anno III
numero 24
aprile 2006
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“NON LUOGHI”
[
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Partire da una negazione per affermare fortemente. Negare il non-essere, come fece Parmenide, è parlare del nulla,
di cose che non ci sono. Difficile la filosofia del non come quella del post, si rischia di non dire niente di interessante
o di parlarsi addosso. Ogni volta che una parola nasce molti ne vorrebbero la paternità, tutti le vorrebbero attribuire
un’accezione, altri ne sono vittime.
Dopo la moda del postmoderno (maltrattato, stropicciato, abusato) c’è il non-luogo. Nato in riferimento ad aereoporti,
mallcenter, villaggi vacanze, non-luogo è diventato la rete, internet, lo spazio stellare, la comunicazione: tutto e niente.
Fino al paradosso che l’intero pianeta sia un non-luogo o ancora che i non luoghi siano in realtà super-luoghi, contenitori
sovraffollati di informazioni.
Siamo partiti proprio da chi ha reso famosa la parola non-luogo, e cioè l’antropologo francese Marc Augé, per parlare
di luoghi. Abbiamo concesso diritto di replica a Luigi Negro, artista, sociologo e storico dell’economia, che mette in
discussione questa non esistenza. Claudia Attimonelli percorre le strade di Berlino alla scoperta dei luoghi temporanei.
Giancarlo Susanna racconta alcuni luoghi di Roma in cui la musica è stata protagonista negli anni sessanta e settanta.
Con Francesco di Bella, leader dei 24 Grana, abbiamo ricordato gli anni dei centri sociali e l’influenza che questi spazi
hanno avuto sulla musica. Dal sud fino al suono senza confini geografici dei torinesi (altra città, altra scena) Mau Mau
intervistati in occasione dell’uscita del nuovo album Dea. Carlo Chicco ha intervistato, in esclusiva per noi, il gruppo
del momento: gli Arctic Monkeys (ai quali abbiamo dedicato la copertina), anche loro figli di un non luogo perché
nati, cresciuti ed esplosi grazie ad internet. Federico Baglivi ci ha portato alla scoperta dell’Islanda e della sua musica.
Ancora luoghi: la loro deturpazione e liberazione, uno sguardo alla nostra terra con l’articolo di Ludovico Fontana
sull’abbattimento di Punta Perotti a Bari, l’evento del mese.
Partendo dal concetto di luogo abbiamo parlato di musica, di libri (con l’intervista ad Alessandro Golinelli), di teatro
(Ilario Galati ha intervistato Alessandro Langiu, autore e inteprete di Otto mesi in residence). Senza concederci alla
politica oppure facendone a nostro modo... sperando che non aumentino luoghi o definizioni di essi ma solo spazi
dedicati alla musica e all’arte.
Osvaldo
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Anno 3 Numero 24
aprile 2006
Iscritto al registro della stampa del
tribunale di Lecce il 15.01.2004 al
n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Hanno collaborato a questo numero:
Mino Degli Atti, Rita Miglietta,
Mimmo Pesare, Luigi Negro, Claudia
Attimonelli, Giancarlo Susanna,
Livio Polini, Dario Quarta, Lorenzo
Coppola, Camillo Fasulo, Giovanni
Ottini, Giuseppe Lorenzo Muci,
Nicola Pace, Giancarlo Bruno,
Kosmik, Antonio Olivieri, Ilario Galati,
Gianpaolo Chiriacò, Sergio Chiari,
Gennaro Azzollini, Massimo Ferrari,
Federico Baglivi, Anna Puricella,
Valentina Cataldo, Il Passo del
Cammello, Mauro Marino, Simone
“Ergot”, Rossano Astremo, Ennio
Ciotta, Cinzia Dilauro, Roberto
Pasanisi, Carlo Chicco, Ludovico
Fontana, Roberto Cesano, Sarah
Faraone, Daniela Mita
“NON LUOGHI”
4 Marc Augé
5 Non nulla
Foto di
Viviana
Martucci
6 Berlino
8 Roma
9 KeepCool
18 Mau Mau
21 Paolo Fresu
22 Islanda
Ringraziamo le redazioni di
Blackmailmag.com, RadioErre di
Foggia, Primavera Radio di Taranto
e Lecce, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio
Riccio di Brindisi e Pugliadinotte.net.
In copertina gli Artic Monkeys.
Foto di Andrew Kendall.
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Roberto Pasanisi
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione in un giorno di
primavera cosparsi di uova (pesce
d’aprile).
Per inserzioni pubblicitarie:
Antonietta Rosato
T 3404722974
[email protected]
23 Coolibrì
28 Alessandro
Golinelli
31 BeCool
34 Arctic
Monkeys
35
Appuntamenti
38 Fumetti
}
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NEL NONLUOGO
LA RESIDENZA
“E’ASSEGNATA”
Intervista a Marc Auge’.
A cura di Mino Degli Atti,
Rita Miglietta e Mimmo Pesare
Marc Augé, già directeur d’études presso
l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences
Sociales di Parigi, di cui è stato a lungo
Presidente, è uno dei più affermati
antropologi contemporanei. A Marzo
il professore è stato ospite
a Lecce
del convegno “Luoghi e non luoghi
– Gli spazi invisibili” organizzato dalla
Sezione Italiana delle Donne Architetto
(S.I.U.I.F.A.), in collaborazione con la
Provincia di Lecce e con l’Ordine degli
Architetti. Nell’occasione gli abbiamo
fatto alcune domande a partire dal tema
dell’intrattenimento, un tema caro alle
istanze giovanili che richiedono nuove
progettualità nelle politiche del settore.
Cosa può dirci sulla distinzione tra spazi
d’intrattenimento (loisir) come luogo
d’incontro e di scambio emozionale,
dove si predilige la libera espressione, da
una parte, e spazi orientati verso il mero
consumo, dove l’individuo è parte di un
copione già scritto dall’altra?
Devo dire che la società del consumo
ha la tendenza a recuperare tutto.
Si dice spesso di essere nell’età
dell’individualismo, è vero, tuttavia
l’individuo è si un re, ma è un re nudo e
sembra che tutti lo vogliano vestire! Tutti
siamo liberi di avere quello che vogliamo,
specialmente nel campo del divertimento.
La società dei consumi fornisce tutto
quello che possiamo desiderare creando
un catalogo da cui si può scegliere.
Tutto, quindi, è programmato ma c’è un
aspetto un po’ illusorio in questa libertà.
Tutto quello che c’è è sovrabbondante e
( M ar C A uge ’ )
la cosa più illusoria è la stessa sensazione
di libertà che possiamo avere nella scelta.
Da questo punto di vista tutte le iniziative
che cercano di creare uno spazio di vera
libertà e di creatività autentiche sono
evidentemente preziose perché bisogna
tenere vivo il conflitto tra le tendenze
culturali dominanti e l’agire creativo.
I
club,
dunque,
possono
essere
un’alternativa di questa specie al consumo
generalizzato?
Uhm...si...questi luoghi in realtà esistono
un po’ dappertutto e, in fondo, si
possono considerare sia come qualcosa
di “programmato”, come fornitori di
“consumo omologato”, che come luoghi
dove le persone si incontrano e creano
delle cose; in questa ultima accezione
sono effettivamente spazi dove si può
sperimentare la libertà. Quindi si può
parlare di luoghi ambivalenti.
Cosa pensa del formidabile successo
dei reality-show, tra i giovani? Questi
programmi veicolano il desiderio dei
giovani verso una rappresentazione
virtuale, ci pare...
Non solo dei giovani, ma un po’ di tutti.
I reality show mi sembrano un fantasma
della nostra epoca. La frontiera tra ciò che
appartiene all’ordine della pura finzione
e l’ordine della realtà è una frontiera più
fluida rispetto a qualche anno fa, perché
la realtà attinge dalla finzione e la finzione
ha bisogno della realtà.
Si creano così delle storie
che hanno bisogno di
qualcosa che assomigli
quanto più possibile alla
realtà. L’ideale di ciascuno,
oggi, è vivere dall’altra
parte dello schermo, non
è il “gioco dell’Altro”, nella
formula di Rimbaud e di
Lacan, ma è l’altro che è in
gioco. Si esiste pienamente
solo se siamo dall’altra
parte dello schermo.
Il suo nome è da anni
associato a quello dei
nonluoghi,
titolo
del
fortunato saggio del 1992.
Cosa rimane, a distanza
di questi 14 anni, di quel
concetto? Ha pensato a
una attualizzazione dei nonluoghi, o la
loro fenomenologia rimane identica?
Se
per
nonluoghi
designiamo
empiricamente gli spazi di comunicazione,
circolazione e consumo, bisogna dire che
essi si sviluppano in maniera talmente
accelerata che il mondo stesso è
diventato un nonluogo. Tuttavia, negli
ultimi tempi, la mia riflessione è consistita
nell’interrogarmi sull’uso che possiamo fare
di questo concetto. Del resto, quando una
categoria attira così tanto l’attenzione,
c’è bisogno che continui ad indicare
qualcosa... ecco perché sono tornato
sulla definizione iniziale. Diciamo allora
che I nonluoghi sono uno spazio dove si
ha la sensazione che le relazioni sociali
(regole, codici, procedure, eccetera)
siano perfettamente leggibili. Il “perfetto
nonluogo” è quello dove le relazioni sociali
sono tutte completamente decifrabili
attraverso l’osservazione. Ma in questi
luoghi non c’è libertà, la residenza “è
assegnata”. E da questo punto di vista mi è
sembrato che quei luoghi che, in qualche
modo, percepiamo come “parentesi
aggregative”, ad esempio aeroporti,
supermarket, mall-center, siano luoghi
dove non si possano leggere le relazioni
sociali simboliche: ci sono dei codici che
vi indicano ciò che dovete fare, come
e dove entrare; sono degli spazi dove la
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IL NON NULLA
condizione “normale” è quella di essere
soli. Ed è per questo che li ho chiamati
nonluoghi. Ma non penso che si possa fare
una lista al cui interno ci sono i nonluoghi
da una parte e i luoghi dall’altra; se
torniamo su questa nozione, ed è questo il
passaggio sul quale ho insistito negli ultimi
anni, possiamo vedere come i due aspetti
siano legati: questa coppia permette
di leggere il grado di socializzazione in
uno spazio. Di contro mi è sembrato che
a partire da questa distinzione si possa
andare verso altre
nozioni,
presentate
anche da altri autori o
verso coppie di termini
“alla moda”, tipo
globale/locale,
tutti
modelli molto carichi
ideologicamente.
È
interessante opporre
a questi la nozione
di
luogo/nonluogo,
oppure le categorie di
Paul Virilio (importante
teorico
della
contemporaneità
n.d.r.),
interiore/
esteriore, in riferimento
al sistema globale che
mi sembrano essere
coerenti rispetto al
discorso che abbiamo
intrapreso. Si potrebbe
dunque cercare di
leggere la tensione
tra luogo e nonluogo
a partire da questa
prospettiva: la cittamondo è un luogo
mentre il mondo-città
( L u ) Ca F ’ haus ( U ) di
è una rete.
Per concludere: lei ha parlato di “spazi di
resistenza” interiori ed esteriori alla realtà
sociale...ci può chiarire meglio dove
e come è possibile individuare questi
spazi?
Mah...bisogna intendere la resistenza
come “durezza”, cioè così come i materiali
sono resistenti. Si può avere l’illusione della
resistenza individuale, ma, più che altro, ci
sono dei punti forti nel tessuto sociale e nei
legami simbolici...è lì che si resiste!
Lo dico fin dall’inizio a scanso di
equivoci: non-amo la parola non-luogo.
Sono dell’idea davvero stupida che
un non luogo non possa esistere: se è
un non-luogo, non-esiste e se invece
esiste, allora esistono anche tutta una
serie di non-cose. Del tipo: la non auto,
il non pavimento, il non gelato, il non
campanello, il non amore, il non suono, la
non visione, il non-nulla. Se esiste un nonluogo che non sia la semplice inesistenza
di un luogo e che sappia essere esso stesso
non
essendolo,
dobbiamo pensare
che esista un nonmondo connesso.
E tutto questo non
ha senso e non
ha neanche nonsenso.
Io credo che la
fortuna di Marc
Augé
sia
un
esempio di come
il caso sia la vera
teologia
del
contemporaneo.
Esistono una serie
di
domande
incredibili che chi
si interessa di teorie
del caos conosce
bene e che hanno
come
risposta
unica “il caso”:
Perché le auto
vanno a benzina
e non a vapore?
Perché è caduto
il muro di Berlino?
Come è possibile
san C esario di le C C e
che
da
un
brodo primordiale sia nata la vita?
Perché l’orologio va in senso orario?...
Perché Marc Augé è così noto come
l’inventore del non-luogo? A tutte le
domande precedenti, nel caso foste
davvero interessati o non fossero nel
vostro bagaglio di conoscenze, posso
rispondervi in dettaglio, per Mr Augé ci
provo pur sapendo di fallire.
Ricordo che il giorno della conferenza
a Lecce, un professore universitario
di
biologia,
chiese
a
qualcuno
dell’organizzazione chi fosse mai questo
Marc Augé e gli fu risposto: Quello che
ha inventato il “non luogo”, nel dirlo
ovviamente fece le virgolette con le dita.
Il professore annuì avendo sicuramente
sentito questa parola diffusamente
negli anni. È fantastico come “il caso”
riesca a diventare Creatore. Io credo
che ciascuno di noi abbia una idea
del concetto di non-luogo personale
e confusa, e credo che Mr. Augé lo
abbiano letto (con attenzione) davvero
in pochi. Pochi parlano di post moderno
o semplicemente fanno riferimento
ad una antropologia delle rovine o
meglio ad una fenomenologia del
tempo in rovina mentre indicano che
un determinato posto è un non-luogo.
In realtà la “questione del tempo”, un
po’ come per le teorie della relatività
o quella dei buchi neri, è la questione
delle questioni, cruciale anche per
comprendere davvero che per Augé
la parola (non -parola?) non-luogo sia
stata solo un pretesto per tentare di
definire una intuizione comune ad altri
pensatori e artisti che spesso lo hanno
preceduto di molti decenni (uno fra tutti
Duchamp).
Immagino anche che per Augé il
successo di questa parola sia stato un
tormento, è il tormento degli attori che
interpretano personaggi che diventano
talmente popolari da non riuscire a
staccarsene
neanche
tentando
il
suicidio. Per cui Ron Moss sarà sempre
nell’immaginario
collettivo
Ridge
Forrester (e non un mediocre attore
porno), Alvaro Vitali sarà sempre Pierino
(e non l’interprete drammatico o l’attore
Felliniano), Rocco Siffredi sarà sempre
Rocco Siffredi, Zingaretti il Commissario
Montalbano, ecc. Così Marc Augé sarà
sempre l’inventore del “non luogo”.
Detto questo, francamente, non credo
nell’esistenza di questi famigerati “non
luoghi”, i non luoghi dovrebbero non
esistere e ciò e troppo per il mio se pur
delirante cervello, se dovessi accettare
questa idea dovrei iniziare a credere
all’esistenza degli gnomi, dei “marziani”
e persino dell’etica in politica. Credo in
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LUOGHI TEM
realtà prosaicamente nell’esistenza di
luoghi con tutti i requisiti dei luoghi reali
ed identificati con il “non” solo per una
serie di ragioni, intuizioni e conoscenze
che ne connotano una comunione, o
come si diceva alla scuola media, un
insieme. In sostanza si identifica una certa
tipologia di luoghi come “non luoghi”
dotandoli di una serie di caratteristiche
omogenee. Fra queste vorrei soffermarmi
su una identità (multi-identità/nonidentità) già citata in precedenza, che
è appunto “il tempo”. Lo faccio perché
il problema del tempo è un problema
piuttosto complesso, e da cui sono nate
le maggiori confusioni riferite ai non
luoghi.
È del tutto evidente che viviamo in un
enorme Presente divoratore, un Presente
identico a Hyuoine il verme mitologico
che, respirando, si nutriva di se stesso
ingrossandosi a dismisura. Come nella
teoria dei buchi neri, il presente si ciba
del tempo che ha intorno e quindi del
futuro e del passato espandendosi. Le
conseguenze sono evidenti a tutti, e
sono spesso luttuose: la fantascienza
(morta oramai negli anni ottanta), la
religione, l’ideologia, la Storia ecc.. Il
tempo non-presente esiste solo come
funzionale alla politica, all’economia,
al potere. Che questa ipertrofia del
presente sia evidente appare anche da
alcune recenti ricerche di marketing, in
tali osservazioni è interessante notare
una nuova categoria che descrive una
popolazione, quella degli adultescenti.
Una categoria che fa riferimento al
consumo e che descrive una fascia
di età enorme che inizia con la preadolescenza e finisce con l’inizio di quella
che una volta si chiamava anzianità,
una super-fascia di super-presente,
insomma. Ma prima che questo discorso
ci porti lontano, lo chiudo dicendo che
questo tipo di presente-mostro (mostroluogo), è probabilmente la prima
conseguenza della nostra capacità
mobile e moltiplicatrice di creare mondi
e doppi anche nel reale. Il doppio non
è oramai un problema o una identità
esclusiva dell’analisi, dell’arte o del
teatro, ma è oramai una categoria
sociale, antropologia, sociologica.
Ci sono doppi comunitari, doppi collettivi,
e cosi anche, evidentemente doppiluoghi, ed è proprio qui che cresce la
mistificazione o l’errore, nel confondere
il non-luogo di Augè, con una generica
e diffusa esigenza di definire una serie
di tipologie fluide che fanno riferimento
a luoghi stranianti o insalienti (con una
apparente o reale mancanza di senso),
luoghi casuali, luoghi configuratori, luoghi
metafore (come le mappe dinamiche,
le encarte di Pierre Lévy), luoghi diffusi,
e per questo non necessariamente
tangibili, luoghi frutto di una visione
connessa (come spesso capita con la
rete e internet), ecc. Con tali identità gli
aeroporti-non -luoghi o le hall di alberghi
di Augè poco hanno a che fare.
Parlando proprio di rete, negli anni ‘90
Paul Virilio annunciò la presenza di una
“minaccia” incombente, la minaccia
della perdita di realtà. Per Virilio l’impatto
delle nuove tecnologie e della realtà
virtuale avrebbe assunto un’importanza
così grande da farci perdere i nostri punti
di riferimento nello spazio reale, proprio
come accadeva con la stereofonia:
c’è uno luogo (spazio) in cui dialogano
lo spazio della presenza concreta e
quello virtuale. Per Virilio per questo si
è condannati a perdere la percezione
della realtà, di precipitare nel disordine
(un certo tipo di disordine), di arrivare
a “uno sdoppiamento dell’identità del
reale”. Sdoppiamento, doppio, doppi,
alterità, aura dei luoghi (cosi ben citata
da Walter Benjamin), luoghi neutri, tutte
dimensioni che, con l’idea di non-luogo
di Augè, hanno a che fare davvero molto
marginalmente, ma che ineluttabilmente
(casualmente) ci portano a lui.
Per questo, pensavo che mi piacerebbe
costruire un pacchetto turistico verso
un non-non-luogo. Ve lo propongo,
ne ho in mente uno in particolare si
chiama (Lu)Caf’Haus(u). È territorio
d’accumulazione di senso, di svolgimento
di senso. Di mancanza di senso. È quello
che siamo e non siamo simultaneamente,
(scandalosamente) senza scandalo. È
ciò che stiamo diventando e quello che
siamo non-stati. Al centro esatto di un
lungo corridoio di fallimenti (una volta
erano cipressi) è passaggio per il limbo.
È il nulla, segno oscuro, campo della
disfatta. È un presagio inaccessibile,
luogo alieno. È il varco per l’ade. È un
chiodo fisso, la mia linea politica, la mia
etica. È come essere innamorati, come
odiare, per un NonNulla.
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www.undo.net/synapster
Reportage di Claudia Attimonelli
Ostalgie: termine coniato a Berlino negli
anni ’90, racconta della nostalgia per
l’Est – Ost – senza retorica socialista e in
sintonia con il clima respirato subito dopo
l’89, quando la città ha sperimentato
intensamente una connotazione affettiva
della nozione di quartiere. Secondo Michel
Maffesoli il quartiere acquista una nuova
modulazione che si riferisce a gruppi di
strade, locali, fermate della metropolitana,
incroci di situazioni, gente e piccoli eventi.
Ciò che avviene fra le strade, i negozi,
i bar è dato dal legame tra lo spazio e il
quotidiano, al punto che le architetture
e le sonorità di sottofondo assurgono a
modalità attraverso cui sperimentiamo
la
città.
Dunque,
Prenzlauerberg,
Eberswalderstrasse,
fermata
della
metropolitana a NordEst di Berlino.
Anche alle prime luci dell’alba il giornalaio
del chiosco all’uscita trasmette reggae.
Da lì, a destra c’è il Mauer Park, luogo della
memoria di confine Est/Ovest (Bernauer
Str., Gleim Str.), mentre a sinistra con il tram
M10 si viaggia nelle epoche della DDR, da
quella sobria fino a quella monumentale
della sovietica Frankfurter Allee. In
Friedrichshain, fermata Warschauer Strasse,
snodo di fuga verso la zona della città più
affascinante perché decadente e retrò,
sede della scena notturna, luogo della
techno e del punk. Uebercoolisch.
Le pratiche culturali berlinesi sono fondate
sulla logica degli spazi temporanei, luoghi
urbani scelti perché abbandonati e
adoperati per breve tempo per eventi
musicali e inevitabilmente marcati dal
segno della precarietà.
Questo principio è ben descritto in
Temporary Spaces, (M. Eberle, Berlin 2001)
volume di qualche anno fa nel quale gli
autori offrono una rassegna fotografica dei
club di Berlino esistenti o scomparsi. Il titolo
rivela il fenomeno racchiuso nell’essenza
transitoria del club alla quale si associa il
conseguente adattamento dei collettivi
artistici ad esso vicini, connotati dall’essere
nomadi: gruppi di dj, videomaker, web
designers, organizzatori che ruotano attorno
ad un club ospitato temporaneamente
in una location, a chiusura dello stesso,
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PORANEI: BERLIN, MARZO 2006
( tresor )
migrano verso un altro contenitore. Il
nomadismo dei collettivi artistico-musicali
è, a sua volta, parallelo a quello del suo
pubblico: si assiste al continuo mutamento
della scena metropolitana che si muove
seguendo gli spostamenti di questi nuovi
architetti di spazi temporanei e dei loro
animatori, divenendo tutti esploratori di
nuove mete urbane.
Un fattore singolare di questo fenomeno
è dato dal termine che caratterizza le
descrizioni di questi club: ehemalige, cioè
ex, “ciò che una volta era”. Qui, infatti, è
una peculiarità della club culture il situarsi
in ex sedi di enti, poste, fabbriche, banche,
stazioni, alberghi.
Il Tresor, chiuso da più di un anno,
ad esempio, prende il nome dalla
funzione originaria della pista da ballo,
l’ex caveau di una banca. La stanza
blindata, riconoscibile dalle sbarre del
cancello antecedenti l’ingresso al floor,
era circondata dalle cavità nei muri che
ospitavano le cassette di sicurezza, lì si
sudava al suono della techno negli anni
‘90. Il Tresor si trovava in Leipziger Strasse
- Potsdamer Platz, il territorio di nessuno
che separava Est e Ovest. Per chi non lo
conosceva era pressoché impossibile
notarlo di giorno, poiché, si trattava
di costruzione semidistrutta dai muri
scalcinati, ingresso in ferro arrugginito che
non recava alcuna insegna e la scritta
sovrastante era così minimale da passare
del tutto inosservata di giorno. Attualmente
le serate Tresor Im Exil, sono ospitate da
diversi club.
Il 103, durato dal ’97 al ’98, situato nella
Friedrichsstrasse, era in un complesso di
prefabbricati una volta sede dell’istituto
di credito fondiario della DDR poi distrutto
con la ristrutturazione della zona. Nessuna
pubblicità, nessun manifesto, nessuna
indicazione, senza il passaparola risultava
impossibile da scovare. Oggi si trova ad
Est, in una sede cool su due piani, accanto
al leggendario Watergate, tra F’hain e
Kreuzberg, in un ex fabbrica.
Quello che è stato uno dei club più amati
della città, il Maria, dal 2002 ha lasciato
la leggendaria sede panoramica – un ex
ufficio della Stasi - dove, alle prime luci
dell’alba dalle grandi pareti a vetro si
poteva ammirare, stagliata nel cielo
mattutino, la Fernsehturm. Ora si è trasferito
nella non meno suggestiva sede sul fiume
che in precedenza ospitava il Dehli,
conservando l’insegna vintage rossa con
la scritta Maria.
La
complessa
vicenda
dell’Eimer,
occupato dopo la caduta del muro e
reso uno dei più significativi spazi e club
temporaneamente autonomi del centro
della città, il quartiere Mitte, si è conclusa
3 anni or sono con il definitivo sgombero
e la repentina ristrutturazione. L’Eimer era
un vuoto diventato pieno: l’edificio, dei
tre livelli ravvisabili dall’esterno da tre piani
di finestre, presentava un interno oscuro,
sventrato, dove addobbi barocchi e gotici
non lasciavano intendere le proporzioni
reali degli spazi.
La tentazione di narrare le innumerevoli
storie di nascita e declino, talvolta vero e
proprio crollo strutturale di questi luoghi,
è forte: Ulli, ad un tavolino di un bar sulla
Revalerstrasse, mi racconta delle trattative
durate due anni per ottenere nel 1995 la
sede dell’ex ospedale della Charitè a
Mitte, Montjubi Platz, dove organizzarono
memorabili party.
E poi c’era l’Ostgut in un ex deposito
ferroviario lungo la strada dell’East
Side Gallery, con il suo fascino per le
architetture
industriali
e
metalliche
associate all’immaginario fetish. I luoghi
citati incarnano due tensioni delle culture
elettroniche: l’interesse per le pratiche
di détournement del già esistente e il
tentativo di sfuggire alla fissazione in
stereotipi musicali e sociali.
Sonorità
futuristiche,
nomadismo
metropolitano, proliferazione di culture
underground
frutto
dell’esperienze
condivise da piccoli gruppi, hanno
animato, ad esempio, la deceduta Love
Parade (1989-2003); l’evento non si limitava
al giorno della parata, ma comprendeva
la Loveweek durante la quale l’intera città
di Berlino si trasformava in un club senza
distinzioni di tempo né spazio. Negli anni si
sono alternate delle contro parate: Hate
Parade, Fuck Parade, Shit Parade dove
si celebravano le radici dell’underground
vs il mainstream. Per raver e clubber la
questione dello stile, la convivenza di
tendenze diverse, le pratiche culturali
esperite nei luoghi urbani sono un affare
serio.
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ROMA E LA MUSICA
Ai più sembrerà la solita storia... ci sarà anche
qualcuno che dirà, “Non se ne può più degli
anni ‘60”... In quanto state per leggere non
c’è tuttavia l’ombra di nostalgia. ma soltanto
la constatazione di come un’attitudine nei
confronti della musica e più in generale
della cultura sia nata a Roma (e non solo) in
quel periodo. Restringeremo la nostra breve
panoramica sui luoghi del folk, del jazz e del
rock a due locali. Roma è paradossalmente
una città priva di memoria. Potete entrare
nella chiesa di San Clemente, a un passo
dal Colosseo, e scendere giù giù, fino a quel
che resta di un antico tempio mitraico, ma
potete passare davanti al cinema Adriano,
trasformato
nell’ennesimo
e
asettico
multisala, e nessuno vi dirà che proprio lì, il
27 e 28 giugno 1965, suonarono i Beatles.
E cosa resta, nell’ardita (e rimaneggiata)
architettura
del
Palalottomatica
(ex
Palasport) dei concerti dei Rolling Stones,
degli Who o dei Pink Floyd?
In una città che non ha ancora una “casa
del rock”, uno spazio degno di questo nome
per un suono che proprio non vuole saperne
di spegnersi, non è sempre facile ricatturare
l’eco di eventi comunque straordinari, il
tutto mentre Morrissey le fa pubblicità e si fa
fotografare sulla tomba di Keats al Cimitero
degli Inglesi.
L’Auditorium di Renzo Piano si è aperto
alla musica di Brian Wilson, dei Sigur Ros o
di Joan Baez, ma accoglie con efficacia
batterie e amplificatori soltanto nella cavea.
Ed è un po’ strano che in questa area - che
non può essere definita istituzionale più per
l’eccentricità delle forme che per la gestione
degli eventi - qualcuno tenti di rilanciare
l’avventura del Folkstudio, aprendo le porte ai
giovani emergenti. È già qualcosa che se ne
recuperi il nome, ma quell’esperienza resta
unica e irripetibile. Qualche volta il Folkstudio
è stato in superficie; a livello stradale, e
ha perfino conquistato parchi come Villa
Pamphili o Villa Torlonia, ma la sua vocazione
all’underground (in senso letterale) era scritta
già nei suoi turbinosi esordi.
Il primo gruppo di appassionati di folk e
spirituals si raccoglie nel 1960 nello scantinato
di un ristorante di Via Garibaldi, a Trastevere.
Di lì a passare all’attiguo studio di uno
scultore, affittato per pochi soldi e aperto due
volte alla settimana, il passo è molto breve.
Il locale, a forma di “L” rovesciata, con un
lungo corridoio e una
stanza in fondo, è a
livello della strada,
ma
l’atmosfera
che vi si respira è
quella delle caves
parigine o dei folk
club
newyorchesi.
Battezzato Folkstudio
e guidato da Harold
Bradley – “negro
americano, pittore,
rugbista, diviso tra
Roma e Perugia,
dove
frequenta
l’università” (1) - e da
Giancarlo Cesaroni –
“chimico di successo,
appassionato
di
cavalli e proprietario
di una Mercedes”
(2) - quello spazio di
pochi metri quadri
diventa
subito
“il
posto” per eccellenza dagli appassionati di
folk e di jazz della capitale.
Ci arrivo sul finire dei Sessanta, giusto in tempo
per assistere alle prime prove di Francesco
De Gregori, di suo fratello Luigi, di Antonello
Venditti, di Ernesto Bassignano e di una
piccola schiera di giovanissimi cantautori.
Ricordo - scherzi della memoria – soprattutto
una serata di Pasqua a lume di candela,
con Cesaroni che distribuiva uova colorate
al pubblico che si affollava nello stretto
corridoio...
Il 1971 è l’anno del primo trasloco. In seguito
a una serie di surreali traversie, il Folkstudio con tanto di pedana, panche e sgangherate
poltroncine - emigra. Prima nell’osteria Meo
Patacca, poi al Setteperotto, un cabaret
aperto da Maurizio Costanzo, e infine nello
scantinato della libreria Uscita, in Via dei
Banchi Vecchi, dall’altra parte del Tevere. Nel
1972 il Folkstudio approda in un seminterrato
di Via Sacchi, tra il Gianicolo e Piazza San
Cosimato, e lì resterà per molti anni, fin
quando, dopo uno sfratto, Cesaroni sarà
costretto a traghettare armi e bagagli in Via
Frangipane, nella cantina (un’altra!) di una
scuola trovata grazie al Comune di Roma.
Basta girare l’angolo e si vede il Colosseo. Se
piove un po’, il Folkstudio si allaga. Non c’è la
licenza per la birra e per i superalcolici. È un
( l ’ auditorium di roma )
tramonto malinconico, insomma, culminato
con la scomparsa di Cesaroni, che tutti
giustamente consideravano l’anima stessa
del Folkstudio. L’ultimo flash è per Ramblin’
Jack Elliott, uno dei grandi vecchi del folk
americano. Chi altri, se non Giancarlo
Cesaroni, avrebbe potuto portarlo a un tiro
di schioppo dai Fori?
Tutt’altra storia quella del Piper, culla del
beat italiano, ma anche sede di concerti
prestigiosi: dai Pink Floyd (nell’aprile del ‘68)
ai Byrds (con Gram Parsons), dai Genesis
ai Van Der Graaf Generator, dagli Strawbs
agli Audience. Davanti all’ingresso di Via
Tagliamento (dall’altra parte della strada
c’è la “porta” del quartiere Coppedé)
bisognerebbe mettere una targa per
ricordarne la storia ai passanti. Non
basteranno le attuali serate da discoteca
un po’ becera a cancellare la gloria di certe
serate. Quando vennero gli Spirit, nel 1973, ci
fu una piccola ma significativa vittoria degli
“autoriduttori”. Non scendemmo quelle
“amate scale” finché non fu ribassato il
prezzo dl biglietto. I luoghi, i colori, i suoni, i
ricordi... il futuro affonda lì le sue radici.
Giancarlo Susanna
1 da FolkStudio story, Dario Salvatori, Studio
Forma, Torino, 1981.
2 ib.
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge, Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Sondre Lerche and the faces down quartet
Duper Session
Emi
Jazz-pop /*****
Sondre Lerche è quello che si dice un
ragazzo prodigio, uno di quelli a cui non
manca proprio niente: giovanissimo,
bellissimo, dotato di un talento da fare
invidia ai colleghi più attempati.
Tre dischi all’attivo e poco più di vent’anni.
Cifre a cui il mondo del pop ci ha abituato
da tempo ma che al cospetto di questo
norvegese dagli occhi cerulei assumono
un rapporto età/qualità inversamente
proporzionale alla media dei coetanei. Fin
dal suo primo album (Faces Down) pubblicato nel 2002 e registrato due anni prima
a soli 17 anni Sondre Lerche ha dimostrato
la grande capacità di saper scrivere canzoni ammalianti, connubio quasi perfetto
di angeliche leggerezze, acustiche indie,
pop d’altri tempi. Spensierato e romantico, ha un approccio spontaneo con la
melodia, di disarmante semplicità e allo
stesso tempo sofisticato come un novello
Bacharach.
Chi lo aspettava al varco, chi ne intimava
lo scivolone è invece rimasto sbalordito
dal secondo Two way monologue. La
sicurezza nei propri mezzi, una certa
“maturità” hanno dato vita a un album
in cui gli ascolti di Sondre Lerche le sue
inclinazioni, le sue divagazioni trovano
sfogo. Sfacciato, senza la paura di ripetersi,
eclettico quanto fedele al suono della sua
voce, cristallina e svogliata e della sua
chitarra. E quando tutti si aspettavano
la consacrazione commerciale, l’album
scala classifica arriva un disco spiazzante,
un bellissimo dispetto. Affiancato dal Faces
down quartet Sondre Lerche pubblica
Duper session. È un album intriso di passato
a partire dalla copertina, il riferimento
o la dichiarazione d’amore è agli anni
50 al jazz e allo swing. Senza perdere lo
spirito pop (in quegli anni si sarebbe detto
ballabile) questo crooner dal falsetto
facile, sfodera una classe e una sensibilità
che fa pensare al Chet Baker cantante.
Si muove agilmente tra chitarrine alla
Django Reinhard, un tributo a Cole Porter
(Night and day), carezzevoli ballate in cui
sfodera tutta la sua delicatezza. In Dead
and misery sembra folk come il Beck più
malinconico, in (I wanna) call it love attinge
al suo campionario di perfetta pop song,
mentre in Nightingales sembra lasciarsi
affascinare da un che di latino. Un disco
in cui l’amore per la musica, per il suono
degli strumenti diventa celebrazione del
bello. Senza sbavature ed eccessi, con
l’equilibrio di un autore consumato, senza
trucchi ma con una produzione pulita
Sondre Lerche riesce a mettere l’abito
da sera alle sue canzoni. Tutto quasi
sottovoce, come in una jam tra amici. Tra
le varie strade possibili per una terza prova
non ha scelto certo la più semplice e ha
colpito ancora nel segno.
Osvaldo Piliego
KeepCool
10
Morrissey
Ringleader of the Tormentors
Attack/Edel
Pop / ***
Inutile rimarcare l’importanza di Morrisey
nella storia del rock. Con gli Smiths ha
scritto pagine di letteratura musicata,
innamorato di Wilde, dandy, pop,
nichilista, provocatorio. Da solista ci ha
abituato a scivoloni e a riscatti repentini.
Il suo penultimo You are the quarry aveva
segnato un felice ritorno, un disco a
misura di uno stile difficile da contenere.
Molta attesa ha preceduto questo
Ringleaders of the Tormentors. Registrato
a Roma, città che lo ha conquistato e
che cita più volte nel disco, l’album,
che ha ospitato anche il maestro Ennio
Morricone, ci restituisce il Moz di sempre.
Questa volta più pomposo del solito
Morrisey si fa strada tra arrangiamenti
magistrali con la sua voce inconfondibile,
le scalate e i salti di tonalità tanto amati
dai fan e odiati dai denigratori. Ogni qual
volta ci si imbatte con un personaggio
come Morrisey si finisce per fare media
tra passato e presente e alla fine quello
resta è la classe di un uomo che è stato
capace, e lo è ancora, di raccontare
storie toccanti e amori intensi.
Osvaldo Piliego
Casiotone For The Painfully Alone
Etiquette
Tomlab - Wide
Folktronic / ***
Quarto e nuovo album
ricco di novità per
Owen Ashworth, in
arte Casiotone… Il
songwriter ventottenne
americano, uno dei
migliori nella scena
indipendente, sceglie
questa volta di allargare la sua one
man band coinvolgendo nel progetto
le cantanti Katy Davidson (Dear Nora) e
Jenn Herbinson, i musicisti Jason Quever
(Pan American Recording Studio e
The Papercuts), Jherek Biscoff (Dead
Science e Degenerate Art Ensemble) e
Sam Mickens (Dead Science). In questo
disco rispetto al passato si avverte una
cura superiore nella produzione anche
grazie alla scelta dell’ampliamento
nella strumentazione (pianoforte, flauto,
archi, drum machine, organo, synth,
ecc.). In questo modo Owen può
esprimersi pienamente spaziando tra i
generi musicali più diversi, dal sinthpop
di matrice dark al folktronic, dal pop di
natura sixties alle ballate rock. La sua
voce appare profonda, sicura, i suoni
non nascondono lo stile lo-fi che sempre
ha contraddistinto i suoi lavori. Assistiamo
così ad una prova di maturità. Cosa è
rimasto di quel ragazzo della California,
di una cittadina vicino a Los Angeles,
che amava comporre brani strambi e
spartani attraverso una tastiera Casio a
batterie, un registratore ed un microfono?
Il grande talento e l’originalità.
Livio Polini
Loose Fur
Born Again In The U.S.A.
Drag City - Wide)
Post... / ****
Il progetto Loose Fur
vede tra i suoi protagonisti due componenti
dei Wilco (band di Chicago divenuta nota
col disco Yankee Hotel
Foxtrot), sono il cantante e chitarrista Jeff
Tweedy e il batterista Glenn Kotche (che
a giugno sarà ospite nel Salento nella residenza Sound Res). Insieme a loro a completare il trio c’è Jim O’ Rourke, cantante,
musicista eclettico, produttore richiestissimo, in passato collaboratore anche dei
Sonic Youth, ebbe un importante ruolo
nella scena post-rock con i Gastr Del Sol,
infine una carriera solista, il disco Eureka
ne è una buona testimonianza, un gioiello pop. I Loose Fur, dopo un buon album
d’esordio nel 2003, ritornano ora con Born
Again In The USA. Mi sono chiesto, che
cosa avranno voluto dire con questo titolo? Un riferimento a Bruce Springsteen?
Non credo. Nelle varie tracce si passa
dal southern rock al country pop, dal progressive al rock più distorto, tutto con una
naturalezza ed un’intesa da far pensare
che questo sia molto più che un semplice
side-project o una jam sassion tra amici,
qui c’è dello stile e che stile! La batteria è
protagonista indiscussa in molti frangenti, come anche i riff di chitarre violenti e
improvvisi, c’è spazio anche per momenti
più malinconici e meditativi. Se amate il
rock e non disdegnate qualche pregevole (in questo caso) contaminazione pop,
questo album vi piacerà.
Livio Polini
Ben Harper
Both side of the gun
Emi
Rock/***
Nel corso della sua carriera Ben Harper
ha sempre messo a nudo le sue due
anime: quella funk, black, soul, rock
e quella più pacata
intima,
acustica,
rurale, blues. Dopo le
escursioni nel reggae
di With my own two
hands
contenuta
nel
vendutissimo
Diamonds
on
the
inside, dopo l’investitura a nuovo messia
del Black power, dopo il disco con i
The Blind Boys of Alabama, Ben Harper
raddoppia. Il suo nuovo Both sides of
the gun è un doppio album (proprio
come Live from Mars nel 2001). Le due
anime di Ben Harper sono affidate a due
dischi separati. Come se in uno volesse
guardare intorno e nell’altro dentro. Ci
sono l’Africa, l’India, il mondo, la foce
del Mississipi nel primo cd. Ci sono la
rabbia, la speranza, l’impegno sociale
e tutto il groove che la sua band (The
innocent criminals) riesce a sfoderare.
Eclettico come sempre Ben Harper va
a spasso nei generi con naturalezza
sciorinando lezioni di storia della musica
afroamericana. Il secondo cd è l’anima
di Ben Harper vibrante come la sua
voce e la sua chitarra. Intimo come i
temi trattati, essenziale perché quando
c’è il cuore basta veramente poco.
Osvaldo Piliego
Adam Green
Jacket Full Of Danger
Rough Trade
Cantastorie / ***
Vi ricordate i Moldy Peaches? Adam
Green insieme a Kimya Dawson, davvero
una grande band,
emozioni vive, espresse attraverso sonorità indie. Dopo quell’esperienza così importante Adam intraprese la carriera solista incontrando
altri generi: pop, folk e rock racchiusi
da una chiave cantautoriale. L’importanza da quel momento è rivolta ancor
di più alle parole. I testi: ironia allo stato
puro, per riflessioni a volte anche sul sociale, sarcasmo, leggero, o spinto fino
al limite, ma sempre con dietro una
grande intelligenza. Allora mi chiedo,
perché siamo in così pochi a conoscerlo? È normale, forse, almeno finché la
stragrande maggioranza dei consumatori (che brutta parola!) di musica continuerà a fidarsi dei consigli dati dalle
classifiche tipo TRL di MTV, almeno in
Italia andrà così. Ho capito, ok, ad
ognuno la sua musica! Questo album è
il quarto come solista, viene realizzato
con la mitica Rough Trade (etichetta
storicamente rivoluzionaria nel modo
di produrre, distribuire e vivere la musica). Adam è un piccolo genio, non
c’è dubbio, un cantastorie moderno
e vivace, di gran talento. L’altra notte,
facendo zapping, ho visto il video del
suo nuovo singolo proprio su MTV. Vuoi
vedere che questa è la volta buona?
Come dice l’imitatore di Gianni Morandi? “Dai che ce la fai!”
Livio Polini
KeepCool
Circo Fantasma
I Knew Jeffrey Lee
Lain
Blues/****
Fa un certo effetto
parlare
di
questo
disco a pochi giorni
dalla scomparsa di
uno dei suoi creatori:
Nikki Sudden, eroe del
sottobosco musicale
rock a cui molto
dobbiamo ma poco abbiamo dato. E
lo troviamo all’interno di un disco che
a un altro eroe del rock è dedicato.
Parliamo di Jeffrey Lee Pierce leader dei
mai dimenticati Gun Club. E Nikki Sudden
insieme a Pierce fu tra i protagonisti nell’86
di I knew Buffalo Bill un disco simbolo per
il rock indipendente. Da questo è partito
il Circo fantasma per realizzare I knew
Jeffrey Lee, il super disco di un super
gruppo. c’è dentro la crème dell’indie
italiano (Manuel Agnelli, Cesare Basile,
Amaury Cambuzat, Emidio Clementi,
Mauro Ermanno Giovannardi, Steve
Winn). Tutti insieme, tutti per celebrare la
musica il Blues come essenza e sentimento
del suonare. Canzoni da I Knew Buffalo
Bill, dal repertorio di Pierce, da Nick
Cave, arrangiate e interpretate con tutto
il sentimento possibile. Tutti in nome della
musica, con la passione che ci dovrebbe
essere ogni volta che si prende in mano
uno strumento. Un disco appassionato, I
Kenw Jeffrey Lee è un testamento, una
lettera d’amore, un ricordo a cui non
rinunciare. (O.P.)
Calexico
Garden Ruin
City Slang/V2
Country-rock/****
Sarà stato l’incontro
con Iron and Wine, il
naturale scorrere del
tempo, ma i Calexico
sembrano
essersi
chetati.
Messe
da
parte le scorribande
tra mariachi e sangria sembrano aver
preferito per questo disco sedie a
dondolo e camino. Senza rinunciare agli
spazi aperti e alle vedute sudiste questo
Garden Ruin ha il sapore spesso delle
cose genuine. I Calexico si dimostrano
ancora una volta maestri nell’arte di
rinnovare senza stravolgere il country-
11
rock, tra tradizione e curiosità per l’altro
si confermano come una delle mie band
preferite. (O.P.)
Flaming Lips
At the war with the Mystics
Warner
Rock-psichedelico/****
Più di dieci dischi all’attivo, più di
vent’anni di onoratissima carriera. Tutto
all’insegna del gioco, della ricerca, della
follia. I Flaming Lips sono una di quelle
band che si fa difficoltà a definire. Rock,
psichedelia, da Barret ai Mercury Rev,
noise, pop, indie tutto messo insieme. Liberi
sul palco ( i loro concerti sono esperienze
memorabili) e in studio dove non hanno
mai smesso di sperimentare. Questo
nuovo album li vede di nuovo creatori di
un mondo fantastico, popolato da esseri
incredibili che vivono storie allucinanti. La
musica non è che la sghemba colonna
sonora di questo trip in musica tra chitarre
compresse, elettronica, flauti, voci
processate, falsetti. At the war with the
Mystics è straniante e bellissimo.
Caparezza
Mau Mau
Disco che vai, tormentone che trovi. E
uno come Caparezza, lo stravagante
rapper di Molfetta (che qualche anno
fa si faceva chiamare MikiMix), in quanto
a tormentoni non ha davvero nulla da
imparare. Tagliato il traguardo del terzo
disco si dimostra infatti più maturo e
incisivo che mai e sforna immediatamente
la hit La mia parte intollerante (con la
presenza nel video di Gennaro Cosmo
Parlato), che ha già invaso tv e radio. Ma
parlare solo di singoli sarebbe riduttivo.
Sembra infatti che il paroliere pugliese in
questo suo nuovo lavoro abbia deciso di
affondare il microfono e staccarsi persino
da se stesso. Conscio del fatto che troppa
esposizione non poteva che fargli smarrire
la via, in Mors mea? Tacci tua! mette in
scena il suo funerale. Ovviamente virtuale.
In realtà Caparezza è tornato e in questo
disco sono riconoscibili oltre che uno stile
inconfondibile, un impegno sociale che
ne fa un portavoce contro l’appiattimento
culturale (The auditels family) e i pregiudizi
(Inno verdano). Ne esce fuori un disco
intenso e impegnato, come forse non
ce ne sono più in giro, che va riflettuto
prima che ascoltato. E che fotografa alla
perfezione il pazzo mondo in cui viviamo.
Papa Ciro
Sono tornati i Mau Mau, ed è un gran
piacere. Levati gli ormeggi a Safari Beach
(disco del 2000), dopo sei anni di migrazioni,
Luca Morino e compagni tornano a casa,
nel loro anomalo e multicolore Piemonte
e sfornano un altro capitolo del percorso
Mau Mau. Non cambia la matrice, che più
che matrice è una vera attitudine musicale,
non cambia ma non sembra per niente
vecchia. In copertina un coloratissimo
pappagallo, simbolo del “tropicalismo
amazzonico” che ha ispirato Dea, titolo
del disco e della seconda delle undici
tracce. Una delle più trascinanti forse, e
che certamente si sentirà (con Il treno del
sole) nella prossima estate salentina. E non
cambia neanche l’affetto di Morino per il
Salento, tappa delle sue peregrinazioni,
ora in quello balcanico dell’Albania Hotel,
come in quello “babiloniano” degli anni
’90. Salento presente anche nella voce
dei Sud Sound System, che mettono il
refrain e un po’ del loro fuecu nel pezzo La
casa brucia. Il resto è un insieme di suoni e
sensazioni, lungo lo strano asse PiemonteBrasile, insieme di ritmi quasi tribali e di
coloratissime percussioni, di gioiose,
brasilere e bucoliche canzoni, ma anche
di infiltrazioni elettriche, che servono a dare
un po’ di “asprezza”, lì dove ci vuole.
Dario Quarta
Habemus capa
Virgin
Hip-Hop/****
Dea
Mescal/Columbia
Patchanka - ****
KeepCool
12
Devics
Push the heart
Bella Union / V2
Indie / ***
Inutile spendere troppe parole per questo
disco quando a dirci
tutto ci pensano il titolo (Push the heart)
e il disegno in copertina: una bimba. Canta con lo sguardo
rivolto verso l’alto e
la sua voce, come per magia, si trasforma in farfalle che rompono un orizzonte
giallognolo aprendosi un varco verso un
cielo meno torbido. La bambina in copertina è Sara Lov, che fin dagli esordi
porta sulle spalle il fardello di altisonanti
paragoni, seppure meritatissimi, con altri
emblemi della disperazione femminile in
musica (Hope Sandoval, Lisa Germano
e soprattutto Beth Gibbons). Giunti al
quinto album, lei e il compagno di viaggio Dustin O’Halloran sembrano optare
per un linguaggio più semplice, mettono da parte le impalcature sonore dello stupendo My beautiful sinking ship e
sfornano dieci pezzi dall’approccio più
cantautorale, in cui pianoforte e chitarre acustiche sono attori protagonisti. Ciò
non significa, sia chiaro, che Push the
heart sia stato vestito con faciloneria:
basti pensare che in A secret message
to you a tenere il tempo è una macchina da scrivere “suonata” da Pall Jenkins
dei Black heart Procession. Le storie raccontate dai Devics non saranno forse
allegrissime, ma chi scruta un cielo scuro, guardandolo dal loro punto di vista,
riuscirà a vederlo attraversato da farfalle
colorate.
Lorenzo
Editors
The Back Room
Kitchenware/Self
Rock / ****
Una band su cui vale
la pena scommettere.
Una manciata di
singoli
alle
spalle
ancorati su salde
posizioni new wave/
post punk hanno
preannunciato
l’uscita di The Back
Room, ma nulla lasciava presagire che
la band toccasse livelli creativi così
elevati. Estasi e tormento. Inutili altre
definizioni. L’esordio degli Editors è
stato indubbiamente una dei dischi più
interessanti dell’ultimo anno. Non tanto
per la qualità del materiale, quanto
per la forte componente emotiva
che la band inglese è stata in grado
di catalizzare all’interno della propria
scrittura. Gli Editors sono anche l’ultimo
grido di una generazione che riporta
in vita le intuizioni della prima scuola
post punk inglese. Ri-eccoli qui gli
anni ’80, allora! Sono risorti, celebrati,
vivissimi. Inutile riaprire la giostra delle
somiglianze: qui dentro i nostalgici
ritroveranno tracce di Joy Division, Smiths,
Psychedelic Furs, Echo & The Bunnymen
e primissimi U2 mentre i più giovani
metteranno la loro figurina accanto a
quelle di Interpol, Rakes, Departure e
The National. L’unica verità dimostrabile
è che gli Editors sono completamente
immersi
nell’onda
del
momento.
Ritmiche secche, chitarre allucinate,
ma sempre controllate, attitudine
vagamente dark e malinconica, e voce
profonda. Birmingham è la loro attuale
base operativa. Nomi anche grossi del
passato provengono da laggiù: UB40,
Duran Duran, Black Sabbath, Steel Pulse,
Slade, Napalm Death, Traffic, Electric
Light Orchestra, Dexy’s Midnight Runners,
Judas Priest, metà dei Led Zeppelin…
vi bastano? Non una scena cittadina
particolarmente significativa ma un
proliferare continuo di ottime varietà
musicali.
Camillo RADI@zioni Fasulo
Battles
Ep C / B Ep
Warp
Post-rock/***
Lo chiamano “mathrock” ed è più di tante
altre la musica dei
numeri:
cervellotici
incastri di strutture
matematiche
e
formule
sonore
ripetitive. Questo e
qualcos’altro
sono
i Battles, supergruppo formato da ex
membri di Helmet, Lynxs, dei primi della
classe in matematica Don Caballero, più
un polistrumentista avant-jazz. Al primo
impatto, nelle loro tracce strumentali,
ogni elemento pare andare in direzione
diversa senza soluzione di continuità,
quasi
un’impossibile
semplificazione
tra numeri primi. Ci sono due modi per
approcciarsi a dischi così. Puoi tendere
l’orecchio e tenere il conto di quante
volte la disparità della batteria chiude il
ciclo coi minimali riff di chitarra o come le
tastiere si incastrano alle convulsioni del
basso. Oppure fai due passi indietro e ti
lasci affascinare dal risultato d’insieme,
come la geometria dei frattali in quei
poster (che fanno tanto anni ’60)
dove sai che quelle fantasiose forme
psichedeliche sono il risultato di miriadi
di microelementi messi insieme da rigide
formule matematiche. Allo stesso modo in
Dance, piccoli frammenti sonori impazziti
tratteggiano uno sghembo funk psicotico
alla Fantòmas. SZ2 parte con un respiro
più ampio e lascia all’inconfondibile
rullante del signor Helmet il compito di
fare unità tra gli elementi prima di partire
per la tangente drum&bass. La prima
delle tre versioni di Tras inizia minacciosa
e finisce per diventare una colonna
sonora da videogame in cui gli omini dei
Sims si trovano loro malgrado nel quadro
sbagliato di Dungeons & Dragon… In
questa raccolta di tre vecchi EP lo senti
che i ragazzi si applicano, ma talvolta
tutto suona freddo, troppo. Li rimandiamo
a settembre quando si presenteranno col
loro primo album.
Giovanni Ottini
Placebo
Meds
Virgin
Rock / **
I Placebo sono una
di quelle band che
“o le odi o le ami”; e
l’androgino frontman
Brian Molko, anima
e mente del gruppo,
non è tipo da mezze
misure,
tanto
da
risultare a volte poco
credibile nei suoi eccessi. Ma proprio
questa capacità di innescare reazioni
forti è la forza del trio britannico. O
meglio, era, perchè da qualche tempo
a questa parte le cose sembrano
cambiate. Meds conferma quei vuoti
creativi venuti alla luce in Sleeping With
Ghosts, (poco) mascherati dal ricorso
alla zattera dell’elettronica. Già da
qualche tempo i sintetizzatori avevano
iniziato a fare capolino tra i muri sonori
intessuti dalle chitarre di Molko e soci:
Meds è un ulteriore passo avanti in
questa direzione, senza che tuttavia ciò
vada ad aggiungere niente di nuovo ad
uno stile ormai ampiamente inflazionato.
Il disco può far leva su una manciata di
buone canzoni: non mancano le solite
ballate dalle tinte decadenti, ma ci sono
anche pezzi più tirati e viscerali, muri di
distorsione ed esplosioni improvvise e
fragorose. VV dei Kills e Michael Stipe
dei R.E.M. danno man forte a Molko, ma
la sostanza non cambia: se vi sembrerà
di ascoltare continuamente la stessa
traccia, non è detto che sia attivata la
funzione repeat del vostro lettore cd.
Giuseppe Lorenzo Muci
Roger Waters
Ca Ira
Sony
Opera lirica/****
Cosa dire di Roger
Waters, c’è da dire
un fiume immenso di
parole, per una delle
personalità artistiche
più grandi della storia
della musica degli
ultimi cinquanta anni.
Capace di esprimersi
ad altissimi livelli in svariati contesti
(psichedelica, progressive, opera rock,
film), riesce a toccare sempre risultati
eccelsi. Il concetto delle sue opere, dopo
i primi lavori formativi, è stato da sempre
a servizio delle sue idee. Ha messo in
luce il problema dell’incomunicabilità
fra i popoli e le nazioni, causa di molti
mali, si è scagliato contro le dittature
auspicando un mondo migliore e più
democratico. E come se Waters fosse a
servizio o il mezzo stesso delle sue idee.
Questa volta con Ca Ira mette da parte
la strumentazione tipicamente rock,
per sfruttare un’orchestra sinfonica,
tenori soprani ed un coro di voci
KeepCool
bianche. L’opera lirica in questione
vuole raccontare gli eventi francesi fra
il 1789-93, anni che portarono il popolo
a ribellarsi contro il proprio sovrano,
violento e corrotto, spinto dagli ideali
di libertà, uguaglianza e fraternità. Il
racconto si muove sul concetto che la
società anche se priva di libertà può
lottare in un coinvolgimento popolare,
per riconquistare la propria dignità.
Malgrado io non sia proprio il prototipo
fruitore di opere liriche, devo dire che Ca
Ira mi ha coinvolto subito, poiché vi ho
trovato tutto il sentimento e la teatralità
delle opere di Waters. Tuttavia quello
che appare subito sono le numerose
melodie popolari prese in prestito dal
diciottesimo secolo. Molti sono i pezzi
coinvolgenti per la loro epicità e coralità.
Pur essendo interessante il suo ascolto
non è consigliato a tutti, ma potrà essere
un’occasione per conoscere un mondo
musicale molto distante culturalmente
ai più.
Nicola Pace
AA.VV.
Let’s Boogaloo vol.3
Record Kicks
Funk/soul/boogaloo/ **** 1/2
Avete presente il
meglio della recente produzione funk,
dancefloor jazz ed
hammond groove?
No? Ok…allora comprate il terzo volume
della raccolta Let’s
Boogaloo (preferibilmente il vinile),
mettetelo sul giradischi e allacciate
le cinture! La Record Kicks ormai non
spiazza più, ci si aspetta il meglio e
non delude; il compilatore del disco,
e patron dell’etichetta, Nick Recordkicks ha inserito brani datati, belli quanto sconosciuti, e ha portato un po’ di
luce sulla scena moderna; si comincia
con una ammiccante Beatcoma di
Alan Moorehouse e si continua con
la ritmica sincopata fino all’estremo,
che sconfina quasi in un levare, della stupenda Look what you can get (il
mio pezzo preferito) dei Funky Nassau;
irresistibile Say Yeah Yeah di Yvonne
Fair, una delle ruggenti ugole che in
passato hanno militato nella gloriosa
JB’s Family (il manipolo di musicisti e
cantanti che orbitavano intorno al
Padrino del Soul James Brown). Tra i
“giovani” bisogna citare innanzitutto
gli italianissimi Minivip che in questa
compilation compaiono con Miss Augusta, ideale colonna sonora di uno
strampalato spy movie…supereroi di
rara bruttezza in sella ad una vespa
special circondati da splendide donne - Austin Powers e il James Taylor
Quartet insegnano - e l’energico trio
D. Glover, G. Crockett, G. Glover con
Jazz cat e una su tutte Latin Soul Strut
apoteosi latina che porge i saluti ai
Mandrill e strizza l’occhio alla pista da
ballo. Consigliatissimo.
Giancarlo Bruno
13
Ann Peebles
The best of Original Funk Soul Sister
Music Club
Soul/ ****
Raccolta di una soul
diva troppo spesso
tenuta in disparte
e lasciata scivolare
nel
dimenticatoio.
Ann Peebles è stata
una
protagonista
del
glorioso
soul
americano dei ‘60/’70
e ha scritto alcune delle più belle pagine
di quel periodo che, in questo best of, sono
quasi tutte inserite; le passate collaborazioni
con vere e proprie leggende come Sam
Cooke e Al Green rendono l’idea della
statura dell’artista che attualmente però,
porta in giro per il mondo una discutibile
tournèe dal nome Acoustic Soul Tour
che non aggiunge nulla, e anzi forse
toglie, qualcosa alla Peebles. Come si
può rimanere indifferenti alla stupenda
I can’t stand the rain, che John Lennon
definì il “più grande singolo di sempre”?
Fiati poderosi a passo di marcia e sintonia
perfetta con l’ipnotico andamento
della batteria. Presente anche la cover
degli Isley Brothers It’s You Thing che fa
scricchiolare l’assioma secondo il quale la
versione originale è sempre la migliore…
qui c’è dinamite pura; si continua poi con
succose ballads (Trouble Heartaches And
Sadness) inevitabilmente influenzate dalla
Aretha Franklin degli anni d’oro e con i
classici soul come I’m gonna tear your
playhouse down. Una cascata di southern
soul insomma (non a caso fu identificata
come il contraltare sudista di Diana Ross);
gemme ripescate da soffitte impolverate.
Giancarlo Bruno
Jimmy Edgar
Color Strip
Warp
Elettronica/ ****
Se metti insieme una
città storica (Detroit) e
una storica etichetta
(Warp) e le affidi al
talento creativo di un
giovinetto cresciuto
suonando assieme agli
inventori della techno
e ascoltando i dischi
della Motown Rec, il risultato si chiamerà
Color Strip. Lo ascolti e capisci come
l’elettronica possa andare a braccetto
con il funk, l’hip hop e l’R’n’B. Ti rendi
conto di quanto sia importante conoscere
le diverse scene musicali per poi fonderle
al meglio in concetti e atmosfere tutt’altro
che confusi. Ed è proprio questo che ci
spiega Jimmy Edgar, il ragazzo di Detroit,
mettendo insieme questi elementi e
plasmando un suono attualissimo, ritmato
da fredde cadenze electro e riscaldato
dal calore, di chiara tradizione soul black,
di chi è vissuto nella motor city. In questo
album c’è il funk del futuro (Semiriotic),
l’hip hop technologico (My Beats), l’R’n’B
sintetico (Color Strip Warren), ma anche
un piccolo tributo (Jefferson Interception)
a chi a Chicago parlava di Acid House.
Rimango stupito dalla maturità di questo
lavoro , soprattutto se penso che Edgar, di
anni, ne ha solo 23...
Kosmik
Public Enemy
Rebirth of a Nation
Guerrilla funk
Hip hop/****
Le
pantere
nere
dell’hip hop sono
tornate
incazzate
come sempre, ma
con nuove cause,
lontane anni luce dal
vacuo gangstarismo
del rap moderno. Il fine
dei nemici pubblici,
stavolta, è quello di colpire un film; quello
di David W. Griffith (1919) girato in difesa
del ku klux klan, mantenendone il titolo
(Rebirth of a Nation), ma sovvertendone
il significato. E non poteva di certo stare
a guardare inerme, Chuck D, lo storico
leader dei Public Enemy, che tra beat
incalzanti e rime oculate, ci spiega come
e perché l’old school non è una moda,
bensì uno stile di vita. Dalla fine degli
anni ’80 i fratelli neri-uniti-combattono
la loro guerra contro le palesi ingiustizie
del sistema americano avvalendosi, per
questa battaglia, della collaborazione
di mostri sacri del rap come: MC Ren
dei NWA, Kam, Dead Prez e tanti altri...
L’intero album, in sostanza, è finalizzato a
confermare i concetti di sempre e a far
capire che c’è ancora bisogno dei Public
Enemy. Tracce fiere, di consapevolezza,
in cui ritrovi il piacere, quasi perduto, di
ascoltare i campionamenti del passato
che appartengono (ve lo assicuro) ai
fiati dorati della band di un certo James
Brown. Il cerchio non si chiude quindi,
bentornata vecchia scuola.
Kosmik
Prefuse 73
Security Screenings
Warp
Elettronica/***
Nuovo
album
per i Prefuse 73,
classificazione
impossibile. Atmosfera
musicale a se stante,
sia nel mondo dell’hip
hop,
che
nella
galassia elettronica.
Il modo in cui Herren
riassume cadenze spezzate e down beat,
con tecniche di scuola prettamente
glitch e atmosfere cinematografiche,
è davvero unico. Album sicuramente
più strumentale dei precedenti, trova
la sua voce nei campionamenti. Per
chi ne acquista il cd, più di quaranta
minuti di atmosfere sognanti e reali allo
stesso tempo, battiti e pulsazioni del tutto
nuovi e suoni inusuali, se analizzati da un
angolazione hip hop, per un totale di
diciotto tracce. Per gli amanti del vinile
invece, il lavoro, che contiene anche
diversi interludi pieni di voci ed effetti,
KeepCool
14
può risultare davvero utile; ad esempio
ai dj creativi e a chi fa “scratch music”,
oppure a chi è alla ricerca di nuovi tools
per costruire i propri dj set. Da sottolineare,
inoltre, la collaborazione del maestro
Four Tet in Creating Cyclical Headaches,
per tre minuti di viaggio sonico tra spasmi
elettronici e sconnessioni ritmiche.
Kosmik
Wimeke
La prima volta
CD-R
Punk rock /****
Per chi come me li aveva amati all’istante
dal vivo è davvero un lieto evento.
I brindisini Wimeke sono un power trio
costituito da ¾ della prima formazione
dei Lova, uno dei tesori più preziosi (e
sprecati) del nostro underground, e non
potevano scegliere un modo più bello
di perdere la verginità di questi 7 brani
brevi ed intensi che anche grazie alla
produzione dell’esimio Amerigo Verardi
ci restituiscono l’emotività dei loro live.
La scrittura del chitarrista Sandro Palazzo
- finalmente anche vocalist- è, al solito,
semplice ed efficace: impregnata di
una stupenda sensibilità pop, eppure
genuinamente punk-rock (altro che
ragazzi morti). Ricordano i Diaframma
anni ‘90 più cattivi mano nella mano
con Hüsker Dü, Dinosaur Jr. e Nirvana “La
scimmia sulla schiena”, “Due o tre cose”,
“I giovani rampanti di oggi da bambini
a carnevale si vestivano da punk”… per
non parlare di “Niente da perdere” (La
fine di un amore? In italiano? Senza una
goccia di retorica??)e sono brucianti
e bellissime, disilluse e gonfie di rabbia.
Finiscono e vuoi ricominciare il gioco.
“Ricordo che prima della tua caduta
non c’erano guerre da fare…” . L’ultimo
romantico di cui parlava Fiumani forse
non se la passa poi troppo male e nel
conseguente mare di guai che vuole
rubargli i sogni, lui almeno non rinuncia a
pisciarci. One, two, three, four.
Antonio Olivieri
Missiva
Controvento
Demo
New wave/***
Il 2006 potrebbe essere un anno importante, se non decisivo, per i Missiva. È
da poco uscito Controvento, nuovo lavoro in forma di promo per il quintetto
brindisino in attività da circa otto anni,
sicuramente uno dei gruppi più promettenti dell’ultima generazione locale.
Controvento è una piccola raccolta di
moderno rock dal piglio deciso ed appena bagnato da gocce di rugiada
psichedelica, a metà strada tra la new
wave anni ‘80 e le nuove intuizioni di
quest’ultimo decennio, sospeso com’è
tra mosaici elettrici ed atmosfere malinconiche. Un lavoro che rappresenta
la prova più convincente che il gruppo
potesse al momento realizzare. Sarebbe
tuttavia riduttivo catalogare Controvento come prodotto derivativo, figlio del
colonialismo anglo-statunitense tutto
chitarre e sudore. Le chitarre ci sono, e
si sentono, ma rollano verso il versante
più intelligente del pop-rock, tessendo
trame semplici e decisamente gradevoli
su strutture in forma di canzone. Questi
5 nuovi pezzi si inseriscono perfettamente in un contesto musicale cresciuto ai
margini di un ambiente “provinciale”,
fuori dal circuito mainstream: grande
sensibilità melodica (dovuta senz’altro
ad una buona padronanza dei propri
mezzi), e poi sincerità e impegno... una
mano sul cuore e l’altra sulla chitarra,
meglio se elettrica e collegata ad un
buon distorsore. I risultati di questo processo creativo hanno portato alla luce
Controvento dischetto emozionante e
vibrante di elettricità. Struggente la versione decisamente personalizzata, virata verso una sorta di incredibile ed inacidito hard/grunge, de Il mio canto libero
di battistiana memoria, unico brano non
firmato dai cinque Missiva.
Contatti: www.imissiva.it; [email protected]
Camillo Fasulo
La Menade
Conflitti e Sogni
Load Up Records/Venus
Rock/***
La Menade è
una band rock
romana tutta al
femminile,
attiva già dal 2000.
Dopo aver conquistato notorietà
nell’underground
ed aver partecipato alla colonna sonora del film Tre metri sopra il cielo, con lo
strumentale The wheeling, la Load Up Records ha deciso di investire su queste ragazze. Conflitti e Sogni è un EP di sei brani
di ottimo rock cantato in italiano, dove
dolcezza e rabbia si incontrano in un’unica formula musicale. Ottime le singole
prestazioni delle ragazze, che hanno dimostrato di avere buone capacità. Da
segnalare due cose importanti: per primo
la bella confezione con bonus DVD contenente il video del singolo Strane Idee
e per secondo che il ricavato, eventualmente guadagnato andrà interamente
ad Emergency.
Nicola Pace
AA.VV.
Seguendo Virgilio
Ala Bianca Records/Warner
Musica italiana / ****
L’apertura
degli
Avion Travel sembra
degna della migliore
cronaca
della
contemporanea
politica
italiana.
Troppi affari, cavaliere
è invece solo il primo
dei brani composti
da Virgilio Savona, anima del Quartetto
Cetra, rifatti da numerosi musicisti della
nuova scena italiana. Un omaggio
all’ottantacinquenne
musicista,
cantante, autore, operatore culturale
che ha caratterizzato il Premio Tenco
2004. Queste dodici canzoni diventano
un cd prodotto dalla Ala Bianca Records
e distribuito dalla Warner. Petra Magoni
e Ferruccio Spinetti presentano in una
intima versione voce e contrabbasso
l’ironica Il cammello e il dromedario,
Carlo Fava, fresco vincitore del premio
della Critica a Sanremo, esegue Le burle,
serie di filastrocche per bambini, mentre
Samuele Bersani canta le Sette piccole
streghe. Seguendo Virgilio, dentro e fuori
il quartetto cetra, ospita anche Roberto
Vecchioni, Alessio Lega e i Mariposa,
Caparezza, Pietra Montecorvino, Gang,
Lou Dalfin, Stefano Vergani e Leonardo
Manera. Tutti i brani sono stravolti, tutta
la storia di Savona, dagli anni 40 agli anni
80, viene rivisitata dai musicisti in chiave
del tutto moderna. Una rilettura doverosa
per un uomo (e un gruppo) ironico e
irriverente. “Troppi affari cavaliere / lasci
star le società / le altre cento attività /
cavaliere senta qua / sgobba troppo
cavaliere / di giorno in borsa per giocar
/ con gli avvocati vuol cenar / getti via
la giacca la cravatta / si dimetta presto
per favor / troppi affari cavaliere”, sono
versi scritti nel 1954 e quanto mai attuali.
Gazza
Ennio Rega
Scritture ad aria
Scaramuccia/Egea Records
Jazz/pop - ***1/2
Dopo Concerie, numerosi riconoscimenti
KeepCool
come il Premio Pigro
(dedicato a Ivan
Graziani), il Premio
Carosone e il Premio
Lumezia, e in attesa
del nuovo lavoro
discografico, Ennio
Rega
presenta
questo
mini
cd.
Scritture ad aria, oltre alla title track
contiene Così da lontano e Cara stai
calma. Rega rientra, per semplificare e
per dare delle coordinate, nella migliore
scuola cantautoriale italiana. Testi densi
e accurati, arrangiamenti che fanno
convidere jazz e melodia tradizionale, pop
e innovazione, cantato poco scontato.
Il musicista romano, che esordì come
solista al Premio Tenco 1993 con Due
passi nell’anima del sorcio, per la prima
volta abbandona la sua dimensione
più tipicamente jazz per avvicinarsi
alla musica “cosiddetta” leggera. E i
risultati sono incoraggianti. Il cd contiene
anche il videoclip del brano (regia di
Simone Pellegrini) che dà il titolo al
lavoro e che vede protagonista lo stesso
cantautore con i suoi musicisti Lutte Berg
(chitarre), Luigi De Filippi (violino), Pietro
Iodice (batteria), Luca Pirozzi (basso e
contrabbasso).
Pierpaolo Lala
Pedro Ximenex
Che fretta c’era
Shinseiki / Audioglobe
Poprock / ***2/3
Vengono dall’Umbria
e
hanno
scelto
come nome quello
di un vino spagnolo.
Nati dalle ceneri di
Niumonia e Il Pianto
di Rachel Cattiva,
i Pedro Ximenex,
dopo l’apparizione
ad Arezzo Wave nel 2004, esordiscono
con Che fretta c’era, firmato da Shinseiki,
distribuito da Audioglobe, arrangiato
e mixato da Lorenzo Corti, uno dei
chitarristi più apprezzati del panorama
indipendente italiano. Un disco che parte
bene con Ridere solo a metà, con uno stile
che ricorda da vicino i più ispirati Marta sui
tubi (ed è ovviamente un complimento) e
procede con altri dieci brani che scivolano
tra pop (Se mi guardi, 6) e rock (Forbice,
Blu, Vola), ballate (Manchinme, Che
differenza c’è) e suoni più duri (Palpito
fragile, Soluzione #1). Un buon primo
album che scivola via piacevolmente.
Pedroso
15
I ratti della Sabina
A passo Lento
Upr/Edel
CombatFolk/****
Dal Lazio con furore,
ardore,
musica
e
cuore. I Ratti della
Sabina negli ultimi
anni si sono ritagliati
un posto d’onore nella
zona combat-folk alla
Modena City Ramblers
e Folkabbestia (tanto
per segnalare due dei gruppi migliori
della categoria). A passo Lento è il terzo
lavoro dei Ratti anticipato dal singolo
Chi arriva prima aspetta. L’anima del
gruppo è divisa nettamente dalla diversa
sensibilità degli autori/cantanti Roberto
Billi e Stefano Fiori che nel disco non si
incontrano quasi mai. Più portato verso il
folk incazzato e ballereccio il primo, più
influenzato dal cantautorato il secondo.
Molte canzoni sono ispirate da temi
politici e sociali come in Rivoluzione, che si
apre con alcuni versi di Gianni Rodari, La
giostra (cantata con Mimmo Locasciulli),
A passo lento, Il re dei topi, Il suono del
motore e molte altri. Da segnalare anche
i ritmi più acustici e tranquilli di Non fa
paura la notte, Il tempo che merita, Dopo
la pioggia. Un disco che sarà apprezzato
soprattutto dalle piazze.
Gazza
Alessandro Gwis
Alessandro Gwis
RaiTrade
Tango-Jazz / *** 1/2
Se brani nati come improvvisazioni in studio
mantengono, nonostante tutto, una bellezza personalissima
vuol dire che in questo disco c’è qualcosa di buono, sul piano
formale e su quello
emotivo. Se poi scopri che la faccia da
sbarbo della copertina appartiene a un
pianista che ha accompagnato il Gegé
Telesforo degli anni migliori e che è da
sempre una colonna degli Aires Tango,
si può facilmente capire da dove venga
quella verve inesauribile, quella plasticità liquida evidenziata in ogni assolo. Se
inoltre aggiungi che i brani composti posseggono qualità ipnotiche, a cui ti abbandoni come in un ballo inarrestabile, o
in un gioco passionale, si ha la giusta misura di questo disco. Buono in tutte le ore,
adatto a un viaggio in macchina come
a un ascolto attento; quale sottofondo
per una concentrata degustazione di
vini o in un momento di relax. Contrabbasso, batteria, pianoforte e pochissimo
altro confezionano qui scenari sinfonici,
come Agosto Noir, o sentimentali, come
Ajedrez, da osservare senza interruzioni,
uno dopo l’altro, perché briosi, vivaci e
genuini.
Cosimo Farma
Berardi Jazz Connection
The way I like
Antibemusic
Nu-jazz - ***
Dietro la sigla Berardi
Jazz Connection si
celano due validi
strumentisti tarantini,
Francesco Lomagistro
alla
batteria
e
Ettore
Carucci
al
piano e al fender
Rodhes,
impegnati
in questo progetto che potremmo
sbrigativamente definire nu-jazz. Si
respira un’aria profondamente europea
nei solchi di questo dischetto, anche
se le composizioni qui presenti sono
aperte a disparate influenze sonore, in
primis alla lunge-music (Jive Samba) e
a certo electro-jazz tanto in voga tra
i francesi (l’iniziale Offside che, in un
contesto seppur molto più mainstream,
fa il verso a Saint-Germain). Suonato e
registrato in maniera molto professionale,
ottimamente prodotto dall’Antibemusic,
The Way I Like si segnala per uno standard
qualitativo molto alto, arrangiamenti
brillanti e mai edulcorati, e soprattutto
per una coerenza di fondo che lega le
dieci composizioni. Un progetto vero, che
mutua il proprio nome dalla centralissima
via Berardi di Taranto (il luogo dove i due
musicisti avevano allestito da ragazzi
uno studio per le prove) e che, pur non
brillando per originalità, sorprende sia
per la maturità del sound, personale ed
elegante, sia per le indubbie capacità
compositive dei due titolari.
Ilario Galati
Guignol
Guignol
Lilium Produzioni
Rock/***
Dopo l’esordio con un ep dal titolo Sirene, i Guignol da Milano arrivano alla loro
prima prova su lunga durata con questo
KeepCool
16
omonimo disco che
prosegue sulle direttrici già tracciate di un
rock letterario crudo
e urticante che fa uso
dell’italiano ma che
guarda principalmente a grandi modelli
anglo-americani, Leonard Cohen in primis - non a caso omaggiato con una vibrante versione di Story
of Isaac. La produzione artistica affidata a Giancarlo Onorato, vera e propria
icona della nostra musica indipendente,
chiarisce gli intenti del gruppo guidato
da Pierfrancesco Adduce che, rispetto
all’esordio, acquista un elemento importante, il polistrumentista Fabio Gallarati
(già negli interessanti R.U.N.I.) che con il
suo apporto aiuta a diversificare l’offerta generale. Ottimo il lavoro sulle liriche,
che raccontano storie ‘difficili’ popolate
da personaggi borderline. L’episodio migliore è Festa di Pepe, sorta di valzer tenebroso e sinistro che ricorda da vicino il
raga allucinato di The Carny di Caveana
memoria e che da solo vale il prezzo del
biglietto.
Ilario Galati
Quintorigo
Il cannone
Exess
Rock Italiano / *** ½
Dirò
una
verità
ineluttabile:
i
Quintorigo
con
John De Leo erano
un’altra cosa. Bella
scoperta. I primi a
essersene
accorti
sono stati proprio
loro,
i
Quintorigo
superstiti, quei quattro ragazzi, armi
classiche in pugno, che erano riusciti a
dare consistenza rock a contrappunti,
canoni e rondò proprio in virtù del
virtuoso e spericolato cantante. Tuttavia,
l’amarezza, il rancore e il lutto, se non
opportunamente veicolati con le note,
non hanno alcun valore in musica, e
quei quattro ragazzi sanno bene anche
questo. Quindi, fuori con un nuovo disco,
senza più quel frontman enorme, ma
con una voce esattamente opposta:
raffinata quanto viscerale è quella di
John, evasiva dove la sua è invadente,
mansueta se l’altra è esplosiva, femmina
giacché De Leo è maschio. Un album
pensato, ripensato e ragionato, con poca
ispirazione ma molta onestà e qualche
traccia accattivante: l’interpretazione di
L’attesa, le versioni di Redemption Song
e Goodbye Pork Pie Hat e la vena sottile
e impertinente di alcuni testi (Il cannone
e Nel clone del padre). Pare evidente,
a questo punto, che si tratti di un disco
di passaggio, in tutti i sensi. Ma se è
vero quanto detto prima, la transizione
(quando è onesta) diventa un diritto, e
anche un po’ un dovere per un gruppo
di artisti. Per questo dò a Il cannone la
sufficienza piena. Attendiamo, però, con
pazienza e fiducia, il nuovo capitolo dei
nuovi Quintorigo. E aspettiamoci di più.
Perché la transizione non può durare per
sempre.
Gianpaolo Chiriacò
La Zurda
La Zurda
Surco
Patchanka / ***
Patchanka dal gusto
indio e ribelle. La Zurda
è una formazione di
origine argentina che
si è fatta conoscere
da noi l’estate scorsa,
con
partecipazioni
di rilievo quali Arezzo
Wave, Sunsplash e
il live presso Radio Popolare Network.
Cosicché, mentre il gruppo prepara una
nuova incisione, viene distribuito ora in
Italia il disco d’esordio, registrato alla
fine del 2001. Le linee vocali attingono
non poco dall’inafferrabile profeta Manu
Chao e dal Sergent Garcia di Amor pa
mi, ma gli arrangiamenti sono densi,
ricchi e multiformi. Chitarre, fiati, samples,
ma anche charango – piccolo strumento
a corde, anticamente ricavato dalla
corazza dell’armadillo –, armoniche,
percussioni di vario tipo e, soprattutto,
un sound collettivo di grande spessore.
Stranamente, poi, le canzoni più intense
sono quelle in cui il ritmo si fa lento e
la strumentazione meno fitta (Tafì del
valle, Los ejes de mi carreta, Vidita), a
dimostrazione di una vena compositiva
non scontata, benché ancora da
affinare.
Gianpaolo Chiriacò
Lalli & Pietro Salizzoni
Èlia
Il Manifesto
Canzone d’Autore/****
A circa tre anni dall’acclamato
All’improvviso, Nella Mia
Stanza, la torinese Lalli
ritorna con un nuovo
disco dal titolo Èlia,
parola che d’ora in
avanti contraddistinguerà un progetto
musicale che si dà
forma di band. Prosegue dunque anche il
sodalizio tra la cantante e il chitarrista Pietro Salizzoni, insieme da quando scrissero
Testa Storta, una delle più belle canzoni
mai cantate da Lalli, per il film Preferisco
il rumore del mare di Mimmo Calopresti. Il
nuovo lavoro di Lalli è colmo di suggestioni letterarie, a partire dal primo pezzo, I
Gatti lo Sapranno, tratto da una poesia di
Cesare Pavese, passando per altre grandi innamoramenti artistici, da Margherite
Duras a Erik Satrie, dal brasiliano Lenine al
folk e alla canzone d’autore. Disco profondo e coinvolgente, che ha dalla sua
un pugno di canzoni perfette nel loro incedere elettroacustico, rette dalla voce
fuori dall’ordinario di Lalli, che le interpre-
ta se possibile in maniera ancora più intensa che in passato. Alla produzione c’è
un esperto come Carlo U. Rossi e segnaliamo l’apporto alla tromba di Giorgio Li
Calzi, che suona in maniera funzionale
a queste composizioni arricchendone il
timbro. Canzoni che fanno largo uso del
chiaroscuro e che delineano una proposta musicale di qualità senza che i toni
risultino supponenti. Anzi, semmai è la
fragilità di queste brevi istantanee dalle
tinte pastello a colpire nel segno, perché
a conti fatti di canzoni così in Italia se ne
scrivono di rado.
Ilario Galati
Mascarimirì
Tríciu
Dilinò-Radio Popolare
Folk / ****
Claudio “Cavallo” Giagnotti è il Camarón
della nostra regione. Protagonista attivo
della tradizione, amato e criticato, magnetico e indifferente, coraggioso fino a
essere insolente, il Nostro manifesta da
sempre grande disponibilità a mettersi in
gioco. Del resto, nel presentare il lavoro
su queste pagine, ha espresso lui stesso
l’intenzione di innovare senza rinnegare,
facendo peraltro riferimento all’Andalusia, la cui cultura è stata reimpostata
proprio dal Camaron de La Leyenda
del Tiempo. Ad avvalorare il paragone
c’è, inoltre, il fatto che Tríciu segna un
punto d’arrivo del percorso di ricerca
dei Mascarimirì, e allo stesso tempo rappresenta un allontanamento definitivo
da certo folk revival integralista: proprio
come fece il famoso gitano col già citato disco. A sgombrare il campo da
eventuali dubbi ci pensano subito i primi
brani: lo sguardo fisso sul Mediterraneo
(Pizzica Raï, Tríciu, Sule) non sminuisce
affatto la carica fornita da una batteria
presentissima, da un basso robusto, imponente, e dagli interventi elettronici. Ci
sono sempre i tamburelli (Badisco, Pizzica Vanniciata), c’è sempre quella voce
scheggiante – a cui torna ad aggiungersi quella, più misteriosa, del fratello Cosimo Giagnotti –, ma, dalle spezie orientali di Tribal Sound Tarantolato al dub di
Trainante – con tanto di giro di basso di
Natural Mystic –, domina la volontà di allargare (e confondere) i confini.
Gianpaolo Chiriacò
KeepCool
No Sound
Sol 29
Autoprodotto
Psichedelia/***
Per un attimo ci si sente a Bristol con No
sound per la sua attitudine al dowmtempo,
poi ci senti un vento psichedelico arrivato
dai Pink Floyd degli anni ’70, la delicatezza
di David Sylvian. Le trame di Giancarlo Erra,
nome che si cela dietro questo progetto, si
intrecciano lente, eteree, in altri momenti
liquide e poi ancora dirompono in aperture
progressive. Musica per spazi immensi,
strutture armoniche che si sviluppano
si infittiscono e crescono in un perfetto
equilibrio tra elementi elettronici, suoni di
passaggio, altri persistenti e ipnotici, poca
voce, giusto un contrappunto a quello
che la musica dice benissimo da sola.
Il compositore romano ha realizzato un
buon disco per viaggi in solitaria. (O.P.)
Animal ferox
Maltominimarco
Alphasouth - Audioglobe
Politicamente scorretto/***
Ok, l’attitudine tipica del recensore
medio di demo (che io non sono, per
forza e per fortuna) sarebbe quella di
stroncarlo senza pietà, non fosse altro per
la pessima qualità di incisione e per la
sua natura da sagra del “politicamente
scorretto” (salvo che di politico non
c’è una mazza, semmai “culattoni”,
“puttane” e “negre” in abbondanza).
17
Poi ti ricorda quei nastri scassati prodotti
dai tuoi amici per strapparti più di una
risata (la cover di Sympathy For The Devil
ribattezzata Gay è abbastanza indicativa
in questo senso). Poi ci rifletti e pensi a
come sarebbe suonato da una band e
con una produzione di quelle giuste. Poi
ci senti l’amore per i ’70, Renato Zero,
Rino Gaetano, Mgz etc. Va a finire che
lo promuovi con una pacca sulla spalla,
dandogli fiducia piena.
Sergio Chiari
Richard Bartz
Big
Kurbel records
Houseggiante / ***
Come un salto in uno scuro tunnel,
Bartz sputa fuori un disco che la Gigolo
avrebbe tanto bisogno di pubblicare,
di questi tempi. Nero come la pece. A
partire dalle deliranti note di copertina,
che sembra la sua versione del dio
rasoio lansdaliano, alle foto che
accompagnano il booklet (maschera di
pelle, benda da pirata etc.). E la musica
ovviamente: le danze si sciolgono in
Atomic dog,una dark house buona
da danzare in un tempio pagano,
piuttosto che in un club. Ed è un album
più houseggiante, in effetti, quello che
Bartz ci consegna questa volta. Solo che
gli avventori del suo club non tengono
in mano il solito cocktail ma “roses and
candles, silver knives and spoons”.
Sergio Chiari
Resina Sonora
Sogni
Chiavino Sound
Hip Hop/****
Arrivano alla prima prova su disco i Resina
Sonora, composita crew, promessa delle
lande salentine, e lo fanno con onore
e gusto. Il taglio è quello di chi ha le
orecchie un po’ dappertutto (reggae, dre
e la madre terra) ed è un’attitudine che
paga. Il Salento che vive nelle loro liriche
è, per una volta, quello che conosciamo
(disoccupazione, faide tra i paesi etc.) e non
l’edulcorata versione estiva fatta di dance
hall e pizzica-party per turisti: Terre Bruciate,
che pure bruciano a suono di tamburelli. Le
basi e le melodie sono raramente festose,
ma capaci di rilassarsi, comunque, come
in Se tramonta il Sole, dove batte un cuore
soul atipico. Si incazzano e non poco in
Sguardi accecanti, dove si avvalgono
della collaborazione del prode cesellatore
di scratch, Kosmik (nella foto in alto),
presente in diverse tracce. E coltivano il
sogno oscuro.
Sergio Chiari
18
KeepCool
TORINO, SALENTO, BRASILE E UN PO’ DI MONDO:
L’ONDA NUOVA DEI MAU MAU
Bau, bau. Per uno strano gioco di parole
e di versi, c’è l’abbaiare minaccioso dei
cani di Torre Chianca sullo sfondo della
chiacchierata telefonica con i Mau Mau.
Abbiamo parlato con Fabio Barovero, fisarmonicista e anima, insieme a Luca Morino, del progetto avviato a Torino circa tre
lustri fa.
Fresca di nuova uscita discografica, Dea
(vedi recensione a pag.11), la band è
tornata nel circuito dopo qualche annetto
di assenza dopo aver segnato per più di
dieci anni il territorio musicale italiano
ed europeo; percorrendo migliaia di
chilometri con l’originale patchanka naif,
con l’acustico miscuglio di suoni, con il
simpatico e “minaccioso” nome. Mau
Mau, oltre ad essere il nome di una arcigna
tribù che lottava per l’indipendenza del
Kenya dalla colonizzazione anglosassone,
in dialetto piemontese è il termine con il
quale viene chiamato chi viene da lontano,
magari scuro di pelle e poveraccio... forse
simile a quell’essere, indefinito e cattivo,
che minacciavano di chiamare i nostri
genitori e nonni, esasperati dai nostri
capricci. E sulle loro rotte, i Mau Mau hanno
da sempre incrociato il Salento, anche fuori
stagione, come, in questo uggioso inizio di
primavera, è capitato a Fabio Barovero.
Prima di iniziare l’intervista manifesto
tutta la mia ignoranza chiedendo quale
impegno lo abbia portato dalle nostre
parti.
“Io sono salentino - mi dice – o almeno lo
sono per metà, mia mamma è di Lecce”.
Ahssì??? Allora...scusa cumpà, non lo
sapevo. Mi riprendo con nonchalance
dalla gaffe e inizio con le domande.
I Mau Mau sono tornati, o semplicemente
non se ne erano mai andati?
Diciamo che dopo dodici anni consecutivi
e così intensi, eravamo decisamente
stanchi, abbiamo preso una sorta di
pausa di riflessione. L’ultimo spettacolo lo
abbiamo fatto nel 2002, e prima di allora
non c’eravamo fermati quasi mai. Era
difficile sostenere un ritmo così elevato,
anche dal punto di vista della motivazione.
C’era la necessità di imparare qualcosa di
nuovo, forse anche per riossigenare un po’
il cervello.
Che avete fatto in questo periodo di
allontanamento?
C’è stato molto studio, su strumenti diversi,
altre tecnologie, io e Luca abbiamo avuto
un percorso anche un po’ separato.
Lui ha fatto uscire il disco, di parole e
racconti, io ho lavorato tanto con il teatro
e con il cinema, ho fatto quattro colonne
sonore, tra cui quella che ha vinto il nastro
( D a sinistra Fabio barovero , lu C a morino e bienvenu N songan )
d’argento col film La febbre di Alessandro contenti, e ci divertiremo sul palco questa
D’Alatri, dove erano presenti anche i estate.
Negramaro. Poi abbiamo un po’ avviato ...e quando, da queste parti, ci divertiremo
il discorso musicale del disco, sul quale a vedervi contenti sul palco?
abbiamo iniziato a lavorare circa un anno Di sicuro stiamo mettendo a punto questa
fa, siamo stati un mese e mezzo in Brasile.
sorta di “orchestrone d’assalto”, saremo
È lì che avete trovato la “Dea” ispiratrice?
in giro da giugno ad agosto, non so
Abbiamo cercato di approfondire quella esattamente quando verremo nel Salento
caratteristica,
quell’onda
“bahiana” ma...è ovvio che qualcosa la tireremo
che usciva un po’ fuori negli anni passati fuori, per ora non sappiamo. Il disco è
ma che non riuscivamo a completare, uscito da pochi giorni, faremo un po’ di
per cui abbiamo deciso di immergerci presentazioni al nord prima del tour, poi
completamente, più in profondità. È quello c’è l’uscita del primo singolo, Dea, e del
che abbiamo fatto, in prospettiva “live”, video, che è ormai definito. È bello, lo
potrebbero venire quattro percussionisti abbiamo girato in Brasile, esattamente nei
da Salvador di Bahia, a darci una mano posti dove siamo stati e con i musicisti che
a far uscire questo fuoco, l’energia che verranno a trovarci a Torino.
abbiamo cercato di mettere nel disco, Dicci com’è Torino adesso dal punto di
lucidata con un po’ di tecnologia ma vista musicale, cosa è... restato di quegli
senza tradire il nostro linguaggio musicale. anni ’90? Che si fa?
Dal Piemonte al Brasile, ascoltando il disco, Bah, non so, io non ho esattamente le
appare chiaro che ci sono anche un po’ di antenne per ricevere quello che accade.
luoghi salentini sul vostro tragitto.
È un periodo che va, più della musica
Beh, abbiamo voluto aggiungere un po’ di suonata, quella prodotta, quindi c’è
“orgoglio salentino” all’operazione, siamo un grande movimento di dj, quello si.
stati all’Albania Hotel da Cesare Dell’Anna Poi magari adesso si è colpiti da una
qualche settimana, poi sono venuti i Sud sovraeccitazione, da quella “bambagia
Sound System a cantarci su un pezzo. olimpica” che comunque, non si può
Così come ha fatto il chitarrista dei Mano non ammettere, sembra abbia dato una
Negra, e altri ospiti; abbiamo avuto molto spinta e una voglia di fare in tutti i campi.
materiale umano, è stato un percorso Sicuramente, andando a confrontare,
molto lungo, anche quello eseguito in non vedo quell’onda che ha interessato
studio. Di bello c’è che abbiamo fatto la nostra generazione, noi gli Africa Unite,
tutto con estrema calma, selezionando i Fratelli di Soledad e tanti altri. Quello era
e scegliendo. È venuto fuori davvero il un momento storico, e logicamente quello
massimo di quello che potevamo fare che c’era si è un po’ perso.
con questo progetto. Quindi siamo molto
Dario Quarta
KeepCool
19
IL SALTO
NELL’INDIE:
BLACK CANDY
Questo mese il nostro salto nell’indie arriva
a Firenze per conoscere una nuova etichetta discografica: la Black Candy. Tra
passione, sperimentazione, rock, letteratura e video questi ragazzi hanno i piedi in
Italia ma le orecchie e le mani nel mondo.
Chi siete, da dove venite, cosa portate?
Siamo in due, Giuseppe e Leonardo…
la nascita dell’etichetta risale al 2003,
anno in cui abbiamo deciso di provare
a portare qualcosa di emozionante nel
panorama italiano. Non sappiamo se ci
siamo riusciti, ma dal nostro punto di vista
siamo veramente contenti del lavoro fatto
fin qui…. e la voglia di andare avanti c’è e
ci sarà ancora per molto molto tempo!
Abbiamo già avuto modo di parlare delle
vostre produzioni, tutte belle e diverse tra
loro. Dove e come trovate i gruppi o sono
loro che vi cercano?
Non c’è una regola precisa… è come in un
rapporto tra un ragazzo ed una ragazza:
in alcuni casi siamo stati noi a corteggiare
e mostrare per primi interesse e voglia di
lavorare con loro, in altri casi sono stati
loro a cercarci; in altri ancora si è trattato
di amore a prima vista! La passione e la
curiosità sono elementi fondamentali del
nostro vivere la musica, è per questo che
ci piace ascoltarla, ed è quindi per questo
che ci piace produrla.
Noto che oltre all’etichetta in sé avete in
piedi varie collaborazioni.
Si, ci piace vivere questa esperienza come
una “factory” fatta di rapporti grazie ai
quali poterci arricchire di sempre nuove
esperienze. Oltre ad Audioglobe, che
provvede alla distribuzione delle nostre
produzioni, abbiamo ottimi rapporti con
diverse agenzie di booking come Locusta
(Pecksniff), Labile (Joe Leman, Milaus e
Fine Before You Came) o De Stijl (Three In
One Gentleman Suit, Santo Niente), con la
Shinseiki, società di edizioni che ci dà una
mano a sbrigare le noiose pratiche relative
alla SIAE, e con un paio di locali nella nostra
zona (Limonaia e Mulligans), preziosi punti
di incontro nei quali organizziamo spesso
concerti dei nostri gruppi ma non solo…
Si tratta di persone che abbiamo avuto la
fortuna di conoscere in questi anni e che
condividono il nostro modo di intendere
la musica ed assieme alle quali formiamo
una grande “famiglia”.
Tra le vostre ultime uscite c’è il nuovo
album dei Fine Before You Came, un
progetto che unisce immagine e musica,
di cosa si tratta?
Si tratta di un lavoro di cui andiamo
molto orgogliosi, l’ultima fatica di una
delle più belle ed interessanti realtà
della scena post-punk italiana. Un lavoro
maturo che lascia senza fiato dal punto
di vista della raffinatezza, correlato ad
un DVD intitolato I Was Fine Before You
Came, cortometraggio nato da un’idea
del quintetto milanese e del film-maker
Antonio Rovaldi. Attraverso immagini in
movimento e fotografie, riprese a New
York, che descrivono stati di solitudine ed
alienazione, il regista evoca le sensazioni
messe in musica da brani strumentali inediti
che ricalcano i temi principali dei pezzi del
disco. Un lavoro bello e ambizioso, nonché
molto impegnativo realizzato con persone
magnifiche, che vi assicuriamo... vale
qualsiasi sacrificio.
Musica e immagini ma anche musica
e letteratura … Enrico Brizzi e i Frida X,
Umberto Palazzo e il Santo Niente … Black
Candy allarga i suoi orizzonti?
Siamo sempre stati dei grandissimi ammiratori di Enrico, quindi provate ad immaginare la nostra sorpresa, quando sul suo
blog
(http://www.archiviomagnetico.
splinder.com) consigliò ai suoi lettori “tre
ottimi album di cui temo non sentirete parlare in tivù”: The Book Of Stanley Creep
dei Pecksniff, Occhiali Scuri al Mattino del
Santo Niente e Days dei Brother James...
per noi due fu un’enorme sorpresa… uno
dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo decennio invitava all’acquisto di alcune nostre produzioni: puoi immaginarti quale sia
stata la nostra reazione. Dopo neanche
un mese, nel febbraio dello scorso anno,
abbiamo avuto il piacere di conoscere
Enrico in occasione di una Black Candy
Night tenutasi al Covo di Bologna; ci siamo
da subito trovati in perfetta sintonia, siamo
rimasti in contatto ed abbiamo deciso di
suggellare questa nostra amicizia con la
produzione dell’album dal titolo Nessuno
( J oe leaman )
lo saprà, Concerto per voce e rock’n’roll
band, ispirato all’ultimo suo romanzo, collaborazione che crediamo e speriamo non
si fermerà, ma proseguirà nel tempo. Di
Umberto che dire… oltre essere un grande
musicista, è una persona incredibile che
purtroppo non ha ancora raccolto quello
che si merita.
Ho visto che siete orientati anche all’estero,
come va l’indie italiano fuori dai confini?
Sinceramente abbastanza bene… abbiamo raggiunto accordi per la distribuzione
dell’intero nostro catalogo in Giappone,
Cina e Hong Kong, Canada, Belgio e Olanda, Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra; le cose sembrano andare molto bene:
in Estremo Oriente hanno apprezzato molto i nostri lavori ed è stato per lo meno curioso vedere al di sotto dei nostri cd delle
note in giapponese! In Italia ci sono alcuni
gruppi ed etichette ai quali i confini nazionali vanno decisamente stretti, ad esempio non ci meraviglieremmo affatto di vedere l’ottimo lavoro di gruppi come Studio
Davoli, Rosolina Mar, Settlefish, e Midwest
riconosciuto anche all’estero… o almeno
ci piacerebbe fosse così!
Una piccola descrizione per ognuna delle
vostre ultime produzioni.
Che dire…il cd di Enrico e dei Frida X
è un disco emozionante, un insieme
imprescindibile di parole, suoni e colori che
racchiude la poesia di un viaggio a bassa
velocità attraverso un’Italia autentica…
un disco da amare.
L’album dei Fine Before You Came è invece
proprio uno di quei dischi senza confine,
una musica che va oltre la classificazione
dei generi e non può che arrivare dritta
al cuore… inoltre ha un booklet unico e
davvero bellissimo realizzato dai ragazzi di
Heartfelt (www.heartfelt.it).
Tomviolence, Milaus e Three In One
Gentleman Suit hanno realizzato tre dischi
diversi l’uno dall’altro: tutti e tre mostrano
un’urgente necessità di esprimersi, un
approccio ed una passione per il rock’n’roll
davvero unici, tre band da amare e, per
chi non lo avesse ancora fatto, da scoprire
senza alcuna esitazione… Provare per
credere.
Osvaldo Piliego
KeepCool
20
25.03.06
TUXEDOMOON
IN TARANTO
Come a completare il discorso iniziato su
queste pagine un paio di mesi fa, ecco
che ci capita a proposito un’ottima
occasione per proseguire: sabato 25
marzo il Palamazzola di Taranto ha
ospitato il più significativo e più noto (in
Europa almeno) figlio della new wave di
San Francisco, i Tuxedomoon. E sì perchè,
dopo Londra, New York e Berlino, non
possiamo dimenticare San Francisco, la
terra da cui sorse la mitica Ralph Record,
l’etichetta che produsse la compilation di
culto Subterranean Modern (anno domini
1979), in cui partecipano i quattro gruppi
chiave della scena cittadina: (in ordine,
crescente, di fama) i misconosciuti quanto
eccezionali Mx-80 Sound, gli psichedelici
Chrome, i leggendari quanto indefinibili
Residents e i Tuxedomoon, la band che
ha indirizzato il proprio spirito sperimentale
per lo più in ambito jazz elettronico. Col
tempo però, quello che voleva esser un
inquietante elettrorock sporcato di jazz
d’avanguardia si è progressivamente
formalizzato in un digital art-pop jazzato,
sofisticato ed elegante, ma privo di
quell’ansia, di quel bruciore, di quella
tensione che accomunava tutte le bands
suddette. Di fatto, ciò che in definitiva
ha permesso, fin da subito, al gruppo di
Steven Brown, Blaine Reininger e Peter
Principle di tirarsi fuori dal ristretto ambito
underground, è stata la loro sostanziale
anima pop, individuabile non tanto nella
loro musica, quanto nella loro capacità
di sapersi confrontare con successo con
la macchina del mercato e della moda
musicale, senza tuttavia caderne vittima.
E forse questo è stato uno dei maggiori
meriti della band, proprio perchè, senza
di loro, tutta la scena di certo avrebbe
avuto una più sofferta esistenza. Pensate
a Los Angeles: se da un lato la scena
punk di Germs, X, Black flag e Circle
jerks riuscì ad ottenere una certa visibilità
internazionale, dall’altro, una scena
più sotterranea quanto sofisticata e
composta (in tal senso più propriamente
new wave), come quella che passò
sotto il nome di “trance” (per il suo
carattere ipnotico e meditativo), nata
all’interno del dipartimento di belle arti
della prestigiosa UCLA e capeggiata dai
seminali Savage republic (ne riparleremo
il mese prossimo in occasione del loro
imminente concerto a fine maggio
a Bari), non ebbe mai la possibilità di
emergere proprio perchè non possedeva
(ma anche perchè probabilmente
non avrebbe voluto possedere) al suo
interno una band capace di addentrarsi
con successo all’interno del circuito
commerciale.
Anche i Tuxedomoon New Music Ensemble, come molte band new-wave-butnot-punk, avevano origini universitarie:
Brown e Reininger erano studenti di musica elettronica al San Francisco City College, e la loro volontà era costituire un
progetto multimendiale che includesse
musica, teatro e videoproiezioni. Contrariamente all’etica punk (falsa) secondo
cui chiunque può prender in mano uno
strumento e metter su un gruppo punk,
solitamente i musicisti delle università
possedevano una ben più profonda
consapevolezza della natura della musica, e la loro ricerca era indirizzata verso
nuove espressioni del suono capaci di
stimolare neuroni solitamente tenuti in disuso nelle normali faccende quotidiane
(compreso l’ascolto della musica popolare). Ma proprio per questo, le possibilità
di far combaciare le volontà spirituali dei
musicisti della new wave colta, di ogni
tempo e luogo, con le esigenze restrittive
del mercato discografico (che persegue
il principio: suoni facili per masse stupide)
sembrano limitate a quel processo di
standardizzazione e appiattimento delle
nuove soluzioni del quale si è parlato qualche mese fa. Da questo processo, si sa,
quasi costantemente i ricercatori escono sconfitti: a prendere i meriti dei loro
risultati sono quei gruppi (spesso creati a
tavolino) che acquisiscono e sfruttano,
nelle loro canzoni, secondo una modalità più fruibile, easy, le recenti innovazioni
tecniche, melodiche ed estetiche. Ma ci
sono casi, e quello dei Tuxedo è uno di
questi, in cui proprio i musicisti sperimentali posseggono la notevole dote di saper conquistare direttamente il pubblico
di massa. Notevole, perché quasi sempre
( tuxedomoon )
questi soggetti sono tipi dalla personalità fragile, chiusa, introversa, ma proprio
perchè disagiati, poco vicini ai caratteri
della società in cui vivono (e per questo spinti alla sperimentazione). Brown e
Reininger hanno invece due personalità
fortissime, capaci di confrontarsi costantemente con il loro pubblico e con la
stampa; hanno sempre girato il mondo
(hanno abbandonato Frisco ben 25 anni
fa) esibendosi ovunque, col gruppo o nei
loro innumerevoli progetti solisti (solo in
Puglia sono venuti 3-4 volte al completo, e molte di più singolarmente). Chiaro
che il risultato di tutto questo movimento porti inevitabilmente a un riscontro di
apprezzamenti più ampio e globale. Il
rovescio della medaglia è che entrare in
quell’ottica ti spinge diabolicamente ad
ammorbidire i toni, a facilitare l’ascolto,
a riaprirti alla luce della “normalità quotidiana”, a riaffondare quella tensione, a
dimenticare quel disagio, a rinunciare a
quel disprezzo che inizialmente produssero grandiosi effetti. Nei Tuxedomoon
il risultato fu quello di fossilizzarsi in un
compito ensemble di bravi musicisti stravaganti di sperimentazione educata (tra
italo-disco, cocktail lounge e vezzeggi
orientaleggianti) che tanto piacciono
ai borghesucci radical-chic desiderosi di
eccitanti esperienze. Forse per tirarsi fuori
da questo tuxedo-sun in cui erano infilati,
si buttarono ognuno dei tre in tonnelate
di progetti paralleli con infinite collaborazioni (quelle di Brown in particolare mostrano questa esigenza di fuga, in special
modo nelle diverse opere di ambientmusic elettronica alla Brian Eno incise
con il musicista d’avanguardia Benjamin
Lew). Vederli oggi dal vivo è un po’ un
misto di tutte queste cose, così come lo
sono i brani dell’ultimo Cabin in the Sky:
solo a tratti davvero emozionanti (ottimo
il basso di Principle nel brano inedito presentato durante il concerto), per il resto
una simpatica esibizione perbenista da
musica da camera che ha reso tutto il
live non dico brutto (impossibile, a parte
l’agghiacciante cantata alla Capossela
di Reininger), ma per lo meno noiosetto.
Gennaro Azzollini
KeepCool
21
LA CULTURA RINASCE
DALLE PERIFERIE
Intervista a Paolo Fresu
“Oggi in Italia c’è una sorta di rinascimento
culturale, questo grazie anche al contributo
delle periferie. Nelle grandi città c’è
un’offerta tale, in quantità e qualità, che
spesso anche le cose importanti passano
in secondo piano, mentre nelle zone di
periferia, come la Sardegna o il Salento,
c’è un modo più profondo di agire e
influenzare la cultura”.
Quello salito in cattedra lunedì 20 marzo
nella Sala Azzurra della Fondazione
Filograna, a Casarano, è un Paolo
Fresu considerato non soltanto tra le
più apprezzate trombe jazz italiane, ma
anche il fondatore di una manifestazione
di prestigio che si tiene nel suo paese
natale, a Berchidda, in provincia di Olbia,
dove dal nulla il trumpet sardo ha creato
un importante festival.
Fresu, oltre a partecipare al dibattito promosso dalla Provincia, nella serata ha
suonato con Raffaele Casarano & Locomotive per la presentazione di Legend,
prima fatica discografica del quartetto
jazz salentino (report del concerto su www.
coolclub.it). Ad arricchire l’incisione realizzata presso il convento degli Agostiniani a
Melpignano, come pure il concerto inaugurale casaranese, c’è stata non soltanto
la partecipazione straordinaria di Fresu, ma
anche quella dell’orchestra del conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, ensemble diretto dal maestro Massimiliano Carlini. E nel
lavoro edito dall’etichetta Dodicilune, Fre-
su ha tolto la sordina della propria
tromba per imprimere il tono giusto
ai duetti con il sassofonista, giovane
talento di Sogliano che già sta facendo
parlare molto bene di sé, accompagnato
al contrabbasso da Marco Bardoscia, al
piano da Ettore Carucci e alla batteria da
Alessandro Napolitano, tutti musicisti ormai
noti nel panorama jazzistico non solo pugliese.
Ma torniamo al pensiero di Fresu. Egli parla
di jazz e di luoghi, di come “la musica si sposi
e si allacci sia con le altre forme espressive
sia con la peculiarità dei posti”. Ma oltre al
Fresu musicista c’è anche il Fresu docente,
quello al quale abbiamo rivolto la prima
domanda.
Paolo, oltre a suonare, tu insegni. Pensi che
le istituzioni, in primis la scuola, riservino
abbastanza interesse alla musica?
“Sicuramente no, basti pensare alle
scuole primarie e ai bambini. Per loro c’è
pochissima musica. Oggi, con le riforme
dei conservatori, le cose vanno un po’
meglio, però siamo ancora lontani. Specie
in Italia, la musica resta un fatto d’arte e
di comunicazione. Fortuna ci sono ancora
le bande musicali. Io stesso sono diventato
musicista suonando la tromba nella
banda del mio paese. In particolare per
gli strumenti a fiato, la vera scuola resta la
banda. Tuttavia è importante che ci siano
altre istituzioni didattiche, che permettano
ai giovanissimi d’imparare a suonare da
piccoli”.
Ecco, parlando delle bande, secondo
te si può intravedere un parallelismo tra i
nostri complessi bandistici e le big band
americane di una volta, considerando che
le sonorità jazz nascono sì dai ritmi afroamericani, ma si suonano prevalentemente
con strumenti tipici della nostra cultura
musicale? Inoltre, anche il fatto di rivisitare
brani della tradizione locale, non può
essere un modo per creare un nostro jazz?
“Certamente, è quello che stiamo
cercando di fare noi. Con le bande però
il discorso è un po’ più complesso, perché
il repertorio tipico di un raggruppamento
bandistico presuppone una preparazione
tecnica non necessariamente troppo
sviluppata, cosa che nel jazz è importante.
Tuttavia, mi sembra che le bande oggi
spesso inseriscano anche il repertorio
jazzistico. Ma io andrei anche al di là
del discorso del jazz. Vedrei bene la
sperimentazione del repertorio bandistico
( S opra P aolo Fresu , in basso a sinistra R a F F aele C asarano )
con la tradizione popolare. In fondo la
banda è uno strumento popolare, ed
in quanto tale è auspicabile che possa
trattare, oltre alle grandi composizioni
dell’Ottocento, la musica tipica dei
luoghi”.
Cambiamo argomento. Tu hai musicato
già diverse pellicole. Che differenza c’è tra
comporre per un film e suonare davanti ad
un pubblico?
“Beh, è molto diverso. Musicare un film
significa calarsi in una sceneggiatura, in
un personaggio, in un ambiente, in una
fotografia; significa rispettare una storia
che è stata scritta. Io scrivo per diletto
per il cinema. Negli ultimi anni ho avuto
più di un’opportunità. Quando si scrive
per le immagini bisogna pensare a quelle
scene, mentre quando si compone per
sé stessi tutto dipende dal proprio stato
d’animo. Diciamo che c’è una sorta di
drammaturgia che ti obbliga a porti una
problematica diversa. E questo è molto
interessante. E’ molto limitante sotto certi
versi, ma ti permette di aprire delle porte
nuove, che altrimenti vedi lì e lasci chiuse.
Per me la scrittura per il cinema è stata
un suggerimento molto importante e
da quelle musiche mi sono poi mosso in
direzioni nuove ed inaspettate, verso le
quali di sicuro non sarei mai andato”.
Sei qui nel Salento a dar manforte a
questi ragazzi. Cosa consigli loro e a chi si
avvicina al jazz in generale?
“Consiglio di avere molta umiltà, di
affrontare le cose investendo tutto. L’umiltà
è importante perché di strada da fare
ce n’è veramente tanta, non solamente
per i giovani ma per tutti. C’è sempre da
imparare. Eppoi dico di investire tutto,
perché la cosa straordinaria della musica
è quella di essere uno strumento totale.
La musica non è solo fatta di note. Anche
alzarsi presto la mattina per prendere un
aereo è musica. E’ qualcosa che si deve
sentire dentro, altrimenti, si può essere il
più bravo musicista al mondo, ma non si
arriverà mai a trasmettere niente a chi
ascolta”.
E probabilmente il consiglio di Fresu non
vale solo per chi suona, sia jazz che altro,
ma anche per chi ascolta, tanto jazz e
tanto altro.
Massimo Ferrari
KeepCool
22
ICELAND: VIAGGIO NELLA MUSICA ISLANDESE
Cosa c’è al di là della Scandinavia,
verso occidente, oltre le Isole Fær Ǿer e
il Mare di Norvegia? Non chiedetemi le
coordinate geografiche perché sembra
non averle. Poi guardi una foto dei tetti
multicolori di Reykjavik e ti chiedi: che
strana gente abita queste terre? Oltre
100 vulcani su tutta l’isola, 5 eruzioni in
media l’anno. Che strana gente vive su
queste terre? Reykjavik, letteralmente “la
baia fumante”, ha un’Università dal 1911,
numerosi teatri e musei, 50 case editrici e 5
quotidiani, il tutto per centomila abitanti.
Gli islandesi hanno il maggior consumo
di libri pro-capite del mondo. Che strana
gente abita su quelle terre?
Gli islandesi non hanno cognomi, o
meglio hanno un nome e per cognome
il nome del padre più il suffisso –sson per
gli uomini e –dottir per le donne: Bjork
Gudmunsdottir, come dire Bjork la figlia
di Gudmuns, come si usa dire nei nostri
paesini quando si vuole far capire chi è
una persona, solo che laggiù è un interna
nazione a chiamarsi “il figlio di…”. Le
donne non prendono i nomi dai mariti.
E comunque più del 60% dei figli nasce
senza che la coppia sia sposata. Strana
gente questi islandesi.
Non è necessario andare indietro
nel tempo fino al primo vichingo che
colonizzò l’isola, oppure scrivere di Eric il
rosso, l’islandese che senza la bussola ma
con un coraggio difficile da immaginare,
scoprì
il
continente
americano
cinquecento anni prima di Cristoforo
Colombo; per capire la gente di quelle
terre basterebbe ascoltare un album
che in questi ultimi anni viene da quei
luoghi sperduti nell’oceano: decenni di
isolamento hanno prodotto qualcosa che
esplode nelle nostre casse come eruzioni
vulcaniche, geyser e terremoti.
E così Bjork figlia di Gudmuns, la punta
dell’iceberg,
capace
di
duettare
con orchestre di calici di cristallo, ci
fa immaginare solo lontanamente il
sottobosco musicale islandese. Voce ed
attitudine meravigliosa che si mostra a noi
stranieri sin dai tempi degli Sugarcubes,
primo gruppo rock islandese a diventare
conosciuto nel mondo con l’album Life is
too good nel 1988, gruppo che vedeva la
donna cantare con la sua personalissima
voce su una sonorità new wave
abbastanza comune per quegli anni.
Ma scendendo in profondità, guardando
la parte sommersa dell’iceberg, dentro
tutto questo immaginario ritrovo la musica
che scelgo per svegliarmi dolcemente, riscaldato dal freddo dei loro tintinni, sulle quattro corsie delle Lecce-Brindisi alle
7:30 mentre ogni mattina vado a “lavoro” avvolto dall’emozioni penetranti delle
loro accennate melodie e sincopi delicate. Oppure steso sul letto ad occhi chiusi
con in cuffia l’insistenza del caldo e glaciale tepore del freddo, la sera, a casa,
a fine giornata. Una strana sensazione
come un girasole nato su artiche prate-
rie di muschi e
licheni islandesi,
come scaldati
da un rovente
raggio di sole su
una lastra spessa di ghiaccio.
Scavano
solchi quando li
ascolto, MuM,
Yesterday was
drammatic, today is ok, ed il
futuro sarà sempre meglio.
Immagino una
serata tra le vie
di
Reykjavik,
la musica che
esce fuori dai
locali, ovattata,
si percepiscono suoni glaciali
di pop elettronico, Blindfold, ossia Biggi
degli Ampop, impegnato nelle morbide
increspature di un pop aggraziato, ai
confini del post-rock. Immagino Olvis,
moniker dietro cui Orlygur Thor Orlygsson,
mi avvolge con l’ormai tradizionale ed
orchestrale suono che i compatrioti Sigur
Ros, maestri di molti, hanno contributo a
creare.
Sono ormai abituato a questi suoni, le mie
orecchie non si spaventano, il cervello
li registra, li rimanda nelle braccia, nelle
gambe nel cuore e in tutto il resto,
facendomi vivere. E poi gli Einoma,
coloro che, con il loro suono glaciale
illuminato dai bagliori delle prime ore
del giorno, guardano maggiormente
alla musica extra-isolana, impercettibile
elettronica, a volte tenebrosa a volte
fresca, adepti della scuola Warp tuttavia
rivisitata in versione islandese, con tutte le
conseguenze ambient-cinematiche del
caso.
Seppure debolmente, una dolcissima
italo-islandese ci unisce a questo popolo:
una meravigliosa e dolce ragazza di
nome Emiliana Torrini che dopo il triphop di Love in the time of science del
1999 in Fisherman’s woman del 2005,
passa, strizzando l’occhio a Nick Drake,
ad un intimismo acustico fatto di chitarre
arpeggiate e racconti sussurrati. Calma
e serena, ci accarezza con la sua voce
armoniosa, raccontandoci con toni
delicati di amori ed amici, di speranze ed
attese, di paesaggi meravigliosi.
Ed infine, potrei anche non parlarvene,
ormai li conosciamo tutti, questi elfi
ancestrali dal nome Sigur Ros, i quali
racchiudono all’interno del loro suono la
genuinità innocente ed incontaminata
della loro terra, tra storie fantastiche e
leggende di piccoli esseri nordici che
escono dai nostri stereo nella più afosa
giornata in una città dal puzzo di tubi
di scappamento. Perché è questo
che sembrano offrire: una fuga. Una
( emiliana torrini )
semplice fuga dove noi stessi scegliamo
la piacevole direzione.
Bene, sono italiano ma se c’è un’origine
che rimpiango di non avere è proprio
quella islandese, e poco importa se
invidio principalmente quello che la
maggior parte degli islandesi sembra a
volte snobbare, poco importa se i primi
tre posti delle classifiche islandesi non
sono riservati a Bjork, Sigur Ros e Mum
o al massimo Emiliana Torrini come noi
potremmo immaginare, poco importa se
i primi tre posti delle classifiche islandesi
non differiscono poi tanto da quelli delle
classifiche del resto del mondo. Questi
islandesi non sono poi tanto strani quanto
vi volevo far pensare. Ma voglio che i
“miei” islandesi restino quelli delle canzoni
di Mum e Sigur Ros, cosi continuerò a non
aver più bisogno di alcuna medicina per
curare i miei mal di testa: il suono di Finaly
we are no one, un posto caldo e una
tazza di tè saranno sufficienti.
Federico Baglivi
Icelander Playlist:
Surgarcubes Life’s too good (Elektra,
1988)
Bjork
Homogenic (One little indian,
1997)
Bjork Vespertine (One little indian, 2001)
Mum Yesterday was dramatic, today is
OK (Thule Musik, 2000)
Mum – Finally we are no one (Fat Cat,
2002)
Emiliana Torrini
Fisherman’s woman
(Rough Trade, 2005)
Sigur Ros Takk (EMI, 2005)
Ampop - My delusions (SENA/ Dennis,
2005)
Blindfold - Blindfold (Resonant, 2005)
Olvis – The Blues Sound (Resonant, 2005)
Einoma – Milli Tònverka (Vertical form,
2002)
Stafraenn Hàkon aka Olafur Josephsson
– Ventill/Poki (Resonant, 2004)
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Pietro Grossi
Pugni
Sellerio
*****
Pietro Grossi compie gli anni il mio stesso giorno
e farà 28 anni, proprio come me. È ariete e
non gli interessa cosa significhi, proprio come
me. Ma Pietro Grossi ha scritto un gran libro,
ha in se il mestiere di scrivere e qui non ci sono
coincidenze. Chi si avvicina ai trenta, proprio
come me e Pietro, sente il trapasso, il passaggio
a un’età che molti chiamano adulta. Passaggi,
cambiamenti, che nel suo libro Pugni racconta
da sei angolature esistenziali. Tre sono i racconti
che lo compongono, in ognuno di essi Pietro
esamina due angolature, due vite nella stessa
storia che giungono a soluzioni o direzioni
diverse. Due protagonisti che agiscono e
reagiscono percorrendo tangenti. Questo fa
della raccolta corpo unico, panoramica sul
momento del cambiamento.
Per fare questo Pietro utilizza scenari molto
differenti uno dall’altro. Tra un racconto e l’altro
le concordanze però risaltano e rendono la
panoramica completa. Si capisce alla fine il
senso della scelta, si percepisce come, nella
loro diversità, alcuni momenti delle nostre vite
siano un punto nodale. C’è sempre qualcosa
23
che succede e ci avverte che di lì in poi nulla
sarà più uguale. Può essere un avversario,
un fratello o un amico. Boxe, il primo dei tre
racconti, è la storia di due vite che si incrociano
su un ring. Il Ballerino e la Capra avversari,
combattono uno contro l’altro, ma alla fine per
vincere su qualcosa che è solo dentro di loro.
Cavalli è l’iniziazione, la direzione che dividerà il
destino di due fratelli, legati ma diversi. Le scelte
e le vicissitudini li porteranno a intraprendere
strade, a rincontrarsi nel momento del
bisogno e a separarsi nel cammino della vita.
La scimmia infine è un tuffo nel passato. Un
presente surreale è l’occasione per vedere
tutto da una nuova ottica. Lontano dal cliché
del giovane scrittore, Pietro Grossi suggestiona
con un immaginario che sorprende per
ampiezza e varietà. Descrive tre mondi con la
capacità dello scrittore consumato, una pulizia
e un’essenzialità del linguaggio da fare invidia
e un senso del mondo fresco ma al contempo
maturo. È nato uno scrittore, ed è ancora
giovanissimo.
Osvalo Piliego
Coolibrì
24
Lo Stordimento
Jöel Egloff
Instar libri
****
Egloff è uno di quelli
che sarebbe piaciuto
a Céline, o per lo
meno
avrebbero
avuto un sacco di
cose da raccontarsi.
Entrambi parlano del
margine e lo fanno
senza girarci troppo
intorno perché sembra
ci siano dentro fino al
collo. Il protagonista
di Lo Stordimento vive il mondo però più
come Candide che come un Bardamu.
Non c’è pessimismo nella constatazione
del reale ma una reazione, un volo
che la fantasia concede, un’ironia che
rende tutto surreale. E ci sono, sotto
questo cielo perennemente grigio, affetti
sinceri, l’amicizia, la morte, consumati
tra un lavoro al macello, percorsi in
bici, un natale tenero nel suo squallore.
Sembra di rivedere i brutti, sporchi e
cattivi di Ettore Scola, perché la periferia
descritta è il senso stesso del margine, di
vite che scorrono lente sempre uguali
fronteggiando gli stenti, a contatto ogni
giorno con la morte, che porti negli occhi,
sui vestiti come un odore, sulla testa
come un pericolo imminente. Scanditi
da aerei che decollano, passano i giorni
raccontati da Egloff che riesce a fare
di queste pagine e di questi paesaggi
veri e propri quadri in cui la poesia trova
spazio tra le discariche. Una delle penne
più interessanti della nuova letteratura
francese.
Osvaldo Piliego
Trattato di ateologia
Michel Onfray
Fazi Editore
*****
In uno dei periodi
più oscuri e difficili
per il libero pensiero,
ecco un agile libello che rappresenta
la classica boccata
d’aria fresca. Il filosofo francese Michel
Onfray,
fondatore
dell’Università
Popolare di Caen, è
l’autore di questo
breviario irreligioso che, senza falsi pudori, punta a decostruire i tre monoteismi partendo dall’unica arma ancora
disponibile, la filosofia. Profondamente
libertario, lo scritto di Onfray è ricco di
spunti e citazioni storiche, senza che
questo impedisca all’autore una sana
e caustica ironia contro ‘la nevrosi infantile dell’umanità’. Cattolicesimo,
Ebraismo e Islam, in barba allo scontro
di civiltà, hanno più punti in comune
che differenze: la sottomissione, il gusto
macabro per la morte, la castità, la necessità di creare un aldilà che giustifichi
una vita di privazioni e sacrifici. Così, la
costruzione teologica si mostra in tutto il
suo traballante concentrato di pensiero
antistorico e antifilosofico, a partire da
una costruzione della vita che è patimento e rigetto dei piaceri, ma anche
obbedienza e abdicazione del pensiero
in luogo di una credenza fondata su libri
che si contraddicono pagina dopo pagina, che narrano storie palesemente
false, cariche di significati ambigui (basti pensare alla sessualizzazione forzata
della favola di Adamo e Eva). Ecco
come la reiterazione di una somma di
errori sia finita per diventare un corpus
di verità intoccabili.
Ilario Galati
Il percorso dell’amore
Alice Munro
Einaudi
****
La scrittura di Alice
Munro è fortemente
legata alle sue origini
canadesi. I paesaggi
dell’immenso Canada
sono infatti presenti
anche
in
questa
raccolta, e sono spesso
parte integrante della
vicenda, se non, come
succede a volte, i veri
protagonisti.
Lande
infinite attraversate da un famiglia in
viaggio in auto per far visita ai genitori,
come in Miles City, Montana, villini
estivi in prossimità di un lago (Lichene),
piccoli villaggi dove si torna dopo anni
passati altrove, portandosi dietro rancori
e nostalgie, voglia di cambiamenti. Il
paesaggio sta lì muto ad osservare le
piccole vite degli esseri umani, fatte
spesso di eventi insignificanti, privi
di valore. Quelle quotidianità che
definiscono la vita di ognuno, una miriade
di decisioni e cambiamenti infinitesimali
che si amalgamano per rendere unica
ogni singola esistenza, la Vita. Sono
cambiamenti rapidi e a volte sconvolgenti
per un uomo, lenti e millenari per la terra,
ma si assomigliano tremendamente. E la
Munro insiste proprio sui piccoli dettagli,
crea così i suoi racconti partendo dalla
mente dei suoi personaggi, indagandola
e facendosi attrarre dai segreti, dai ricordi
d’infanzia. Leggendo questi racconti
(già editi nel 1989 da Serra&Riva, ma
pubblicati in una nuova traduzione da
Einaudi), si scivola negli intricati meandri
del pensiero, si passa con naturalezza
dal presente al passato, grazie all’abilità
dell’autrice, nel giro di un punto o di una
virgola, si comprendono i perché di oggi
guardando ad uno ieri spesso remoto,
fatto di gente che non c’è più, di situazioni
sfocate nella memoria. Poco importa se
poi quegli eventi evocati siano accaduti
davvero o siano solo immaginati,
come il più delle volte succede a tutti.
Poco importa, perché la realtà è fatta
di impressioni, di immaginazione, il
più delle volte è la conseguenza dei
nostri pensieri e delle nostre distorsioni,
più che il succedersi di fatti. È questo
l’insegnamento primo di questi racconti,
insieme all’apprezzamento del valore
immenso delle vite semplici.
Anna Puricella
Il mago
César Aira
I Narratori Feltrinelli 2006
**
Lento, forzato, insoddisfacente. Mi appare
così l’ultimo romanzo
di uno dei più quotati
autori della narrativa
sudamericana: César
Aira. Voce originale
e sovversiva, Aira propone in questo breve
romanzo una storia
surreale, la storia di un
mago vero. Hans Chans (il suo nome era
Pedro María Gregorini) non era un imbroglione né tanto meno un illusionista dalle
doti eccellenti e da strabilianti trucchi.
Egli era un Mago, quello le cui capacità
e possibilità sono impensabili perché in
grado di cambiare e sovvertire il mondo.
E proprio per questa ragione non aveva
mai osato neppure provarle. È rimasto
nella vita un mago mediocre, di fama limitata e con qualche esigua apparizione
televisiva alle spalle.
Questo romanzo si apre con la ricerca di
un riscossa, la speranza di una svolta, il
bisogno di una rivalsa. E una convention
di illusionisti a Panama ne rappresentava
l’occasione giusta e attesa. Metafora dei
sogni e i desideri che a lungo rimangono
sospesi nella vita di una persona senza
che si possa o si riesca a far niente per
tramutarli in realtà, il racconto di questa
magia esistente solo in potenza lascia
spazio a molte riflessioni (quante cose
sapremmo e potremmo fare senza farle
mai?). Ma non basta, e il libro rimane
sospeso. Come se volesse dire tanto,
insegnare, suggerire, ma non trova il
modo giusto per farlo.
Valentina Cataldo
Sto da cani
Emiliano Gucci
Lain
****
Vite normali e a
loro modo speciali,
eventi che finiscono
per coinvolgere vite,
cambiarle, rovinarle
o salvarle sul ciglio
del baratro. Da una
parte gli occhi di un
bambino sul mondo,
dall’altra quelli della
morte che incombe.
Al centro un giovane uomo alle prese con la quotidianità
e a guizzi di ordinaria follia. Un romanzo, quello del giovane Emiliano Gucci,
che riesce a immortalare un variegato
campionario umano. Vite all’apparenza
normali, altre al margine, altre in divenire. Trait d’union sembra essere la storia
d’amore del protagonista ma è solo un
punto di vista. Abile nell’intersecare rac-
Coolibrì
conti diversi facendoli convivere a tratti,
lo scrittore dimostra mestiere di scrivere.
Sto da cani è un romanzo esilarante,
amaro e poetico, un libro a strati che da
un fulcro di partenza si dirama, un punto
di vista che pian piano si alza per fotografare dall’alto per poi tornare ad occuparsi dell’infinitamente piccolo. Colpi di
scena, improvvise sferzate attanagliano
il lettore, la scrittura agile e fresca scorre veloce con ritmo filmico. Ed è uno di
quei libri che non dispiacerebbe vedere
ben trattati in pellicola. Sto da cani è una
bella storia che vale la pena leggere e di
questi tempi non è poco. (O.P.)
L.C.I
(Letteratura chimica italiana)
Antologia
Venerea
****
Prendi tutto quello che vedi e comincia a scavare. Dopo il primo
strato, la patina
c’è qualcosa che
non tutti vedono o
che fanno finta di
non vedere. Anche per leggere
ci vuole stomaco,
non ci sono solo
storie d’amore, hai mai sentito parlare di
scrittura automatica? E di stati di alterazione? Se non hai mai provato Burroughs
l’impatto può essere straniante, ma non
puoi non restarci sotto. Esiste un’altra letteratura: La letteratura chimica italiana.
Questa antologia di racconti edita
da Venerea è come una guida alla
scoperta dei sotteranei capitolini e non
quelli raccontati da Gide. Esperienze al
limite, droga e sesso. Un libro che indaga
il confine vero e immaginato e lo supera.
Chi cerca il lieto fine ha sbagliato strada,
qui c’è solo la rappresentazione del vero,
del crudo, un’operazione a cuore aperto
a una città per scoprirne il male o solo una
faccia. Tra sperimentazioni linguistiche,
grafiche e nessuna concessione alla
censura questi racconti, quasi tutti
ambientati a Roma sono il campionario
di una nuova città invisibile. Come un
calcio nei denti...non è detto che alla
fine non piaccia. (O.P.)
La ragazza del secolo scorso
Rossana Rossanda
Einaudi
*****
L’esistenza di ciascuno è pezzo integrante di vita collettiva e le storie individuali
costruiscono tutte, nessuna esclusa, pagine e pagine, voluminose come a volte
esigue, di immensa storia comune. Ma ci
sono vite che, più delle altre, costruiscono
in coscienza e non per caso, e contribuiscono, agendo appunto con consapevolezza, al cambiamento sociale ed alla
trasformazione epocale. Sono vite che
spesso e volentieri neanche immaginano
25
quanto i loro particolari
agiti influiranno sul proseguire di tutti, impegnate
come sono a contrastare con sdegno quel che
causa loro disprezzo e riprovazione. La militanza,
dopotutto, è sentimento
urgente e pieno, e come
tale non ha criterio pensarlo in proiezione di un
domani: va operato qui
ed ora, pena lo smarrirsi, pericoloso, della sua indicibile necessità. Poi edificherà memoria, fermerà sul passaggio del
tempo quegli istanti di sicuro riferimento,
e avrà compiuto, con quel fissaggio, anche il suo senso futuro. È il caso, questo,
del vissuto robusto ed intenso di Rossana
Rossanda, signora ultraottantenne di rara
discrezione e finezza, che ha abitato e
“fatto” una significativa fetta di novecento italiano. A scuola da due massimi sistemi – la guerra ed il partito - è cresciuta
coltivando energia e combattività, per
poi formarsi come donna di scelte coerenti - le scelte prima le facciamo poi ci
fanno - e difficile coraggio. Antifascista e
fondatrice de Il manifesto, ci racconta in
queste pagine, sacre ed appassionate,
gli anni dell’impegno in prima persona,
della condivisione audace di idee ed intenzioni, della lotta vera e ad oltranza. E
lo fa con una scrittura lucida ed incisiva,
che non cerca alcuna raffinatezza - fatta eccezione per la naturale eleganza di
una prosa asciutta e pulita – e che ha il
solo obiettivo di ben rendere al lettore. Risultato, un registro puntuale di eventi, un
inno alla partecipazione, anche se difficile in tempi di dubbi insostenibili, e a tratti
anche un diario, toccante di impreviste
emozioni, capaci di sorprendere chi legge per poi abbandonarlo alla commozione, come nel caso delle righe svelte e
delicate sulla morte della madre – “Una
madre ed una figlia sanno poco l’una
dell’altra, per difesa ed affetto e pena.
Ora sarei più grande, potrei prenderla in
braccio, averla partorita” - sul risvolto di
copertina, l’essenza del testo intero, e la
dichiarazione di un amore folle: “il racconto di una vita: la politica come educazione sentimentale”.
Il Passo del Cammello
Questo amore
Roberto Cotroneo
Mondatori
****
Questo Amore,
è il romanzo di
una
assenza.
È la mancanza a muovere
tracce, piccole
memorie,
sensazioni
e
paesaggi. Rumori,
parole,
carte e libri.
Odori anche,
di tabacco, di
caffè, di cognac, di mare e di stradine
che tagliano la città, incroci d’attese e
di incontri. Edo era un uomo bello, con
un grande sorriso e occhi quieti, ti ci affezionavi, era facile, e lui ricambiava,
affettuoso, premuroso. Io non cercavo
una ‘farmacia’ e non avevo ancora “i
dolori dell’esistenza”. Una libreria si, la
cercavo. La sua era fatta per accogliere
ogni desiderio di scoperta. Ero giovane,
nel tuonare oscuro degli anni settanta e
per crescere ho scelto i libri, con il loro
silenzio, compagni e guida. Edo c’era a
curare ogni bisogno, più di altri che i libri
te li toglievano se troppo poco inquadrati nelle ideologie. Poi, ti dava fiducia,
ti lasciava da solo a perderti in cerca di
titoli, di frammenti di senso, lui intanto
andava via, per un caffè. Cotroneo con
Questo amore dona, a noi leccesi, a noi
‘sensibili’, un viaggio a ritroso, figurandosi attraverso i racconti di Anna, un Edo
che non ha mai conosciuto. Costruisce
un tempo, s-memora, dimentica il mondo, strania i luoghi, li rincorre, in allerta,
con una scrittura funambolica, fatta di
assoli dolorosi che osano piccole gioie,
sorrisi, speranze. Solo la poesia, i libri si
fanno realtà, veri, nel loro stare, nel loro
conservarsi, nascondendosi, tenuti in
scaffali. Una libreria - dopo le piccole
glorie del calcio giocato con particolarità di stile - dono di matrimonio, che
accoglie l’amore e un vento che sfoglia
e spagina, che dice versi. Un’andatura
malinconica rievoca un “non esserci in
forma di presenza…” è Edo che lo dice
“morire è solo non essere visto” e la
voce di Anna si consola, disponibile all’attesa rievocando la storia d’un amore
e di un’attesa.
Mauro Marino
Nel paese dei vicerè
Alessandro Leogrande
L’ancora del mediterraneo
****
Cosa è accaduto al movimento no global
dopo i giorni di Genova nel luglio 2001?
Perché una forza davvero nuova come
quella espressa dalle tante realtà che la
componevano si è lasciata domare dalle
logiche della sinistra istituzionale, tutta
votata alla lotta parlamentare? Come è
possibile per il movimento che si oppone
alla globalizzazione neoliberista reagire
al post-11/9, schiacciato tra l’incudine
(le bombe occidentali) e il martello (i
tagliatori di teste)? Sono alcune delle
domande alle quali cerca di rispondere
Alessandro Leogrande, giornalista e
scrittore tarantino, redattore della rivista
Lo Straniero e collaboratore di Popolare
Network e Radio Tre, in questo suo terzo
lavoro, edito dai tipi dell’Ancora del
Mediterraneo. Leogrande parte da
Genova - un seme sotto la neve, che
rischia di morire a causa del gelo anziché
germogliare - per passare in rassegna
alcune tra le esperienze più autentiche di
lotta dal basso degli ultimi anni, come la
lotta operaia di Melfi nel 2004, cercando
di tracciare un quadro coerente che
sfocia in una serie di considerazioni
cruciali per il futuro della sinistra italiana
e
internazionale.
Unico
strumento
disponibile, la non-violenza. A patto che
Coolibrì
26
sia attiva: attraverso alcuni ‘eretici’ del
novecento, da Ghandi a Don Tonino
Bello, da Luther King a Pasolini, Leogrande
ridefinisce una prospettiva concreta e di
ampio respiro basata su analisi rigorose.
Un saggio necessario.
Ilario Galati
20 Per Luca 1986-2006 chi non
ha memoria non ha futuro
AA.VV.
Ediz. Socialpress Milano
****
Milano 23 febbraio
1986, Piazzale Lugano, luogo abituale di spaccio,
tre persone discutono animatamente da venti minuti
alternando urla a
botte, due persone
fuggono in auto,
la terza, l’agente digos Policino,
prende la mira e spara, il suo proiettile fugge via e rimbalza. A pochi metri
Luca e Dario correvano a prendere la
filovia, in comune hanno la passione e
la vita, la lotta ed un desiderio, cambiare questo mondo affinché smetta di essere ingiusto e diventi un luogo ospitale
e accogliente per tutti gli esseri viventi,
umani inclusi. Un millesimo di secondo
e Luca incontra il proiettile che non sarebbe mai dovuto partire e che lo ucciderà poco dopo in ospedale. A distanza di vent’anni per ricordare Luca esce
questo libro con gli interventi di amici
ed intellettuali chiamati a raccontare
un percorso comune che caratterizza
il libro. La rielaborazione dei materiali
raccolti in questi anni, viene pubblicata
con un doppio cd musicale con brani di
23 gruppi ed un filmato su Fausto e Iaio
del Centro Sociale Leoncavallo uccisi a
Milano nel marzo del 1978.
Simone
Il Cantico dei Drogati
Don Andrea Gallo
Sensibili alle foglie
****
Il
secondo
lavoro
editoriale
di
Don
Andrea Gallo prende
nome da una canzone
di Fabrizio De Andrè
il
grande
profeta
laico. Don Gallo da
più di trent’anni vive
affianco di chi viene
colpito dalle sempre
più attuali politiche
sociali proibizioniste.
Uomo di chiesa e di campo, illuminato
come pochi, l’autore parte da un
presupposto ben preciso: “...le droghe
non sono vietate perchè fanno male,
ma fanno male perchè sono vietate”.
A chi lo accusa di volere una società di
drogati risponde che sono stupidaggini.
Legalizzare tutte le droghe significa prima
di tutto darsi nuove regole e non significa
rinunciare alla costante pratica della
dissuasione e della prevenzione che
verrebbero affiancate dall’educazione
e dalla riduzione del danno. Ridurre il
danno vuol dire ridurre le sofferenze
individuali e collettive che esso produce,
vuol dire non creare cittadini di serie B dai
diritti civili sospesi solo perchè assuntori di
stupefacenti. Non sono parole dolci nei
confronti del proibizionismo, e delle sue
dinamiche perverse e dei suoi paradossi.
Non ci si spiega perché le droghe più
nocive, alcool e psicofarmaci, non
sono affatto proibite anzi godono del
monopolio dello Stato. È molto realista
Don Gallo quando dice che non ci
sono ricette magiche ma è necessario
superare la logica della terapia autoritaria
rendendo il fenomeno gestibile dalle
persone che lo vivono e da quelle che
con esso interagiscono.
Simone
Profilo del dada
Valerio Magrelli
Laterza
****
Valerio
Magrelli
è
tra i più importanti
poeti
italiani
contemporanei.
Ha al suo attivo
quattro libri di poesia,
l’esordio
folgorante
Ora serrata retinae,
Nature e venature,
Esercizi di tipologia
e Didascalie per la
lettura di un giornale.
Nel 2006 uscirà nella
prestigiosa collana bianca dell’Einaudi
il suo nuovo lavoro in versi. È stato il
vincitore dell’ultima edizione dell’Olio
della Poesia, manifestazione letteraria
che ogni anno si svolge a Serrano. Ma
Magrelli, docente di Lingua e Letteratura
Francese presso l’Università di Pisa, è
anche autore di brillanti saggi critici, due
dei quali recentemente dati alle stampe.
Profilo del dada, edito in una prima
occasione nel 1990 da Lucarini, è stato
ripubblicato dalla casa editrice barese
Laterza. In questo testo Magrelli, a quasi
un secolo dalla nascita del Dadaismo, la
più radicale delle avanguardie storiche, si
sofferma sulle caratteristiche rivoluzionarie
di un movimento che non sembra avere
ancora esaurito il suo corso. Il termine
dada, casualmente ricavato da “un
tagliacarte scivolato incidentalmente
tra le pagine del dizionario” (Larousse),
fu da subito sinonimo di rivolta furiosa
e negazione totale non solo nei
confronti della società, ma addirittura
nei confronti dell’arte stessa, in quanto
pur sempre prodotto della civiltà
organizzata. Infatti Dada è anche contro
i movimenti artistici contemporanei, è
anticubista, antifuturista, antiastrattista,
anticostruttivista,
Dada
è
contro
l’irrazionalismo e il sentimentalismo degli
espressionisti, contro i principi eterni,
contro l’immobilismo, contro i proclami
di universalità, contro la perfezione,
contro l’ordine, contro ogni tipo di
dogma. Fra cronaca e teoria, in questo
studio Magrelli ricostruisce la storia di un
movimento che sostituì la provocazione
alla vocazione, l’operazione all’opera,
il gesto al manufatto, fino a toccare il
punto estremo dello sperimentalismo
moderno.
Rossano Astremo
Derisioni notturne
Marco Fincardi
Edizioni Spartaco
****
Charivari,
Rough
music, Katzenmusik o scampanata:
chiamatela come
volete ma la sostanza non cambia. Se
il popolo si incazza
e scende in piazza
inizia a rumoreggiare con tutto quello
che trova. La pratica è in voga almeno dal Trecento (anche per motivi
molto più futili come feste di matrimonio mal pubblicizzate nel paesino) e ritorna sistematicamente nella storia dei
paesi di tutto il mondo. Il femminismo, il
movimento del 1977, i disperati del sudamerica e i no global tutti prendono
in mano pentole e oggetti “percuotibili” per mettere in scena delle “serenate
alla rovescia” (come recita il sottotitolo
di questo interessante libro) ricche di
rabbia ma anche di umorismo e ironia.
Una carica emotiva che viene ripercorsa dall’autore Marco Fincardi attraverso una attenta e dettagliata analisi che
passa in rassegna racconti e saggi degli ultimi due secoli, con testimonianze
di scrittori e di intellettuali. Un racconto
che parte dalla più clamorosa scampanata degli ultimi anni, quella del 13 marzo 2004 a Madrid nella notte che precede le le elezioni che portò alla vittoria
di Zapatero contro il premier Aznar, reo
di aver accusato ingiustamente l’Eta
per la strage terroristica che due giorni prima era costata la vita a circa 200
persone. Qualche scampanata in più
anche in Italia non farebbe male.
Scipione
L’eterna cosa peggiore
Tony Sozzo
Lupo editore
***
Ottiero Ottieri l’avrebbe definita “un’irata
sensazione di peggioramento”. L’inquietudine di non riconoscersi in quello che
ci circonda, di non trovare un ruolo o
semplicemente di non accettare quello
assegnatoci. Ci si arrovella per capire il
motivo, per trovare se stessi e riconoscersi
nel mondo. Lo si può fare con l’ironia di
Woody Allen o grazie agli insegnamenti
dei grandi pensatori. Tony Sozzo in questo suo primo romanzo interroga una
storia. L’apparenza di una vita semplice
Coolibrì
nasconde uno
sguardo attento
sul mondo. Spettatore della quotidianità, protagonista e vittima
della storia, la
voce narrante
percorre le vicende di L’eterna cosa peggiore e le esamina,
le studia. Ecco
che quello che
potrebbe essere
il classico romanzo di esordio su
un lui e una lei e un’estate sullo sfondo si
trasforma in qualcosa di più. La prospettiva è sfalsata, non si accontenta di scorci
di vita, e scava per trovare risposte. C’è il
disagio di sentirsi fuori luogo e fuori tempo, di sentire una passione come quella
della scrittura (il protagonista è alle prese
con la stesura di un romanzo) non accettata dalla famiglia, dai coetanei. C’è il
desiderio celato di essere come gli altri e
semplificare le cose ma si è troppo avanti
e non si può fare finta di niente. Il primo
romanzo di Tony Sozzo è coraggioso, si
sposta dalla semplice narrazione per ambire ad altro. Tony è poetico, romantico,
ironico, cinico, è bravo.
Osvaldo Piliego
27
IL RECIDENCE LAF
Otto Mesi in Residence è il titolo della nuova pièce di Alessandro Langiu, giovane
autore e attore tarantino, esponente del
cosiddetto teatro della narrazione. Così
come aveva fatto per il suo primo spettacolo, Venticinquemila Granelli di Sabbia,
Langiu mette in scena una storia vera,
che affonda le radici nel dramma del
mobbing: nel 1997 l’Ilva di Taranto, il più
grande siderurgico d’Europa, decide di
“confinare” alcune decine di dipendenti
all’interno della famigerata Palazzina LAF.
Si tratta in gran parte di lavoratori “scomodi”, per lo più sindacalizzati, che non avevano accettato la cosiddetta novazione,
ovvero la proposta da parte dell’azienda
di lavorare con mansioni inferiori a quelle
precedenti. Pratica del resto vietata dallo
Statuto dei Lavoratori. All’interno della fatiscente palazzina non c’è niente e i lavoratori sono costretti a passare otto ore della
propria giornata senza avere la possibilità
di lavorare. Parcheggiati, esclusi, ridotti
alla stregua di macchine in disuso, vengono vessati sia dai capetti che dai colleghi.
Molti di loro si ammaleranno gravemente.
Pochi giorni fa la condanna definitiva per
violenza privata e frode processuale nei
confronti di patron Riva, suo figlio e altri
dirigenti.
Langiu sceglie un titolo ironico e sagace
per raccontare il periodo ‘di confino’ subito
da questi lavoratori - la loro quotidianità
spesa tra le mura della palazzina attraverso le parole di Cataldo Sancio
Parise, un impiegato trentenne che cerca
di resistere al tentativo di retrocedere alla
qualifica di operaio.
“L’idea di lavorare a questo soggetto risale
a molti anni fa, quando entrai in contatto
con alcune persone che avevano
vissuto direttamente quella vicenda. Solo
che all’epoca non avevano voglia di
parlarne. Era ancora troppo vivo in loro
quel ricordo”, sottolinea Langiu. “Un anno
fa ho incontrato altri mobbizzati. Abbiamo
cominciato a vederci ed è nato Otto Mesi
in Residence”. Il residence, appunto, luogo
per antonomasia asettico e impersonale:
“è un non-luogo, un posto che tu riempi
per un tempo limitato e quando andrai via
tornerà ad essere tale e quale a prima”.
Una forma di violenza tale che in molti
fecero fatica anche solo a capire: in Italia
si cominciò a parlare compiutamente di
mobbing solo dopo che la storia di questi
lavoratori “indesiderati” acquistò spazio
sui quotidiani e sui media in genere, il
che avvenne piuttosto in ritardo. “Gli
stessi lavoratori non capivano quello che
gli stava succedendo” continua Langiu,
che in quel periodo sente la necessità
di incontrare due personaggi chiave di
questa vicenda: il pm Franco Sebastio e
la psichiatra Marisa Lieti. “Grazie a loro
ho compreso il meccanismo che c’era
dietro questa violenza, sul piano giudiziario
e su quello psicologico. In particolare
la dottoressa Lieti mi ha permesso di
vedere le ragioni che alterano in maniera
importante l’esistenza delle persone”.
Una storia paradigmatica, che nasce
nell’acciaieria di Taranto ma che
potrebbe benissimo essere stata vissuta
dagli operai di Porto Marghera piuttosto
che dagli addetti della Fiat di Melfi:
“Anche di fronte ad una platea estranea
al contesto che racconto non sento la
necessità di introdurre il tema, perché
purtroppo l’esperienza della disperazione
legata a vicende del lavoro è tutt’altro
che ignota. C’è anche un importante
precedente storico, quando nell’80 la Fiat
avviò la cassa integrazione guadagni che
provocò – si stima - il suicidio di circa 160
lavoratori e il fortissimo ricorso alle cure
del Centro di Igiene Mentale di Torino da
parte dei cassintegrati”. Sono vicende
dolorose da ascoltare quelle narrate da
Langiu, in primis per coloro i quali hanno
vissuto vessazioni di questa portata. “Il mio
raccontare è intimamente legato alle cose
che vedo, ai luoghi che mi appartengono,
al mio territorio, ma il mio modo di fare
teatro coincide naturalmente con la
mia visione politica delle cose. Cerco di
fare oggetto di discussione vicende che
sono portatrici di violazioni di diritti o di
luoghi” conclude Alessandro, “anche
perché il mio territorio continua a subire
imposizioni che vengono dall’alto, vedi la
questione del rigassificatore che vogliono
fare a Brindisi o a Taranto”. Una pagina
di soprusi e abusi che Langiu racconta
con competenza e passione, facendo
comprendere compiutamente il grado di
violenza celato dietro comportamenti di
esclusione che hanno avuto ripercussioni
serie sull’integrità mentale dei “reclusi”. Una
ferita che avrebbe potuto restare aperta
se la Cassazione non fosse intervenuta in
via definitiva. Tra due mesi sarebbe infatti
arrivata la prescrizione.
Ilario Galati
Coolibrì
28
METTERSI NEI PANNI DEL
Intervista ad Alessandro Golinelli
Pubblicato lo scorso anno da Marco
Tropea Editore, Le rondini di Tunisi è uno
dei pochi romanzi italiani dedicati alla
delicata questione dei rapporti tra il nostro
paese e quelli del Maghreb. La chiave
usata da Alessandro Golinelli per narrare
le vicende di un gruppo di giovani tunisini
ci è sembrata particolarmente giusta:
non ci sono né un giudizio precostituito né
un’ostilità irrazionale, naturalmente, ma
neppure il pietismo e il buonismo di chi parla
e scrive senza conoscere la realtà. Di questo
e di Fi Jerda (“Al campetto” in arabo), il
lungometraggio in digitale realizzato con
un budget ridottissimo dallo stesso Golinelli
con Rocco Bernini, abbiamo parlato con
l’autore.
Le rondini di Tunisi nasce evidentemente
da una conoscenza profonda della realtà
del Nord Africa. Da quanto tempo frequenti
quest’area geografica e culturale?
In realtà quando ho cominciato a scrivere il
libro nel 2004 non era molto che frequentavo
il Maghreb. Ci ero stato come turista e
ne avevo già anche parlato in un lungo
capitolo di Come ombre, Le petit voleur
de Bagdad, ma poi ho avuto l’occasione
di conoscere molto bene alcuni ragazzi
arabi qui in Italia e di frequentare a lungo
la Tunisia e le loro famiglie, ho preso una
casa lì, ho imparato l’arabo abbastanza
decentemente, e ho studiato, letteratura
araba, sociologia, storia...Insomma ho fatto
un lavoro di ricerca e...
Quello che colpisce di più nel libro è il punto
di vista. Non è il nostro, quello occidentale di
scrittori come Paul Bowles o André Gide, ma
quello dei giovani arabi che si confrontano
con il cosiddetto “mondo civilizzato”. Come
sei riuscito in un’impresa così difficile?
Mettersi nei panni dell’altro è il modo
migliore per costruire una morale che non
sia fanatica. Lo suggerisce il filosofo ebraico
Franz Rosenzwaig, e anche Gesù Cristo...
Ma è anche il processo fondante la grande
letteratura dell’Ottocento e non solo, penso
soprattutto ai grandi romanzi di Manzoni,
di Dostoevskij e Tolstoj, o anche Flaubert e
Balzac, solo per citarne alcuni. La letteratura
contemporanea invece, soprattutto italiana
e americana, si concentra sull’ombelico
dell’autore con la presunzione che sia, per
citare Jovanotti, l’ombelico del mondo.
Credo che ci siano temi più interessanti
che l’ombelico di uno scrittore occidentale,
fra questi il confronto con la cultura dei
nostri vicini arabi, e non solo per la sua
attualità. Quando ho deciso di affrontarlo
però mi sono trovato di fronte a un bivio
che sembrava irrisolvibile. Venivo da un
paio di anni di studi sulla globalizzazione
che poi ho riassunto in una saggio, “Il volo
di Margherita”, che si può leggere sul mio
sito, (wwww.alessandrogolinelli.it). Quegli
studi mi hanno permesso di rileggere la mia
cultura come occidentale, appunto, e non
assoluta. Una cultura in cui mi riconoscevo,
sì, ma di cui non condividevo più tutti gli
aspetti. Non volevo quindi scrivere una
storia dal punto di vista occidentale. Ma
non potevo nemmeno scrivere una storia
dal punto di vista degli arabi, perché
non sono arabo, anche se lo sono i miei
personaggi. E nello stesso tempo mi dicevo
che in fondo se uno vuole leggere una
storia araba si può leggere gli originali. Il
mio pubblico è occidentale. Ho introdotto
così la figura del finlandese, una sorta di
mediatore di interprete fra le due culture. In
ogni caso ho ambientato la storia lì. Il qui del
libro, che si doveva chiamare Qui e altrove,
è appunto laggiù, mentre l’altrove è l’Italia,
Milano in particolare. Ho quindi cercato di
dare il punto di vista di un luogo, attraverso
le voci di personaggi, anche occidentali, e
cercando di mettermi nei panni di chi viveva
laggiù, pur senza perdere la mia identità
gay, atea, comunista, spregiudicata se
vogliamo.
Oltre alla dialettica tra i personaggi laddove quello che potresti essere tu, “il
finlandese” è un po’ defilato - ce n’è anche
una tra i luoghi, tra il sole della Tunisia e il
grigiore di Milano. Pensi che la perdita di
calore e di umanità delle nostre città sia
irreversibile?
Sì, lo è. Ma gli extracomunitari, come i
meridionali di un tempo, questo calore ce
lo riportano.
Un romanzo come Le rondini di Tunisi può
essere molto più utile di un saggio per
aiutare la comprensione reciproca tra due
culture che molti vorrebbero contrapposte.
Cosa ne pensi?
Spero che lo sia, era nelle mie intenzioni.
Non credo però nemmeno che si possa
parlare di due culture. Credo che si possa
parlare di differenze all’interno della cultura
occidentale mediterranea e non. Io per
cercare di mettermi nei panni di laggiù sono
ricorso anche ai ricordi dell’infanzia, quando
abitavo in un paesino delle cinque terre in
Liguria. Se le due culture fossero davvero
così differenti forse non ci sarei riuscito.
Hai avuto la sensazione che di questo libro
non si sia parlato abbastanza proprio per
il clima di intolleranza che si vive in molte
parti del nostro Paese? Non dico censura,
ma... quasi?
C’è molta censura. Sorvolo sul fatto che
continua il pregiudizio sugli scrittori gay,
da parte di molta critica siamo ritenuti di
per sé poco interessanti e comunque si
ritiene che non abbiamo nulla da insegnare
agli etero o che i nostri temi non siano
universali... Ma in questo caso c’è di più.
Io non ho descritto gli arabi come degli
integralisti fanatici – come servirebbero per
la destra - e nemmeno delle vittime totali,
morte di fame e che suscitano pietà come
servirebbe o piacerebbe a certa sinistra.
Nemmeno li ho fatti dei delinquenti totali.
Li ho descritti come persone diverse, che
amano scopano, trasgrediscono, e fanno
tutto quello che fanno i giovani della loro
età e della loro classe sociale. E questo è
scomodo. In più poi li ho fatti vedere come
persone che fuggono dalla dittatura in
cerca di libertà e trasgressione e questo è
scomodo perché certe dittature piacciono
alla destra, perché tengono a bada gli
islamici, e alla sinistra perché si vantano di
essere arabi moderni e islamico moderati
e quindi... Poi chiaro, non è che non se ne
è accorto nessuno, anzi... Però la cultura
soprattutto di sinistra mi sembra che insegua
un po’ troppo le mode falso trasgressive
americane per sentirsi più moderna, forse...
Come pensi sia stato possibile per un
popolo di emigranti come quello italiano
dimenticare la sua storia per approdare in
alcuni casi al razzismo?
Gli europei hanno la memoria cortissima.
Anzi gli occidentali ce l’hanno. E non
potrebbe essere che così per una cultura
che si vanta di cambiare e di essere
sempre più avanti delle altre. Guarda cosa
è successo con l’olocausto. Fra un po’
sembrerà che sono stati gli arabi a costruire
i campi di sterminio, e non i tedeschi
cristiani... In Italia poi c’è anche il fattore
Lega. Un partito xenofobo e razzista che
è stato portato al governo da Berlusconi,
per i suoi interessi, cosa che in altri paesi
normali non sarebbe potuto succedere. In
Italia c’è al governo una destra becera e
cafona, che si vanta del proprio razzismo. Si
danno targhe premio a personaggi come la
Fallaci che si meriterebbe solo una lapide...
Ci sono organi di stampa come Libero o la
Padania che inneggiano alla guerra santa
e allo scontro di civiltà, e tutto per creare un
capro espiatorio da usare per mantenere il
potere. Ma è un discorso lunghissimo...
Cosa pensi del cosiddetto turismo sessuale?
E’ dai tempi di Oscar Wilde e André Gide
( A lessandro
Coolibrì
LL’ALTRO
lessandro golinelli )
che il Maghreb è meta prediletta da molti
omosessuali. Proprio come lo era l’Italia
nell’Ottocento e ai primi del Novecento.
Il turismo è sempre sessuale. O meglio lo è
quello giovanile o dei single. Si parte sempre
in cerca di un’avventura. O comunque
spesso. Sennò perché andare a Ibiza,
Mikonos o anche a Rimini? Però, anche
se la modernità sta cambiando le cose, in
Nord Africa è particolarmente facile avere
un’avventura sessuale. C’è una sessualità
repressa e sfrenata allo stesso tempo e...
Insomma il mito dell’arabo macho persiste
ancora. Certo ora, rispetto ad alcuni anni
fa, soprattutto nelle città, il denaro conta
molto. Ma spesso è una scusa e comunque
non si paga mai qualcuno perché altrimenti
muore di fame, ma solo per qualche vizio,
una maglietta o magari la ricarica del
cellulare. E se pur meno di prima c’è anche
moltissimo sesso solo per piacere...
Pensi che le popolazioni del Nord Africa
riusciranno a mantenere una loro identità
e una loro purezza nello scontro/confronto
con il consumismo occidentale?
Ovviamente no. Certo stanno cercando
una loro strada, ma noi cerchiamo di
impedirglielo, di far prendere a loro la strada
che ci è più comoda e redditizia. Ma questo
è un discorso davvero troppo complesso
per riassumerlo in poche righe. Posso solo
dire che però se noi pretenderemo che
tutti prendano la nostra stessa strada non
arriveremo da nessuna parte.
Giancarlo Susanna
29
IL DOLORE NELLA PROSA NITIDA
DI GABRIELE DADATI
Sorvegliato dai fantasmi, questo il titolo
scelto da Gabriele Dadati per la sua ultima
fatica, una raccolta di nove racconti più
una lunga dedica finale alla madre, edita
da peQuod. Le storie narrate da Dadati non
appartengono a un unico universo. In questo
libro si incontrano scenari di vita quotidiana:
una madre e il suo delicato rapporto di
amore e gelosia con il figlio, il ricordo amaro
e sarcastico di un amico scomparso, la lenta
agonia di un vecchio narrata da un giovane
medico, la struggente elegia dell’amore
materno di una giovane donna con l’illusione
di una vita migliore. Ma ci si imbatte anche
nel lucido delirio di una dottoressa italiana
in un panopticon su un’isola greca, nelle
disarmanti dissertazioni teologiche di un
carcerato, nella vera arringa di difesa di
Charles Manson dopo il massacro di Cielo
Drive. Mille altre storie potevano emergere
dalla penna dello scrittore. Quel che unisce
i frammenti è la mirabile capacità narrativa
di Dadati di scavare senza remore nelle
profondità dell’animo umano. Quello di
Dadati è talento innato nel comporre ritratti
nitidi e implacabili. Vita e morte, sentimenti,
desideri, illusioni, ipocrisie sono mostrati con
un’evidenza che atterrisce, grazie a una
scrittura dominata da una cruda e gelida
eleganza.
Nella successione delle storie, in cui si
alternano il tema della nascita, della
famiglia, della morte, il dolore è una
costante che sembra ritmare lo scorrere
delle pagine…
Sì, c’è il dolore di cui parli, certamente. È un
dolore simile a quello che prova chi ha avuto una gamba ingessata e poi deve tornare
ad usarla. Prova un dolore sordo e costante, non lancinante e improvviso, ma prova
dolore ogni volta che appoggia il piede.
Questo dolore è “positivo”, perché diventa
il tramite per raggiungere un risultato. È il dolore della “crisi”, che significa prima di tutto
“cambiamento”. Cambiare stato significa
affrontare fratture e ricomposizione, quindi dolore, ma può portare a una “vittoria”,
a un traguardo. I personaggi del mio libro
sono identici a città che siano state assediate per anni: a un certo punto riescono
a rompere l’assedio, spalancano le porte e
sentono una forte vertigine. L’aria fresca li
stordisce. S’era persa l’abitudine. E questo è
doloroso. Ma quando riescono a riprendersi,
quando la città impara a usare i propri polmoni, non c’è niente di più bello. Per i miei
personaggi è così: anche se non sempre
“vincono”, sempre ci provano, nonostante
il dolore. La loro cifra non è il nichilismo, ma
una vitalità irriducibile.
Un altro elemento davvero gradevole della
tua raccolta di racconti è la semplicità
e chiarezza stilistica. Mai un periodo che
stona, tutto sembra sempre essere calibrato
alla perfezione. Come si raggiunge un livello
di scrittura così razionale?
Per quel che riguarda questo libro ti dirò:
volevo affrontare delle cose difficili come
il processo Manson, il manicomio dell’isola
di Leros, la vita di coppia, la morte dopo
una lunga malattia ecc. e sapevo di poter
essere in ogni momento contestato. Parlare
del rifiuto di una madre per il figlio o della
difesa che Manson si sarebbe meritato in
tribunale è molto contestatibile. Allora ho
cercato una lingua lenta, che procedesse
per successive variazioni, passettini in avanti
e non slanci improvvisi, in modo da creare
una maglia dove anche gli anelli deboli del
ragionamento venissero nascosti. La lingua è
la mia corazza. Ho rivisto la prosa mille volte:
dovevo essere inappuntabile per far valere
le mie ragioni. La scrittura per me è un fatto
etico e civile insieme, oltre che artistico.
Nel libro c’è un racconto che è una sorta
di riscrittura di L’avventura di due sposi.
Quanto conta Calvino nella tua formazione
e quali sono i maestri nei confronti dei quali
ti senti debitore?
A parte il Calvino resistenziale, il resto non mi
appassiona. Amo tanti altri scrittori. Diciamo
Cechov e Dostoevskij (e chi non li ama?),
Dagerman e Bernhard, fino ad arrivare a
Dino Buzzati per esempio. Tra le cose che
ho letto di recente mi sembra bello l’ultimo
Bret Eston Ellis, Lunar Park. Detto questo, non
so se sono i miei maestri. Perché nella mia
testa saranno annidati anche i mille libri che
non ho amato, oppure i mille che ho trovato
onesti ma non eccellenti, e quando devo
scrivere magari agiscono anche quelli, e
in maniera determinante. Del resto come
chiunque ho letto molti più libri superflui
che libri determinanti nella mia vita e tutto
questo è il mio patrimonio.
Stai già lavorando ad altri libri?
Sto scrivendo un romanzo. Per adesso
si chiama Falsopiano, è ambientato nel
dicembre di un imprecisato anno dopo il
2000 e parla di cinema, rapporti di coppia
e apocalissi imminenti. A un certo punto
piovono anche delle rane.
Rossano Astremo
Be Cool
30
I FUGAZI MI HANNO
SALVATO DALLA CALVIZIE
Ebbene si, lo devo ammettere, credo
proprio che siano stati Ian MacKaye e soci
a salvarmi da una prematura caduta dei
capelli…vi spiego come: musicalmente la
fine della beata fase dell’infanzia, subito
dopo le prime grosse pulsioni ormonali
gentilmente concesse da Madonna,
aveva un solo nome: metal!
In fondo, chi di noi non è mai stato
metallaro, almeno per un giorno? Dai
su…
Io si, io lo sono stato, e di conseguenza
i miei capelli erano lunghi e selvaggi (e
tanti…).
L’opera era ovviamente completata da
tutto ciò che serve ad un metallaro per
potersi identificare come tale: giubbotto
chiodo, vestiti neri, toppe ovunque e
magliette con scritte allucinanti.
La mia t-shirt dei Napalm Death era
come una continuazione della mia
pelle, semplicemente un ultimo strato
epidermico superficiale di cotone, ormai
in grado di sudare e puzzare. Le scritte
sulle maglie erano enormi, un metallaro
lo riconosci anche da un elicottero in
volo…
Anche il logo Godflesh sulla mia maglia
era impressionante: una volta mi apparve
Dio in sogno e mi disse: “Ennio! Perché hai
il mio nome stampato così in grande sulla
maglia?”
Vaglielo a spiegare.
Ma torniamo ai capelli.
I capelli lunghi rimangono il marchio di
fabbrica dei metallari (superficialmente
come la cresta per il punk old school, il
pitbull per il punkabbestia, l’aria scazzata
per il nerd indie rocker, i vestiti 16 volte più
larghi per i b-boys, ecc…): più sono lunghi
più sei metal!
Inoltre, a seconda di come li acconci,
puoi far capire la tua reale inclinazione:
lunghissimi incontaminati per death
metal e grind core, frangettone per glam
rock e street rock, doppio taglio interno
per metal core tecnologico, ecc…
Agitare testa e capelli al ritmo di musica
metal (head banging) diventa la tua
occupazione principale, il reale motivo
per cui li hai cresciuti, ed eccoti pronto
ad agitare la testa ai concerti, in casa
con lo stereo alto, in autobus, in classe
durante la lezione, in fila alla cassa al
discount…
Anche per me tutto questo è stato bello
ed avvincente.
Però purtroppo questa non è una storia
a lieto fine, agitare i capelli conduce a
dei risvolti tragici: il cuoio capelluto si
indebolisce, il capello si sfibra e le prime
timide stempiature lasciano spazio a
danni irrecuperabili per i capelli (per
non parlare dei muscoli della cervicale,
i miei ad esempio sono stati totalmente
compromessi dall’uscita del doppio Lp
dei Metallica: And Justice for All).
I primi rimedi sono quelli più immediati:
un uso smodato della bandana alla
Axl Rose, convincendo gli amici che il
rock dei Guns’n Roses non è mai morto
e che tu sei li in attesa dell’uscita del
nuovo album; indossare occhiali da sole
giganteschi alla Slayer, alti fino alla fronte,
un po’ perché in fondo il trash metal lo
hanno inventato loro, e poi perché il sole,
nonostante siano le 23, vi da fastidio.
In ultimo arrivano drastiche pelate a zero
dei capelli, accompagnate da scuse
terribili: “sai…ho trovato lavoro, così con
questi soldi mi seguo tutta la tournee
cilena degli Iron Maiden…e quindi li ho
dovuti tagliare…”, oppure patetiche
arrampicate dal sapore moralista:
“…nonostante io sia rasato mi sento
metallaro dentro!”, oppure: “…non sono
i capelli lunghi che ti rendono metallaro”,
frase con la quale nei paesi Nord europei,
ad alta densità di metallo, si rischia una
denuncia!
L’ultima fase, in ogni senso, è quella del
cappellino: i capelli cadono? Io indosso
sempre un berretto!
Precisamente un berretto di lana
nero d’inverno ed un berretto con la
visiera in primavera-estate, cappello
che nasconde e maschera la caduta
lasciando fieramente uscire i capelli
(ancora) lunghi da dietro (alla Hulk
Hogan, per intenderci).
E quindi ti ritrovi in spiaggia amici metallari
(sempre bianchi, il vero metallaro
( sopra i F ugazi , in basso a sinistra axl roses )
respinge i raggi del sole) che indossano
cappellini con visiera degli Impaled
Nazarene anche per tuffarsi dagli
scogli, oppure in giro durante splendide
giornate primaverili che indossano per
sbaglio il cappello di lana nero (“quando
sono uscito da casa faceva freddo…”)
e sudano come Galeazzi + Iggy Pop +
Paolo Bonolis.
Ma io no.
Io non ho ceduto a tutto questo, la mia
curiosità mi ha spinto oltre.
Il perché è scritto nelle note e nei testi dei
Fugazi, di 100% dei Negazione, nei dischi
degli Agnostic Front e non solo.
Ancora diciottenne e vagamente votato
al metal core tecnologico industriale, e
soprattutto capellone, mi spingo verso la
gloriosa scena Hard Core Do It Yourself
legata alla masseria Maizza di Fasano,
dove incontro gente con tagli di capelli
regolarissimi che ascolta musica molto
più interessante di quella che mi sorbivo
allora quotidianamente.
Lo stesso anno ho la fortuna di conoscere
di persona a Roma l’assoluto Mick Harris,
ex batterista tornado dei Napalm Death,
e mi stupisco di trovarlo totalmente
disincantato e con un taglio di capelli
regolare.
Basta! Taglio tutto!
Ed oggi, quando con i vecchi amici
metallari (praticamente una fase della
vita) ricordiamo i concerti visti insieme di
Metallica, Sepultura, Confessor e molti
altri sono uno dei pochi a pettinarsi un po’
prima di uscire da casa e puntualmente
strizzo
l’occhio
specchiandomi
nell’ingresso del mio appartamento
sussurrando con un ghigno allegro:
“Grazie di tutto Ian!”.
Ennio Ciotta
Be Cool
Be Cool
Il caimano
Nanni Moretti
Sacher Film
**** 1/2
Il caimano è un animale simile al coccodrillo, di dimensioni inferiori ma al
pari di esso vorace e lesto. Spietato
e dalla stretta mortale il caimano non
mangia, divora. E non si sazia mai.
Ci sono film che vedono nascere il
loro titolo ancor prima della sceneggiatura e di sicuro l’ultimo lavoro di
Moretti è uno di questi. A distanza di
ben cinque anni dall’intimo La stanza
del figlio, Il caimano invade le sale e
fa subito centro. A prescindere dalla
propria fede politica. Notoriamente
Moretti non è uno dei più stretti amici del Premier, ma al di là dell’aspetto
propagandistico, il film è un piccolo
gioiello per forza evocativa e livelli di
lettura. Tanto che definirlo schierato
sarebbe umiliante, sia per il film stesso
oltre che per la propria coscienza critica. Il caimano è un lavoro che riesce
nello stesso momento a parlare spedi-
Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico
31
il cinema secondo coolcub
tamente più lingue, a riflettere su una
nazione allo sbando come sul cinema,
passando per una vicenda come tante. La storia da cui si dipana il tutto è
quella di Bruno Bonomo (uno straordinario Silvio Orlando), produttore in crisi
che negli anni ’70 aveva regalato al
cinema italiano film di genere come
Cataratte, Mocassini assassini e Maciste contro Freud. La sua vita va a rotoli e in poco tempo perde una moglie
da cui si separa (Margherita Buy, che
nei panni di Aidra è anche interprete di uno dei suoi film) e due figli da
cui deve gioco-forza allontanarsi. Un
giorno alla sua porta bussa la giovane regista Teresa (Jasmine Trinca) che
gli sottopone una sceneggiatura, che
però lui vede a suo modo. Come fosse
uno dei film da lui prodotti. Se ne appassiona fino al momento in cui scopre che quello è un film su Berlusconi.
Per giunta proposto proprio a lui, che
l’ha pure votato. Comincia così una
interminabile sequela di sintomatici
problemi che va dal rifiuto della RAI
alle defezioni dell’attore Marco Pulich
(Michele Placido), attore-sindacalista rivelatosi poi un abile calcolatore,
e del produttore polacco Sturowsky,
acerrimo critico e occhio straniero di
un’Italietta divisa tra “orrore e folklore”. Come se non bastasse le banche
premono e decidono la fine del tanto amato teatro di posa. Non rimane
che rimboccarsi le maniche. E se non
si può girare il film, c’è almeno tempo
per riprenderne una di scena, quella
finale. Che esprimerà si un verdetto,
ma anche l’amara verità. Quella di
un Paese allo sfascio che è talmente
intontito da sogni e promesse, da non
accorgersi delle proprie miserie.
Michele C. Pierri
32
Transamerica
Duncan Tucker
DNC
***
Bisogna essere per
forza una brava attrice per interpretare il ruolo di un
uomo che cerca
disperatamente di
sembrare una donna. È il caso di Felicity Huffmann in
Transamerica (debutto cinematografico del regista Duncan Tucker) grazie
alla cui interpretazione, lo spettatore,
troppo impegnato ad osservare il suo
curioso personaggio, non soffre troppo
una trama, e soprattutto una sceneggiatura, alquanto scontate. Il tema, la
transessualità, è decisamente di quelli
delicati, che il regista riesce comunque
a trattare con la dovuta attenzione alle
relative problematiche. È la storia di Bree
(un tempo Stanley), a un passo dall’operazione di redifinizione sessuale (ovvero
l’eliminazione dell’odiato attributo che
gli impedisce di sentirsi completamente
donna) che qualche giorno prima scopre di avere un figlio nato dalla sua unica relazione eterosessuale. Recuperare il
rapporto con il figlio Toby, dopo averlo
prelevato dal carcere minorile di New
York, è la condizione necessaria per ottenere il consenso all’operazione dalla
sua psicanalista. Spacciandosi per una
missionaria della chiesa del “Padre potenziale”, Bree accompagnerà Toby a
Los Angeles in cerca del padre. Si dipana così il classico “road moovie” che da
New York a Los Angeles vedrà passare
i due protagonisti dagli iniziali contrasti
alla reciproca e profonda conoscenza di
se stessi chiudendo i conti con il passato
che, per Bree, consistono in una pittoresca madre che ha sempre condannato
la sua “vergognosa scelta” con la classica frase “perchè ci hai fatto questo?”
e per Toby nell’incontro-scontro con il
patrigno, origine e causa della sua attività di marchettaro per mantenersi nella
grande mela. Maniacalmente ossessivo
il ritocco di Bree al suo mack up, sotto i
cui centimetri di fondotinta e cipria c’è
ancora uno Stanley che affiora solo in
una frazione di secondo, quando ad una
scandalosa affermazione del figlio, vinta
dallo sconforto, cade a sedere sul letto in
“stile camionista” mandando a quel paese la donna colta e raffinatissima frutto
di un lungo autoammaestramento alla
femminilità. Alla fine la morale è sempre
quella; forse siamo il prodotto della nostra famiglia (o di quello che ci ha fatto,
la nostra famiglia) e che bisogna accettare gli altri per quello che sono, così, nel
finale è possibile impachettare il ritorno
alla quotidianità in un grottesco, paradossale e tuttavia sereno: va bene che
quello che era tuo padre adesso è una
donna, va bene pure che tuo figlio ha
finalmente realizzato il sogno di entrare
nel mondo del cinema porno, ma i piedi
sul tavolino proprio no.
Cinzia Dilauro
Come a Cassano
Pippo Mezzapesa
ITC Movie
****
Sono circa le 21 al cinema Kursaal
Santalucia di Bari. È il 9 marzo e fuori fa
un freddo che ti entra nelle ossa, ma non
importa. La sala è gremita. Si aspetta
Cassano. Almeno idealmente. Già perché
Cassano, il talento di
Bari Vecchia almeno
per questa volta non
verrà. È in Spagna a
rincorrere sogni più
grandi di chi come
me ricorda ancora
il suo gol all’Inter
che gli ha aperto le
porte del calcio che
conta. Quello dei
miliardi e delle veline.
E non basteranno
pochi fischi a un Antonio Matarrese
appassionato a rovinare una serata che
serve più a celebrare una città che un
giovane campione. Che di crescere
c’è sempre tempo. Calano le luci in
sala, dove va in scena il cortometraggio
Come a Cassano, mossa azzeccata del
venticinquenne regista bitontino Pippo
Mezzapesa (vincitore due anni fa del
David di Donatello con il corto Zinanà)
che decide di raccontare la storia del
fuoriclasse barese vista dagli occhi di chi,
malgrado la passione, fuoriclasse non sarà
mai. Tra un vicolo e una lattina calciata,
la musica degli Officina Zoè fa da giusto
contorno a un Sud raccontato in maniera
vivace ma malinconica e interpretato
da Vincenzo De Benedictis (nel ruolo di
Cassano), Alberto Rubini, Dino Abbrescia
e Lia Cellamare. Si riaccendono le luci
e gli applausi scrosciano. E a tutti piace
pensare che Cassano sia lì a godersi quel
momento. A scambiare due passaggi con
tutti quelli che lo amano e coi ragazzini
che in lui si immedesimano. Perché se
il talento non si trova per strada, è lì che
spesso nasce e si alimenta. Come nel
caso di questo campione tanto discusso
quanto amato che nel buio di un vicolo
ha saputo trovare la sua croce, ma anche
la sua delizia.
V per Vendetta
James McTeigue
Warner Bros
****
Ispirato all’omonimo fumetto di Alan Moore
e David Lloyd, V per Vendetta è la nuova
produzione dei fratelli Wachowski, autori
della famosa trilogia di Matrix. Nonostante
rispecchi il suo originale cartaceo, il film
è stato disconosciuto da Moore. V per
Vendetta è ambientato in una Inghilterra
che, in seguito a gravi eventi di livello
mondiale, è ormai sotto un regime totalitario
e dove un solo uomo decide il bello ed il
cattivo tempo arrogandosi anche il diritto
di trattare i cosiddetti “diversi” come
pure e semplici cavie da laboratorio. Ma
è proprio in una di queste prigioni/lager
che nascerà il nemico del cancelliere
Satler, ovvero V. Un misto tra un eroe che
si erge a difensore della giustizia e della
libertà e un terrorista
che non sdegna
l’uso della violenza
estrema; questa è
l’impressione
che
dà l’uomo nascosto
dietro la maschera
di
Guy
Fawkes,
ma a voi la scelta
di
considerarlo
l’uno piuttosto che
l’altro.
Ottimo
il
cast con la perfetta
interpretazione del tiranno da parte di
John Hurt (il cancelliere Satler) e quella
di Stephen Fry (il Comandante Deitrich);
Nathalie Portman dà passione alla sua
“eroina per caso” (Evey Hammond) e
come non definire fantastico il ruolo di
Hugo Weaving, alias l’Agente Smith in
Matrix e Re Elrond ne Il Signore degli
Anelli, che, costretto a recitare con il volto
nascosto dietro una maschera, riesce
comunque a dare carattere e forza al suo
personaggio. Ricordandovi quindi che nel
frattempo è in produzione un’altra opera
di Moore, il fumetto cult Watchmen, non
mi resta che dirvi: “Remember, remember
the fifth of November”.
Roberto Pasanisi
Radio America
Robert Altman
Un grande maestro, quest’anno Oscar alla
carriera, continua a raccontare i suoi Stati
Uniti. Nel film un programma radiofonico,
arrivato ormai all’ultima puntata, si
appresta a regalare l’ultimo show. Nel
cast Woody Harrelson, Tommy Lee Jones,
Meryl Streep e Kevin Kline.
Le particelle elementari
Oskar Roehler
Arriva dalla Germania Le particelle
elementari, interessante lavoro di Oskar
Roehler. Michael e Bruno, due fratellastri,
sono completamente diversi. L’unica cosa
che hanno in comune è la madre. Con
Franka Potente, salita alla ribalta con Lola
corre.
Mater natura
Massimo Andrei
Desiderio é un transessuale napoletano,
non troppo fortunato in amore, che insieme
ad un gruppo di suoi amici travestiti da
vita ad un centro di agricoltura biologico
e un consultorio psicologico per aiutare
uomini con diversi problemi. Con il neocandidato in quota rifondazione Wladimir
Luxuria.
Il grande nord
Nicolas Vernier
Dopo l’acclamato premio Oscar La
marcia dei pinguini arriva nelle sale un
nuovo documentario francese diretto
questa volta da Nicolas Vernier. Norman
Winther è uno degli ultimi cacciatori a
conservare un rapporto con la Natura.
Ci conduce alla scoperta di un mondo
ritmato dal respiro delle stagioni e immerso
in scenari di una bellezza celestiale.
CoolClub
.it
NUOVE E VECCHIE STELLE DI NAPOLI
33
Intervista a Francesco Di Bella dei 24 Grana
In occasione del suo ritorno sui palchi
con Napoli All Stars abbiamo incontrato
Francesco di Bella, voce e anima dei 24
Grana, band napoletana che ha segnato
la nascita di una seconda generazione
del rock partenopeo. Da sempre avvezzi
ai mutamenti e agli spostamenti i 24 grana
sono stati i lucidi testimoni, con parole
e musica di una stagione della musica
italiana. Abbiamo chiacchierato di musica,
luoghi, della scena napoletana, di progetti
e Posse.
È da un po’ che non si sente parlare di 24
Grana discograficamente parlando, credo
la vostra ultima uscita sia la ristampa di
Metaversus. Cosa bolle in pentola?
Esattamente, in realtà al momento siamo
un po’ abbottonati sull’argomento, e
anche un po’ scaramantici, quando
c’hai il colpo in canna aspetti il momento
buono per spararlo. C’è qualcosa che sta
nascendo e prendendo forma ma è presto
per parlarne.
I 24 grana comunque non si sono mai
fermati, i live continuano. Ci parli un po’ del
senso di questo super tour?
Napoli All stars è un progetto a cui
stiamo partecipando insieme a Zulù,
Almamegretta, Bisca, Daniele Sepe e
molti altri. Siamo in tour tutti insieme, sullo
stesso palco. È molto divertente, nasce
dall’idea di fare session; al momento i vari
set live sono separati con delle incursioni
( io ad esempio canto una canzone con
gli Alma). L’idea è che questo mescolarsi
di formazioni prenda sempre più forma,
che ci sia più scambio tra i vari progetti.
La cosa bella è che oltre a ritrovarci tutti
sotto la stessa agenzia, siamo comunque in
sintonia, sulla stessa lunghezza d’onda. La
formula sta avendo molto successo, è bello
poter suonare davanti a molte persone, il
pubblico è la somma di quello che segue i
vari artisti, e c’è una grande risposta.
È come se sul palco ci fossero almeno due
generazioni della scena napoletana.
Si hai ragione, è proprio così, ma la cosa
che ci accomuna è lo spirito che ci spinge
a fare quello che facciamo, quello non è
cambiato nel corso degli anni.
I 24 grana nascono all’incirca nel ’95
( F ran C ees C o
anno in cui il sodalizio 99 Posse e Bisca si
scioglie, cosa ricordi di quegli anni, del
centro sociale officina 99?
Se ripenso a quegli anni mi rivedo assorbito
da quel tipo di stile. Era molto forte
politicamente. C’era un’energia speciale,
era un luogo dove convergevano identità
diverse, un ambiente da cui prendevi
molto per poi partire per la tua strada.
Poi è stato un luogo che per una serie di
motivi ebbe una grande visibilità (il tour
dei Bisca con i 99 Posse ebbe un successo
incredibile). In questo senso per noi proprio
l’album Metaversus è stato il momento di
frattura musicale e non solo, in un periodo
forse simile a quello dei primi 90 dal punto
di vista politico.
Quali altri gruppi e movimenti ci sono a
Napoli, c’è una scena o quel fermento
degli anni 90 non esiste più?
La situazione è a macchia di leopardo, ci
sono una serie di realtà anche interessanti
ma slegate tra di loro. Poi la città è
molto cambiata nel corso degli anni, è
decisamente meno accogliente. Tutto alla
fine nasce come reazione agli spazi che ti
sono stati privati, spazi in cui stare insieme,
confrontarsi, creare.
Questo numero del giornale è dedicato ai
luoghi e ai non luoghi, credi che i luoghi
di Napoli i centri sociali abbiamo ispirato
e influenzato il suono tipico di molte delle
cose che vengono dalla tua città?
Beh si ... considera che i centri sociali
di bella )
sorgono quasi sempre in fabbriche in disuso,
vecchie scuole. Questo tipo di ambiente
ha il più delle volte un suono metallico,
grandi riverberi. Chi suona in questi luoghi
non può non essere influenzato da questo
design sonoro, da questi paesaggi. Il
centro sociale è di per sé spoglio e fu molto
impegnativo per noi concepire, creare
un suono che lo rendesse bello che lo
arredasse, che ci stesse bene.
E i luoghi in genere credi abbiamo
un’influenza sulla musica?
Con il tempo cominci a prendere
confidenza con i luoghi in cui fai musica.
Io ad esempio vedo il palco, il luogo fisico
in cui ci muoviamo quando facciamo
musica, come un’astronave, una navicella.
Da qui osserviamo il mondo, la nostra città,
l’altrove che è sempre diverso, reagisce e ti
influenza. Molte cose si capiscono quando
si cambia luogo, c’è una necessità di
spostarsi. Una nostra canzone recita “la
strada giusta è quella che non si ferma mai
in una casa”.
Quando sarete di nuovo dalle nostre parti?
Per il momento non abbiamo date giù
nel Salento, la tappa più vicina è quella a
Bitritto del 22 Aprile. Poi sarò in giro anche
con un altro progetto che porta il mio
nome. Una cosa più acustica, una sorta di
rallentamento della narrazione, una nuova
formula che sto portando in giro con altri
musicisti.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
ARCTIC MONKEYS: LA FORZA DELLA RETE
Nati e “cresciuti” nella rete, il nuovo
luogo e frontiera della comunicazione e
della musica, gli Arctic Monkeys, come
i Claps your hands say yeah (di cui
abbiamo parlato nel numero di marzo),
sono diventati famosi ancor prima di
aver pubblicato il loro disco di esordio. Il
passaparola degli internauti, il file sharing,
siti come myspace hanno decretato un
successo clamoroso. Segno che i tempi
sono maturi per tralasciare il tanto amato
supporto e per ragionare di mercato
internazionale e slegato dal potere
del marketing e della comunicazione
tradizionale, delle radio e delle tv
musicali? Un nuovo luogo dove anche le
più piccole band, senza alcun “lancio”
possano incontrare il loro pubblico?
Carlo Chicco ha incontrato il gruppo
e ha posto ai quattro ragazzi alcune
domande.
Il vostro primo disco è uscito a cavallo tra
il 2005 e il 2006. È stato strano essere inseriti
nelle statistiche come rivelazione del
2005 e poi subito dopo come promessa
del 2006?
È strano, lo so! Perché ufficialmente siamo
una band del 2005 ma allo stesso tempo
anche una band del 2006… perché no,
non mi dispiace.
Credi che aver avuto così successo sul
web abbia influito sulla vostra diffusione
o credi che la gente si sia interessata più
alle canzoni che avete scritto?
Credo che sia qualcosa più legato alle
nostre canzoni, in effetti internet ci ha
aiutato molto perché siamo stati la band
più scaricata in Inghilterra nel 2005 e
questo è servito a livello di immagine,
però questa giustificazione è stata data
una settimana dopo che eravamo arrivati
al primo posto in classifica, per giustificare
il nostro successo, siamo stati citati
persino in magazine come l’Economist
che parlavano del nostro fenomeno
“come 4 sconosciuti avessero toccato il
top delle charts” e questo lo relegavano
alla potenza divulgativa di internet... ma
non penso sia proprio così, anche i testi
( arti C monkeys )
delle nostre canzoni credo siano molto
vicini alla vita dei nostri fan, parlano di
vita quotidiana... di questo poi abbiamo
parlato a lungo con i nostri amici su vari
forum. Normalmente siamo soliti chattare
con i nostri fan e li incoraggiamo a
scegliere i nostri singoli su internet.
Come vi sentite quando vi paragonano
ad artisti come Jarvis Cocker (Pulp)
oppure Morrissey per la vostra capacità
di catturare l’attenzione degli inglesi?
Non saprei, ovviamente questo è molto
carino ma in verità non mi sono interessato
molto a loro... cioè conosco i gruppi so
come sono nati ma non sono mai stato un
loro fan, so come sono partiti gli Smiths e
ho molto rispetto anche dei Pulp ma non
più di questo.
Whatever people say i am, thats what
i’m not (Non sono quello che crede la
gente!)?
Il titolo del disco è tratto dal film Saturday
night sunday morning, solo una citazione
dal tema principale che noi abbiamo
preso in prestito... la classica situazione
in cui lui è il tuo vicino di casa e tu lo
giudichi senza conoscerlo e ovviamente
non ti piace... ecco il perché del titolo.
Inizialmente avevamo l’idea di dare al
disco lo stesso titolo del film, ma quello
che abbiamo scelto ci soddisfa di più,
ha più un senso di rispetto nei riguardi
di quello che accade intorno a noi, di
quello che le persone dicono di noi o
viceversa... e di quanto questo giudizio
sia sbagliato. L’album non è un concept,
è una collezione di canzoni messe insieme
in un disco. Tutto questo però non è fatto
a casaccio perché la sequenza delle
canzoni è stata pensata, ragionata.
Quali sono i vostri ascolti? Ci sono dei
gruppi ad oggi che vi interessano in modo
particolare, che stuzzicano la vostra
fantasia?
Ci sono molte band che stanno per
uscire, gruppi locali intendo, soprattutto
da Sheffield. Delle “vecchie” band mi
piacciono i Clash, gli Smiths, Led Zeppelin
per quanto riguarda la ritmica, in generale
c’è una vasta gamma di band che ci
interessano, che hanno attitudini diverse
e allo stesso tempo sono accattivanti nel
loro genere, dai Roots Manuva ai Queens
of the stone age oppure i System of a
down, e in questa gamma di proposte tu
hai input differenti in modo particolare da
questi singoli individui come non succede
però per altri. Metti insieme tutti questi
input e così hai una canzone degli Arctic
Monkeys influenze diverse, un groove
come un basso come un bit funky e una
chitarra heavy per intenderci…potrei
ancora citare Dizzy Rascal Deftones
Cipress Hyll…a noi piacciono i The Streets
ovviamente, The Strokes, Kings of leon e il
nostro gruppo preferito sono stati per un
po’ i Black keys.
Carlo Chicco
34
CoolClub.it
domenica 3/ Abbattimento di Punta Perotti
sul lungomare di Bari
“Una mattina, mentre passeggiavamo sul
lungomare, ci siamo accorti all’improvviso
che ne stavano murando un lato”. Così il
sociologo Franco Cassano, fondatore del
movimento Città Plurale, ha descritto la sua
indignazione per la costruzione di Punta
Perotti.
Per un giovane barese Punta Perotti è
(era) un monumento della città. Come
la Basilica, come la Cattedrale, come
tutto il borgo antico. Come il San Nicola,
lo stadio-astronave progettato da Renzo
Piano. Come la Fiera del Levante e come
i chioschi pane-e-merda diffusissimi in città
(io preferisco quello di Maria la Chiattona,
sul lungomare di fronte al circolo Barion:
i suoi panini con porchetta-patatineinsalata-carotine-ketchup-e-maionese
sono fenomenali). Un monumento, dunque,
come il teatro Petruzzelli ancora distrutto
e il teatro Margherita abbandonato da
vent’anni.
“Ma sono davvero così brutti? E poi che
cosa coprono, dato che il lungomare
dopo Punta Perotti è una schifezza?”. Sono
anni che me lo domando. Al secondo
quesito è facile trovare una risposta: il
paesaggio coperto dall’ecomostro può
essere tranquillamente riqualificato. Alla
prima domanda non credo, però, si potrà
mai rispondere. La bellezza è relativa. E il
complesso di Punta Perotti è stato confiscato
non perché brutto, ma perché fuorilegge:
è stato costruito troppo vicino al mare.
Oddio, a Bari anche il Palazzo di Giustizia
è abusivo. Di ecomostri la città è piena. E
mica sono stati tutti abbattuti. Punta Perotti
però è stato uno schiaffo troppo grande
da accettare. È stato il pretesto per far
nascere la protesta contro la Bari che non
va. Che va abbattuta e ricostruita. “È da lì,
da quell’enormità di cemento”, ha scritto
ancora Cassano, “che è iniziata a nascere,
goccia dopo goccia, un’opinione pubblica
in questa città”. Insomma, è grazie a Punta
Perotti che i cittadini hanno alzato la testa,
hanno detto basta. Almeno è questa
l’opinione di una parte dei baresi. Perché
non tutti sono d’accordo sull’argomento.
C’è chi sostiene che l’abbattimento è
stato inutile, che i palazzi potevano essere
35
MUSICA
(aCQuista il tuo appartamento virtuale su WWW.perottipoint.it)
conservati. Proprio il lunedì precedente il 2
aprile la neonata associazione Euroliberali
ha organizzato una tavola rotonda sul
tema, in cui è stata messa in discussione
l’utilità dell’abbattimento. Al di là della
dialettica, però, restano i fatti: i palazzoni
sono andati giù perché fuorilegge. E qui
non ci piove, anche se i legali della famiglia
Matarrese, che ha costruito il complesso,
hanno già annunciato la richiesta di un
mega-risarcimento danni. Ma alla fine
Punta Perotti è andata lo stesso giù. Ma
cosa rimarrà, oltre le macerie? Un immenso
spazio vuoto. Per il momento. Le proposte
di riqualificazione sono tantissime, ma l’iter
sarà inevitabilmente lento. Così come tutto
è lento, in questa città: basti pensare che
il Petruzzelli è stato incendiato nel 1991 e
ad oggi non si sa ancora quando riaprirà.
Ma il solo fatto che Punta Perotti sia stata
abbattuta rappresenta una vittoria. Il Bello
potrà anche aspettare, l’importante è che
il Brutto non ci sia più. Per ora, ci teniamo
stretti un non-luogo.
Ludovico Fontana
tutti i lunedì/ Karaoke al Caledonia di
Lecce
ogni
lunedì
e
mercoledì/
Serata
universitaria con prezzi ridotti e imperdibili
offerte al Corto Maltese di Lecce
ogni martedì/ Jam sassion jazz al Cagliostro
di Lecce
ogni martedì/ Tour de pub al London
tavern di Lecce
ogni martedì/ Doctor Why al Jack ‘n’ Jill di
Cutrofiano (Le)
ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé
Letterario di Lecce
Il nuovo appuntamento in musica del
Caffé Letterario si chiama High Fidelity.
Ogni settimana un dj diverso si alternerà
in consolle per selezionare un personale
percorso alla scoperta di un genere
musicale, un periodo, una etichetta o un
gruppo.
ogni mercoledì/ Live al Wallace pub di
Lecce
ogni giovedì/ Live jazz e bossa al Godot
di Lecce
ogni giovedì/ Festa house con cocktail a 3
euro al Prosit di Lecce
ogni giovedì/ Rutta del rum al Corto
Maltese di Lecce
ogni venerdì/ House e divertentismo al
Corto Maltese di Lecce
ogni venerdì/ Dj set al Wallace Pub di
Lecce
ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al
Willy Nilly di Squinzano (Le)
tutte le domeniche/ Happy hour dalle 20
alle 24 con drink e buffet al Prosit di Lecce
venerdì 7/ Ossian e Shide al Nord Wind
Disco Pub di Bari
venerdì 7/ At olimpio’s ai Sotterranei di
Copertino (Le)
sabato 8/ Stonecutters al Circolo ZEI di
Lecce
sabato 8/ Dinamo Rock al Mirror di Martano
(Le)
sabato 8/ Postman Ultrachic all’Istanbul
Café di Squinzano (Le)
sabato 8/ That Noise from the cellar ai
Sotterranei di Copertino (Le)
domenica 9/ Afterhours al Palazzetto dello
Sport di Conversano (Ba)
domenica 9 e lunedì 10/ Elezioni per il
rinnovo del Parlamento in tutta Italia
CoolClub.it
martedì 11/ U2 tribute al Mulligan’s di Maglie
(Le)
mercoledì 12/ Soul Bossa Quintet a
L’acchiatura di Racale (Le)
giovedì 13/ Foredecapu Blues Band al
Mulligan’s di Maglie (Le)
giovedì 13/ Giò Vescovi Blues Band al Jack
‘n’ Jill di Cutrofiano (Le)
giovedì 13/ Settlefish all’Istanbul Café di
Squinzano (Le)
La rassegna Keep Cool prosegue con
l’emocore dei Settlefish, un giovane
quintetto bolognese di nascita ma
statunitense di adozione. Attiva da circa
cinque anni, la band ha nel corso degli
ultimi tre anni suonato in oltre 200 concerti
in giro per il mondo, soprattutto negli Stati
Uniti e in Canada. Inizio ore 23.00. Ingresso 5
euro. Info 0832303707.
giovedì 13/ Pantera Vulgar Tribute Night
From Hell al Nord Wind Disco Pub di Bari
venerdì 14/ Dodo Stop al Vivaldi Club di
Valenzano (Ba)
venerdì 14/ Fiamma Fumana allo Zenzero di
Bari
venerdì 14/ Mr Jack all’Istanbul cafè di
Squinzano (Le)
venerdì 14/ C.F.F. e il Nomade Venerabile al
Kirby disco-pub di Matera
venerdì 14/ Electric Voodoo Company al
Sinatra Hall di Ugento (Le)
sabato 15/ Dinamo Rock al Mythos di Salve
(Le)
sabato 15/ Tob Lamare all’Istanbul cafè di
Squinzano (Le)
sabato 15/ Africa Unite alla Palestra Ex Gil
di Bari
domenica 16/ Pshycho sun all’Istanbul cafè
di Squinzano (Le)
lunedì 17/ Teatro delle terrazze ai Cantieri
Culturali Sierro di Ponente sulla str.prov. Villa
Castelli - Martina Franca
lunedì 17/ Africa Unite/Caparezza all’Arena
delle Cave di Cavallino (Le)
lunedì 17/ Pasquetta salentina a Muro
Leccese
Folk, pizzica, rock e metal saranno
protagonisti della quarta edizione della
Pasquetta salentina a Muro Leccese.
Sul palco del Parco del SS. Crocefisso si
alterneranno Mascarimirì, Crifiu, Shank,
P40. L’inizio dei concerti è previsto per le
ore 16.00. Ingresso libero. Info 0836/341153
– 348/0442053 ; [email protected] [email protected].
lunedì 17/ Madreperla al Goblin’s di Brindisi
mercoledì 19/ C.F.F. e il Nomade Venerabile
al Green Elf pub di Santeramo in Colle (Ba)
giovedì 20/ Niente insetti su Wilma (cover
band dei Denovo) al Jack ‘n’ Jill di
Cutrofiano (Le)
giovedì 20/ Psycho Sun all’Heineken Green
Stage di Tricase
giovedì 20/ Rain al Nord Wind Pub di Bari
venerdì 21/ None of Us alla Taverna Vecchia
del Maltese di Bari
venerdì 21/ Superpartner all’Istanbul cafè di
Squinzano (Le)
venerdì 21/ England duo a L’acchiatura di
Racale (Le)
venerdì 21/ Psycho Sun al Goblins di Brindisi
venerdì 21/ 24 Grana, Almamegretta, Bisca,
Zulù al PalaTour di Bitritto (Ba)
sabato 22/ Sonic the tonic e The boozers
all’Istanbul cafè di Squinzano (Le)
sabato 22/ Marco Ongaro alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
La rassegna Tele e ragnatele della Saletta
della Cultura di Novoli (Le) prosegue la sua
programmazione di musica d’autore con
Marco Ongaro. Il suo esordio risale al 1987
con “AI” che gli vale la Targa Tenco per la
migliore Opera Prima. Il suo ultimo lavoro
“Archivio Postumia” è uscito circa un anno
fa. Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347
0414709 – [email protected]
sabato 22/ None of Us al One Mile Club di
Martano (Le)
sabato 22/ 24 Grana, Almamegretta, Bisca,
Zulù al PalaTour di Bitritto (Ba)
domenica 23/ Agatha ai Sotterranei di
Copertino (Le)
domenica 23/ Municipale Balcanica alla
Festa Patronale di Terlizzi (Ba)
domenica 23/ Chuck Fender & the Living
Fire Band (Jamaica) + Chop Chop Band
(Italia) al New Demodè di Bari/Modugno
domenica 23/ Scientist and Cinic all’Istanbul
cafè di Squinzano (Le)
lunedì 24/ Aspettando la Liberazione a
Taviano (Le)
lunedì 24/ Non Toccate Miranda a Palazzo
De Donno di Cursi (LE)
lunedì 24/ Red Elvises all’ Istanbul Café di
Squinzano (LE)
lunedì 24/ Petra Magoni & Ferruccio Spinetti
all’Auditorium di Bari
martedì 25/ Non Toccate Miranda al Circolo
Arci di Francavilla Fontana (BR)
martedì 25/ Tommy Emmanuel alla Cantina
a Sud di Gioia del Colle (BA)
mercoledì 26/ Tommy Emmanuel alla
Cantina a Sud di Gioia del Colle (BA)
giovedì 27/ Duff all’Heineken di Tricase (LE)
giovedì 27/ Missiva al Jack ‘n’ Jill di
Cutrofiano (Le)
giovedì 27/ Irreverence + motherly sin
Nord Wind Pub di Bari
venerdì 28/ Malgarbo al Sinatra Hall
Ugento (Le)
venerdì 28/ Fulvio Palese Jazz Trio
L’acchiatura di Racale (Le)
sabato 29/ Foredecapu Blues Band
Sinatra Hall di Ugento (Le)
sabato 29/ Chevreuil all’Istanbul Cafè
Squinzano (Le)
36
al
di
a
al
di
La rassegna Keep Cool si chiude con l’art
rock dei francesi Chevreuil. Dal vivo la musica
del duo composto da Tony C. (chitarra su 4
amplificatori) e Julien F. (batteria) diventa
tanto ‘art’ quanto ‘rock’, una musica che
si guarda e si ascolta sbalorditi. Capoeira è
il loro ultimo album. Una nuova dimensione
e un campo d’azione inedito alla batteria,
alla chitarra e alla tastiera, come per
inaugurare un’estranea forma di musica:
la tastiera si mescola ai riff della chitarra
provocandone una sorta di mutazione.
Inizio ore 23.00. Ingresso 5 euro.
domenica 30/ Gay day al Living di Maglie
(Le)
lunedì 1 maggio/ UDE Woodstock con The
jains e Meganoidi a Ugento (Le)
lunedì 1/ Cantacunti alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
I Cantacunti saranno i protagonisti della
CoolClub.it
Festa dei lavoratori presso la Saletta di
Novoli. La rassegna Tele e ragnatele ospita
infatti questo progetto musicale di Gianni
Vico, cantastorie di Manduria, e della sua
chitarra. Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info
347 0414709 – [email protected]
lunedì 1 maggio/ Tying Tiffany Dj Set allo
Zenzero di Bari
venerdì 5/ Gardenya al Santo Graal Pub di
Trani (Ba)
venerdì 5/ Latin Four a L’acchiatura di
Racale (Le)
sabato 6/ Angelo Ruggiero alla Saletta della
Cultura Gregorio Vetrugno di Novoli (LE)
TEATRO/ARTE
sabato 8/ Tràgos ai Cantieri Teatrli Koreja di
Lecce
La compagnia pisana I Sacchi di Sabbia
presenta Tràgos atto unico con comica
finale ideato da Giovanni Guerrieri con la
collaborazione di Giulia Gallo, Enzo Illiano,
Gabriele Carli, Andrea Lancioni. La vita e i
suoi scricchiolii, i suoi piccoli affanni, la sua
pesantezza, la sua involontaria comicità.
La vita come in un film di Jacques Tati.
L’appuntamento, al teatro Koreja di Lecce,
rientra nella rassegna Strade Maestre.
Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto
7). Info 0832242000.
sabato 8 e domenica 9/ Paesaggio uno:
fango che diventa luce al Teatro Kismet di
Bari
martedì 11/ Piccoli Crimini Coniugali al
Teatro Odeon di Molfetta (Ba)
37
martedì 11/ Ferdinando al Teatro Politeama
Greco di Lecce
Isa Danieli, Luisa Amatucci, Giuliano
Amatucci e Adriano Mottola mettono
in scena “Ferdinando” scritto e diretto
da Annibale Ruccello. Sipario ore 20.45.
Poltronissime e I ordine: € 20,00. Poltrone e II
ordine: € 17,00. Ridotto poltrone e II ordine:
€ 10,00. Info 0832.242000
mercoledì 12/ Quando fai sesso con gli
elefanti non stare mai sotto, un recital di
Jacopo Fo al Teatro Rossini di Gioia del colle
(Ba)
mercoledì 12/ Daniele Luttazzi al Teatro
Politeama Greco di Lecce
mercoledì 19/ La Forza dell’Abitudine al
Teatro impero di Brindisi
domenica 23/ La Forza dell’Abitudine al
Teatro Verdi di San Severo (Fg)
lunedì 24/ La Forza dell’Abitudine al
Politeama Greco, Lecce
Alessandro Gassman dirige e interpreta,
con Sergio Meogrossi, Paolo Fossi e i
Clown della famiglia Colombaioni, “La
Forza dell’abitudine”. Lo spettacolo, scritto
dall’autore olandese Thomas Bernhard
è una meravigliosa metafora della vita
e dell’incapacità degli artisti a veder
realizzata compiutamente la propria arte.
Sipario ore 20.45. Ingresso poltronissime e I
ordine 20 euro, poltrone e II ordine 17 euro,
ridotto poltrone e II ordine 10 euro. Info
0832242000.
mercoledì 26/ Oreste Lionello in Two man
Show al Teatro Socrate di Castellana Grotte
(Ba)
giovedì 27/ Isa Danieli in Ferdinando al
Teatro Ideal di Manduria (Ta)
da venerdì 28 a domenica 30/ Elettra al
Teatro Kismet di Bari
sabato 29/ Pilobus al Teatro Curci di Barletta
(Ba)
CINEMA
dal 25 al 30 aprile/ VII festival del cinema
europeo al Santalucia di Lecce
La VII edizione del Festival, diretto come ogni
anno da Alberto La Monica, conta questa
volta su nomi di prestigio come lo svizzero
Moritz De Hadeln, presidente di giuria e già
direttore di Festival come Locarno, Berlino
e Venezia e la direzione artistica di Cristina
Soldano che ha ben chiaro l’obiettivo
a cui puntare. Tra le sezioni, le consuete
retrospettive dedicate a due personaggi
del cinema italiano ed europeo e la
rassegna di corti Puglia Show. Info su www.
europecinefestival.
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Gli altri appuntamenti
su www.coolclub.it
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Imaginaria
Film
Festival
Sino al 30 aprile 2006 sarà possibile presentare
opere per partecipare alla quarta edizione
dell’IFF (Imaginaria Film Festival), che si
terrà a Conversano dal 01 al 07 agosto
2006. Tutte le informazioni per iscriversi e il
bando sono presenti sul sito http://www.
imaginariafilmfestival.org
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UNO, NESSUNO, CENTOMILA MONDI DI CARTA
Un ragazzo, Killy, si muove in una struttura verticale composta da numerosi piani
per adempiere alla propria missione; ogni
piano è una sorta di mondo, abitato da
esseri umani e da creature biomeccaniche, tuttavia nulla è come appare. L’unica certezza è che protagonista assoluto
di Blame (edito in Italia da Panini Comics),
il manga fantascientifico di Tsutomu Nihei,
è il (non) luogo in cui è ambientata la storia; la struttura, spesso disegnata a pagina
intera, che è indefinitamente vasta e labirintica. “Maybe on earth. Maybe in the future” (“Forse sulla terra. Forse nel futuro”)
recita lo strillone in copertina, riassumendo in sé il dubbio in cui Nihei ha lasciato il
lettore per tutta l’edizione di Blame: l’autore ha prediletto l’aspetto visivo, accantonando lo sviluppo d’una trama in favore
di tavole mastodontiche dedicate quasi
completamente agli ambienti. I (pochi!)
personaggi hanno tra loro brevi dialoghi,
che forniscono esigue informazioni su ciò
che stiamo leggendo, dandoci un’ulteriore prova della scelta estrema compiuta
da Nihei, ovvero creare un’opera che
scardinasse le regole narrative del genere, ponendo l’attenzione sull’ambiente
e non su vicenda e personaggi. Il tratto
del fumettista è preciso ma “grezzo” nelle strutture, mentre diviene molto stilizzato
nel rappresentare le creature antropomorfe che popolano il cosmo di Blame.
Terminati i dieci volumi dell’edizione italiana, si rimane confusi e storditi quanto
lo si era al termine del primo volume, ma
estasiati dalla potenza visiva dello stile di
Nihei, accresciuto dalla sua competenza
in architettura, nella quale si è diplomato.
Un altro giovane fumettista nipponico:
Makoto Yukimura, ha sceneggiato e
disegnato un altro manga fantascientifico,
Planetes (edito anch’esso da Panini
Comics), in cui a farla da padrone è
lo Spazio, il non-luogo per eccellenza.
Planetes parte narrando l’esistenza di tre
spazzini cosmici, Yuri, Fee e l’aspirante
astronauta Hackimaki, il cui compito
consiste nel raccogliere la spazzatura
(BLAME)
spaziale che gravita intorno alla Terra.
Attraverso i suoi personaggi Yukimura
propone l’eterno confronto tra l’uomo
(nella sua condizione di mortale finitezza)
e l’universo, che non è semplicemente
uno spazio fisico ma la rappresentazione
dei nostri più profondi desideri ed
interrogativi.
In Ghost in the Shell ManMachina
Interface di Shirow Masomune, séguito di
Ghost in the Shell (editi entrambi dalla Star
Comics), è la versione umana del cosmo,
il cyber-spazio (l’universo costituito da
un’imperitura rete di informazioni), a
dominare il fumetto. Shirow, capostipite del
“cyber-punk” fumettistico, ha estremizzato
il ruolo della rete rispetto al primo capitolo,
cancellando quasi totalmente dalla
narrazione i luoghi fisici: nel suo futuro le
lotte tra corporations, nazioni sovrane e
terroristi non si combattono nel mondo
reale ma nel non-luogo informatico
generato dall’uomo. Da una parte il
cosmo con tutti i suoi quesiti esistenziali
e fisici, dall’altra il flusso irrefrenabile del
sapere umano concettualizzato in uno
spazio metafisico.
Altrettanto metafisico è il luogo in cui si
dipana La locanda alla fine dei mondi
(edito da Magic Press), terzultimo volume
della saga di Sandman di Neil Gaiman.
Una serie eterogenea di persone si ritrova
in un’antica locanda per ripararsi da
una tempesta estremamente violenta e,
nell’attesa che essa cessi, si diletta nel
più antico rito umano: la narrazione orale
d’una storia. Soltanto al termine di tutti i
racconti, alcuni di loro si renderanno conto
che la locanda è un crocevia spaziotemporale tra molteplici dimensioni,
nel quale s’incontrano creature d’ogni
dove. Gaiman, forse in omaggio ad Italo
Calvino, ha costruito tale vicenda come
una scatola cinese, poiché la Locanda
alla fine dei mondi è un fumetto in cui è
narrata una storia nella quale ne sono
raccontate delle altre, sino a giungere
al ruolo stesso dello scrittore, ovvero a
fabulatore. La locanda è una piega fra
i mondi, lontana seppur vicinissima ad
essi, ne contiene l’essenza più profonda: il
loro essere un insieme sterminato di storie,
quali sono le vite umane.
Roberto Cesano
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