mi pare che gli
spostamenti geografici non siano finiti.
Si è vero perché Alexis vive a Los Angeles,
Matthew adesso vive ad AlbuquerqueNew Mexico, e noi siamo ancora qui, a
Catania (ride).
Avete fatto una serie di date negli Usa,
toccando città molto importanti. Che tipo
di risposta avete raccolto negli States?
Ottima. Abbiamo girato per la maggior
parte del tour come opening act dei
Mono, che in Usa sono molto amati, per
cui abbiamo usufruito della loro audience
ma, nonostante la nostra musica sia
piuttosto diversa dalla loro, abbiamo
avuto una risposta davvero notevole. Le
ultime quattro date le abbiamo fatte da
soli, ed è stato quindi il banco di prova più
importante. Devo dire che siamo davvero
sorpresi e soddisfatti perché ci siamo
accorti che il nostro pubblico è cresciuto
tantissimo.
Sono passati diversi anni dai dischi della
prima vostra creatura musicale, quegli
Uzeda che hanno aperto più di una breccia
nel rock nostrano. Volevo chiederti se ci
vedi un filo rosso che collega i dischi degli
Uzeda a quelli dei Bellini ed in particolare
a quest’ultimo Small Stones.
Ti confesso che ho un po’ di difficoltà
a risponderti, perché è chiaro che sia
negli Uzeda che nei Bellini ci siamo io e
Agostino, e la mia voce resta la stessa.
Però sento che si tratta di due situazioni
diverse, anche per quanto riguarda le
relazioni interpersonali.
Ti trovi più a tuo agio con dei pezzi tirati
e ruvidi, oppure con quei pezzi ariosi,
melodici, lirici, presenti anche questi in
Small Stones?
Dipende dal mio stato d’animo, a volte ho
voglia di urlare e di sfogarmi, altre volte mi
sento molto più riflessiva e quindi preferisco
le canzoni più intime.
Il disco è stato anticipato dal singolo
Buffalo Song. Come mai la scelta è caduta
su questo pezzo? Ci sarà un video?
Buffalo Song credo sia la canzone che
meglio lega i vecchi Bellini ai nuovi, perché
è stata l’ultima che abbiamo scritto
quando c’era ancora Demon e quindi ci
sembrava abbastanza rappresentativa
di questo passaggio cruciale. Per quanto
riguarda il video, ti rispondo sinceramente
che non possiamo permettercelo ma
abbiamo coinvolto un po’ di persone
alle quali abbiamo fatto una specie di
appello: se vi sentite di fare un video di
una nostra canzone fate pure, scegliete
la vostra preferita e fateci sapere. Anche
perché ci interessa capire che punto di
vista hanno gli altri delle nostre canzoni. Un
modo curioso di lavorare, non trovi?
Decisamente. Cambiando argomento,
qui in Italia i vostri fan cominciano a
recriminarvi, sia come Uzeda che come
Bellini, e questo lo evinco chiaramente da
blog e forum. Avete in previsione dei tour
nel bel Paese?
Anzitutto grazie per quello che mi dici
perché ogni tanto anche noi abbiamo
bisogno di conferme (ride). La risposta è
sì perché Uzeda non è certo una storia
chiusa, abbiamo in cantiere un disco per il
prossimo anno. Per quanto riguarda i Bellini,
andremo in tour a marzo e cercheremo di
suonare il più possibile.
Small Stones ha una cover di quelle che,
per qualche strana ragione, ti fanno intuire
la materia musicale che ci troverai dentro.
Cosa rappresenta e chi è l’autore di
questo strano patchwork che campeggia
in copertina?
Il lavoro è di Agostino, che passa giornate
intere a comporre questi strani quadri
per poi regalarli agli amici. Uno di questi
rappresentava proprio il periodo difficile
che abbiamo passato. Ci sembrava
andasse bene, lo abbiamo adattato
alle dimensioni della cover e ci ha subito
soddisfatto.
Domanda obbligata: dietro la consolle di
Small Stones c’è Steve Albini. Che persona
è Steve?
Una splendida persona, onesta, limpida.
Non nasconde quello che pensa e forse
per questo viene spesso criticato. Noi
ci troviamo benissimo perché rispetta il
lavoro degli altri e non offusca il nostro
sound.
Ilario Galati
18
LE INFINITE
POSSIBILITA’
DEI LA CRUS
KeepCool
Intervista con Joe
“L’inizio della lavorazione di un nuovo
disco è un momento sempre pieno di
dubbi e di aspettative. È un po’ come
una stazione ferroviaria, se vogliamo.
Si arriva lì e nessuno è sicuro di niente,
tutti ci arrivano sperando in qualcosa, e
soprattutto in qualcosa che sia ancora
meglio del percorso che è alle spalle”.
Mauro Joe Giovanardi racconta così la
nascita di Infinite Possibilità, l’ultimo cd
dei La Crus.
È un disco molto denso, un lavoro che
sembra fatto per appagare più sensi, ci
spieghi l’idea?
Innanzitutto abbiamo da subito coinvolto
nella co-produzione artistica di questo
lavoro anche Luca Lagash e Leziero
Rescigno, già da anni al nostro fianco
nella line-up dal vivo. Questo ha voluto
dire brani provati e suonati già da una
band in fase di composizione, quindi un
uso minore dell’elettronica, un suono
elettrico più caldo e ha voluto dire
anche molti più stimoli, più spunti e di
conseguenza la difficoltà a dare una
identità forte a questo disco attraverso un
concept che lo legasse da cima a fondo
come era stato per i lavori precedenti.
Perchè l’arrivo delle idee compositive
e di scrittura era talmente magmatico
che si è imposta in modo molto naturale
una molteplicità che poi riguardava
anche arrangiamenti, struttura dei pezzi,
scrittura dei testi, addirittura il mio modo
di interpretare la voce.
Quindi a quel punto è stato bello e
stimolante andare a cercare i modi
per esaltare questa molteplicità. L’idea
decisiva è venuta a Cesare che, un
bel giorno, ha pensato di chiamare i
tipi del Milano Film Festival (due anni fa
avevamo fatto parte della loro giuria per
le colonne sonore) e chiedere di farci
vedere un po’ dei cortometraggi che
hanno in catalogo. Abbiamo visionato,
credo, qualche centinaio di corti, e ne
abbiamo individuato una dozzina che
potevano prestarsi ad essere rimontati
sulle canzoni. Alcuni erano pazzeschi per
quanto sembravano fatti apposta per
funzionare insieme ai pezzi. Fatta questa
cernita abbiamo contattato i registi e
le loro case di produzione per chiedere
l’autorizzazione a togliere il sonoro
originale e ri-montare i film sul ritmo e sulla
lunghezza delle canzoni. E questo è stato
un vero viaggio intorno al mondo perché,
come potrete vedere dalle note sul retro
della confezione, davvero tutto il mondo
è rappresentato nei corti che abbiamo
scelto. Quindi Francesco Frongia, regista
video del teatro dell’Elfo si è accollato
il lavoro di rimontaggio dei film sulle
nostre canzoni. La molla iniziale che ci
ha fatto scattare l’entusiasmo per questa
operazione e che ci ha fatto intravedere
la possibilità di realizzarlo è stato il primo
accoppiamento
film-canzone
che
abbiamo trovato. Ed era quello per
Mondo sii buono che è poi anche il primo
singolo tratto da questo disco.
Ho trovato due titoli interessanti scorrendo
il libretto, Buongiorno tristezza (è il titolo di
un libro di Francoise Sagan) e Ho ucciso
Thurston Moore( il chitarrista dei Sonic
youth) me li vuoi spiegare?
Buongiorno Tristezza è stata anche una
canzone – interpretata da Claudio Villa
e da Tullio Pane – che vinse nel 1955 il
festival di Sanremo. In quella edizione,
per la prima volta, le telecamere della
RAI portarono le immagini dei cantanti
nelle case e nei bar italiani. Curiosamente
anche il nostro progetto rappresenta allo
stesso modo – per come lega canzoni
e immagini - qualcosa di inedito nel
panorama musicale italiano. Venendo
al “giovane sonico”: in quanto simbolo
di scelte radicali e coerenti, uccidiamo
(metaforicamente) Thurston Moore ogni
volta che rinunciamo ad una scelta
coraggiosa (ogni volta che rinunciamo
ai nostri ideali). L’invito implicito della
canzone è quindi non ad uccidere
Thurston Moore, ma al contrario a tenerlo
ben vivo! È un’autocritica sulla nostra
bravura (non come La Crus, come esseri
umani) a trovare buone scuse per non
fare niente per gli altri, per chi è ultimo nel
mondo. Hai mai pensato a quanti privilegi
abbiamo senza averne nessun merito?:
Sono nato maschio, bianco, a Milano/
Italia/Europa, in una famiglia che non
è sotto la soglia di povertà. Credo che
siamo chiamati a dare conto di come
avremo fatto fruttare questi privilegi…
Ho sempre considerato i la Crus come la
perfetta sintesi tra il passato e il futuro, il
nuovo cantautorato possibile, come la
vedi?
Ma, l’idea originaria è stata sicuramente
quella. Far convivere due mondi che
sulla carta erano distantissimi. Il recupero
della tradizione della canzone d’autore
e la nostra cultura musicale, il nostro
background, le nostre influenze, che
partivano da un’esperienza punk e
new wave, e che si erano modificate
con il mutamento che questo stesso
movimento musicale e sociale aveva
avuto. Sicuramente, non tutto quello
che abbiamo prodotto, è sempre stato
a fuoco, ma si sbaglia più facilmente
quando si cercano strade poco battute.
Credo, però senza falsa modestia, che
il lavoro di recupero e di ricerca che
abbiamo fatto in questi anni, il seme che
abbiamo gettato coi primi dischi, sia stato
abbastanza importante. Nei Tiromancino,
nei Baustelle, nei Perturbazione, un
pochino dei La Crus, ci trovo … o no?
Osvaldo Piliego
KeepCool
19
IL SALTO
NELL’INDIE:
TROVAROBATO
Continua il nostro viaggio alla scoperta
delle etichette indipendenti italiane.
Questo mese è il turno della Trovarobato,
giovane realtà che si muove a Bologna e
nasce dalla lucida follia di un gruppo come
i Mariposa. Abbiamo parlato con Michele.
Allora, ci parli della vostra famosa etichetta?
Dove nascete, agite, volete arrivare?
Da sempre noi Mariposa siamo stati
onnivori e mammiferi. Onnivori di tutto
ciò che concerneva la parte parallela al
semplice esibirsi su un palco, ovvero, ci
siamo da sempre autogestiti il booking, la
promozione, il web, la grafica. E, nel corso
degli anni, abbiamo approfondito questi
aspetti, sperimentandoli costantemente
nell’operato dei Mariposa. A un certo punto
abbiamo pensato di applicare tutto questo
anche ad altri artisti, e così sono nate le
nostre collaborazioni con Addamanera,
Timet, Alessandro Grazian. E questo è
Trovarobato: una piccolissima realtà
discografica, un booking, un “crogiuolo” di
menti malate e creative (soprattutto malate)
che provano a produrre eventi artistici. Il
nostro campo base è a Bologna, città nella
quale alcuni di noi vivono e che è sede del
nostro quartier generale soprannominato
“Magazzeno”: auspichiamo che in breve
tempo “Magazzeno” diventi sinonimo
di warholiana “Factory”. Nel frattempo
facciamo debiti.
Quali sono le vostre produzioni? Con
che criterio, se ce n’è uno, scegliete chi
produrre?
Siamo veramente un piccolissima realtà
discografica. Ci siamo però accorti come ci
siano attorno a noi molte realtà di talento;
e ce ne siamo accorti in maniera del tutto
casuale, così come accadono quasi tutte
le cose a questo mondo.
Parto con gli esempi. Un giorno, come
Mariposa, eravamo a suonare al “Banale”
di Padova e il fonico della serata, il nostro
amico e tecnico del suono Max Trisotto,
aveva organizzato un’apertura al nostro
concerto col cantautore Alessandro
Grazian. Lo abbiamo ascoltato e ci è
piaciuto molto: così siamo venuti in contatto
con Alessandro, contatto che mesi dopo
ha dato vita al suo disco Caduto, che
abbiamo prodotto assieme alla Macaco.
Gli Addamanera sono invece piovuti dal
cielo, dalla ionosfera, nella quale abitano
loro e la loro psichedelica musica. Oppure,
molto più terra-terra, li abbiamo conosciuti
tramite il nostro batterista Enzo, che è di
Messina come loro.
Ma gli incontri fortuiti comunque continuano.
Suonando al concorso Omaggio a
Demetrio Stratos siamo entrati in contatto
coi Trabant Mobil, che, più veraci di un
porcino schietto, ci hanno fatto sentire il
loro My favourite pelo, uno dei dischi più
freschi, articolati e intelligenti che abbiamo
mai ascoltato in tutto lo scorso 2005.
Oppure, a Bologna, vive e opera un geniale
performer, percussionista di formazione e
musicista elettronico per studi, dal nome di
Davide Tidoni, vincitore del Premio Iceberg
2003, iconoclasta e sottile al tempo stesso,
produttore di atmosfere irreali tramite
object trouvè e manipolazioni digitali.
Ci sono i Transgender, il più interessante
gruppo rock italiano, già noto per il primo
disco prodotto da Snowdonia, col quale
vorremmo incrociare le strade per una loro
seconda ufficiale produzione. E li abbiamo
incontrati per la prima volta suonandoci
assieme alla Festa dell’Unità di Imola, e
quella sera piovve.
E c’è Dario Buccino, compositore e
cantante da strada, che da anni propone
private
performance
casalinghe
a
base di lamiere percosse/abbracciate/
combattute coll’intero corpo, fiati e voci
graffiate.
Tutti nomi che ci piace segnalarvi perché
“cose notevoli” a parere nostro, e perché
vorremmo fossero future produzioni di
marca Trovarobato.
Ho letto di un vostro progetto parallelo,
Magazzeno Bis, una sorta di talk show
concerto in cui la Trovarobato sta
spendendo molte energie. Ci spieghi di
cosa si tratta?
Magazzeno bis è la cosa che stiamo
seguendo con più attenzione in questo
periodo. Si tratta di un “talk-show concerto”
ideato e prodotto da noi di Trovarobato,
in onda sulle frequenze di quello che noi
definiamo un “network inconsapevole”,
che per adesso coinvolge 25 emittenti
radiofoniche sparse per tutta l’Italia.
Alcuni artisti e gruppi musicali si alternano
ogni due settimane sul palco di Magazzeno
bis(questo il nome dello “studio 2” della
Trovarobato), producendosi in eventi
live che vanno dalla presentazione del
loro nuovo disco alla vera e propria
performance. All’evento partecipa un
piccolo pubblico, invitato o presente
perché ne ha fatto richiesta, che con le sue
domande, le sue critiche e provocazioni,
fornisce le coordinate dell’evento.
Un contenitore aperto agli imprevisti,
all’happening, all’improvvisazione e al
“ciò-che-non-avresti-mai-fatto”, vivo e
non più appiattito solo su dinamiche del
tipo “pezzo dal vivo - domanda sul disco
- progetti per il futuro”.
Intento parallelo ma non secondario è
quello di coinvolgere anche l’etichetta
che sta dietro all’artista per una piccola
retrospettiva in forma di chiacchierata.
Ci piacerebbe avere, alla fine del ciclo
di trasmissioni, un numero sufficiente di
testimonianze per fornire anche un piccolo
servizio “enciclopedico” alle generazioni
future (!), una fotografia dello stato della
musica di oggi. Il tutto sotto la mia guida,
sulle orme di Arbore & Boncompagni (prima
che rincoglionissero) e, con infinito rispetto
e senza offesa, di John Peel. A Lecce si
ascolta dalle frequenze di Primaveraradio
sui 95.100, ogni due mercoledì alle 20.00.
È facile -e con questo chiudo e vi salutobarcamenarsi nel mondo della discografia
o avete incontrato e incontrate delle
difficoltà? È una passione o un lavoro per
voi? Se non sbaglio fate anche altro nella
vita e la musica occupa sempre un posto
d’onore…
Questa domanda e la sua risposta
potrebbero
chiudere
con
mestizia
quest’intervista iniziata invece sotto il segno
del gioco.
Perché, molti esempi a noi vicini ci
porterebbero a dire che di musica, adesso
in Italia, non si può vivere. Chi fa musica,
oggi, all’interno di questo nostro microcosmo indipendente, raramente riesce a
vivere dei propri proventi.
Noi adesso stiamo lavorando con molta
passione a questi progetti e questo è per noi
quello che potremmo definire “un grande
hobby”, senza trovare più di tante difficoltà,
anche perché l’autarchia è forse il miglior
modo di lavorare, non dovendo dipendere
da nessun altro se non noi stessi, potendosi
guardare negli occhi e offendere (facendo
pace subito dopo) quando si vuole.
Valentina Cataldo
KeepCool
20
LE EMOZIONI CON IL FIATO
DI ANDREA SABATINO
“Lo stile sarà quello degli anni ’50, del
cosiddetto hard bop, con pezzi miei
originali più qualche standard riarrangiato
facente parte del repertorio jazzistico
del passato”. Andrea Sabatino, astro
nascente del panorama jazz pugliese,
ha sicuramente le idee chiare per quello
che sarà il suo primo lavoro discografico
interamente dedicato alla memoria del
fratello Alessandro, scomparso appena
l’anno scorso. Mentre parla della sua prima
“improvvisazione” in studio, è leggibile
negli occhi del ventiquattrenne di Salice
Salentino quell’emozione che, tuttavia,
non basta certo a fargli trattenere il respiro:
guai, per un trombettista, perdere il fiato.
E ormai l’enfant prodige, diplomato al
conservatorio Tito Schipa di Lecce e
premiato come miglior talento dei corsi
estivi di Umbria Jazz 2001, ha appunto il
fiato giusto per esordire. Il jazz-man sarà
supportato non soltanto da colui che
considera il suo padre musicale, quel
Fabrizio Bosso pronto a mettere il proprio
timbro, non solo sonoro, sul cd dell’Andrea
Sabatino Quintet, ma anche dai più
quotati musicisti del panorama jazzistico
pugliese, ossia i baresi Giuseppe Bassi al
contrabbasso e Mimmo Campanale alla
batteria, il tarantino Ettore Carucci al piano
e, infine, il brindisino Vincenzo Presta al sax
tenore e soprano. Ma sentiamo Sabatino,
e cosa ci anticipa del lavoro che porterà
nel titolo il suo stesso nome.
Andrea, secondo te, nel Salento e in Puglia
come e quanto è seguito il jazz?
“Qui a Lecce c’è un certo fermento, ma
questo è ancora flebile, o quanto meno
non è quello che si respira a Bari o nel resto
della Puglia. Già pensando ai musicisti che
mi accompagneranno sul disco, posso dire
che è quanto di meglio la nostra regione
possa offrire: Bassi, Campanale, Carucci,
Presta. E non solo. Potrei citare ancora
diversi talenti, come ad esempio il mio
carissimo collega e amico sassofonista
Raffaele Casarano, anch’egli reduce dal
suo primo stupendo lavoro discografico.
E ancora: il bassista Marco Bardoscia o
il pianista Nicola Andrioli. Ad ogni modo,
anche qui nel Salento le cose stanno
cambiando. La nostra terra è ormai tappa
di professionisti del settore che suonano
sempre più spesso in locali e teatri”.
Per la presentazione in Puglia del film Ma
quando arrivano le ragazze?, sei stato
chiamato a Bari sul palco a suonare
alcuni pezzi. Questi erano interpretati
nella pellicola da Flavio Boltro, uno dei più
apprezzati trombettisti italiani, fra i curatori
delle musiche del lungometraggio di Pupi
Avati. Nel film, il poco più che ventenne
Nick Cialfi ama come te Clifford Brown
e ha come prima esperienza i corsi di
Umbria Jazz. È inutile dire che meglio di te
nessuno in Puglia poteva interpretare quei
brani. Ma, a parte questi parallelismi che
possono solo essere di buon auspicio, a
tuo giudizio quanto jazz e cinema in Italia
possono andare d’accordo?
“Suonare parte dei pezzi che stavano
nel film di Pupi Avati è stata per me
un’esperienza bellissima. Salire su un palco
davanti ad un regista di quello spessore,
per un film dedicato alla musica che
amo, non è certo cosa di tutti i giorni.
Riguardo all’accostamento cinema-jazz,
negli ultimi anni nel nostro paese le cose
stanno andando nel verso giusto. La
cultura jazzistica, pur essendo propria della
tradizione americana, sta prendendo piede
anche nella produzione cinematografica
nostrana, e la cosa può giovare tanto al
cinema quanto alla diffusione del jazz”.
A livello di registrazioni hai già inciso per
conto di diversi jazzisti italiani, tuttavia è
questo il tuo vero esordio. Hai anticipato
che ti rifarai all’hard bop statunitense:
Clifford Brown su ogni altro, il tuo autore
preferito. Ma a parte questo?
“Sul disco sarà ospite Fabrizio Bosso, che
mi ha cresciuto musicalmente e non solo.
Ho iniziato a studiare jazz con lui. I suoi
insegnamenti, l’averlo ascoltato, mi hanno
sicuramente consentito di stare qui ora. Se
oggi sono arrivato ad uscire con un mio
primo lavoro, il merito è anche suo. Non so
ancora su quante tracce suonerà Bosso,
ma so di sicuro che ci sarà in un pezzo
che ho dedicato a lui. Il brano, Learning
to fly, già nel titolo ha un aneddoto un
po’ curioso, perché ho preso spunto
dal primo disco di Fabrizio, Fast flight,
che significa volo veloce. Io il pezzo l’ho
chiamato Imparando a volare, nel senso
che comunque grazie a lui sto imparando
a suonare questo tipo di jazz”.
Le fasi di registrazione del lavoro di Sabatino
sono state programmate per la primavera,
mentre l’uscita del cd, pubblicato dalla
Dodicilune, è prevista per l’estate. E una
cosa è certa: se Sabatino non potrà mai
trattenere il fiato, nessuno potrà trattenere
l’emozione nell’ascoltarlo.
Massimo Ferrari
KeepCool
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NEL NOME DEL... JAZZ
Le pulsazioni beat di Fabrizio Bosso
All’esordio in sala d’incisione di Andrea Sabatino, non vuole
mancare il “maestro-ispiratore” del jazzista in erba di Salice.
Fabrizio Bosso è pronto a soffiare non solo nella propria tromba,
ma anche sulla piattaforma di lancio di chi ha voglia di “imparare
a volare” individuando la rotta migliore.
“È giusto che Andrea – afferma il musicista torinese - muova i
suoi primi passi facendo cose importanti”. Bosso, ad ogni modo,
conosce bene le difficoltà insite nel mestiere del trombettista:
a lui questa passione è stata trasmessa dal padre. Seguendo
l’insegnamento dettato da ogni buon genitore, Bosso, oltre ad
incoraggiare, mette in guardia il proprio ragazzo: “Nel caso
di Andrea sicuramente il talento c’è e tutto andrà bene. Però
dovrà tener presente che la maturazione nel jazz è molto lenta
e bisognerà applicarsi parecchio per ottenere grandi risultati. È
fondamentale il saper improvvisare, perché è l’essenza del jazz,
ma ci vuole anche tanta preparazione tecnica”.
Bosso, oltre ad incitare il suo allievo, parla anche di jazz in generale,
del rapporto tra musica e cinema, della diffusione delle note blue
in Italia, una terra che, nonostante il confine con la Francia del
Round midnigth raccontato sul grande schermo da Bertrand
Tavernier, ha avuto sempre delle difficoltà ad accendere i riflettori
in quei locali dove, a mezzanotte circa, i sax e i contrabbassi, le
trombe e i pianoforti, si concedono all’estemporaneità propria
del beat.
“In Italia è difficile far conciliare la tradizione cinematografica con
una cultura jazzistica che non ci appartiene”, argomenta un Bosso
consapevole deel fatto che le colonne sonore dei film nostrani
sono più famose per Nicola Piovani ed Ennio Morricone e non per
maestri jazz come Massimo Urbani o Enrico Rava. “Ci sono stati
casi – puntualizza però Bosso – in cui ci siamo saputi distinguere,
come con Paolo Fresu, che ha musicato egregiamente il film
sulla storia di Ilaria Alpi, oppure lo stesso Pupi Avati, che nelle sue
pellicole ha sempre introdotto il jazz, anche perché lui ne è un
grande appassionato. Certo non sarà mai una costante ascoltare
jazz nei film italiani. Sarà più facile trovare dei cantautori o chi
si occupa proprio di colonne sonore. Però sicuramente potrà
esserci un incremento nel nostro cinema dell’uso del jazz, visto
che comunque è molto più ascoltato rispetto a prima, non solo
in Italia ma in tutta Europa, e questo grazie anche a quei nuovi
crooner come Diana Kroll o Michael Bublè. Loro hanno portato il
jazz alla massa, a gente che prima non lo conosceva affatto”.
Sugli spazi dedicati alla musica a lui cara, Bosso rileva come
“ormai il jazz non si suona solo nelle taverne, ma anche nei teatri,
nei club e soprattutto nelle piazze, e questo è sicuramente un bel
passo in avanti rispetto al passato”. E osserva: “Certo si creano
atmosfere diverse secondo i posti in cui si suona. Nel jazz-club
il contatto col pubblico è quasi fisico, nei teatri e nelle piazze si
può affrontare la performance con maggiore concentrazione
e anche gli ascoltatori seguono con più attenzione. Tuttavia,
qualsiasi sia il posto dove si suoni, il jazz conserva sempre il suo
fascino”.
Bosso, che di recente ha inciso un disco con Flavio Boltro per
il mercato giapponese (il cd è prossimo all’uscita in Italia), ha
chiuso ricordando le sue prossime apparizioni in Puglia: “Martedì
7 marzo sarò con Sergio Cammariere a Bari, nel concerto che
si terrà presso l’auditorium della Guardia di Finanza; a maggio,
infine, dovrò recuperare una data a Gioia Del Colle”.
L’augurio, però, è anche di rivederlo presto su un palco
salentino. (MF)
KeepCool
22
DONNE E TECNOLOGIA: “RE-PUNK ELECTRONIC MUSIC
di Claudia Attimonelli
Ellen Allien, dj, produttrice e fondatrice della
Bpitch Control, intervistata sul tema donne
e musica elettronica ha detto: “Hmm, non
saprei, la techno è stato il primo momento
della dance music, nel quale il gender
non sembrava essere più importante. [...]
Quello che sembra più significativo per
un* dj, più che essere uomo o donna, è la
sua abilità a sentire la musica e a sentire
la gente. Naturalmente poi il djing è un
mestiere: solo con una buona tecnica puoi
essere un* brav* dj”.
La dj tedesca accenna a due elementi
importanti della questione del genere nella
musica elettronica: il primo è legato alla
techno, vista fin dagli inizi come musica
postgender, al di là, cioè, del binarismo
maschile/femminile perchè incentrata sulla
musica piuttosto che sul genere sessuale;
l’altro è connesso al tratto distintivo di questa
musica, che per sua natura, nomen omen,
è strettamente legata alla tecnologia e
ai suoi sviluppi - proprio attraverso questi
si sono determinati nel tempo sottogeneri
legati ai sound provenienti da specifiche
macchine, un esempio per tutte, la Roland
TB303, 808, TR909.
Il fattore tecnologia, da ostacolo e freno
per molte musiciste, si rivela sempre più
uno strumento strategico di ridefinizione
dei ruoli. Nondimeno va fatto notare
come proprio la macchina, intesa come
lo strumento, sia la prima fondamentale
discriminante nell’approccio femminile alla
pratica del djing nonchè alla composizione
vera e propria. Dj Elektra, intervistata sulla
sua posizione circa l’espressione female-dj,
ritiene che il djing sia: “tutta una questione
di tempo e di sincronizzazione con il tempo.
Disco di destra, disco di sinistra, due beats
che vanno allo stesso tempo”.
Ebbene, a questo punto, sarei curiosa di
chiedere a tutti voi, amanti della musica
elettronica, dj, critici musicali, artisti e
artiste, esperti e instancabili frequentatori
di club, qual è il primo nome femminile
che vi affiora alle labbra pensando ad
una dj o ad una musicista elettronica. Da
un sondaggio home made fatto un paio di
anni fa, quando iniziai ad investigare questo
tema, tra amiche e amici musicisti e non,
oltre che sbirciando i commenti in articoli
sparsi, vi riferisco che il nome più frequente,
pronunciato talvolta con un certo
imbarazzo dovuto alla fama non da tutti
riconosciutale, sia quello di Miss Kittin (nella
foto). E non perchè non ve ne siano altri,
ma perchè se Miss Kittin ricorda certamente
qualcosa a tutti, se non altro per la sua
collaborazione di qualche anno fa con
Felix Da Hauscat, non si può dire lo stesso di
dj meno mainstream ma che infiammano
il dancefloor, quali Magda, M.I.A., Mistress
Barbara, Gudrun Gut, Punisher, Ellen Allien,
Miss Djax, Acid Maria, Electrig Indigo.
Non intendo omettervi il particolare
che più spesso di quanto s’immagini ha
accompagnato il commento riguardante
Miss Kittin, secondo il quale, chi l’aveva per
la prima volta vista in un set, ha ritenuto
opportuno esternare
un certo stupore nel
verificare quanto la
Kittin apparisse più in
carne di quello che
uno si sarebbe potuto
immaginare!
E già, perchè le
turntabliste devono
essere in forma per
suonare i dischi!
Il tema, come è
facile evincere, è
complesso, ma può
essere
sufficiente
invece di chiedersi
dove
siano
le
donne nella musica
elettronica (quesito
che nel ’93 John
Savage,
nel
suo
noto
saggio
dal
titolo: Machine Soul,
a History of Techno, pose fortemente),
interrogarsi sul suo opposto ideologico e di
gender: perchè così tanti uomini?
È storicamente noto che le donne, nella
musica come in altre arti, siano state
scoraggiate dall’intraprendere e seguire
passioni musicali, artistiche, financo
letterarie, tanto da dover pubblicare per
lungo tempo sotto pseudonimi maschili.
Questo ha inevitabilmente fatto emergere
durante gli anni del punk e della riflessione
femminista, la necessità di creare generi
separati che andavano sotto il nome di
musica al femminile, Girrrls Power, Riot
Girrl etc. Naturalmente una forma di
separatismo di questo tipo non poteva
che riprodurre e rafforzare lo stereotipo
secondo il quale le donne non sono capaci
di produrre musica bensì di ideologizzarla
attravero una musica al femminile.
Per questa ragione molte dj oggi
aborrono l’epiteto di donna-dj, che risulta
un’etichetta stretta, poco incentrata sulla
qualità del prodotto musicale e volta al
marketing della proposta promozionale.
A questo proposito, Mistress Barbara, dj
techno italo-canadese, afferma: “Io sono
profondamente contraria a sottolineare
la differenza, non sostengo nel modo più
assoluto chi lo fa. Talvolta mi chiedono
di suonare a party per sole donne e dico
di no, esattamente perchè non voglio
promuovere la mentalità della distinzione
del genere”.
Concludendo sembra che la metafora
cyborgfemminista proposta da Donna
Haraway nel suo celebre Manifesto
Cyborg sia la visione più appropriata per
guardare alle icone moderne alla consolle.
Il cyborg, per la studiosa, descrive quello
che la techno si era posta alle origini:
andare dove non si è mai andati prima,
nella fattispecie, praticare una strategia
che pensi in-between il codice binario 0/1,
maschile/femminile, capace di descrivere
e rendere visibile stati ibridi, instabili,
inaspettati. Adoperando un’attitudine
punk che sovverta e decostruisca i clichés
del gender nella musica.
M.I.A. il 18 marzo
allo Zenzeroclub di Bari
La serata c.lab.night di lab080, frammenti
di cultura urbana, vedrà in consolle la dj
tedesca M.I.A. Attiva a Berlino attraverso
le sue etichette, Substatic e Karloff, M.I.A.
coniuga sperimentazione sonora e attitudine
al dancefloor, le sue tracce, dalle influenze
techno e house, sono suonate da Richie
Hawtin e Ricardo Villalobos.
La voce nella techno:
M.: “La techno non ha bisogno della voce,
essa prende vita già con le armonie:
bisogna lavorare sul sound. La struttura
fondamentale sulla quale lavorare è la
base ritmica minimale. Ma poi la si veste,
come una bambola, con dei vestitini con
centinaia di piccoli accessori. Per me questo
vestito è fondamentale, perchè porta tutto
ad un livello più alto”.
Le donne nella techno:
M.: “Le cose vanno sempre in questo
modo: devo mostrare qualcosa di più
perchè si suppone sempre che la musica
sia prodotta da Falko (Brocksieper) e che
io mi limiti, come la maggioranza delle
altre artiste donne, solo ad un viso e ad
una voce. È un peccato che se ne debba
parlare sempre, ma io credo sia importante.
La maggiorparte delle donne ha ancora
troppo poca coscienza di sé per imporsi
nel mondo della techno e perciò non inizia
neppure a produrre le proprie cose”.
“Ci sono sempre un paio di idioti che
credono di dover classificare il sound
femminile con l’armonia. Forse anche io
spesso mi oppongo alla melodia per evitare
di essere incasellata in questo modo”.
“Ne parlo e spesso dò delle risposte di tenore
femminista, perchè la questione mi tocca e
prendo il mio ruolo seriamente”.
Claudia Attimonelli. Traduzione dell’intervista
dal tedesco: Arcangelo Licinio. Info su M.I.A.:
Fabrizio Ippolito.
c.lab.night @ Zenzero, 18 Marzo, con M.I.A.
e dj arpino è una coproduzione zenzeroclub
e l’alternativa.
News: www.lablog080.blogspot.com
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
23
la letteratura secondo coolcub
BOLOGNA
F.C.
foRMaZIonE IDEalE DI TUTTI I TEMPI
TRaTTa Dal SITo WWW . QUoTIDIano . nET
Le avventure di Zio Savoldi
Gianluca Morozzi
Fernandel
*****
L’autore di questo libro è quasi un “ospite
fisso” della nostra rivista. Gianluca Morozzi,
trentacinquenne scrittore bolognese, da
qualche anno a questa parte è uno degli
autori più prolifici della letteratura italiana.
Dal 2004 pubblica con due case editrici: la
ravennate Fernandel, che lo ha lanciato
nel 2001 con Despero, e la Guanda con la
quale ha pubblicato Blackout e L’era del
porco. Dopo il racconto del mondo dei
fan di Bruce Spingesteen in Accecati dalla
luce in questo ultimo Le avventure di Zio
Savoldi Morozzi narra tra episodi incredibili
e sensazioni da libro cuore il frastagliato
mondo dei tifosi di calcio. Anzi, per essere
ancora più precisi, la realtà non molto facile
dei tifosi del Bologna. Una squadra nata nel
1908, che dopo sette scudetti e una gloriosa
storia alle spalle, negli ultimi vent’anni ha
dovuto sopportare retrocessioni in serie
C, l’onta del fallimento, il ritorno in A e la
nuova caduta in B nella passata stagione
dopo lo spareggio con i cugini del Parma.
Un amante del calcio, soprattutto un
famelico consumatore di almanacchi e
album panini degli anni ’80 e dei primi ’90,
non può che apprezzare la ricostruzione
di quegli anni bolognesi: il Mitico Villa,
ad esempio, è un personaggio appunto
mitico giunto nella squadra rossoblu nel
1987 con “credenziali non propriamente
sfavillanti” che aveva giocato in squadre
impresentabili e che diventerà invece
una bandiera e un pilastro della squadra
allenata da Gigi Maifredi. Morozzi
attraverso racconti personali, risultati, storie
d’amore, calciatori che sbagliano rigori e
reti a due passi dalla porta, la curva Andrea
Costa e i piccoli stadi di provincia, narra
un po’ della sua vita e ricostruisce quello
che l’Italia ci ha regalato in questi anni.
Ma soprattutto tira fuori una carrellata di
personaggi improponibili a partire proprio
dallo Zio Savoldi e passando per Rain Man,
la Betty, l’Orrido, Lobo, il Lama, Carlotta la
biologica, l’editore Ubermensch Belasco,
l’Oriella, e i calciatori e gli allenatori Lajos
Detari, Domenico Marocchino, Gianluca
Luppi, Eraldo Pecci, Loris Pradella, Beppe
Signori, Roberto Baggio, Carlo Mazzone,
Renzo Ulivieri e molti altri. L’amore per il
calcio è qualcosa che va oltre le classe
sociali, oltre le letture fatte e le musiche
ascoltate. La bellezza e la bruttezza
di uno sport bistrattato e considerato
troppo ricco, anche dagli atleti delle altre
discipline, ma che conserva intatta tutto
il suo fascino. “Mi è bastato andare la
prima volta in curva col papà, BolognaMilan zero a uno, gol di Maldera, nel ’78,
per innamorarmi di quelle casacche rosso
e blu. Il resto quando t’innamori dei colori,
poco importa. Serie B, serie C, dirigenze da
galera, trasferte agghiaccianti, giocatori
sciavdi, insipidi, non contano niente. Nulla
e nessuno ti tengono in casa, la domenica
pomeriggio”. In questo periodo complicato
per il “giuoco del calcio” tra diritti televisivi,
assenza di pubblico, polemiche arbitrali e
doping amministrativo, è bello leggere e
divertirsi con il buon vecchio football.
Pedroso
Coolibrì
24
Tre sono le cose misteriose
Tullio Avoledo
Einaudi
*****
Un bambino solo e
malinconico comincia
ad avere paura della
morte, e non solo: teme
i ragni e la sporcizia,
non
sopporta
di
svegliarsi in una casa
vuota, e si nasconde
nell’armadio perché
glielo ordina un essere
mostruoso che non
sa descrivere. Una
donna
bellissima
è
moglie
stanca,
rassegnata e ormai irraggiungibile: un
corpo da adolescente nasconde l’età e
la maternità, i capelli biondi e gli occhi
grigi l’origine italiana, l’armadietto colmo
di creme e cosmetici un’imprevedibile
insicurezza. Un uomo è padre e marito;
vive sotto scorta in una Svizzera asettica
ed indifferente, circondato da guardie del
corpo preparate a proteggere il sostituto
procuratore del più importante processo
internazionale per crimini di guerra ed
incapace di accettare fino in fondo il
ruolo che si è ritrovato all’indomani di uno
spaventoso attentato. Questa la famiglia
dell’ultimo romanzo di Tullio Avoledo,
importante come poche e fragile come
tante, di fronte all’evento insostenibile
che è la convivenza, non fisica ma
ugualmente pesante e avvertita, con
l’imputato colpevole, potente ed
eccellente che tutto il mondo aspetta
di condannare. Accadono intanto strani
episodi che toccano persone care e
amate e aprono spiragli sempre più vasti
all’ansia ed alla paura, se non all’orrore
con fatica respinto. Il mostro in attesa
di dibattito, invece, cammina come
un soldato lungo le pareti di uno spazio
ristretto, durante il suo quarto d’ora d’aria
che dovrebbe essere un’ora, impettito
ed elegante nel soprabito con collo di
astrakan, e con catene proibite a polsi
e caviglie frutto di un’urgenza punitiva
stupida ed inutile. Inizia così una guerra
annunciata alle minacce reali e presunte,
che non si sa bene quanto riguardino
davvero il teatro politico globale di là
fuori, e quanto invece l’animo scosso e
colpito di un uomo profondamente solo.
Dalla penna di Tullio Avoledo un romanzo
energico e frenetico, che non lascia
attimi di respiro al lettore, esausto eppure
ipnotizzato da una carica emotiva
pesante. Una prima parte, ricchissima di
dialoghi svelti ed esaustivi, rende il ritmo
e il consumo delle esistenze in gioco;
una seconda parte, principalmente
narrativa, e indirizzata verso una frenesia
più lenta e misurata, costruisce per gradi
una conclusione voluta e provocatoria.
Ennesimo esempio, insieme a Sabato
di Ian McEwan e La regina dei sogni di
Chitra Banerjee Divakaruni, per citarne
solo alcuni, dell’attenzione che molti
narratori contemporanei iniziano a porre
al rapporto sempre esistente tra gli eventi
della scena mondiale e il quotidiano
intimo, privato e violato, dalla storia del
tempo attuale come di quello passato.
Per non dimenticare che la memoria
è l’unica via possibile, e sola contiene
quanto occorre salvare, perché “col
tempo gli occhi si adattano, col tempo
riescono a vedere anche nella notte più
fonda”.
Il passo del Cammello
Duro come l’amore
Rossana Campo
Feltrinelli
***
Potremmo
considerare banale la storia
che si sviluppa nell’ultimo romanzo di
Rossana Campo, un
tradimento coniugale
che ormai non interesserebbe più nessuno.
Ma sarebbe troppo
semplice, e certamente
sminuirebbe
una voce originale,
sempre fresca ed ironica, della letteratura contemporanea. Ché la storia poi
sarebbe questa: lei è sposata ad uno psicologo gelido e troppo obiettivo, e si lascia intrigare da Felix, un fotografo spiantato che è l’esatto contrario del marito.
Imprevedibile, fuori di testa, paranoico,
complessato da una infanzia triste, fuori
moda, coi vestiti sempre troppo lisi, padre disattento e marito stufo, ma amante
supremo. E lei ha proprio bisogno di lui,
perché le assomiglia così tanto, perché
le fa dimenticare le sue paranoie durante i loro incontri furtivi ed estremi, perché
loro due non potrebbero esistere se non
nella clandestinità. Il bello viene quando la nostra protagonista comincia ad
accumulare sospetti sul suo Felix, perché
nel quinto arrondissement dove lei vive
(la storia è ambientata a Parigi, dove la
Campo vive nella realtà) si aggira negli
ultimi tempi un maniaco che ama fare
a pezzi le donne e strappa gli orecchini
dai loro lobi. Donne che sembra aver conosciuto o amato prima di uccidere. E il
comportamento di Felix non sembra poi
essere dei più normali, e la passione che li
unisce sembra non voler conoscere limiti.
Se a ciò si aggiunge l’universo colorato
e surreale delle amiche di lei (un trans,
un’attrice sull’orlo di una crisi di nervi, una
madre single che sta con una poliziotta),
i discorsi strampalati fatti davanti alle bottiglie di vino, la piccola scorta di vodka
sempre in frigo, gli allarmismi delle donne, le crisi, il “vorrei essere come Madonna ma anche lei sembra aver gettato la
spugna”, si dimentica la linearità della
trama, e ci si immerge ancora una volta, e con estremo piacere, in un romanzo
divertente, leggero, in una scrittura che
si lascia sopraffare spesso da incasinati
dialoghi a più voci, da neologismi spassosi e dallo smadonnare e sfanculare di
Rossana Campo che tanto mi piace, e
che sempre la caratterizza, fin dai tempi
di In principio erano le mutande.
Anna Puricella
Brina Maurer
Claudia Manuela Turco
Bastogi Editrice Italiana
*****
Il romanzo psicologico
Brina Maurer è un’opera controcorrente, di
questi tempi eretica
come lo è la morale, in
cui la pornografia viene
indagata negli anfratti
della finzione patologica che ammorba la
psiche. Tra l’irriverenza
dello slang giovanile si
scopre una forte critica alla “pornificazione” contemporanea (dal neologismo
di Pamela Paul, autrice del saggio Pornified). Brina è la figlia adolescente di
una pornostar, sua madre una stella del
cinema senza vincoli censori e da subito
si evince chiaro il nodo narrativo: torture psicologiche e violenze morali cui la
giovane sarà esposta suo malgrado, da
parte di coetanei, parenti e conoscenti
sedotti dal fascino brutale della sessualità
sfrenatamente esibita, tutti pronti a tacciare d’insulso moralismo la sua sensibilità
offesa dall’ambiente in cui è costretta. Il
senso di solitudine promana dal nido familiare, che si squarcia a baratro quando,
pur di giustificare ogni crimine, i protagonisti della vicenda tenteranno di metterle
il bavaglio marchiandola a fuoco con la
lettera scarlatta della schizofrenia e della
paranoia. Brina avrebbe di che duellare
con Betty Friedan (leader del movimento femminista americano, autrice de La
mistica della femminilità) o con Wendy
McElroy autrice di XXX, a woman’s right
to pornography. Par di sentirla sbottare: “I
volgari non sono quelli come me”, “Solo
che a noi viene messo il bavaglio, perché
non favoriamo l’economia. Né la politica.
Né la religione. Noi siamo le vere femministe, non quelle che proclamano il sesso
libero e tante libere fognate”. L’amore
per i cani salverà Brina, l’amore per Trudy,
Candida e Nebbiolina, sparite un giorno
senza lasciare traccia per la cattiveria di
qualcuno che non ha voluto darle spiegazioni, traumatizzandola e facendole
perdere la fiducia nel genere umano.
Marco Baiotto
D’un tratto nel folto del bosco
Amos Oz
Feltrinelli
***
Il “nitrillo” è una
strana
malattia.
Si manifesta con
l’emissione del verso
tipico del cavallo, il
nitrito, e l’impossibilità
assoluta di parlare.
Colpisce tutti quei
bambini
capaci
ancora di credere
all’impossibile, se questo significa una
maestra appassionata che continua a
raccontare storie di animali, in un villaggio
senza altri esseri umani fatta eccezione
per gli uomini. E colpisce, questo morbo
Coolibrì
bizzarro, proprio un bambino che, più
degli altri, ascolta i racconti di un tempo
ormai andato, in cui, al silenzio assordante
di un mondo senza animali, si sostituisce
una natura colma di suoni felici ed odori
pregnanti. È questa la natura che viene
a fargli visita ogni notte in sogno, e lo
emoziona ed entusiasma talmente tanto,
da portarlo a narrare ogni mattina, ai suoi
increduli compagni, l’esistenza di un’altra
dimensione, così diversa e così rumorosa
rispetto a quella che loro conoscono e
subiscono, ignari di altra bellezza. Ma i
sogni ad un certo punto non bastano a
colmare i vuoti pesanti, e Nimi, questo il
nome del piccolo esploratore di verità,
sente sempre di più di dover accertarsi
che stormi di anatre selvatiche e gruppi
di rane gracchianti abitino realmente
una parte di mondo. E parte, Nimi, alla
ricerca di una natura che gli è stata
negata; alla scoperta del tragico segreto
che ha condannato un intero villaggio al
silenzio animale; verso la soluzione di tutte
quelle risposte che genitori rabbuiati si
rifiutano puntualmente di dare, e di tutte
quelle memorie antiche che gli anziani
hanno, con troppa facilità, rimosso. E
scappa di casa Nimi, e va nel bosco,
tornando, tre settimane dopo, affaticato,
sconvolto e affetto da quel nitrillo che
è insieme malattia e salvezza. Con il
sottofondo costante e prezioso dello
scorrere lento di un fiume, che ha visto
e forse maledetto, e che solo rimane,
a ricordare col suo flusso, la felicità
conosciuta, l’abbandono poi subito,
la speranza di un ritorno. Una scrittura
chiara e netta sostiene un linguaggio
dedicato all’infanzia, la narrazione è
semplice e precisa, senza lasciare spazio
a finezze e ricerca sulle parole, come per
i dialoghi, pochi, necessari, toccati come
il resto dall’obiettivo profondo di una
comunicazione diretta. Per una fiaba
lenta e triste, creata con dolcezza infinita
dal grande scrittore israeliano, e tradotta
dall’ebraico da una penna pulita ed
essenziale come Elena Loewenthal.
Il passo del Cammello
Ya no sufro por amor
Lucía Etxebarria
Martínez Roca
***
È considerata da molti
la
miglior
scrittrice
spagnola della sua
generazione. Con i suoi
libri - e in particolare
con il pluripremiato
Beatrice e i corpi celesti
- ha fatto a lungo
parlare di sé, amata e
odiata in parti uguali,
ha
scritto
romanzi,
libri di racconti, saggi,
poesie, copioni per il cinema. Con Ya
no sufro por amor inaugura la collana
editoriale da lei curata, Astarté. Lo fa
con questo libro particolarmente difficile
da definire. Psicanalisi, filosofia, narrativa
sono chiamate in causa per affrontare
il tema dell’amore, e tutti i problemi ad
esso correlato. Non un trattato psico-
25
sociologico da leggere con precisa
attenzione però. Piuttosto un libro da
divorare, per riflettere sulle proprie pene
d’amore ed eventualmente riderci su.
Per capire un po’ di più gli altrui - ignobili!
- comportamenti e imparare a sopportarli
e imitarli. Per analizzare le nostre passate
relazioni amorose - di qualunque tipo
siano, sottolinea lei - e realizzare che
se qualche problema c’è stato - e c’è
stato! - dipende anche e soprattutto dal
modo in cui ci poniamo noi, oltre alla
sfiga che sempre, blasfema, invochiamo.
Con la dovuta ironia, per non prendere
troppo sul serio quella che ci pare essere
la questione più seria della nostra vita,
proviamo con l’aiuto di queste pagine
a guardarci un po’ dentro e a vederci
da fuori, per “smettere – finalmente
- di soffrire per amore”. Composto da
tre parti e suddiviso in paragrafi quasi
fosse un libro di testo, è correlato da
divertentissimi disegni di Álvarez Rabo e
da test di autoanalisi che fa molto rivista
femminile. Completo, insomma, in ogni
dettaglio. Peccato che, pubblicato in
Spagna lo scorso ottobre, non è stato
ancora tradotto in altre lingue. C’è da
aspettare ancora un po’, dunque, per
ridere dei nostri infiniti problemi di cuore,
invece di tagliarci le vene.
Valentina Cataldo
La Betissa
Antonio Verri
Kurumuny Edizioni
****
Continua il lavoro
di ripubblicazione
dell’opera di Antonio Verri, lo scrittore di Caprarica
scomparso
prematuramente nel
maggio del 1993,
che ha lasciato un
vuoto incolmabile nel panorama
della
letteratura
salentina contemporanea. Da poco è presente nelle librerie La Betissa, Storia composita dell’uomo
dei curli e di una grassa signora, pubblicato da Kurumuny. La Betissa è un testo
poetico uscito una prima volta nel marzo
1987 su Apulia. È un testo che segna una
svolta nel percorso creativo dello scrittore di Caprarica. Con La Betissa Verri uccide letterariamente i propri padri putativi,
aderendo totalmente ad un immaginario
materno. L’adesione al materno per Verri
rappresenta la voglia di oltrepassare le
forme chiuse della letteratura dei padri,
rappresenta il tentativo di violentare l’immacolata forma chiusa del dire passatista, introducendo il passo sovversivo della
sua scrittura poetica, il taglio rivoluzionario della sua progettualità stilistica onnivora. Rispetto alle precedenti opere ciò
che emerge con ostinata evidenza è la
volontà dell’autore di fare della sua scrittura un calderone dalle immense proporzioni simboliche. L’abbandono del gioco
metonimico rappresenta il propendere
dell’autore verso uno slancio metaforico,
profondamente poetico. La Betissa è un
testo costituito da diciotto capitoli in versi. Esiste una microstoria che diviene esile
filo conduttore del testo, quella del tentativo da parte di una delle voci narranti,
un giovane dai capelli rossi, di costruire
un trabiccolo, un macchinario rudimentale, in grado di tendere verso il cielo. Il
trabiccolo, fuor di metafora, altro non è
che il tentativo dello scrittore di dominare lo strumento linguistico dentro il quale
molto spesso si immerge, senza riuscire a
dominarlo. Per Verri le parole sono ossessione incontenibile, sono passione dalla
quale trarre infinito piacere, sono codice
astratto nel quale insinuarsi per dare un
senso alla struttura dell’esistere. Una sorta di chiara manifestazione del rapporto
dell’autore con il caotico vorticare del
linguaggio, prima dell’approdo alla scrittura in prosa che darà vita non solo a I
trofei della città di Guisnes, del quale si
è fatto cenno sopra, ma anche a Il naviglio innocente e al postumo Bucherer
l’orologiaio, che per l’autore di Caprarica non rappresenta l’abbandono della
poesia, ma la sua accettazione totale e
onnicomprensiva.
Rossano Astremo
Resurrectum
Gianfranco Nerozzi
Dario Flaccovio Editore
****
Dopo
l’attesa
finalmente il secondo
capitolo
della saga partorita dalla mente
di questo brillante
autore e iniziata
nel 2004 con Genia; e le aspettative non sono state
deluse. Leggendo
il primo libro si rimane a bocca
aperta davanti alla fantasia sfrenata di
Nerozzi, che mette sul piatto del lettore
una gran quantità di situazioni che vanno
dalle immagini splatter di crimini efferati e
apparentemente incomprensibili, ad atmosfere inquietanti legate alla presenza
del diavolo. Tutti pezzi di un puzzle che
non è facile comporre. Con questo libro
il puzzle prende forma, ed è avvincente quello che l’autore riesce a segnare
sulle pagine; ciò che era oscuro nel primo capitolo diventa chiaro, ma subito
ci si trova di fronte a nuovi sconcertanti
eventi che sembrano slegati fra loro. Un
bambino solo davanti a un parete di televisori che cresce velocemente; chi è?
Perché ogni quattro mesi e per due anni
vengono uccisi i bambini nati il suo stesso
giorno e nella stessa clinica? Come mai
i bambini assassinati hanno una parte di
DNA in comune con una ragazza vittima
di uno stupro? A queste domande cerca
di dare una risposta un agente dell’Interpool, ostacolato da un killer albino che
cambia aspetto ogni volta che deve uccidere. Un gran bel libro, un finale sconvolgente.
Bubu
Coolibrì
26
Jack Kerouac. Il violentatore
della prosa
Rossano Astremo
Libreria Icaro Editore
Scrittura
sperimentale, totale, rivoluzionaria: “Jack Kerouac ha
violentato a tal punto
la nostra immacolata
prosa, che essa non
potrà più rifarsi una
verginità”. Queste parole sono pronunciate
da Henry Miller, padre
indiscusso di quella
generazione che negli
anni cinquanta ha determinato la messa in
discussione del militarismo, del denaro,
dell’ideologia del successo, di tutti quei
temi centrali della ribellione giovanile del
secondo novecento. La Beat Generation
di Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Neal
Cassady, William Burroughs, però, non
è stata solamente uno dei miti più affascinati dell’America contemporanea. Il
testo di Rossano Astremo, infatti, ricostruisce le tappe più importanti dell’esperienza scritturale di Jack Kerouac, capostipite del movimento beat: “Kerouac parte
da un abbozzo, da un’idea centrale, per
poi lasciarsi andare, per poi scrivere sino
allo sfinimento, seguendo le leggi dell’orgasmo, senza coscienza, tirando fuori quello che abbiamo di più nascosto,
di più intimo e carnale, che una scrittura cosciente e razionale non potrebbe
creare, ma solo censurare, obliare, cancellare”. Un viaggio che passa attraverso
la sua vita, la sua poetica, la sua scrittura,
nell’intento di illustrare l’originalità e la tipicità dell’esperienza letteraria del Proust
d’America.
Critica al giudizio psichiatrico
Giorgio Antonucci
Edizioni Sensibili alle foglie
****
La psichiatria si propone di curare l’anima, il pensiero, la
parola con le sempre
attuali tecniche del
controllo coatto, ed
agisce ovunque non
viga la normalità.
L’istituzione psichiatrica ed ancor di più il
giudizio psichiatrico,
impongono il disagio
agli esseri umani, con la repressione della diversità, con l’elettroshock, il coma
insulinico, la violenza psicologica, l’uso
smodato di psicofarmaci; le nuove accoglienti camicie di forza per la mente.
L’essere umano, costretto sempre più a
sentirsi “malato” attraverso una diagnosi
scelta tra decine con un raggio d’azione applicato all’intero corso della vita. È
così che il bambino attraverso una diagnosi viene psichiatrizzato perchè troppo
vivace così come l’anziano ansioso ed
improduttivo sedato per garantirgli sere-
nità nei suoi grigi anni. Uomini e donne
annullati senza diritti e senza possibilità di
scelta, quello che dicono, fanno e percepiscono non ha senso poiché “malati”.
Pubblicato nei primi anni ‘90 e riproposto
aggiornato, il testo di Giorgio Antonucci si
afferma in quel campo di critica radicale
alle istituzioni totali che, pur cambiando
nome, non cambiano i modi d’intervento. In particolare la psichiatria, che attraverso i trattamenti sanitari obbligatori e le
diagnosi a vita, condanna il paziente di
turno ad un limbo eterno tra vita e non
vita in un villaggio globale dormiente
dove la disobbedienza e la fuga , finanche mentali, non sono ammesse.
Simone
Poeta Pugile
Arthur Cravan
Edizioni Le Nubi
****
Sono gli anni che precedono la grande
guerra a rendere Arthur Cravan il misterioso Poeta Pugile da
cui prende il nome
quest’ottimo lavoro
edito in Italia dalle
giovani edizioni Le
Nubi. Amico di Apollinaire di Duchamp
e di numerosi artisti
parigini Cravan vuole
diventare noto a tutti i
costi. È così che dirige
e scrive la rivista letteraria Maintenant vendendola per le strade di Parigi con un carretto da fruttivendolo, l’autoproclamatosi inventore del
prosopoema colpisce il pubblico come
in un incontro di boxe, e fonde con piacevole raffinatezza la prosa e la poesia.
La sua prosa è divertente, spesso volgare,
eppure disseminata di frammenti poetici
ai limiti dell’allucinazione. Cravan non si
limita a scrivere, ha una personalità poliedrica, è irrequieto, usa nove pseudonimi, è un performer, l’avanguardia dell’avanguardia o un precursore dei Dadà
come lo definirà in seguito Breton. La vita
intensa di Arthur Cravan scorre fino all’incontro di boxe truccato con il campione
del mondo di pugilato Jack Johnson. È
l’ultima apparizione del “...poeta pugile,
cantore di versi e rompitore di mascelle...” che svanirà nelle acque del golfo
del Messico su una piccola imbarcazione
direzione Buenos Aires per sfuggire alla
chiamata alle armi.
Simone
Ammazzate Beppe Alfano.
Il caso del giornalista
sconosciuto
Valeria Scafetta
L’Unità
Valeria Scafetta è
una giovane e coraggiosa giornalista
romana e questo è
il suo secondo libro.
Dopo aver pubblicato nel 2003 U baruni di
Partanna Mondello,
storia di Mutolo Gaspare, mafioso pentito (Editori Riuniti) e
dopo aver collaborato a Le mafie nel Lazio
non abbandona il tema scottante della
criminalità organizzata e ricostruisce
dettagliatamente la vita e l’opera di un
giornalista impertinente e indipendente
(neanche iscritto all’ordine), uno di quei
“morti che cammina”. Beppe Alfano fu
freddato l’8 gennaio 1993 a Barcellona
Pozzo di Gotto. Nel libro la Scafetta racconta gli esordi di Alfano, le inchieste, le
difficoltà incontrate sino ai colpi mortali.
Un libro per non dimenticare un giornalista onesto e coraggioso.
Humour nero
Angelo Mainardi
Barbieri editore
****
La Barbieri editore di Manduria, storica
casa votata a pubblicazioni lontane dal
nostro target, esce con un libro che ci ha
sorpreso e conquistato subito. Un volume,
è il caso di dirlo, che si propone come
antologia dello Humour Nero. A cura di
Angelo Mainardi, il libro ripercorre nelle
sue sfaccettature la storia, l’evoluzione,
la trattazione di questo tema. Un viaggio
intriso di intrighi, riso amaro, raccontato,
illustrato, riportato, raccolto con cura
e dovizia di spiegazioni. Due parole
Coolibrì
che
accostate
evocano una serie
di sfumature, il riso
amaro, l’ironia, la
paura. Dal comico
al
grottesco,
dal
classico
al
moderno.
Humour nero è
l’occasione
per
scoprire frammenti
di autori, molti
dei
quali
già
abbiamo
letto,
ma tutti sotto la stessa scura penombra.
Il libro è curatissimo in tutte le fasi, il
lavoro di ricerca e selezione imponente,
la lettura gradevole e interessante. Un
libro dalla doppia funzione: il piacere
della lettura quando fuori piove, la
voglia di approfondire una passione, di
concentrarsi e riflettere. (O. P. )
27
LA FAMIGLIA SECONDO ISABELLA SANTACROCE
Post-Porn Modernist
Annie Sprinkle
Venerea edizioni
****
Ci sono libri
che servono. Ci
sono persone
senza le quali
il presente non
sarebbe così.
Vale per tutto. E
il sesso nel tutto
è un elemento
fondamentale.
La libertà che
oggi viviamo
è il risultato
di uomini e
donne
che
in un modo o
nell’altro hanno
combattuto e sfidato le convenzioni.
Annie Sprinkle nel suo mondo è
un’eroina, una pioniera. Una puttana
o una femminista? Un donna che vive il
sesso in tutte le sue forme, anche le più
estreme con la positività di chi lo vede
come potere e non come sottomissione.
Un corpo che percorre un pezzo di storia
dell’America, raccontata nelle sue più
intime debolezze e perversioni con la
semplicità di un diario e con la gioia di un
gioco. Post-Porn Modernist è una biografia
illustrata, uno spaccato divertente ed
eccitante, campionario di pratiche
oggi diffuse ma al tempo taboo come il
pissing, i fistfucking, il piercing di un certo
tipo. Il porno non solo collegato ai film o
alle riviste, ma anche il sesso visto come
forma d’arte e come performance. Tra
le chicche all’interno: per la serie l’abito
fa il monaco una galleria di persone
assolutamente normali trasformate in
stelle del sesso, le regole per essere
una puttana perfetta, indicazioni e
controindicazioni per gli amanti del sesso.
C’è tanto in questo bel libro edito dalla
coraggiosa Venerea edizioni, una realtà
editoriale che vale la pena di cercare e
sostenere.
Osvaldo Piliego
Chiusi in un mondo a parte, in un recinto
domestico che oscilla tra lo Zoo di
Tennessee Williams e un set di Ingmar
Bergman, tre personaggi senza nome,
il padre romantico e fragile, la madre
onnipotente e manipolatrice, e la dolce
“innocua figlia” non poi così candida, si
amano lungo gli anni di un amore malato
e claustrofobico, sfidandosi a colpi di
seduzioni, ricatti, tentazioni morbose,
ambizioni frustrate, fino ad annientarsi
l’un l’altro in un rituale di umiliazione,
mutilazione, eliminazione prima emotiva e
poi carnale. Il romanzo si presenta come
un monologo ossessivo, un dramma della
memoria raccontato dalla figlia che
ricorda in un lungo flashback. Questa in
sintesi la storia di Zoo (Fazi, euro 12,50),
nuovo romanzo di Isabella Santacroce,
dark lady della letteratura italiana, autrice
di romanzi cult, quali Destroy, Luminal,
Lovers, che hanno infettato come un
virus inestirpabile la crescita di migliaia di
adolescenti.
Zoo è il tuo primo romanzo che sposta
l’attenzione sulla necessità di narrare
un’esperienza familiare. Come è nata
l’idea e come si è sviluppata?
Zoo racconta una storia veramente
accaduta, ho conosciuto la protagonista,
è stata lei stessa a chiedermi di scriverla.
Le famiglie sono per me delle grandi
macchie che nascondono del buio
dentro, con Zoo sono andata a prenderlo,
l’ho portato nella luce. Zoo è il primo
libro che scrivo senza ascoltare musica,
volevo ci fosse silenzio per sentire la voce
della protagonista della storia, mentre lo
scrivevo la sua voce diventava la mia.
L’ho scritto di notte, quando nel palazzo
in cui vivo andavano tutti a dormire,
quando c’erano pochi rumori per strada.
In quel silenzio ho trovato la dolcezza
feroce che mi serviva per raccontare ciò
che è successo.
Come mai la scelta di passare da una
grande casa editrice come Mondadori
ad una piccola e agguerrita realtà come
quella di Fazi?
Avevo bisogno di una casa editrice che
avesse il cuore che ho messo dentro il
libro. Quando ho finito di scriverlo l’ho
mandato alla Fazi, sentivo che era il
posto giusto dove lasciare questo mio
nuovo figlio.
La tua prosa, hanno scritto, “è una
mina antiuomo che esplode schegge
di violenza e lirismo, sete d’amore e
bisogno di fare e farsi male, gocce di
passionalità e neurolettici”. Ti ritrovi in
questa definizione?
Per me la scrittura è rivolta, io mi sento una
rivoltosa, una strana guerriera spaventata
e coraggiosa, da questo nasce l’idea di
farmi fotografare con una maschera.
L’inchiostro è la mia arma. Si, violenza
e lirismo, amore e rabbia, dolcezza e
morte.
Quali libri hanno scandito la tua
formazione?
Non lo so, la vita mi è servita tanto, ciò che
più ho letto è la vita. Ho letto anche libri,
alcuni di questi sono stati importanti, ora
non lo sono più, per questo non mi piace
ricordarli. Il libro che più ho amato e amo
è una fotografia di Diane Arbus, ritrae tre
sorelle gemelle sedute sopra a un letto, in
loro ho visto moltissime parole, è il più bel
libro che ho letto sulla solitudine.
Un libro di un autore italiano che
consiglieresti ai nostri lettori?
Parassiti di Massimiliano Governi, è come
una fotografia di Diane Arbus.
Rossano Astremo
Coolibrì
28
IL PRECARIO-STAR ALL’OLIO D’OLIVA
1 febbraio 2006: si può dire che il mio
ingresso nel mondo della televisione
coincida con il mio ingresso nella prima
classe dell’Eurostar. È un’emozione
anche quella. Sono su un Milano-Roma,
seduto in un vagone che trasporta la
classe dirigente del mio paese. Per darmi
un contegno, mi sono messo il vestito di
capodanno. Ci provo. Passa il carrello
dei giornali, mi fotto Repubblica, Corriere,
Foglio e Sole 24ore. Con l’avidità del
parvenue gusto le mie letture gratuite.
È tanta roba. Arrivo. Scendo dal treno,
alla fine del mio binario c’è un uomo con
quell’eleganza tipica del mondo degli
autisti che regge un cartello patinato
con su scritto: Maurizio costanzo show.
Me presento (dopo 0,2 minuti a Roma
parlo già romano). Superamo le panchine
dove ce stanno li zingari der servizzio
bborseggio e arrivamo alla piazzola der
servizzio taxi. Non ho esitazioni a salire
sul retro della Lancia Libra, cosciente
del mio ruolo istituzionale. Teatro Parioli.
Entro circospetto sotto la scritta “Ingresso
artisti”; ce stanno un popo’ de sbirri; un
inserviente me chiede: e tu cchissei?
Cazzo, sono Tony Ruc...ehm Antonio
Sansonetti, fateme largo, devo entrà ner
monno dello spettacolo.
Certo,
s’accomodasse.
Dove
sta
er cammerino, chiedo a una fica
invereconda che risponde al nome che
non ve lo dico se no m’aa fregate. De
qua, signor Sansonetti, ma prima me deve
da firmà trecentosettanta libberatorie
si no nun se fa nulla. Firmo. Senta siamo
in anticipo, che vuole magnà? (ore 12).
Che ffai, me cojoni? Nun m’hai visto?
Vojo sempre magnà, speciarmente
a scrocco, che già ho capito come
funziona er monno qua...e mi ritrovo
dolcemente seduto nel ristorante da
Fauro, in via Fauro, quella dell’attentato a
Costanzo. Mentre combatto la fame del
mondo divorando tonnarelli alla ricetta
complicata, una signora nordica (oltre
Brindisi ndr) si siede dietro al mio tavolo
lamentandosi della trasmissione che è
andata bene ma Morelli voleva sempre
parlare lui. Poi nell’altra sala inizia a
gracchiare la voce di Tonon, che parla di
quanto è bella e piena la sua nuova vita
co le guardie der corpo de Costanzo.
Torno ar Parioli; dietro le quinte se
aggitano Demo Morselli, Laura Freddi e
n’artra che ho visto alla tv quarche notte
(Chiara Gamberale, a ri ndr). Io per parte
mia nun sto a capì un cazzo, me sembra
de stà ar circo e quanno me porteno
addrentro ar camerino sbrilluccicante de
Costanzio Maurizzio allora veramente nun
me sento più le gambe, me sento come
Pinocchio davanti a Mangiafuoco, etc.
Lui per parte me borbotta: Pamponeppi,
benvenuto...lei debe rappomparci la pua
ptoria, mi rappomamdo, prapap patap.
E vabbè. Me spazzolano la giacca, me
microfonano e sono il primo in pista. Mi
siedo su una poltroncina bianca bloccata
pe’ nno fa li stronzi che la telecammera te
deve da inquadrà. Davanti ciò la platea
der Parioli vuota, accanto se siedono
e se presentano nell’ordine Raffaello
Tonon, Laura Freddi, Chiara Gamberale
e un nerd co la scrima che sarebbe er
ggiovane presidente della provincia di
Firenze in quota democristi appetalati.
“Demo attacca la sigla”. Pronti, via e
Pottampio me presenta pe’ pprimo e
mostra la copertina der libbro (Tu, quando
scadi? ndr vol. 3) alle telecammere, ché
tutti e 39 gli spettatori der diggitale terestre
possano vedè. Ma io all’inizio c’ho quer
panico che ti prenne gìa quanno devi
fare una presentazzione allo Zei co 20
persone e le telecammere de Telerama,
figuriammoci si tte lascia solo ar Teatro
Parioli in Roma. Er fregnone democristo
domina la scena colla sicumera tipica
dei politici: ha portato una genialata di
libro dal titolo Fra De Gasperi e gli U2, che
parlerebbe der problema de li ggiovani
nerd dei felpati anni ‘80/90 che se vojono
avvicinà alla politica senza staccare le
cuffie dar Walkman. Ma poi siccome
er tema de la puntata è li trentenni e i
sordi, e tutti gli ospiti tranne er sottoscritto
sono sfonnati de sordi senza aver mai
fatto un cazzo, allora superPrecario viene
fuori alla distanza fino a monopolizzà
la scena: parla de li trecento lavoretti
demmerda che ha fatto, de la ggente che è pieno così - che nun cià un cazzo
de sordi e se sbatte ar coll-sente e artre
amenità filosocialpopolari der gennere.
Allora Pottanzio quasi se commove
ricordandose quanno era ggiovane e
nun c’aveva nna lira e nemmanco la
moje cammionista.
Allora Pottanzio me dice: lei troverà
sempre lavoro, e io lo guardo, sorido
emozzionato, ma cor penziero me gratto
forte forte laddove comincia l’omo e
finiscono le puttanate.
Tony Rucola
Manni non scade mai
Tu quando scadi? è una interessante
raccolta di racconti sul lavoro precario visto
dai precari che ha incuriosito molto i lettori
e le testate locali e nazionali, sia per il tema
trattato sia per la diversità dei generi usati
dai vari autori. Della raccolta fanno parte
anche i testi dei coolclubbini Dario Goffredo
e Dario Quarta (e questo è un altro merito del
volume). Prendendo spunto da questo libro
(e dalle presentazioni televisive di Antonio
Sansonetti in arte Tony Rucola) abbiamo
deciso, in un numero dedicato alle nuove
uscite discografiche pugliesi, di segnalare
nella sezione dedicata alle piccole case
editrici italiane una delle migliori realtà del
panorama regionale. La casa editrice Manni
è nata nel 1984 attorno alla rivista di letteratura
L’immaginazione e oggi ha un catalogo di
oltre 1000 titoli. Da una produzione inizialmente
orientata alla poesia ed alla narrativa si è
passati ad un ventaglio di interessi più ampio
che vede collane di saggistica, saggistica
socio-politica, filosofia, attualità, archeologia,
nonché un segmento importante dedicato
alla letteratura per ragazzi.
“In un mercato del libro calibrato sui
grandi numeri, sul sistema delle grandi
concentrazioni editoriali-distributive-librarie, le
piccole case editrici svolgono una funzione di
pluralismo politico, garantiscono l’espressione
di voci di dissenso o semplicemente di non
assuefazione al sistema”, sottolinea Agnese
Manni, direttrice editoriale dei volumi fuori
collana e dei libri per ragazzi. La Manni è
una grande famiglia che ruota attorno ai
fondatori Piero Manni e Anna Grazia Doria,
alle figlie Agnese, Grazia e a tanti collaboratori
che sono entrati in contatto con questa
realtà. Tra le nuove attività è anche partito
un esperimento di copyleft che consente di
scaricare gratuitamente un intero libro dalla
home page del sito www.mannieditori.it.
Manni Editori
Via Umberto I, 49
73016 San Cesario di Lecce (Le)
Be Cool
La terra
Sergio Rubini
Medusa
**** 1/2
Sergio Rubini e Domenico Procacci si
ritrovano dopo 12 anni e lo fanno con
La terra, film prodotto da una delle più
importanti e vivaci case di produzione
italiane, la Fandango, con la quale anni
fa il regista-attore aveva intrapreso il suo
percorso. Rubini, nato a Grumo Appula
(BA) nel 1959 arriva così al suo ottavo film
da regista (sei dei quali girati in Puglia)
dopo aver esordito nel 1990 con l’intenso
La stazione e dopo il recente successo de
L’amore ritorna (2003), forse uno dei suoi
lavori più riusciti. Il nuovo film di Sergio
Rubini è un viaggio ai confini del Sud. Un
Sud per molti versi stereotipato ma che
esprime una serie di considerazioni più o
meno valide sul valore della famiglia e di
tutto ciò che gli ruota attorno, proprietà,
memorie, legami. Un po’ dramma, un
po’ noir quest’ultimo lavoro del regista
pugliese convince e lo fa nella maniera
più limpida, raccontando una storia,
Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico
29
il cinema secondo coolcub
sempre sospesa tra sogno e realtà.
Ambientato a Mesagne, il film racconta
la storia recente di quattro fratelli
dall’animo e dal futuro profondamente
diversi che si ritrovano dopo svariati anni
per discutere la vendita di una masseria di
proprietà del padre. Questo innescherà
una serie di reazioni devastanti che
avranno il potere di smuovere situazioni e
coscienze e di riportare alla luce vecchi
traumi e contrasti sopiti. Bentivoglio,
Solfrizzi, Venturiello e Briguglia, oltre che
quattro fratelli rappresentano altrettante
stagioni della vita, nelle quali tutti siamo
costretti a fare i conti con un legame
così sottile da spezzarsi col primo alito
di vento. Interessante è anche il lavoro
tecnico che Rubini riesce a sviluppare,
che va da una efficace commistione di
generi a un mix sapiente di movimenti
di macchina che caratterizza il cinema
d’autore tanto quanto il B-movie. Nel
cast anche Claudia Gerini, compagna
di uno degli interpreti e lo stesso regista,
che si è cimentato con l’ambiguo
ruolo di uno strozzino che vede il suo
destino legato alla famiglia. Prima di
uno sconvolgente finale a sorpresa che
lascia tutti a bocca aperta. Ed è proprio
dove tutto è cominciato, nella masseria,
che si concludono le vicende dei quattro
fratelli-protagonisti, finalmente riuniti
anche dopo una importante “perdita”.
A dimostrazione del fatto che c’è una
dimensione ematica delle cose, che ci
rende più sensibili e aggressivi, scriteriati
e capaci d’amare. Senza mezzi termini.
Un film magico e senza ordine di tempo
in cui ritorna il tema delle radici, forse filo
conduttore di tutta la carriera di uno dei
più straordinari interpreti attuali della vita
da “emigrante”, che contraddistingue
nel bene e nel male ogni storia del Sud.
Michele C. Pierri
Be Cool
30
JOHNNY CASH
THE MAN IN BLACK
È difficile pensare a un artista che,
come Johnny Cash, racchiuda nella sua
vicenda personale tutte le traversie, le
contraddizioni e gli aspetti positivi della
popular music americana. Chiamato
affettuosamente “l’uomo in nero” portava sempre abiti di questo colore
per distinguersi, come spiegò lui stesso,
da quelli che si vestivano da cowboys John R. Cash nasce il 26 febbraio 1932
a Kingsland, Arkansas, in una famiglia
di contadini e nelle sue vene scorrono
anche gocce di sangue Cherokee. Nel
1935 i Cash si spostano dalle colline del
sud dell’Arkansas a Dyess, nell’area del
Delta del Mississippi. I Cash vengono
inseriti in un programma governativo
che prevede per loro un prestito, una
casa e alcuni acri di terra per coltivare
il cotone. Johnny lavora nei campi
con i genitori, ma ascolta anche molta
musica - prima dalla madre, che canta
accompagnandosi con la chitarra, poi
dalla radio e da un vicino di casa. Nel
1944 una tragedia colpisce la famiglia
Cash: Jack, il fratello quattordicenne di
John, si ferisce con una sega circolare
mentre sta tagliando dei pali per una
staccionata e muore dopo un’agonia
di otto giorni. Finite le scuole nel 1950,
Johnny si trasferisce a Detroit, dove
lavora finché non decide di arruolarsi in
aviazione. Presta una parte del servizio
militare in Germania e lì riesce finalmente
ad acquistare una chitarra tutta sua:
“Costava venti marchi ed era così
economica che non aveva neppure una
marca, ma ai miei occhi era una Martin
D-45”, ricordava lui stesso nelle note di
uno dei suoi ultimi dischi. In quel periodo
scrive una delle sue canzoni più famose,
Folsom Prison Blues. Nel 1954, tornato
civile, si sposa con Vivian Liberto e si
stabilisce a Memphis, in Tennessee. Per
mantenere la famiglia fa il piazzista, ma
frequentando Luther Perkins (chitarra)
e Marshall Grant (basso), due musicisti
dilettanti, ritorna ad appassionarsi alla
musica. La prima audizione con Sam
Phillips, il proprietario della Sun Records
che ha da poco scoperto Elvis Presley, va
abbastanza male, ma Cash non molla e
ci riprova finché non riesce a convincere
Phillips a fargli incidere un disco. Il primo
singolo, Hey Porter/Cry Cry cry, esce
nel giugno 1955, ma solo a novembre
entra nei Top 20 delle classifiche country
nazionali. Meglio ancora va il secondo,
Folsom
Prison
Blues/So
Doggone
Lonesome. E siccome nel frattempo Elvis
Presley ha deciso di prendere il volo e di
firmare con la Rca, Phillips ha più tempo
da dedicare a lui e un altro asso della
Sun, Carl Perkins.
Nel maggio del ‘56 Get Rhythm/I Walk
The Line sbanca non solo le classifiche
country, ma anche quelle pop,
totalizzando un milione di copie vendute.
Nel 1958, dopo aver collezionato altri
successi, Cash si trasferisce in California
e passa alla Columbia, la casa
discografica con cui resta per molti anni
e con cui realizza i suoi dischi più famosi,
successi che sono ormai parte essenziale
della storia della popular music come
Ring Of Fire (1963) e gli album At Folsom
Prison (1969) e At San Quentin (1970).
Nello stesso periodo hanno inizio i suoi
problemi con l’alcool e le droghe - alla
fine del ‘65 viene arrestato mentre tenta
di attraversare la frontiera con il Messico
con delle anfetamine nascoste nella
custodia della chitarra.
Dopo un incidente d’auto e un’overdose
quasi fatale, sua moglie chiede e
ottiene il divorzio. Dopo essersi stabilito
a Nashville, nel 1968 sposa June Carter,
componente della celebre Carter
Family, che lo aiuta a uscire dal tunnel
della tossicodipendenza. Un anno dopo
partecipa alle session di Nasville Skyline
di Bob Dylan, provocando un certo
scalpore tra gli estimatori di quest’ultimo.
Sull’album viene pubblicata soltanto la
versione in duo di un classico dylaniano,
Girl From The North Country, ma i due
registrano altre canzoni e Dylan viene
invitato allo show televisivo di Cash. Con
il passar del tempo la sua produzione
si fa più sporadica e anche per questo
sono particolarmente degni di nota i
suoi album degli anni ‘90 prodotti da
Rick Rubin: American Recordings (1994),
per sola voce e chitarra acustica, e
Unchained (1996), in cui il vecchio
“uomo in nero” viene accompagnato
da Tom Petty e dai suoi Heartbreakers
con la partecipazione di insospettabili
fans come Flea dei Red Hot Chili Peppers.
Cash si spegne in un ospedale di
Nashville nel settembre del 2003 a causa
di complicazioni causate dal diabete.
A maggio dello stesso anno era morta
l’adorata moglie June Carter Cash, cui
Johnny avrebbe voluto dedicare una
nuova raccolta di canzoni.
Sempre discusso per le sue posizioni
politiche conservatrici - nel 1970 aveva
cantato alla Casa Bianca per Richard
Nixon, uno dei peggiori presidenti della
storia degli Stati Uniti - Johnny Cash è
uno dei simboli della country music, ma
non può essere compreso e apprezzato
senza conoscere il rapporto profondo
che lega questa musica, il blues dei
bianchi, alla vita della parte più povera
ed emarginata della popolazione
americana.
Giancarlo Susanna
Be Cool
31
SEGNALAZIONI
WALK THE LINE
Il cinema e la TV lo hanno sempre
corteggiato - lo ricordiamo ad esempio
in A Gunfight, un western un po’ cupo
del 1970 diretto da Lamont Johnson con
Kirk Douglas e Raf Vallone, in un episodio
della serie del Tenente Colombo in
cui interpretava proprio un cantante
country o come protagonista di un suo
show televisivo - ma è sicuro che Johnny
Cash sarà ricordato soprattutto per
la sua musica. Per quei suoni e quelle
parole semplici, diretti e immediati con
cui si rivolgeva direttamente al cuore
del suo pubblico. Gli stessi che sono
in fondo il nodo centrale di Walk The
Line. Per T Bone Burnett, il musicista e
produttore che ne ha curato la colonna
sonora, questo film ha rappresentato
un’incredibile opportunità professionale,
ma ha indubbiamente gravato su di lui
come un’immensa responsabilità: “Negli
anni ‘50 Johnny Cash, allora appena
venticinquenne, rappresentava già
una figura mitica - ha dichiarato Burnett
- Un uomo combattuto tra l’amore per
Dio e la smania di scatenare l’inferno.
Distruttivo, pericoloso. Un uomo che
celava un lato ancora più oscuro
degli stessi abiti neri che indossava.
Joaquin Phoenix sembrava perfetto per
recitare in questo ruolo. La prima volta
che ci siamo incontrati per parlare
del progetto ha dipinto Johnny Cash
con toni molto profondi. E’ riuscito ad
evocarlo senza imitarlo. Joaquin é un
vero artista ed altrettanto posso dire
di Reese Witherspoon nel ruolo di June
Carter”. Impegnato nell’elaborazione di
questo soggetto per un periodo di sette
anni con il supporto iniziale dello stesso
Cash e di June Carter Cash (fino al 2003,
anno della loro scomparsa), James
Mangold, regista del film e autore della
sceneggiatura, ha deciso di collocare
Walk The Line a metà degli anni ‘50.
“E’ stato proprio allora che il rock’n’roll
ha travolto il mondo con la sua forza
esplosiva”, ricorda. Il film ripercorre la
fulminea scalata al successo di Cash,
che raggiunge il culmine con lo storico
concerto tenuto nel 1968 nella prigione
di Folsom.
Lasciamo ad altri una valutazione del film
- sul mensile inglese Uncut il critico Simon
Goddard lo ha definito una mediocre
biografia di taglio televisivo, ma in Italia
le lodi si sono sprecate - e soffermiamoci
sulla musica. La produzione di T Bone
Burnett è ineccepibile e d’altra parte
non potevamo aspettarci di meno
dall’artefice del soundtrack di O Brother
Where Art Thou? dei fratelli Cohen, ma
l’aderenza alle canzoni originali e le
performance vocali di Joaquin Phoenix
sono addirittura sorprendenti. Non ci
ha stupito più di tanto scoprire che alla
fine delle riprese l’attore americano
ha dovuto fare ricorso a una terapia
psicanalitica per uscire indenne dal
ruolo di Cash e tornare ad essere se
stesso.
La bella colonna sonora comprende
brani tratti dal repertorio di Cash come I
Walk The Line, Ring of Fire, Folsom Prison
Blues, Cry Cry Cry e It Ain’t Me Babe,
interpretati da Phoenix e Witherspoon.
Il disco include inoltre brani di Shooter
Jennings, figlio del leggendario Waylon
Jennings, che interpreta il padre sulla
scena del film, del cantautore Jonathan
Rice nel ruolo di Roy Orbison e del
cantante Tyler Hilton in quello di Elvis
Presley. (G.S.)
Il caimano
Nanni Moretti
Polemiche e accuse per il girotondino
Nanni Moretti che alla vigilia delle elezioni
torna con Il caimano, film liberamente
ispirato alla figura del premier uscente
Silvio Berlusconi. Il cast è composto da
Silvio Orlando, Margherita Buy, Michele
Placido e l’emergente Jasmine Trinca.
Nelle sale dal 24 marzo.
Inside man
Spike Lee
Nuovo film drammatico per Spike Lee
che nel suo Inside man vede la presenza
di stelle come Denzel Washington, Clive
Owen e Jodie Foster. Semplice l’intreccio
in cui un rapinatore durante un colpo,
perde il controllo della situazione e si
vede costretto a prendere un ostaggio.
Su di lui il fiato di un detective.
L’enfer
Denis Tanovic
Dalla Francia arriva L’enfer, per la regia di
Denis Tanovic. Tre sorelle ormai adulte si
sono allontanate, ma rimangono legate
da uno sconvolgente episodio legato alla
loro giovinezza. Fino al giorno in cui non
emerge una nuova verità del passato.
Berlinale 2006
Il cinema incontra l’impegno civile.
Questo il filo conduttore del 56mo
Festival internazionale di Berlino che ha
visto assegnare l’Orso d’oro al bosniaco
Grbavica di Jasmila Zbanic al centro del
quale viene posta la questione degli stupri
etnici subiti dalle donne nel decennio
scorso nella guerra nei Balcani. Largo
consenso anche per i britannici Michael
Winterbottom e Mat Whitecross che si
sono aggiudicati il premio per la Miglior
Regia per The road to Guantanamo,
drammatico resoconto dell’insensato
conflitto in Iraq. Grande attenzione
anche per l’impegno produttivo tedesco,
presente in quasi tutti i film premiati e
segno evidente di una cinematografia
che pone al primo posto la qualità. Ma
questo è stato anche il festival delle
delusioni che ha visto a bocca asciutta
non solo Michele Placido (presente
con Romanzo criminale), ma anche
maestri del calibro di Claude Chabrol,
Robert Altman e Sidney Lumet. In queste
decisioni, forse non condivisibili, è possibile
leggere un chiaro riferimento politico in
un momento storico delicato e quella
sensibilità femminile che una donna
come Charlotte Rampling, presidente
della Giuria, ha saputo apportare alla
rassegna. Da segnalare lo show di Roberto
Benigni, protagonista fuori concorso con
il suo ultimo lavoro, La tigre e la neve,
applaudito da pubblico e critica.
32
CoolClub.it
33
LA VOGLIA DI FARE TUTTO CON POCHI MEZZI
Il nostro viaggio nelle realtà indipendenti
italiane continua e questo mese, in
linea con il tema del giornale, arriva in
Puglia. Abbiamo incontrato Michele
della Psychotica records etichetta che
si muove e si sbatte per promuovere e
produrre altri suoni.
Parlaci un po’ dell’idea da cui nasce la
Psychotica, l’orientamento il suo impatto
con il territorio, quello tarantino...
La Psychotica nasce dalla mia mente
malata, dalla voglia di pubblicare
e diffondere musica aliena, musica
rumorosa o in ogni caso musica che
come attitudine e volontà si distacca
dai canoni classici del comune sentire.
L’impatto con il territorio non è stato
dei migliori, mi ci è voluto tempo per
dimostrare e far capire che indipendenti
non significa “sfigati”, cioè che non si sono
prodotti dei dischi “indipendenti” perché
non si trovava la major di turno…. I dischi
sono stati realizzati proprio per sfuggire in
qualche modo alle logiche del mercato
major, si tratta quindi di scelte derivanti
da idee politiche e attitudini corrette.
Questo numero parla di Puglia, di musica
in Puglia, una mappatura delle realtà
più interessanti. Da addetto ai lavori, ci
racconti un po’ la scena di Taranto, il suo
passato, il suo presente, il suo possibile
futuro.
Qui a Taranto non c’è una vera è propria
scena, esistono miriadi di gruppi nella
provincia e in città, soltanto che ce ne
sono pochissimi che hanno qualcosa
in comune tra loro, la maggior parte
(il calderone) fanno cover, blues,
progressive e metal. Poi ci sono alcune
band che ritengo interessanti, ma si
contano sulle dita di una mano…. Cioè
Logan, Beirut, But God Created Woman,
ci sono un paio di amici che fanno musica
elettronica, davvero notevole come fAb
e Mark Hamn. Le considero le migliori
espressioni musicali della zona proprio per
il discorso che facevo prima riguardo alla
voglia di realizzare qualcosa di diverso
dai soliti standard e dal comune sentire.
Questo si potrebbe definire il presente,
il passato non era poi tanto
diverso, qualche gruppo che
cercava di farsi conoscere
per attitudine e voglia di
sperimentare
(Veronika
Voss, Mind Vortex, Ain’t,
Zero Tolerance for Silente).
Il futuro e tutto da vedere,
certo che sarebbe una
bella soddisfazione vedere
altre persone interessate a
intraprendere strade diverse
(musicalmente
parlando)
magari proprio perché sono
state ad un concerto di
uno dei gruppi sopra citati,
in fondo così sono nati i
Beirut…..
Sul vostro catalogo ci sono
gruppi provenienti da tutta
Italia e non solo, come vi
muovete e quale è il vostro
indirizzo in questo senso.
I gruppi Psychotica pugliesi
te li ho elencati prima (vedi
sopra) ho fatto un disco in
collaborazione con fAb (è
in free dowload sul sito) e
mi piacerebbe realizzare
qualcos’altro con Mark Hamn, ma al
momento non ne ho parlato nemmeno
con lui…. Si vedrà …. Al momento ci sono
gli italiani Logan, Beirut, Lillayell, Edible
Woman, Guinea Pig, Beirut, Comfort, Zu,
Theramin, fAb e i But God Created Woman
e gli stranieri Ex Models, Velma, Dalek,
Daemien Frost e Giraffe Running. Molto
probabilmente sto per iniziare a lavorare
con i Moesgaard (una band francese
incredibile). Tutti questi gruppi sono stati
contattati (perché li conoscevo come
gli Ex Models) o mi hanno contattato
perché conoscevano l’etichetta e il mio
lavoro come i Moesgaard. È motivo di
orgoglio per me sapere che gli echi di
Psychotica arrivano fino in Francia!! Ma
non c’è una reale idea nella selezione
delle band, ce ne sono altre centinaia
che mi piacerebbe produrre, ma le mie
risorse sono limitate e faccio tutto quello
che posso…..
Parlaci un po’ delle vostre ultime
produzioni.
Sono usciti proprio in questi giorni due
dischi, che rispetto al resto del materiale
psychotica si diversificano parecchio
per la scelta dei suoni e per l’approccio
alla materia musicale, si tratta dello split
Lillayell/Velma e del disco dei Comfort
Eclipse.
Psychotica, un’etichetta indipendente
in genere, è un lavoro o può essere solo
un hobby, qualcosa da fare nei ritagli di
tempo.
Con scelte (artistiche) come le mie
non potrà mai diventare un lavoro,
se ci aggiungi il mercato discografico
(tutto, indipendente e non) in crisi per la
musica in download gratis, la vedo dura,
secondo me il futuro è il vinile, quindi gli
appassionati.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
B A L L A T I
I lettori affezionati di Coolclub.it si
sorprenderanno nel leggere una pagina
dedicata
alla
musica
tradizionale
salentina. Nel numero disegnato sulle
“strane” novità del mercato musicale
pugliese abbiamo deciso di dare spazio
ad un musicista e operatore culturale
del sud del Salento, al suo gruppo e al
loro centro musicale. Claudio “Cavallo”
Giagnotti è il fondatore dei Mascarimirì e
del Centro Dilinò di Muro leccese. La sua
sagoma è assolutamente inconfondibile
tanto che nel 2003 quando sul palco
di Melpignano per il concertone della
Taranta, per la prima volta dalla nascita
della manifestazione nel 1998, non si
scrutò la sua “coda” e non si udì il suo urlo
di battaglia – BALLATI – molti si chiesero
che fine avesse fatto.
“Negli ultimi anni ho deciso di defilarmi
dalla Notte della Taranta perché sono
in disaccordo con alcune scelte dei
direttori artistici”, sottolinea Cavallo. “In
generale nel Salento negli ultimi anni,
al di là di alcune operazioni editoriali
e discografiche interessanti, si è fatta
pochissima ricerca. I Mascarimirì sin dalla
nascita e nonostante numerosi cambi
di formazione, hanno invece sempre
cercato di portare avanti un discorso di
ricerca tralasciando i pezzi facili (quelli
che tutti sanno fare) e puntando invece
su brani mai incisi o inediti. È un errore
secondo me insistere sempre sullo stesso
patrimonio di dieci canzoni quando se
ne potrebbero portare alla luce nuove.
Sono anche contento che i pezzi firmati
Mascarimirì come Bendirì, La ballata
di Santa Marina, Occhi turchini siano
diventati quasi patrimonio tradizionale”.
La curiosità che mi viene è quella di
capire come non ora (che il movimento
è inflazionato e che è più facile da
queste parti fare il “pizzicarolo” che il
“rockettaro”), ma una quindicina di
anni fa un ventenne potesse sentire la
necessità di “riprendere” un tamburello in
mano. Nel caso di Cavallo ha influenzato
e condizionato questa scelta anche la
riscoperta delle sue origini zingare. In molte
zone del Salento la comunità di famiglie
C O N
Rom è molto forte. La madre di Claudio
è stata la prima rom a sposarsi con un
italiano. “Questo aspetto delle mie radici”,
racconta Claudio, “è venuto fuori intorno
ai 23 anni, dovuto soprattutto al rapporto
conflittuale con l’attività commerciale
della mia famiglia. Ad un certo punto ho
lasciato tutto e sono andato in giro per
l’Italia, tra Napoli, Bologna e altre città del
nord per fare il musicista”. Il primo gruppo
di Cavallo sono i Terra De Menzu, nati nel
1993/94 sotto l’influenza del fotografo
Fernando Bevilacqua, che coinvolge
numerosi giovani musicisti rock.
La mia posizione, faccio notare a Cavallo,
è molto critica. Ritengo, fuori dai moralismi
e dalle banalità (nelle quale già lo so che
cadrò) che la salentinità sia stata un po’
costruita, che bisogna stare attenti a certi
manifesti di localismo, che la musica in
questa splendida zona di Italia non sia solo
quella tradizionale (come a volte pare
essere), che certe manifestazioni rischiano
di trasformarsi in fenomeni da baraccone
o addirittura di perdere la propria natura
(vedi San Rocco a Torrepaduli). A questo
punto parte una lunga discussione che è
difficile riportare sulla carta per questioni di
spazio e per questioni di lingua: entrambi
iniziamo infatti a discutere in dialetto.
“La situazione attuale del panorama
musicale è abbastanza tragica”, sottolinea
Claudio. “C’è un forte appiattimento
sulle idee ma, ed è questa la cosa più
preoccupante, non dei gruppi minori ma
in quelli maggiori, quelli più importanti. Per
i ragazzi è ancora più semplice. Perché ti
incontri, fai un gruppo, cinque concerti,
un cd...ma hanno tutti lo stesso repertorio.
Ci sono poi gruppi che scelgono di fare
cose più contaminate ma poi tornare
indietro. Secondo me è fondamentale
avere un progetto artistico ben definito.
I Mascarimirì fanno tradinnovazione ma
possiamo farla solo perché conosciamo
la tradizione. Ma non quella acquisita
per sentito dire o quella letta sui libri. Il
nostro progetto è nato dal confronto
con musicisti seri come Daniele Sepe,
Dupain, Massillia Sound System, Piero
Milesi (maestro concertatore di alcune
34
M A S C A
edizioni della Notte della Taranta). Da
questi incontri nascono novità sonore,
idee. Nel Salento attualmente esistono
circa centodieci gruppi e sono quasi tutti
fermi alle feste di piazza”.
Nonostante queste perplessità Cavallo
è convinto che la musica salentina non
sia un fenomeno da baraccone. “Quello
che tutti devono capire è che in questa
zona c’è una coscienza tradizionale e
politica del territorio che in pochi hanno.
Il Salento insieme a poche altre regioni
come l’Occitania, il Maghreb, l’Andalusia,
l’Irlanda ha una musica quasi primordiale”.
Un ritmo “innato”, una primitività sonora
che deve essere mantenuta attraverso
due elementi essenziali: la voce e il
tamburello. “Purtroppo si sta perdendo
il suono tradizionale. Molti musicisti
utilizzano tamburelli di plastica, molto
più spettacolari e suonabili ma che non
danno le stesse sensazioni di una volta.
La pelle, la forma, la disposizione dei
sonagli: tutto aveva un senso e tutto deve
essere recuperato”. Una riscoperta della
CoolClub.it
R I M I R I ’
tradizione che dà anche senso al titolo di
questo nuovo lavoro. “Trìciu è un quartiere
di Muro Leccese dove sorgono un Menhir
e la chiesetta di Santa Marina (IX-XI
sec)”. Il disco è una produzione artistica
di Dilinò. “La struttura è nata nel 2003 e
cura produzioni musicali legate alla world
music, alla musica etnica. Attualmente
le nostre band sono i Mascarimirì, i Crifiu
(che parteciperanno alle finali regionali
di Arezzo Wave e che stanno lavorando
al nuovo disco), e P 40, un giovane
cantattore. Ma Dilinò è anche un centro
con centinaia di cd da ascoltare, un luogo
di incontro e una sala prove. Da un po’ di
tempo curiamo su una emittente locale
un programma radiofonico sulla world
music ogni lunedì dalle 21 alle 22”. Trìciu,
prodotto da Radio Popolare e Sensible
Records per la collana discografica Arpa,
distribuito dalla Family Affaire sarà in
vendita nei negozi di tutta Italia a partire
dal 25 marzo. La presentazione ufficiale si
terrà il 31 marzo e il 1 aprile.
Pierpaolo Lala
MUSICA
35
tutti i lunedì/ Karaoke al Caledonia di
Lecce
ogni martedì/ Jam sassion jazz al Willy Nilly
di Squinzano (Le)
ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé
Letterario di Lecce
Il nuovo appuntamento in musica del
Caffé Letterario si chiama High Fidelity.
Ogni settimana un dj diverso si alternerà
in consolle per selezionare un personale
percorso alla scoperta di un genere
musicale, un periodo, una etichetta o un
gruppo.
ogni venerdì/ Cinemusic con music bar,
happy hour e borsa delle consumazioni al
Prosit di Lecce
ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al
Willy Nilly di Squinzano (Le)
tutte le domeniche/ Happy Hour dalle 20
alle 24 con drink e buffet al Prosit di Lecce
giovedì 2 e venerdì 3/ Selezioni provinciali
brindisi Arezzo wave a Villa Leta di
Mesagne(br) Ingresso gratuito - start ore
21:00. Info:3406093497
giovedì 2/ Sergio Laccone a Le Signorie di
Casarano (Le)
Prende il via La voce del cuore, una
rassegna della canzone cantautoriale
pugliese dal retrogusto rock, swing e
qualche ‘condimento’ jazz. La voce del
cuore ospiterà il barese Sergio Laccone,
Daniele Dall’Omo e Ivana Fortuna. La
rassegna sarà anche l’occasione ideale
per presentare il nuovo cd di Martino
de Cesare, L’ultimo bivio (tra sogno e
realtà), edito da Rai-Trade: un sogno fatto
vent’anni fa, scritto di botto su un foglio, il
mattino dopo, e riposto in un cassetto in
attesa di trasformarsi in una sceneggiatura
per la realizzazione di un film e colonna
sonora ideale per tale adattamento
cinematografico. La voce del cuore è una
rassegna curata da Madmanagment di
Copertino (Le) ed è ospitata da vari locali
tra i quali il Prosit di Lecce (il 28 marzo e il
4 e 11 aprile).
giovedì 2/ Sublime Follia all’Heineken
Green Stage di Tricase (Le)
venerdì 3/ Kawabato Makoto + Piggy
DJSet all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
venerdì 3/ Sergio Laccone al Teatro
l’Acquario di Rutigliano (Ba)
venerdì 3/ Carlo atti quartet con Carlo
atti (Sax Tenore), Ettore Carucci (Piano),
Giuseppe Bassi (basso), Marcello Nisi
(batteria) al Bakayokò di Parabita (Le)
venerdì 3/ Black Groove al Caledonia di
Lecce
venerdì 3/ Client allo ZenzeroClub di Bari
sabato 4/ Zenzerology indie anteprima
Arezzo Wave allo ZenzeroClub di Bari
sabato 4/ Death Disco con Dr. Kiko &
Calamity Jane from UK all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 4/ Vialka ai Sotterranei di Copertino
(Le)
domenica 5/ Lincastro, duo falk da Roma
al London Tavern di Lecce
mercoledì 8/ Festa della donna al
Caledonia di Lecce
mercoledì 8/ Festa della donna al Road 66
di Lecce
mercoledì 8/ Happy mimosa con Mimosa
cocktail per le donne al Prosit di Lecce
mercoledì 8/ Gianfranco Rizzo soul trio al
London tavern di Lecce
giovedì 9/ Titty Sister all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
Il repertorio live comprende sia brani
originali sia classici rock’n’roll, swing, surf e
sfrenato rockabilly.
venerdì 10/ Ushuaia al Caledonia di
Lecce
venerdì 10/ Burning seas + Kronium al Csa
Zona 167 di Parabita (Le)
venerdì 10/ Samba de saulito (Tributo a
Santana) al Bakayokò di Parabita (Le)
venerdì 10/ Camera 237 + Herozero
all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
venerdì 10/ Carvin Jones al Teatro
l’Acquario di Rutigliano (Ba)
venerdì 10/ Hazy Brain al Blue Blood di Oria
(Br)
venerdì 10/ Ushuaia al Caledonia di
Lecce
venerdì 10/ Finali regionali Arezzo Wave
allo ZenzeroClub di Bari
sabato 11/ Finali regionali Arezzo Wave
allo ZenzeroClub di Bari
sabato 11/ Offside allo Zei di Lecce
sabato 11/ Pleo (live set) + Populous (Dj
Set) all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
sabato 11/ Pensierinvolgare (pro Amref) ai
Sotterranei di Copertino (Le)
sabato 11/ La banda dei falsari alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
CoolClub.it
domenica 12/ Nena’s Polla ai Sotterranei di
Copertino (Le)
domenica 12/ Burning seas all’Arci Ragazzi
di Francavilla Fontana (Br)
domenica 12/ Dinamo Rock al Lowenbrau
di Poggiardo (Le)
mercoledì 15/ Fiumi di assenzio e fiumi di
parole al London Tavern di Lecce
Degustazione di assenzio e lettura di versi
scritti nel corso della serata.
giovedì 16/ Biomechanical + Warchild al
Nord Wind Disco Pub di Bari (Info e prevendite
333 65 99 784 - vivomanagement@hotmail.
com)
giovedì 16/ Violante Placido (aka VIOLA)
allo ZenzeroClub di Bari
giovedì 16/ Zippo jazz trio con Marcello
Zappatore, Marco Bardoscia e Dario
Congedo al London Tavern di Lecce
giovedì 16/ Adel’s all’Heineken Green Stage
di Tricase (Le)
Uno show fatto di composizioni originali
che non stancano assolutamente, e di
cover di estrazione tanto assurda quanto
geniale (come le rivisitazioni in chiave Rock
and Roll di brani di Buscaglione, Carosone,
Modugno, Dean Martin, Louis Prima, o pezzi
di musica classica o balcanica)! Il tutto con
un sound caldo e frizzante!
venerdì 17/ Violets & swear in concerto
- zenzerology uk dj set allo ZenzeroClub di
Bari
venerdì 17/ Ariel (Meccanica Cubana) al
Caledonia di Lecce
venerdì 17/ Fabio morgera quartet: Fabio
Morgera (Tromba), Norberto Tamborrino
(Piano), Giuseppe Bassi (Basso), Marcello
Nisi (Batteria) al Bakayokò di Parabita (Le)
venerdì 17/ Twin dragons al Teatro l’Acquario
di Rutigliano (Ba)
venerdì 17/ Dinamo Rock al Morrison’s pub
di Martano (Le)
venerdì 17/ Prove a Distanza al Red Moon
di Mesagne (Br)
sabato 18/ M.i.a. dj set allo ZenzeroClub di
Bari (vedi pag. 22)
sabato 18/ Dinamo Rock all’El Royo di Alezio
(Le)
sabato 18/ The Boozers all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 18/ Dragma + The Gemm (pro
Amref) ai Sotterranei di Copertino (Le)
sabato 18/ Andrea Chimenti alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
domenica 19/ San Giuseppe Folk Festival
con Zimbaria presso Contrada Ferrari, vic.
Campo Sportivo di Erchie (Br)
martedì 21/ SublimeFollia al Mulligan’s Pub
di Maglie (Le)
giovedì 23/ Fluid to gas ai Sotterranei di
Copertino (Le)
giovedì 23/ Daniele Dall’Omo a Le Signorie
di Casarano (Le)
giovedì 23/ Foredecapu blues band
all’Heineken green stage di Tricase (Le)
venerdì 24/ Blu Cianfano al Caledonia di
Lecce
venerdì 24/ Opera (rock progressive) al
Bakayokò di Parabita (Le)
venerdì 24/ Daniele Dall’Omo al Teatro
l’Acquario di Rutigliano (Ba)
venerdì 24/ Stonecutters all’Arci di Galatone
(Le)
venerdì 24/ Prove a Distanza al The Church
di Brindisi
sabato 25/ Tabulè alla Saletta della Cultura
di Novoli (Le)
sabato 25/ Daniele Dall’Omo a La Grange
di Cosenza (Cs)
sabato 25/ The Adels all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 25/ Derelict Carillon (pro Amref) ai
Sotterranei di Copertino (Le)
sabato 25/ Alessandro Coppola ai Cantieri
Koreja di Lecce
martedì 28/ Daniele Dall’Omo al Prosit di
Lecce
martedì 28/ Dinamo Rock al Mulligan’s di
Maglie (Le)
giovedì 30/ Martino De Cesare a Le Signorie
di Casarano (Le)
giovedì 30/ Shade out all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
venerdì 31/ Martino De Cesare guest
Lucariello al Teatro l’Acquario di Rutigliano
(BA)
venerdì 31/ Cuori di Cane al Caledonia di
Lecce
venerdì 31/ Ivano Fortuna all’Osteria Quattro
venti di Fragagnano (Ta)
venerdì 31/ Ray Band (pop funk con
contaminazioni jazz): Raimondo Campa
(voce), Enrico Duma (chitarre), Fernando
Fattizzo (tastiere), Alessio Borgia (batteria) al
Bakayokò di Parabita (Le)
venerdì 31/ Psychosun + Masoko allo
ZenzeroClub di Bari
sabato 1 aprile/ Masoko all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
sabato 1/ Roberto Angelini in Pong Moon
alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)
sabato 1/ Offside all’Arci di Francavilla
Fontana (Br)
lunedì 3/ Demolition Doll rods (Keep Cool)
all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
Dopo la prima edizione dello scorso anno
torna la rassegna Keep Cool organizzata da
Coolclub. Il programma prenderà il via lunedì
3 aprile con il concerto delle Demolition
Doll Rods, due signorine ed un maschietto
provenienti da Detroit che rincorrono la
semplicità del rock’n’roll tingendola di
blues quando occorre. Il 13 aprile spazio
ai Settlefish, band bolognese con un piede
negli Stati Uniti, che combina trame postrock con un “emo-core” che nulla ha da
invidiare alle formazioni d’oltre oceano.
Sabato 22 aprile arrivano nel Salento i
londinesi Art Brut, uno dei fenomeni musicali
d’oltremanica. Il quintetto propone un rock
divertente e irriverente. Lunedì 24 aprile
direttamente dagli Stati Uniti i Red Elvis, che
prendono il nome dal famoso quadro che
nel 1962 Andy Warhol dedicò all’inventore
del rock. Keep Cool chiude i battenti sabato
29 aprile con il concerto del duo francese
Chevreuil che presenterà i brani del nuovo
lavoro Capoeira. Gli appuntamenti sono
all’Istanbul Café di Squinzano (Le). Info
www.coolclub.it; 0832303707.
TEATRO/ARTE
sabato 4/ Lenta-mente ai Cantieri Koreja di
Lecce
Alle ore 19.30 si inaugura la mostra di Enza
Mastria che proseguirà nel foyer dei Cantieri
Koreja sino al 31 marzo.
sabato 5/ Perchè ora affondo nel mio petto
36
CoolClub.it
ai Cantieri Koreja di Lecce
Un bluff teatrale sull’amore (l’amore è un
bluff teatrale) messo in scena da Roberto
Corradino. Il monologo, che parte dalle
suggestioni dalla Pentesilea di Von Kleist,
‘riscrive’
la
vicenda
dell’amazzone
innamorata dell’eroe Achille. Lo spettacolo
rientra nella rassegna Strade Maestre.
L’appuntamento è ai Cantieri Koreja di
Lecce. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro
(ridotto 7). Info 0832242000
martedì 8/ Lezioni di piano (teatro Kismet
opera) al Teatro Verdi di Martina Franca
mercoledì 9/ Alessandro Bergonzoni in
Predisporsi al micidiale al Teatro del Fuoco
di Foggia
Giovedì 10/ Alessandro Bergonzoni in
Predisporsi al micidiale al Teatro Sala
Margherita di Putignano
Venerdì 10/ Alessandro Bergonzoni in
Predisporsi al micidiale al Teatro Curci di
Barletta
martedì 14/ Romeo e Giulietta al Teatro
Paisiello di Lecce
martedì 14/ Dario Vergassola e David
Riondino in Todos caballeros - ballate
per don chisciotte al Teatro del Fuoco di
Foggia
sino al 15 marzo Al Caffé Letterario di Lecce
prosegue (fuori scena) una presentazione di
paesaggi urbani di Raffaele Quida, artista
Gallipolino. L’arte non ha bisogno della
realtà esterna per esistere, ma dell’oggetto
in essa contenuto, oggetto che manipolato
con azione segnica, sovrapposizione di
materiale avverso, materiale industriale,
grumi di colore e a volte con il semplice non
colore, diviene arte.
giovedì 16-venerdì 17 marzo/ Il deficiente ai
Cantieri Koreja di Lecce
Lo spettacolo, scritto diretto e interpretato
da Gaetano Colella e Gianfranco Berardi,
ha conquistato il Premio Scenario 2005.
Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto
7). Info 0832242000.
giovedì 16/ Lezioni di piano (teatro Kismet
opera) al Teatro Supercinema di Trinitapoli
venerdì 17/ Lezioni di piano (teatro Kismet
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opera) al Teatro Impero di Brindisi
da venerdì 17 a lunedì 20/ Concha Bonita al
Teatro Curci di Barletta
sabato 18/ Lezioni di piano (teatro Kismet
opera) al Teatro Astra di Andria
venerdì 24/ Muratori al Teatro del Fuoco di
Foggia
venerdì 24-sabato 25/ Lezioni di piano
(teatro Kismet opera) al Teatro Ariston di
Foggia
giovedì 30 / Le serve al Teatro Politeama
Greco di Lecce
venerdì 31 / Radiodervish e Giuseppe
Battiston al Teatro Moderno di Tricase (Le)
Sul palco una formazione che unisce la
dimensione più acustica e rarefatta del
concerto con le ritmiche percussive. Nabil
e Michele Lobaccaro, sono accompagnati
da Alessandro Pipino, Giovanna Buccarella
, Rita Paglionico, Anila Bodini, Arash
Khalatbari, iraniano. Giuseppe Battiston
(Pane e Tulipani, Agata e la tempesta),
leggerà alcuni testi cui sono ispirate molte
delle canzoni del gruppo.
sabato 1 aprile/ Lourdes ai Cantieri Koreja
di Lecce
Lourdes è il debutto alla regia di Tonio De
Nitto del Teatro Stabile Koreja. Il lavoro
cerca di ripercorrere in quadri i momenti
fondamentali di un pellegrinaggio. Sul
palco Federico De Giorgi, Carlo Durante,
Emanuela Gabrieli, Federica Leone, Silvia
Marchi, Antonio Nicolardi. Sipario ore
20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info
0832242000.
sabato 1/ Radiodervish e Giuseppe battiston
al Teatro Garibaldi di Bisceglie
domenica 2/ Radiodervish e Giuseppe
battiston al Teatro Mercadante di
Cerignola
CINEMA
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CoolClub.it non
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eventuali variazioni o
annullamenti.
Gli altri appuntamenti
su www.coolclub.it
Per segnalazioni:
[email protected]
martedì 7/ Me and
everyone we know
al Cinema Elio di
Calimera (Le)
martedì 7/ La damigella d’onore al Cinema
Santalucia di Lecce
venerdì 10/ Segnale di corto Filmfestival al
Flatus Vitae Pub – Erchie (Br)
Serata finale per la prima edizione di
Segnale di Corto, festival di cortometraggi
indipendenti, organizzata da L.A.I.T.Project
e Flatus Vitae Pub con il contributo
del Comune di Erchie. Le prime due
serate hanno visto sfilare in proiezione i
quindici cortometraggi in concorso tra la
partecipazione e l’entusiasmo di un pubblico
attento e divertito. La giuria, composta
da Gino Cesaria, Michele Pierri, Francesco
Di Lauro, e Mimmo Pesare ha valutato i
corti e ha decretato cinque finalisti che si
contenderanno la vittoria. Durante la serata
saranno proiettati Due bravi ragazzi di Tony
Palazzo, Chora di Lorenzo Adorisio, 24.Eh?
(ouch!) di Lucas M. Figueroa, La nuova era
di Niccolò Vannetti e Daniel Bertacche,
Keep silent di Francesco Arcuri. Ingresso
gratuito. Info 3495825399/3403984556
martedì 14/ Shangai dreams al Cinema Elio
di Calimera (Le)
martedì 14/ Texas al Cinema Santalucia di
Lecce
martedì 21/ L’enfant al Cinema Elio di
Calimera (Le)
martedì 21/ Habana Blues al Cinema
Santalucia di Lecce
martedì 28/ Memorie di una geisha al
Cinema Elio di Calimera (Le)
martedì 28/ L’enfant al Cinema Santalucia
di Lecce.
CIBO & LETTERATURA
Il ristorante La luna dei Borboni – nello spirito
della cultura che la anima – ha pensato
di promuovere una iniziativa letterariogastronomica volta a conservare esperienze
e ricordi legati al cibo. Per partecipare
basterà inviare all’indirizzo di via Dante
Alighieri, 59 – 73016 San Cesario di Lecce, un
racconto di circa 60 – 90 righi dattiloscritti. Tali
racconti saranno letti da attori nel corso di
alcune serate conviviali e saranno votati dai
commensali. Tra i più votati saranno poi scelti
da una giuria competente quelli da destinare
alla pubblicazione. L’iniziativa parte da subito
ed è aperta a chiunque voglia partecipare.
CoolClub.it
PERSEPOLIS: UNA DIFFERENTE
CHIAVE DI LETTURA DELLA STORIA
Parigi, due donne iraniane conversano
in un caffè: una vive da tempo nella capitale francese, l’altra, benestante, è in
vacanza lontano da casa e, ad un certo
punto della conversazione, dichiara di
volere che Bush e soci attacchino l’Iran
per sovvertire l’attuale regime politico.
Quando l’altra si mostra scandalizzata
da tali affermazioni, le risponde: “Tu vivi a
Parigi… È facile parlare di civiltà quando
si vive a Parigi… È un lusso!” lasciandola
senza parole, incapace di ribattere. Questo dialogo, inserito in una vignetta, è una
prova esemplare del talento di Marjane
Satrapi, giovane fumettista iraniana trapiantata a Parigi: attraverso un’esperienza personale (è lei la protagonista della
vignetta), traccia un veloce ritratto di
due differenti visioni del mondo, impietoso ma, allo stesso tempo, brillante. Con lo
stesso stile ha scritto e disegnato Persepolis (edito in Italia da Sperling e Kupler),
uno dei fumetti più interessanti degli ultimi
anni, che l’ha resa nota a livello internazionale. In Persepolis la Satrapi ci racconta la propria storia dai dieci ai ventitré
anni, intrecciandola con quella dell’Iran
della rivoluzione islamica; la vicenda, infatti, si apre nel 1980, l’anno dell’avvento
dell’ayatollah Khomeini, con la piccola Marjane costretta a portare il velo a
scuola. Attraverso il racconto della propria infanzia e dell’adolescenza, l’autrice
ci conduce nel passato recente del suo
Paese senza semplificazioni ideologiche
o facili stereotipi. L’Iran della Satrapi è
un luogo denso di contraddizioni: eventi
tremendi (le stragi dei manifestanti nelle
piazze; il tragico destino dei dissidenti) si
incrociano con i piccoli eventi quotidiani,
incentrati sull’adattamento delle persone ai cambiamenti che stanno avvenendo (il velo nei luoghi pubblici imposto alle
donne, il rapporto con l’Occidente e con
la religione). In Persepolis gli Iraniani non
sono, semplicemente, dei fanatici religiosi o delle povere vittime di tale fanatismo,
bensì persone, esseri umani, costretti a
vivere una situazione politica oppressiva, che hanno ancora voglia di perdersi nelle proprie faccende personali. Con
ironia e con un’innata grazia la Satrapi ci
fa amare il suo sé più giovane, intento al
continuo confronto con una società differente dai suoi valori ed ideali. Ciò che
manca è un inutile vittimismo: alla Satrapi
interessa capire e comunicare le proprie
sensazioni ed i meccanismi scattati in uno
Stato, che fu un’illuminata democrazia
ed ora è qualcos’altro, rendendoli intelligibili ai lettori d’ogni dove. Attraverso
il racconto per immagini, strutturato in
capitoli tematici, la fumettista costruisce
un ponte ideale tra due mondi, divenendo ella stessa il tramite fra queste due
realtà affatto inconciliabili, ed utilizza la
propria biografia per alleggerire i toni,
consegnandoci un’opera che spazia
dalle lacrime al sorriso, come l’esistenza
di ogni essere umano. I disegni, essenziali, quasi geometrici, sono funzionali alla
storia, mentre ci restituiscono, attraverso
il bianco e nero, le emozioni che l’autrice ha provato. Il risultato è un’opera, fin
troppo, attuale in un momento di assurdi
schematismi e di timore verso “l’altro da
sé”. La Satrapi ci ha fatto penetrare nei
pensieri e nei sentimenti di una ragazza
di fronte alla propria storia, a noi tocca
il compito arduo: fare nostra tale lezione
e tentare di comprendere il presente per
cambiare il corso degli eventi futuri.
La fumettista iraniana è l’erede di una
tradizione dei comics ormai consolidata
che vide un giovanissimo Spiegelman
vincere il premio Pulitzer (il massimo
riconoscimento letterario assegnato negli
Stati Uniti) nel 1978 con il celebre Maus
(edito in Italia da Einaudi).
Spiegelman affrontò il tema dell’Olocausto usando
la
propria
vicenda familiare: l’internamento
del
padre
ad Auschwitz
nel passato
ed il suo rapporto contrastato con
lui nel presente. L’opera ebbe un
enorme successo di critica e pubblico, travalicando i pregiudizi
sul fumetto ed entrando a pieno diritto
tra i capolavori della letteratura del ’900.
Dunque, nel caso della Satrapi e di Spiegelman, il medium fumettistico assurge a
vette altissime, proponendosi di “mettere
in scena” e di interpretare gli eventi umani, macroscopici o individuali che siano;
i due autori hanno in comune la volontà
di narrare la Storia (con la “esse” maiuscola) sviscerandone tuttavia un aspetto poco discusso: la vita delle persone
comuni e l’impatto che quella Storia ha
avuto su di loro.
Roberto Cesano
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