anno IV numero 34 febbraio 2007 poste italiane spa spedizione in abbonamento postale DCB 70% Lecce [ CoolClub.it “I have a dream” è una delle frasi più celebri della storia. È di Martin Luther King, famoso attivista nella lunga lotta per l’affermazione dei diritti del popolo afro-americano. Accanto a lui, leader della resistenza non violenta, c’erano le pantere nere che scelsero la strada dell’autodifesa e chi alle parole e all’azione preferì la musica. La musica era per i neri una grande opportunità per emanciparsi, per riscattarsi e poter realizzare il proprio sogno. Così come racconta il film a cui abbiamo dedicato la copertina: Dreamgirls, appunto. Sogni in celluloide, vite raccontate dalla pellicola e musiche capaci di raccontare una storia, di amplificarne le emozioni. Di questo abbiamo deciso di parlare nelle prossime pagine: di film e delle loro colonne sonore. Suggestionati dall’Oscar alla carriera a Ennio Morricone, innamorati di Beyoncé nei panni di Diana Ross in Dreamgirls, trepidanti nell’attesa del nuovo film di Dario Argento. E proprio l’alter ego musicale di quest’ultimo abbiamo intervistato: Claudio Simonetti, autore di celebri colonne sonore. Insieme a lui, ospite di Coolclub.it, Francesco Cerasi giovane autore pugliese presto nelle sale con la colonna sonora del nuovo film di Ernrico Cappuccio con Fabio Volo. In questo primo numero del 2007, tornano le nostre rubriche di sempre con un occhio particolare alla musica, uno sguardo sui nuovi libri e quattro salti nel cinema. Questo mese Daniele Sepe ci parla del suo nuovo disco ispirato dagli anni ‘70. Profetico per quel che ci riguarda. Il prossimo numero sarà infatti dedicato al ‘77, anno importantissimo per molte cose. Chiunque volesse partecipare con un ricordo (io non ero ancora nato) o una riflessione può spedirci le sue idee a [email protected]. Ma tornando a questo numero, abbiamo parlato con il leccese attore/autore Mario Perrotta del suo fortunato Migranti espress trasmesso da Radio 2. Ancora spazio alle realtà emergenti con le interviste a due nuove band (Montecristo e MURiél), all’etichetta discografica Suiteside e alla casa editrice Instar. È ancora possibile abbonarsi al giornale, un piccolo sforzo per voi, un’operazione vitale per noi. Chiudo questo mese salutando Togliatti, il mio gatto, anzi il gatto di alcuni di noi. Togliatti, tra le altre cose, è stato uno dei personaggi che ha popolato i primi editoriali di questo giornale, il mio primo animale, la prima cosa di cui mi sono preso veramente cura. Buona lettura. Osvaldo Piliego CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: [email protected] Sito: www.coolclub.it Anno 3 Numero 34 febbraio 2007 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Berardino Amenduni, Giovanni Ottini, Giuseppe Muci, Livio Polini, Gennaro Azzollini, Signor Php, Camillo Fasulo, Nicola Pace, Valentina Cataldo, Ilario Galati, Marcello Zappatore, Rossano Astremo, Stefania Ricchiuto, Nino D’Attis, Silvia VIsconti, Sabrina Manna, Cosimo Papa, Roberto Cesano 4 La colonna sonora di una vita 6 Claudio Simonetti Ringraziamo le redazioni di Blackmailmag.com, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net. 26 Livio Romano Progetto grafico dario 31 Alessandro Piva Impaginazione Danilo Scalera Mago Pancione 29 Be Cool Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso senza l’ausilio di internet...ma grazie a Demon Per inserzioni pubblicitarie Pierpaolo Lala 3394313397 32 Mario Perrotta 36 Appuntamenti 38 Fumetto 7 Francesco Cerasi 9 Keep Cool 19 Daniele Sepe 23 Coolibrì } CoolClub.it C Dopo cinque nomination e una serie infinita di grandi successi alle spalle il maestro Ennio Morricone il prossimo 25 febbraio riceverà un prestigioso Oscar. Nessun film in concorso, nessuna novità nelle sale da promuovere, solo una carriera incredibile da celebrare come era già accaduto a Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, Sophia Loren e Dino De Laurentis. I numeri della carriera del settantottenne trombettista e direttore d’orchestra romano sono impressionanti: più di 400 colonne sonore (tra film e fiction televisive), circa 100 composizioni di musica classica, numerose canzoni. Diplomato presso il Conservatorio di Santa Cecilia, Morricone arriva alla musica per film quasi per una esigenza più che per caso. “Il continuo storcere il naso dei critici musicali sulla musica del cinema è fuori luogo”, sottolineò il maestro due anni fa quando per la prima volta si esibì a Lecce. “Prima o poi dovranno scrivere di questa musica se vorranno scrivere della musica del Novecento e del nostro secolo. Le colonne sonore fanno parte del nostro costume, della nostra civiltà, dei nostri bisogni, di tutto quello che avviene oggi, anche dei nostri vizi, delle cose negative. E loro, i critici, dovranno fare i conti con questa musica”. Morricone, che per “prepararsi” all’Oscar si è esibito ad inizio febbraio in un paio di concerti negli Stati Uniti, ha sottolineato anche che alla cerimonia di Los Angeles parlerà in italiano, tradotto dal figlio Giovanni. Il Maestro era stato nominato per I giorni del cielo, Mission, Gli Intoccabili di Brian De Palma e Bugsy. Nel 2000 era giunta l’ultima nomination per Malena di Giuseppe Tornatore, con il quale aveva già collaborato per Nuovo Cinema Paradiso. Il nome e la musica di Morricone sono però legati in maniera indissolubile agli “Spaghetti western” di Sergio Leone. Nel 1965 la prima esperienza con Per un pugno di dollari cui seguirono Il continua a pag. 6 La nostalgia è un sentimento bellissimo. È un misto di tristezza e rimpianto per cose, persone, luoghi, tempi che non ci sono più. La nostalgia accende la voglia di vivere delle cose che, per un motivo o per un altro, non si possono avere. “La nostalgia funziona”, lo sostiene anche Michael Atkinson famoso critico cinematografico. Quando la nostalgia è provocata da un personaggio molto popolare, che in vita ha fatto grandi cose, attirando intorno a sé un gran numero di persone, il ricordo di lui è vivido, spesso enfatizzato, affidato non solo alla memoria, ma anche a libri e film che ne narrano la vita. I film biografici hanno sempre avuto un grande successo e allo stesso modo sono stati sempre criticati. Hanno sempre successo perché stuzzicano il nostro lato voyeristico, nutrono la nostra voglia di vivere il privato di personaggi inarrivabili, o di seguire crescita, ascesa e declino di una star. Sono sempre criticati perché la riduzione di una vita per il cinema rischia di essere imprecisa, di smitizzare o idealizzare troppo il personaggio in questione. In linea di massima i film biografici raramente riescono a rimanere nella cronaca. Tra i film biografici, un posto di riguardo occupano quelli dedicati ai musicisti, celebrazioni in pellicola della vita e della musica di grandi artisti. Non solo le immagini raccontano una vita, ma anche, forse più di tutto la musica, la vera eredità che un musicista lascia al suo passaggio e la cosa che più in assoluto rappresenta il suo sentire, la sua intimità. A pochi giorni dalla scomparsa dell’enorme James Brown (nella foto a destra), è già stato annunciato il film che ne racconterà la travagliata esistenza. La regia sarà affidata a Spike Lee. Tra i nomi in lizza per interpretare “il padrino del soul” Andrè 3000 degli Outkast, Lenny Kravitz, Eddie Murphy e Jamie Fox già interprete del bellissimo Ray. Questo film vide, nella sua preparazione, la diretta partecipazione di Ray Charles che, oltre a impartire consigli a Jamie sul comportamento, la postura al piano e al canto, scelse anche le canzoni. Tra i film che narrano le gesta di rock star uno dei più celebri e chiacchierati è sicuramente The Doors di Oliver Stone. La figura di Jim Morrison, interpretata da Val Kilmer, è infatti travisata, come ha affermato lo stesso Ray Manzarek (tastierista del gruppo), e CoolClub.it Dopo venticinque anni di successo mai sopito a Broadway sbarca nelle sale Dreamgirls, trasposizione cinematografica del musical portato sul grande schermo da Bill Condon (adattamento per Chicago). La pellicola, che dalla storia delle Supremes e di Diana Ross prende solo larga ispirazione, si inserisce in un filone già nutrito di film musicali che negli ultimi anni hanno ritovato spazio e il favore del pubblico, dopo la crisi degli anni ‘80 e di buona parte dei ‘90. Interpretato da un cast praticamente all black in cui spiccano i nomi di Eddie Murphy, Beyoncè (nella foto a destra), Knowles e Jamie Foxx (Oscar per Ray), Dreamgirls trova la sua collocazione spazio-temporale nella Detroit degli anni ‘60 e ‘70, periodo in cui i diritti civili erano ancora appena sussurrati. In questo scenario un gruppo di tre splendide ragazze di colore, le Dreamettes (ribattezzate poi The Dreams - nella foto centrale), trainato da un ambizioso venditore di automobili deciso a sfondare come manager, cerca la sua strada per il successo. Coinvolgente e sentimentale è un film che si regge, neanche a dirlo, su una trascinante colonna sonora e sulla ricostruzione perfetta di fotografia, costumi e ambientazioni di quegli anni favolosi in cui soul e rock and roll scuotevano i giovani del mondo intero e le comuni coscienze. Storia a parte, il filo conduttore rimane ovviamente quello dell’ascesa e della realizzazione di un sogno che se da un lato si palesa attraverso il copione, dall’altro trova riscontro nella realtà di una delle giovani protagoniste, Jennifer Hudson, prima scartata nel reality canoro American idol ed ora ad un passo dall’Oscar. E proprio nelle candidature la pellicola incassa la sua maggior delusione con nessuna delle ben otto nomination nella categoria più ambita, quella di miglior film, soprattutto per colpa di una regia piatta che non va mai oltre il necessario e per dei personaggi carismatici ma mai messi a nudo e caratterizzati come le vicende richiederebbero. Ma queste pecche non influiscono sulla tenuta di un film che vola e fa volare, come sempre accade nelle storie di chi, venuto dal nulla, riesce a fare il grande salto che lo separa dall’anonimato. Gli esempi in questo senso non mancano e vanno dai recenti Moulin Rouge, Chicago e Ray al capostipite È nata una stella (1954), tutte pellicole capaci di riprendere un percorso tortuoso e di trasformarlo in un finale scontato. Tutti in fondo, almeno con la fantasia, hanno il diritto di vedere un obiettivo realizzarsi e il cinema è come sempre, dei sogni la massima espressione. Michele C. Pierri il personaggio viene trasformato in icona generazionale. Un altro angelo caduto, un maledetto della musica, raccontato questa volta splendidamente da Clint Eastwood e interpretato magistralmente da Forest Whitaker, è Charlie Parker. Il film Bird dipinge con poesia e drammaticità la scalata artistica e il declino umano di uno dei più grandi innovatori della musica jazz. Ancora sul binomio musica ed eccessi un film esemplare è sicuramente Sid & Nancy, in cui il rapporto burrascoso tra Nancy Splungen e il bassista dei Sex Pistols Sid Vicious viene colto nel suo tragico epilogo. Ma esiste anche il lato positivo e giocoso della musica e del rock. Un film mitico in questo senso è Leningrad Cowboys Go America, la storia delirante del viaggio di una band assurda alla conquista del sogno americano. Grandi registi si sono confrontati nel raccontare la musica, basti pensare a Win Wenders e al suo film su Ry Cooder e i Buena Vista Social Club che ha sortito l’effetto di catalizzare l’attenzione su una band e di consacrarla al successo planetario (operazione inversa rispetto alle normali dinamiche dei film su musicisti). Altri film hanno riportato l’attenzione su artisti il cui ricordo andava via via sopendosi: è il caso per il rock di film come Great balls of fire dedicato a Jerry Lee Lewis o La Bamba su Ritchie Valens. Sempre restando in ambito rock, alcuni dei film che in questi ultimi anni hanno risollevato l’interesse verso pellicole di questo tipo sono stati senza dubbio Quando l’amore brucia l’anima, pellicola dedicata alla figura ombrosa e controversa di Johnny Cash, l’enigmatica interpretazione degli ultimi giorni di Kurt Cobain da parte di Gus Van Sant in Last Days, e, ancora, 8 Miles sugli esordi di Eminem. Dai cattivi del rock ai film da favola in cui gli artisti interpretano se stessi ma immersi in storie di pura invenzione (dai primi film sul jazz, a quelli mitici interpretati da Elvis o alla straordinaria filmografia dei Beatles). Pellicole importanti ma che tradiscono il filo biografico di cui parliamo in queste righe. Tra realtà e fantasia anche altri film che racchiudono in un personaggio caratteristiche di vari artisti (un esempio è Velvet Goldmine, che ripercorre il fenomeno glam, in cui il personaggio di Bowie si fonde con quello di Marc Bolan e quello di Iggy Pop con Lou Reed). Insomma, a conti fatti, la lista di musicisti omaggiati dalla pellicola è lunghissima, segno di un legame forte e destinato a continuare nel tempo. È già annunciato il film sulla vita di Jimi Hendrix, Johnny Depp da tempo anela a realizzarne uno su Ozzy Osbourne, in cantiere anche quello su Brian Wilson, leader dei Beach Boys. Osvaldo Piliego CoolClub.it C buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il West, Giù la testa. Intensa e bellissima anche la colonna sonora di C’era una volta in America, epopea sui gangster italo americani del regista romano. Il tema principale del film sarà interpretato nella serata delle stelle da Celin Dion. Un brano che rientra nel cd tributo We all love Ennio Morricone che ospita, tra gli altri, Bruce Springsteen, Roger Waters, Metallica, Quincy Jones e Andrea Bocelli. “L’Academy con questo premio vuole riconoscere non soltanto l’importante numero di colonne sonore composte da Morricone ma anche il fatto che molte di queste sono amatissimi e popolari capolavori”, ha detto Sid Ganis, presidente della Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Musiche così amate anche oltreoceano da provocare uno spiacevole errore. Una quindicina di anni fa un’enciclopedia statunitense scrisse infatti che Nicola Piovani era lo pseudonimo di Ennio Morricone. Un equivoco che si è protratto nel tempo, nonostante i moltissimi film firmati e le numerose rettifiche fatte (anche da Morricone). Nel 1998 Piovani però superò il maestro conquistando l’Oscar per La vita è bella di Roberto Benigni a coronamento di una carriera iniziata alla fine degli anni ’60 e passata attraverso le collaborazioni con Fabrizio De Andrè e con alcuni tra i migliori registi e autori italiani come Silvano Agosti, Marco Bellocchio, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Mario Monicelli, Vincenzo Cerami e molti altri ancora. L’altro italiano premio Oscar per la sua musica è l’indimenticabile Nino Rota che ha reso memorabile Il Padrino di Francis Ford Coppola e ha accompagnato con le sue melodie alcuni dei film italiani più apprezzati nel mondo. Il suo nome è legato al genio di Federico Fellini. Rota “commenta” infatti le immagini di Lo sceicco bianco, Prova d’orchestra, La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Amarcord. Claudio Simonetti è nato in Brasile dove ha vissuto fino all’età di dodici anni. Figlio d’arte, una volta trasferitosi a Roma con la famiglia, incomincia a studiare pianoforte presso il conservatorio di Santa Cecilia. Da metà anni Settanta ha intrapreso una notevole carriera in qualità di compositore, arrangiatore, tastierista e produttore discografico; ed ha indissolubilmente accostato il suo nome e la sua carriera, prima con i Goblin e poi da solista, al mondo del cinema horror e trhiller. In particolare, ha legato la sua musica a molte delle pellicole prodotte e dirette dal regista Dario Argento. Come ha avuto inizio la tua carriera? Ho cominciato a studiare il pianoforte a otto anni anche se poi, anche grazie al periodo dei Beatles e Rolling Stones, mi sono avvicinato di più alla musica suonando la chitarra nei complessini dell’epoca e contemporaneamente verso i 12 anni mi sono iscritto al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma dove ho studiato pianoforte e composizione. Ho avuto parecchi gruppetti ma Il ritratto di Dorian Gray è stato il mio primo vero gruppo. Suonavamo le cover dei vari gruppi dell’epoca come Deep Purple, King Crimson, Yes, ecc. e abbiamo partecipato al Festival Pop di Caracalla del 1971. Poi il gruppo si è sciolto, riformandosi poco dopo in una formazione a tre (tastiere, batteria e basso). Siamo stati tra i primi a proporre il rock sinfonico nel nostro paese ispirandoci soprattutto ai Nice e agli Emerson, Lake & Palmer. In seguito, nel 1973, ho formato, con Massimo Morante, il gruppo dei Goblin. In che modo iniziò il tuo lungo sodalizio con Dario Argento? Dopo essere stati in Inghilterra nel 1974 per quasi un anno con i Goblin (allora ci chiamavamo Oliver) siamo tornati in Italia per registrare il nostro album e in quell’occasione, Argento ci chiese di registrare la colonna sonora di Profondo Rosso grazie al nostro discografico della Cinevox, Carlo Bixio, che gli fece ascoltare il nostro materiale. Eravamo poco più che ventenni e ci siamo trovati davanti ad un grande regista, allora Dario era all’apice della sua carriera, però abbiamo subito legato perché comunque era una persona semplice, anche con Daria Nicolodi, allora sua compagna, abbiamo subito fatto amicizia. La mia amicizia e sodalizio con Dario dura tuttora e supera ormai i 30 anni. Le tue colonne sonore nascono prima o dopo aver visto il film? Tutte le musiche che ho scritto per i film le ho composte sempre dopo aver visto le scene girate. Di solito il musicista vede il film, spesso insieme al regista, e poi con lui si discute sullo stile della musica, dove metterla e quali scene sottolineare in particolare. Normalmente Dario mi da alcune indicazioni iniziali però mi lascia poi libero di interpretare il film come voglio. A quale componimento realizzato per il cinema ti senti più legato? Sicuramente i due episodi di Argento fatti per la TV americana e questo ultimo, La Terza Madre, anche se non l’ho ancora finito. Per la prima volta userò un grande coro con l’orchestra sinfonica visto che molto spesso ho lavorato più con i sintetizzatori che con l’orchestra vera e propria. In realtà ho iniziato a lavorare con Dario in questo modo già per i sui 2 film americani Jenifer e Pelts, dove ho usato un piccolo organico di archi insieme ai sintetizzatori. Questi due lavori fanno parte di una serie televisiva in USA che si chiama Masters of horror che vede insieme molti registi famosi come John Carpenter, Toby Hooper, John Landis e molti altri. Dario è l’unico regista europeo della serie e l’episodio Jenifer è quello che ha avuto più successo di tutti. Il DVD ha venduto più di un milione di copie solo negli Stati Uniti. Non hai mai pensato di coinvolgere i restanti tre Daemonia nella scrittura di musiche per film? Per adesso ancora no e poi dipende anche CoolClub.it dal tipo di film. Per adesso sto componendo musiche molto classiche e orchestrali dove sicuramente il sound rockettaro stonerebbe sicuramente. Ma spero al più presto di poter realizzare un film tutto all’insegna del nostro sound. In merito al nuovo film di Dario Argento, La terza Madre, musicalmente cosa dovremo attenderci? Come ho già anticipato prima, La Terza Madre avrà una musica molto classica e non avrà niente in comune con Suspiria come forse molti si aspetteranno. D’altronde il film, anche se sarà l’ultimo della trilogia Argentiana “stregonesca”, è anche molto diverso dai suoi due precedenti (Suspiria e Inferno) e quindi anche il sound non potrebbe ricalcare ovviamente i precedenti. Un po’ come fece anche Keith Emerson per Inferno che non prese in considerazione le musiche dei Goblin come riferimento. Il sound della mia musica del film sarà tutto realizzato con l’orchestra sinfonica e cori gotici con pochissimo uso di sintetizzatori. Per adesso sto lavorando sulla preproduzione per poi andare a registrare l’orchestra in un grande studio (non so ancora se in Italia o all’estero). Spero che il film, come la colonna sonora, soddisfi tutti i fan che aspettano finalmente La terza madre da quasi 30 anni e io, naturalmente, sono molto onorato di musicarlo. Nicola Pace Il cinema pugliese è in netta crescita grazie a registi come Edoardo Winspeare, Fluid Video Crew, Alessandro Piva, Sergio Rubini e molti altri. Ma nel settore c’è un’altra componente che sta muovendo passi importanti. Numerosi musicisti pugliesi prestano le proprie musiche al grande schermo e, in alcuni casi, diventano protagonisti o comparse di pellicole. È il caso (ovviamente fortunato) dei salentini Negramaro che con La febbre di Francesco D’Alatri hanno lanciato il loro cd Mentre tutto scorre. Il musicista tradizionale Antonio Castrignanò ha musicato Nuovomondo di Emanuele Crialese. Cesare Dell’Anna e i suoi Opa Cupa cureranno la colonna sonora del film Frankie Faccia Tosta alla ricerca del successo, scritto e diretto da Gianni Torres con Jhonn Turturro. Sembra indissolubile il rapporto tra Ivan Iusco e Alessandro Piva (vedi intervista a pag 31). Il panorama è in continuo e perpetuo movimento e ovviamente questi sono solo alcuni esempi. Un posto di rilievo in questo settore se l’è costruito Francesco Cerasi. Il ventiseienne barese, cantautore, già anima del gruppo “Le stanze comunicanti” e ottimamente accolto dalla critica per il suo mini cd d’esordio Il Viaggiatore, nel 2004 è approdato sul grande schermo con le musiche del bel film Volevo solo dormirle addosso di Enrico Cappuccio. Com’è nata questa collaborazione? In maniera molto casuale. Un mio amico, che stava curando il sito del film, mi fece vedere questa sceneggiatura. Il titolo mi ispirò una canzone. La sera stessa mettemmo su insieme al gruppo tre temi strumentali. La registrazione di questi pezzi passò poi dal mio amico a Cappuccio che mi chiamò dopo alcuni mesi. Così nacque la colonna sonora del film. In realtà è stata una evoluzione casuale ma naturale del lavoro che già facevo con la band. Durante i concerti cercavamo sempre di proiettare qualcosa, di fare interagire suoni e immagini. Sei molto giovane ma hai già una lunga esperienza alle spalle Dopo il film sono stato invitato a Venezia, dove il film era in concorso, come il più giovane compositore della storia della Mostra. Da lì ho continuato su questa via. In tutto ho musicato sette lungometraggi e numerosi corti. A marzo uscirà Uno su due sempre di Capuccio con Fabio Volo. Qui farai anche una piccola parte, se non sbaglio. Si, canto una mia canzone. Insomma faccio me stesso. Qual è stato finora il rapporto tra la tua musica e i film? Finora le musiche sono state sempre scritte leggendo la sceneggiatura. Secondo me bisogna avere un grande senso della struttura narrativa altrimenti si rischia di fare solo una compilation. Invece devi avere il senso del racconto, devi sapere quale personaggio far risaltare e quali sentimenti mettere in evidenza. Nella scelta di alcuni strumenti inoltre bisogna essere influenzati dalla fotografia. Il freddo ti porta a stare su certe frequenze mentre qualcosa di più caldo ti porta ad avere propensione per altri strumenti. Nel tuo futuro non ci sono solo colonne sonore? No, cerco sempre di continuare ad essere un compositore che canta. Tra qualche mese dovrebbe uscire il mio nuovo cd. Un disco pop, diretto giacché le cose troppo di nicchia mi fanno arricciare il naso. Pierpaolo Lala Keep Cool Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie la musica secondo coolcub The Good, The Bad and The Queen The Good, The Bad and The Queen Parlophone Rock / **** Eccoci qui, questo album è finalmente giunto alle stampe. Difficile, negli ultimi anni, un tale entusiasmo per una formazione che ho qualche problema a definire emergente, vista l’età media (e l’esperienza) dei componenti, ma che comunque irrompe nel panorama musicale a dare freschezza e a scaldare i cuori degli addetti ai lavori. E non si può affatto dire che l’attesa non sia stata adeguatamente ripagata. Presi singolarmente, abbiamo a che fare con dei piccoli geni del rock (e del pop, diciamolo). C’è Damon Albarn (nella foto), leader dei Blur (compianti? Si riuniscono?), del side-project extralusso (Gorillaz), uno che potrebbe vivere di rendita ma che non ha nessuna intenzione di smettere con la musica e con il divertimento insito nella sperimentazione; Simon Tong, chitarra dei Verve (loro non si riuniscono di certo), poi degli ultimi Blur (post-Graham Coxon) e dei Gorillaz stessi. Ancora, c’è Paul Simonon, il bassista dei Clash, colui il quale distrugge il proprio strumento nella storica copertina di London Calling, cd-icona della formazione capeggiata da Joe Strummer: non esattamente uno scarso, come scarso non lo è per niente il responsabile della batteria e delle percussioni, ovvero Tony Allen, che alla veneranda età di 67 anni, dopo aver inventato l’afrobeat con Fela Kuti, si fa trascinare da Albarn in questo progetto. Dietro le quinte, Dangermouse: dopo aver fatto incazzare la Emi per i suoi magheggi sul White Album dei Beatles, si fa mettere sotto contratto per questo album, fortemente voluto da Mr. Albarn, (i due hanno già collaborato per Demon Days dei Gorillaz). Volendo parafrasare, volendo fare parallelismi con un buon cocktail, abbiamo a che fare con 3/5 di Gorillaz, 1/5 di Africa e una spruzzata di Punk. E parafrasando il titolo del progetto (l’album non ha un suo vero e proprio titolo), potremmo andare a cercare chi, del quintetto, è il Buono, chi il Cattivo e chi la Regina (ogni riferimento a Morricone, sia nel nome che nelle sonorità non è affatto casuale). Il Buono appare Dangermouse, silenzioso quanto indispensabile manovratore dietro le quinte, capace di modernizzare quello che appare volutamente “vintage” nelle sonorità, permettendo agli altri componenti della band di parlare del futuro col linguaggio del passato. Il Cattivo? Chi se non Paul Simonon, il quale, a 51 anni, si mette realmente in gioco. Crudo nelle interviste, nelle foto, nel modo di essere, mansueto (forse troppo?) nella band. La Regina è senza alcun dubbio Damon Albarn, capace di entusiasmare turnisti di assoluto spessore (come Tong e Allen) e soprattutto tutti noi musicanti pseudo-alternativi, che abbiamo bisogno di emozioni forti. Come dite, non ho parlato dell’album? Perché, voi non ve lo comprereste un cd con queste premesse? Confidando nella vostra furbizia, vi suggerisco, nell’ascolto, di partire dall’ultima traccia. Non a caso, si chiama proprio The Good, The Bad and The Queen, non a caso, sembra una jam session a cielo aperto. Visto i protagonisti, più che un consiglio, è un dovere morale partire da lì, e magari ascoltare il cd in random. Tanto, che differenza fa. Berardino Amenduni KeepCool 10 The Beatles Love Emi Pop/**** Non ci si stanca mai dei Beatles, chi ne detiene i diritti lo sa certo meglio di noi. Ed ecco che sistematicamente, casualmente poi in periodo natalizio, esce un nuovo disco dei fab four. Disco che al contrario dei soliti pacchi natalizi non è buono da regalare ma da regalarsi. Si, perché questo Love altro non è che una dichiarazione d’amore di George Martin (storico produttore della band) ai Beatles, un regalo a chi di loro è rimasto e a chi non c’è più. Un gioco di scatole cinesi, un mash up, si dice in gergo, che attinge ai nastri delle registrazioni del tempo, ne prende spezzoni, li taglia, li incolla, donando alle classiche canzoni dei Beatles nuova veste e nuova forma. Arrangiamenti di un brano diventano tappeto di un altro, canzoni si fondono, altre pompano più che mai. Si ingaggia, tra gli appassionati, una gara al particolare, alla citazione. Love non è l’ennesima consacrazione del quartetto ma una nuova e affascinante interpretazione. (O.P.) My chemical romance The Black Parade Reprise/Warner Rock / *** I My Chemical Romance sono un circo in cui glam, rock, punk, metal sfilano tirati a lucido. Roba per adolescenti verrebbe da liquidare. Belli e maledetti sono un po’ dark nell’aspetto, decadenti nei testi, disperati ed emo. Con tutte queste caratteristiche almeno una dovrà piacerti, hanno pensato. Ed è così, perché alla fine dei conti piacciono quasi a tutti. Quasi, è meglio precisare, perché c’è chi di questi lamenti generazionali ne ha piene le scatole. Per chi come me si è già depresso con Radiohead e Smashing Punpkins gruppi come questo fanno ridere...sempre meglio che piangere. (O.P.) Fratellis Costello music Island Universal Rock / *** Tutti ne parlano, tutti li vogliono. Una formula perfetta pronta ad innescare il detonatore del divertimento. Sono i Fratellis, nuovo fenomeno inglese. Legati tanto al punk dei Buzzcocks quanto al power pop dei Jam, i Fratellis ricordano un po’ i Supergrass del primo album. Freschi sono freschi, hanno un tiro non indifferente, sono rock and roll, beat. Senza prendersi troppo sul serio, molto convincenti negli episodi più adrenalici. Fatti per ballare, la nuova febbre del sabato sera. (O.P.) Rob Crow Living Well Temporary Residence Pop da camera / *** Sono belli i dischi che rappresentano un uomo, un one man band come si suol dire. Artigiani della canzone che producono dischi realizzati quasi completamente in casa. È il caso di un artista come Rob Crow. Basta poco per vivere bene, sembra il messaggio di questo album. La tranquillità animata da una velata inquietudine rock è già nel concept grafico di questo disco. In copertina campeggia l’artista che posa nel giardino della sua villetta con un tazza di caffè in mano, all’interno una foto che lo ritrae con un bambino in braccio (il figlio?), nella quarta di copertina (?) stringe a sé la moglie incinta. Sullo sfondo campeggiano decorazioni di Halloween. Digressione inutile se non riproducesse perfettamente il contenuto del disco. Quattordici brani, messi lì come fossero appunti, brevi (alcuni sotto i due minuti) cantanti con quanto fiato basta, dolci e dimessi come il buon Elliot Smith ci aveva abituato. Sullo sfondo un senso di irrequietezza tenuta a freno da minimalismi, chitarre sporche, accenni di folk post in stile Jim’O’Rourke. (O.P.) Deftones Saturday Night Wrist Maverick Nu-Wave-Metal / **** La musica dei Deftones si è spesso basata sull’equilibrio precario dei rapporti tra Steve Carpenter e Chino Moreno. Chitarrista a spigoli vivi e paladino del rumore amplificato il primo, cantante viscerale e sensibile il secondo, infatuato delle romanticherie new wave inglesi anni ’80 e col poster degli Smiths in camera. Anni di divergenze artistiche, litigi e musi lunghi che loro malgrado si sono tradotti musicalmente in affascinanti e originalissime forzature stilistiche di ibrida bellezza. Ciò ha permesso al gruppo di Sacramento di smarcarsi, quasi subito, dalla pletora di band nu-metal, i cui sopravvissuti hanno finito poi per diluirsi in certo pop da classifica o perdersi in un’autocitazione grottesca e senza fine. In questo disco i Deftones abbandonano un po’ le bizzarrie soniche dell’ultimo omonimo album e continuano invece la ricerca alchemica, iniziata con White Pony (2000), di nuovi possibili connubi tra distorsioni irruente e tormenti melodici. Formula che qui si ripete più volte, ma che funziona maledettamente bene. Il trasporto che si crea in Beware,Cherry Waves, Riviere e Xerces (quasi Mogwai in apertura) ne sono la prova. Non manca comunque la furia cieca di pezzi come Rapture e Rats!, minaccioso monito all’incolumità delle rotule nei concerti prossimi venturi. Ma questo è un disco con le chitarre più smussate del solito, l’impatto è più emotivo che sonoro. Questa volta l’ha avuta vinta Chino Moreno. Giovanni Ottini Thomas Belhom No border Ici d’ailleurs Space folk / **** Mai titolo più azzeccato per un disco così. No border, nessun confine. Musica per ampi spazi quella di Thomas Belhom, musica che nasce dall’infinitamente piccolo per conquistare lo spazio, dilatarsi. Un disco senza confini per ché registrato in viaggio (Londra, Monaco, Parigi) ma anche per i suoi paesaggi sonori. Sono i grilli a introdurci una discesa in praterie dove le corde di una steel guitar sembrano toccare il cielo...proprio lì dove tra letti acustici e slide lontani chilometri si fa avanti la voce di Thomas. Solo leggere gli ospiti di questo suo nuovo album offre una panoramica precisa del suo mondo musicale: Stuart Staples (Tindersticks), Volker Zander (Calexico), Paul Nohaus (Lambchop). La musica di Belhom viaggia lontana perché è leggera, come un aereoplano di carta, come una piuma, la sua impronta stilistica è così raffinata da non rinunciare a riminescenze europee pur sembrando bluegrass. Dalle origini da percussionista la carriera e il talento di Belhom sono cresciute e ci regalano oggi un talentuoso polistrumentista e un grande autore. Osvaldo Piliego The Magic numbers Those that brokes Heavenly Pop / *** I Magic Numbers confermano il loro stato di grazia artistica. Con questo nuovo album Romeo e soci dimostrano di avere la grande capacità ad intrecciare melodie vocali e imbastire strutture semplici ma travolgenti. Musica tenera, sembra la colonna sonora di una puntata di Love boat, a volte un po’ più smaliziata in stile Tre cuori in affitto. La loro dichiarata passione per gli anni 60 e per Band come Mamas and Papas, Beach Boys, Lovin’Spoonfull si sente ancora. Il disco ha una manciata di singoli, qualche mid tempo irresistibile, e momenti più caramellosi che piacciono ai romantici. KeepCool Field Music Tones Of Town Memphis Industries/V2 Indiepop / ***½ I fratelli Peter e David Brewis, insieme al tastierista Andrew Moore, formano i Field Music, un talentuoso trio experimental pop di Sunderland, nel Regno Unito. Dopo un esordio omonimo ed una raccolta di b-sides ed inediti (Write Your Own History), il secondo album “ufficiale”, Tones Of Town, prosegue con successo il percorso intrapreso dalla band. Non si può fare a meno di notare certi richiami anni ’80, band del calibro di XTC e Genesis (quelli di Peter Gabriel), andando ancora più indietro si potrebbe finire nel pop inglese anni ’60. Richiami, dicevamo, perché la formula Field Music comprende tanto ed altro ancora. Innanzitutto la sperimentazione, questa è la cosa più importante, probabilmente facilitata dall’assenza di pressioni o richieste, o modifiche che a volte le etichette discografiche impongono, infatti quest’album, come anche i precedenti lavori, è completamente autoprodotto, e registrato, tra l’altro, nel proprio studio, l’Eight Music. Originali ed intelligenti, ben scritte ed arrangiate, le canzoni di Tones Of Town scorrono via con piacere, i giochi 11 di voce, i motivetti, cori e controcori, suoni synth e pianoforte, le chitarre allegre,… in certi casi anche gli archi. Sarà uno dei migliori album del 2007? È presto, si vedrà. Livio Polini The Shins Wincing The Night Away Subpop/Audioglobe Indiepop / ***1/2 Puoi pensare all’etichetta Subpop senza farti venire in mente solo il periodo grunge? In questo ti aiutano gli Shins, che bisogna dire sono bene accompagnati da nomi validi come Rogue Wave, Wolf Parade, Iron and Wine, Comets On Fire, Wolf Eyes, ecc.. Arriva dopo una lunga attesa (ben quattro anni) il terzo disco della indiepop band di Portland capitanata da James Mercer. Due illustri nomi hanno collaborato alla realizzazione tecnica di Wincing The Night Away: Phil Ek (Modest Mouse, Built to Spill) e Joe Chiccarelli (Beck, Rufus Wainwright, Brian Wilson). I brani risultano coinvolgenti, dinamici, ricchi di estro e ben curati, emozionanti, non privi di finezze. La formula powerpop raggiunge la perfezione, e con quest’ultimo lavoro, non si fa fatica a dirlo, c’è un ulteriore salto di qualità. La band probabilmente raggiungerà la Bloc party A weekend in the city Wichita Rock / **** Viste le aspettative create dall’esplosivo esordio di Silent Alarm, devo ammettere che questo secondo disco dei londinesi Bloc Party era tra quelli che aspettavo con più ansia in questo inizio 2007. Internet ha reso l’attesa meno straziante per molti, visto che l’intero album era facilmente reperibile in rete già a fine novembre, con due mesi di anticipo sulla data di uscita ufficiale. Era inevitabile il confronto con l’ingombrante predecessore, e sarebbe stato fin troppo facile per i quattro ragazzi sfornare un “Silent Alarm Part II”; più difficile imboccare un sentiero nuovo, senza snaturare la propria essenza sonora, puntando piuttosto a ridefinire un sound originale. Ma se il risultato di due anni di lavoro in questa direzione è A Weekend At The City, allora i Bloc Party hanno di nuovo centrato l’obiettivo. Pezzi come Song For Clay, un crescendo ipnotico che esplode con potenza nel ritmo incalzante del ritornello, o Hunting For Witches, con un riff che ricorda forse troppo Helicopter, costituiscono l’anello di congiunzione tra passato e presente. L’intero album ruota attorno al tema della vita nella metropoli del ventunesimo secolo, indagata nei suoi molteplici aspetti: le parole di Kele, nel susseguirsi dei pezzi, rivelano tutta l’alienazione e la desolazione celate dietro i gesti più abituali, mentre le chitarre continuano a disegnare armonie spigolose scandite dall’incedere ossessivo della batteria. Ottimo il primo singolo, The Prayer, che ha tutte le carte in regola per diventare un inno, ma ancora migliore Uniform, a mio avviso il pezzo più ispirato dell’intero album, il cui testo descrive perfettamente l’omologazione e il vuoto della “generazione internet & MTV”. Nella seconda parte l’album allenta un po’ il tiro, anche se non mancano altre perle, come l’onirica Kreuzberg o la delicata Sunday, che insieme ad I Still Remember strizza l’occhio nientemeno che agli U2. A Weekend In The City è un buon disco, raffinato e curato nei minimi dettagli, che comunica il meglio di se solo dopo qualche ascolto. I Bloc Party hanno stile, questo è il loro miglior pregio, e con questo cd hanno confermato di saper comporre piccoli gioielli “indie”, canzoni orecchiabilissime ma mai banali, osando ma al tempo stesso rimanendo fedeli a se stessi. Giuseppe Muci consacrazione e arriverà a farsi conoscere ad un pubblico ancora più ampio. Ancora di più? Ma gli Shins non erano quelli che avevano venduto più di un milione di copie? Già, sono loro. E in Italia, chi li conosce? Non lo so, non ho chiesto in giro, ma tra la partecipazione alla colonna sonora di un film (La Mia Vita a Garden State) e quella di un telefilm (The O.C.), di sicuro il nome, almeno tra i teenagers, circola già. Livio Polini Of Montreal Hissing Fauna, Are Destroyer? Polyvinyl/Goodfellas Indiepop / ***½ You the Ottavo album per la band psych-synthpop di Athens. Sulla scena indie mondiale da circa dieci anni, album dopo album, i cinque statunitensi capitanati da Kevin Barnes si muovono sempre di più verso suoni synth e battute dance, ma anche in quest’occasione di sicuro non manca la varietà di genere. Di inalterato, rispetto al passato, c’è l’amore per il sixty-pop, un amore che non tramonta mai (avete presente Brian Wilson e soci?). Dodici tracce di materiale elettrizzante, una miscela perfetta di stili, dal rock di Suffer for Fashion al disco-funky di Gronlandic Edit, dal kraut di The Past is a Grotesque Animal al synthpop di Heimdalsgate Like a Promethean Curse. Ed il titolo dell’album, Hissing Fauna, Are You the Destroyer?, sarà una provocazione o un urlo ambientalista? Sempre più maturi, gli Of Montreal, sembrano non sbagliare più un colpo, esperti, si muovono con naturalezza in tutti gli ambiti e le sfumature del pop moderno. Già col precedente, The Sunlandic Twins, avevano dato l’idea di questa spontaneità, traspare facilmente nelle loro canzoni il divertimento che si prova nel far musica. Ancora un colpo vincente messo a segno da questo abile quintetto, un’altra prova di qualità. Livio Polini Sophia Technology wont save us City Slang Rock / *** Robin Propper Sheppard torna con i suoi Sophia a tormentare i nostri poveri cuori malati. Dopo il rumore dei God machine Robin si è rifugiato in questo nuovo progetto che ha trovato nella calma la risposta alle tensioni degli anni 90. dopo il bellissimo People are like seasons arriva Technology wont save us ed è subito sera. Le ballate notturne di questo nuovo album sono emozionanti, struggenti. Non mancano le tracce di un passato ruggente, tracce più lisergiche, ma anche parti orchestrali ( basta ascoltare il maestoso incipit del disco). Acustico elettrico elettronico Robin Propper Sheppard fa sempre centro...al cuore naturalmente. KeepCool 12 Idlewild Make another world Sequel/Edel Guitar pop / **** La band scozzese torna con questo nuovo Make another world dopo aver tirato a lucido il suo inconfondibile sound. Guitar pop che fa scuola e si distingue nella febbricitante ricerca del gruppo più giovane possibile. Gli Idlewild sono robusti, non risparmiano le distorsioni senza perdere mai di vista la melodia. La voce di Robby Woomble, fresco di album solista, è come sempre bellissima, capace di ammaliare come Morrisey sapeva e sa fare, o di essere tagliente come Molko. Fedeli alla linea gli Idlewild riescono anche a superarsi scendendo in pista con un irresistibile No emotion. Make another world è invece la testimonianza che crescere è inevitabile e necessario, un esempio di maturità artistica. ma è solo una manciata di minuti. L’attacco della seguente If it takes you home è così punk rock che sembra essere dei Green Day. Alcune aperture corali sono da togliere il fiato, i momenti più riflessivi hanno un che di Rem, giusto un retrogusto. Quello che rimane alla fine di questo Make another world è la conferma di una grande band. Osvaldo Piliego Matt Elliott Failing songs Ici D’Ailleurs Folk / **** Dopo la definitiva deriva folk del vecchio manipolatore elettronico inglese con l’emozionante Drinking songs, c’era molta attesa sul dove sarebbe andato a sbarcare. Ma invece di un approdo il nostro sembra esser del tutto naufragato nei vortici della sua profonda e complessa psiche. Racchiuso in una splendida confezione cartonata completa per la prima volta anche di testi (e che testi) questo nuovo Failing songs rivela infine la sofferenza di un’anima travagliata che tuttavia, in fondo, era stata sempre presente fin dagli albums firmati Third Eye Foundation, in cui le tentazioni modaiole drum’n’bass venivano destrutturate da uno spirito malinconico. Ora la drammaticità viene messa infine in primo piano, esasperata, esposta agli occhi di tutti in modo evidente (e la presenza dei testi scritti lo dimostra), e in questo processo di estrinsecazione psicanalitica si realizza propedeuticamente anche una trasformazione sul piano stilistico. Per raccontare in modo diretto la propria sensibilità segnata recide definitivamente ogni legame con la freddezza del suono digitale per affidarsi a strumenti (piano, chitarra, violino, violoncello e melodie di un profondo passato). Si ha uno spostamento fin’anche geografico: dall’avanguardia della ricca Inghilterra si muove verso territori rimasti legati a temi e caratteri antichi, semplici, poveri, provinciali. Nenie infantili, lente ballate corali, danze gitane, atmosfere spettrali, funeree, solenni melodie, continue riprese di temi popolari tradizionali mitteleuropei, slavi, greci, spagnoli, francesi. Storie di fallimenti, disagio, e di insofferenza per un mondo che non sente il proprio. Tuttavia alla fine del viaggio, in Gone, sembra aprirsi uno spiraglio di luce, di salvezza, di positività: “... bad thoughts are gone, war is won, and alls in it’s plce, the day’s all ours...”. Attenzione: ve ne innamorerete perdutamente se lo fate entrare a piccole, piccolissime dosi, vi sarà insopportabilmente pesante se preso tutto in una botta. Gennaro Azzollini house diventerà un istituzione. Passano gli anni, arrivano i 90 e Kenneth fa uscire la compilation Music for dreams, che sarà madre di un suono, di uno stile di fare musica, in senso più generale chill out, musica in parte ispirata all’ambient, ad atmosfere da sogno per l’appunto. Music for dreams, che vanta collaborazioni di altissimo livello, diventa subito famosissima fino a trasformarsi in una vera e propria etichetta. Questo Fragments from a space cadets, è un po’ come la Guida per autostoppisti dello spazio, una serie di stralci, di pillole. Un’introduzione a un mondo che non è terreno. Dentro queste tracce ci sono Brian eno, il Kraut rock, campioni di brani celebri e colonne sonore, l’acustica che incontra l’elettronica, il glith, l’hip hop, atmosfere jazzy swing alla Koop. Il lungo finale The day after yesterday è un frammento diviso in cinque momenti (ad un tratto sembra di aver messo su i Gotan project) che si conclude con un duetto tra Julee Cruise e il grande Syd Matters... semplicemente bellissimo. Osvaldo Piliego Amy Winehouse The Cinematics Back to Black Island Soul / ***½ A strange Education TVT Rec Brit / *** Dopo Interpol ed Editors arrivano nel lettore CD o nell’Ipod degli amanti della “New New Wave” anche i quattro scozzesi Cinematics, due chitarre basso batteria che si immergono totalmente nei suoni e nelle atmosfere che vanno tanto di moda oggi indifferentemente ad est ed ovest dell’oceano Atlantico. Indie Rock allo stato puro, misto a un voce alla Tom Smith (degli Editors) con una spruzzatina di Morrisey. Il Cd apprezzabile nel package e di piacevole ascolto contiene oltre le 12 tracce due video della band. Su tutti i brani Break, il singolo da Dance Floor (accompagnato anche dal video), Sunday Sun ammiccante brano in puro stile BritPop anni novanta, Keep Forgetting che strizza l’occhio (forse troppo ai già citati Editors e ai Bloc Party). Insomma un disco che dice poco di nuovo e che a tratti ricorda troppo altre cose, ma che vale la pena ascoltare per la qualità dei brani, per l’ottima registrazione ed esecuzione. Cesare Liaci Kenneth Bager Fragments from a space cadet Music for dreams/ family affair Elettonica / *** La storia comincia negli anni 80 quando Kenneth Bager cominciò a muovere i suoi primi passi. Siamo a Copenaghen e Kenneth nell’ambito della musica acid Lei è nata a settembre del 1983 ed è al secondo album. Io sono di qualche mese più giovane e mi limito a inseguirla. Mi sembra anche giusto. Talento purissimo del soul inglese, cresciuta a pane e musica nel nord di Londra, dopo un discreto successo commerciale e gli applausi della critica con il suo debut-album Frank, torna Amy. In Italia non abbiamo niente di questo livello, e questo varrà per chissà quanto tempo purtroppo. Ok, dalla sua c’è la voce, e lì non c’è geografia che tenga: il suo timbro, spesso paragonato a quello di Macy Gray (ma dov’è finita?), la porterà dovunque. Probabilmente anche il suo carattere. Ideale per ciò che canta e per come lo fa. Di certo c’è la colonna sonora del prossimo Bond: i produttori hanno deciso di investire nel suo futuro. Nel suo presente grossi disordini alimentari (continuo oscillare tra bulimia e anoressia, per la gioia dei tabloid...etica? No grazie), qualche sbronza un po’ troppo pubblica. KeepCool E un anno e mezzo di totale inattività. Poi arriva Mark Ronson (ha prodotto Lily Allen, vuoi vedere che diventa il Pharrell d’Albione?) e la luce si riaccende. Qualche perla (la title-track su tutte), un paio di pezzi più che buoni per la radio (Re-Hab già la ascoltiamo da noi, You Know I’m no good arriverà a breve), un soul anni ‘60 giusto un po’ in ritardo (Love is a losing game). Tre o quattro pezzi appaiono completamente inutili, ma bisogna pur arrivare a quota 35 minuti, e mettere insieme 11 tracce, altrimenti la multinazionale non paga più. Ha 23 anni, speriamo non le mettano pressione almeno fino al quinto album. A meno che non vogliano far felici i tabloid a vita.. Dino “doonie” Amenduni Saint privat Superflu Dope noir Easylistening / *** Se qualcuno di voi avesse la fortuna di poter fare un giro in Yacht in Costa azzurra... beh questo disco sarebbe l’ideale. Per chi, poi, fa dell’eleganza una questione di stile innato ...beh questo disco è perfetto. Perché la musica contenuta in questo Superflu è roba capace di arredare una stanza, di rendere “cool” un soggiorno ikea. Saint privat è un progetto che unisce la voce della bella e francese Valerie e il produttore viennese Waldek. Niente di più facile, easy listening appunto capace con poco di creare suggestioni musicali d’altri tempi congelate da una discreta elettronica e consegnate all’eternità. Il divertissement è di casa così come le citazioni che il duo accenna. Da un riff di chitarra che sembra omaggiare i velvet undergound si passa a piccoli intermezzi barocchi, per poi montare su un jet privato e scomodare il tropicalismo, il jazz. Suoni del passato si incastrano senza stridere ma morbidi con i nuovi ritmi, protagonisti di una moderna spy story. Il francese poi è velluto color porpora su questa musica: sensuale, caldo, avvolgente. (O.P.) Co’ Sang Chi more pe’ mme Relief Records Hip hop / *** Acclamati come una delle migliori novità nel panorama hip-hop nostrano, i Co’Sang si presentano all’esame del primo album su major forti di featuring di rilievo sui dischi di Inoki, Mr.Phil e Rischio. E la prova sulla lunga distanza è coerente con quanto dimostrato finora dal gruppo, nel bene e nel male. Non aspettatevi un disco facile, i Co’ Sang non cercano singoli da mettere in classifica, e non cercano di aiutare l’ascoltatore poco esperto: il che si traduce in musica con un suono cupo e scarno, estremamente coerente dall’inizio 13 alla fine del disco, ritornelli che poco si distaccano dal flow delle strofe, melodie quasi assenti e liriche profonde e di peso. In altre parole, hip-hop hardcore al 100%, e di un livello che non veniva raggiunto in Italia da quasi un decennio. L’altro lato della medaglia è una certa monotonia che emerge a tratti, complice anche l’uso esclusivo del dialetto partenopeo, che rende ostica la comprensione dei testi. E quando si arriva alla splendida title-track, forte di un ottimo inciso melodico, ci si chiede come mai non ci siano più pezzi un po’ più “orecchiabili” come questo. Preparatevi, avrete bisogno di più di un ascolto per entrare in questo disco, ma la fatica sarà ricompensata: i Co’ Sang sono uno dei migliori gruppi mai usciti da Napoli, e con Chi more pe’ mme entrano di diritto nella storia dell’hip-hop italiano più intransigente, eredi di artisti del calibro di OTR e Sangue Misto. Signor Php Eagles of death metal Death By Sexy Columbia / Sony BMG R’n’r /*** Contrariamente a quanto si legge in giro questo non è un sideproject voluto da Josh “pelo-rosso” Homme. La band nasce, invece, da un’idea di Jesse Hughes che del leader dei Queens Of The Stone Age è amico fraterno. Questo non significa che gli Eagles of death metal siano i fratellini minori dei Qotsa, anzi, è proprio perché per Homme questo rappresenta un “giocoso divertimento” che la faccenda acquista un suo proprio valore aggiunto. Del gioco fanno parte anche Mark “prezzemolo” Lanegan, l’attore/musicista Jack Black, Dave “Foo Fighters” Grohl e qualche altro amico capitato lì forse per caso. La proposta è chiaramente scanzonata e vuole essere ammiccante e sexy, come suggerisce anche il titolo, ma il risultato è tutt’altro che disprezzabile. Sudaticcio, sgangherato ed anfetaminico r’n’r, in rigorosa bassa fedeltà, che non sposa soltanto la solita filosofia del sex, drugs & rock’n’roll, ma mette sul piatto anche ottime canzoni country, blues e pop viste, però, attraverso una patina di polverosa sabbia desertica che ne dà un aspetto ancor più primordiale se è possibile. Complessivamente Death By Sexy gira a pieno regime, offrendo momenti di sano e genuino divertimento, proprio come lascia trasparire l’autentico entusiasmo dei personaggi coinvolti. Troppo poco? Molto più di quanto offrano un sacco di altri dischi di questi tempi! Camillo “RADI@zioni” Fasulo Squarepusher Hello Everything Warp/Self Drum’n’Bass, Fusion / **** Album numero 10 per Tom Jenkinson. Fedele alla sua linea... di basso. Diplomatosi al conservatorio in questo prezioso strumento, oberato (immaginiamo) da regole e precetti rigidi, continua a divertire e divertirsi giocando con l’elettronica e la sua eccellente tecnica musicale. Già, le regole: quelle della critica musicale vorrebbero una denominazione accanto a ogni album. Provare a catalogare Squarepusher è probabilmente, prima di un’operazione complessa, un’enorme fesseria. Eppure, vai su Wikipedia (di certo non la Bibbia, ma il più lampante dei Signs o’the Times) e trovi non meno di 5,6 definizioni per le sue produzioni. Gongola Tom, sorridono ai vertici Warp. L’etichetta più insolente di sempre continua a sfuggire a tutto (e MTV, silenziosamente, apprezza, inserendo di tanto in tanto pezzi del loro repertorio in scaletta). E sforna grandi cose: in Hello Everything basso e batteria appaiono strumenti caldi, quasi orecchiabili, pur mescolati in accelerazione. Planetarium è piena di jazz, Welcome to Europe è il manifesto postumo di una generazione lisergica e nostalgica, Hello Meow è il Commodore 64 che abbiamo sempre sognato. Theme from sprite e Circlewave ci riportano al conservatorio, ma anche alla fusion (Thelonius Monk vi dice nulla?) Limiti? Si, certo: prima di tutto, l’album è strumentale, il genere è a dir poco oscuro: non regalatelo alla vostra fidanzata. Poi, la traccia numero 5: l’onestà intellettuale di Jenkinson, che la chiama Vacuum Garden, non può comunque giustificare uno svarione di queste dimensioni in un cd che paghiamo circa 20 euro. Berardino “doonie” Amendun Garoto Garoto Ponderosa Pop / *** Vengono da Lisbona, ma è solo un indizio. Perché la loro è una musica cittadina del mondo. Sono i Garoto, un’orchestrina stramba che con il minimo indispensabile ha creato un sound unico e senza confini geografici. Due chitarre, una tuba, una batteria e il gioco è fatto. Il portoghese è il lascia passare per atmosfere che sanno di Brasile che ammiccano alla bossa. Ma è solo una delle carte in mano ai Garoto. Lo spagnolo è dietro l’angolo è subentra cadenzato come nel Manu Chao più acustico. Sbarazzino e sensuale, sembra un mambo, non lo è, forse un cha cha cha, neanche. Semplicemente sono i Garoto. Le atmosfere si fanno più jazzy quando è il francese a fare capolino, il sound si fa più KeepCool 14 cittadino e lo swing della mini orchestrina si anima. Come se si cambiasse d’abito, come se a seconda della lingua usata per le liriche ci si immedesimasse in un nuovo ruolo. Camaleontici sulla strada del pop: questo sono i Garoto. Bravissimi musicisti riescono a spaziare nei generi fino a diventare blues, rock. Una scoperta. Osvaldo Piliego The Blue Van Dear independence Ivi records Rock / **** Il rock and roll nord europeo da fenomeno è ormai diventato una scena radicata e esportata. Se l’America ha i suoi Von Bondies e l’Australia i Jet, la Danimarca ha i suoi Blue Van. Dimostrazione che gli anni 60 e 70 hanno lasciato un segno profondo in tutto il mondo e che oggi più che mai questi suoni sono stati metabolizzati ed elaborati. L’organo Hammond già dall’apertura non lascia scampo, con un mix esplosivo di Led zeppelin e Motown (un po’ Zutons per restare nel contemporaneo). C’è un attitudine molto soul che si alterna a momenti più garage, altri più blues alla Doors o alla Cream. Ci sono tante cose, un revival che attinge a piene e mani al passato ma con passione e personalità. Sentire riff che sembrano dei Kinks affiorare nel bel mezzo di una canzone fa piacere. Per chi ama le sonorità dei gruppi citati in queste poche battute i Blue Van non potranno che piacere. Un disco ruggente. Osvaldo Piliego Evereve Triede & Faled Massacre Records Gothic-metal/** Ne hanno fatta di strada gli Evereve da quel disco immortale che fu Seasons, un’opera che amalgamava in un’unica ricetta svariate sfumature: gothic, black-metal, dark, elettronica e qualche accenno a soluzioni progressive. Gli Evereve di oggi li definirei maestri del gothic-metal a tinte elettroniche. Il loro modo di suonare e comporre con il tempo è notevolmente cambiato, si è snellito di molti elementi, ma la componente metal, sorretta dalla potentissima ritmica, è rimasta costantemente su un piano di prima importanza; in più l’atmosfera emozionale, fragile ed introspettiva dei brani non si è snaturata. Lo scopo artistico della band sembra quello di colpire nel cuore e nell’anima l’ascoltatore di turno, attraverso le scelte artistiche del momento. La musica nelle mani degli Evereve è solo un mezzo da plasmare a proprio piacimento, con lo scopo di comunicare una sensazione alla parte più intima e sensibile degli esseri umani. Nicola Pace My Brightest Diamond Tear It Up Asthmatickitty Remixes / **1/2 Rafter Music For Total Chickens Asthmatickitty indiepop / ***1/2 Ancora due nuove uscite per l’etichetta di Sufjan Stevens. Una è una raccolta di remixes dell’apprezzato album d’esordio della affascinante Shara Worden aka My Brightest Diamond (nella foto), uscito appena qualche mese fa. Tra i remixers trovate Alias (Anticon), che ritocca leggermente ma con gusto Golden Star; Murcof, che riempie di glitchs e sbuffi di tramontana Dragonfly; Lusine, che rende ancor più calda Workhorse; Stakka, che per Disappear riprende un pò certe atmosfere soft dell’elettronica nordica; Haruki invece aggiunge un delicato tocco di eleganza orientale a We Were Sparkling; e Siamese Sisters, che, dando maggior spazio alla propria creatività che al brano su cui lavorare (The Good And The Bad Guy), realizza un bel pezzo quasi tutto strumentale. Da dimenticare invece le due agghiaccianti versioni elettro di Freak Out (quella di dj Kenny Mitchell ricorda antichi ritmi post d’n’b stile prima Warp, mentre la Gold Chains Panique Mix è tanto insulsa che non la passerebbe nemmeno Albertino). Il prodotto nel complesso non è niente male (tutta sta down-beat costantemente accompagnata dagli archi ricorda a tratti gli U.n.c.l.e., e in generale il triphop), semmai un pò troppo leccato, comunque perfetto per i lounge cafè fichi o per serate adulte semi-informali. Con questa roba di certo non farete brutte figure. Tuttavia, personalmente, Firebird Hot wings Rise Above/Audioglobe Hard rock / *** Tornano i Firebird, senza tanti giri di parole, una eccellente classic hard rock band inglese fondata dal chitarrista Bill Steer, in un’altra vita anche membro dei Napalm Death e dei Carcass. Hot Wings è il quarto lavoro per i Firebird e mostra una vena ancor più marcatamente blues dei precedenti album. Datemi pure del retrogrado, ma questo è il miglior hard rock-blues che si possa ascoltare oggi. Non è musica fatta per compiacere le mode, ma per placare la sete di chi gode di questi suoni. Musica fatta con il cuore. Tuttavia, per quanto sembri strano, questo rock suona fresco ed assolutamente al passo con i tempi e non come una mera rilettura di un seppur glorioso passato. Una lunga serie di aggressioni rock-blues o blues-rock che dir si voglia… un lavoro dove esplode un’inattesa anima color profondo porpora e dove è un continuo intrecciarsi di discorsi queste operazioni non le riesco più a gradire. L’altra novità è questo strano disco dall’improbabile titolo firmato Rafter (nome completo Rafter Roberts). Se questo nome non dice niente a più, allora conviene tener presente che il nostro è uno che già da lungo tempo ha messo le sue mani nei più disparati progetti musicali: dai Castanets ai Fiery Furnaces, dai Black Heart Procession ai Gogogo Airheart, dai Kill Me Tomorrow ai Rocket From The Crypt. Inoltre, il suo lavoro ufficiale è produrre jingles per gli spot pubblicitari... Inevitabilmente da uno così non poteva che uscire fuori un disco folle e incasinato in cui stili e atmosfere delle più distanti e inconciliabili si ingarbugliano strambamente, come se più che a un disco suonato ci trovassimo di fronte a un collage di frammenti di tutte le sue collaborazioni precedenti. E il bello è che il tutto funziona alla grande. Il disco è godibilissimo e divertente, nonostante si perda continuamente il filo del discorso. Un disco indiepop suonato con spirito free jazz. Da non perdere se vi siete finalmente rotti delle solite stronzate indiepop. Gennaro Azzollini che rimandano ad altri eroi del settore, dai Bluesbreakers ai Canned Heat, da Muddy Waters a Steve Ray Vaughan. In tutto questo i Firebird mantengono inalterato il loro vigore puramente hard, ma per il resto si lasciano trasportare dalla corrente blues. In Hot Wings arde tanto fuoco da incendiare gli animi di tutti i veri rockers e questo, scusate se è poco, vi dovrebbe bastare! Camillo “RADI@zioni” Fasulo Novembre Materia Peaceville Records Dark-rock(a tratti metal) / *** Nati nel 1990 con il nome Catacomb, dalla mente dei fratelli Orlando, pubblicano un demo ed un’E.P. di ottimo death-metal, in seguito all’evoluzione della loro musica, meno violenta e più riflessiva, decidono di cambiare moniker in Novembre. Di qui in poi i nostri incidono numerosi dischi, firmano per la prestigiosa KeepCool Century Media e si imbarcano per tour di supporto a Moonspell, Katatonia e Opeth. Dopo un intenso lavoro nel 2006 esce per la piccola etichetta inglese Peaceville Rec. Materia, un album difforme rispetto ai precedenti nel quale la musica, completamente emancipata dagli schemi death-metal, si orienta su un sound costruito su melodie chitarristiche ariose e ricercate. Carmelo Orlando ha quasi definitivamente abbandonato lo scream che tuttavia è presente solo in quattro episodi, infatti, il massiccio uso delle clean- vocals meglio si sposa con la scrittura melodica dei brani, anche se a volte gli arrangiamenti delle stesse sono completamente da rivedere. Altro punto interessante di questo disco è l’impiego di versi scritti in lingua italiana, operazione artisticamente ben fatta ma che non riscuoterà molti consensi. Nicola Pace Micecars I’m the creature Homesleep Indie / *** Sembra aprirsi come Boces dei Mercury Rev questo I’m the creature dei Micecars, un muro di feedback tra cui voci sognanti si fanno strada. Andando avanti nell’ascolto una galleria di gruppi che mi fanno impazzire mi investono. Sento i Pavement, i Grandaddy, Beta band, Pixies, Lemoheads, Dinosaur Jr. Chi più, chi meno, fanno capolino in un sound travolgente e in canzoni suonate con la giusta attitudine. In un periodo in cui forse ci si prende troppo seriamente, paranoici e cervellotici, un gruppo come i Micecars fa bene. Sguaiati, teneri, potenti, pop quanto basta per ronzarti una giornata nelle orecchie. Nulla di trascendentale o di particolarmente originale, roba che ascolti per staccare la spina, bere una birra e muoverti sotto un palco...ed è per questo che è irresistibile. (O.P.) Muffx ...Saw the... Beard of stars records Stoner / *** L’intro di piano è spaesante, ma ha già in sé qualcosa di malato, la tensione che dopo pochi secondi esplode in ...Saw the... brano che da il titolo a questo disco dei Muffx. 15 La neonata formazione salentina, porta in realtà sulle spalle la pesante (e nel caso del loro sound è proprio il caso di dirlo) eredità di un progetto come i Child from hell e vira il suo percorso verso territori stoner. Questo rock desertico, fatto di calustrofobia ma anche di grandi aperture sembra gemellare salento e america per affinità di paesaggi fisici e sonori. Il primo nome che viene alla mente ascoltando la traccia Omertà è quello dei Queen of the stone age e in particolare quelli di Song for the deaf. Ma proseguendo la lista delle influenze si fa più ampia e il loro sound si infittisce di reminescenze punk, piccoli scream alla Metallica, rock and roll grezzo Alibia Fra tutto e niente Cni Pop/*** Dopo le riflessioni psicopatologiche sul male di vivere il rock italiano ha scoperto la quotidianità. A cavallo del pop senza paura di cadere nel banale con un obiettivo: arrivare subito. Gli Alibia sono una di quelle band che ha in sé un pregio raro: la capacità di scrivere canzoni. Canzoni, le loro, che riescono a conciliare la vocazione pop con un’attitudine musicale rock. discrete, non invadenti come tormentoni. Canzoni che parlano di cose semplici, intime, tenere. Un po’ come i Baustelle, gli Alibia fanno il gioco dei ruoli. Maschile e Femminile sono le anime cantanti della band, due spiriti vicini, soffusi, come sfumature di uno stesso colore. Il paragone con i Baustelle si ferma però a un’impronta. Gli Alibia sono decisamente più rock, fortunatamente più acerbi, meno impostati ma più spontanei. Superata anche la prova falsetto, mossa pericolosissima, tecnica canora ormai abusatissima nel rock italiano. Destinati a fare strada. Osvaldo Piliego (So fucking way it). C’è spazio per momenti più psichedelici che rimandano al passato (Greatful dead?) e altre soluzioni più blues. Il sound e compatto, saturo, tirato. A volte si nota qualche sbavatura vocale e qualche ridondanza compositiva ma l’effetto complessivo è esplosivo. (O.P.) Bruise Violet Calliphora Vicina Autoproduzione Indie / *** Un disco così dalla scena salentina non te lo aspetti. Ha dello stupefacente! Ma non c’è nulla di “drogato” in questo lavoro. Al contrario, ci sono sei brevi canzoni dirette e potenti che ben rappresentano lo stato dell’arte dell’italica scena indie-noise. Un prodotto indipendente sotto tutti gli aspetti, dalla non-omologazione a qualsivoglia trend del momento, all’attitudine spiccatamente elettrica di questa band. Ma l’ascolto di questo piccola raccolta riserva ancora delle altre sorprese: stupisce intanto la particolare voce di Claudia capace di dar corpo all’eterogeneità delle proposte qui racchiuse che contengono richiami ad una seppur vaga psichedelia macchiata di malinconia, ad un rock spigoloso, sporco e indolente tipicamente metropolitano fino a certa “vecchia” oscura e goticheggiante new wave, e stupisce poi anche la padronanza con cui queste diverse influenze vengono esposte. Camillo “RADI@zioni” Fasulo Grimoon La lanterne magique Macaco records Indie / *** I Grimoon sono uno di quei gruppi a cui fatichi per trovare un posto. sospesi, senza un tempo un luogo a cui poterli legare. Come un sogno lasciano una scia che ti accompagna, una sensazione piacevole che rimane, tra le pieghe del cuscino nella penombra delle imposte ancora semichiuse. La formazione italofrancese fa galleggiare la sua musica tra le acustiche ballate per carillon possibili e atmosfere più colte e quasi “art” di scuola americana come alcune chitarrone western alla Calexico. Surreale è la galleria KeepCool 16 di personaggi che accompagna Magiche le lanterne che illuminano di una luce fioca ma calda le canzoni di questo album, che fa sorridere quando cita 007 ma che fa anche bene alle orecchie per il suo essere discreto e profondo come uno sguardo. (O.P.) Blessed child opera Happy Hark Delta Italiana/ Cni Indie / *** Sarà questo il suono del nostro tempo, sarà che l’aria ha questo peso. Che la nuova onda, è forse più dolce e carezzevole ma porta con sé l’inquietudine. E quello che ti prende subito di questo nuovo lavoro dei Blessed Chld opera è questo suo essere lirico e terreno, così difficile e spontaneo al tempo stesso. Il gruppo partenopeo conferma con questo lavoro una maturità di band in senso assoluto. Ci sono tracce dei Cure in quelle chitarre che sembrano non finire mai, ci sono i Radiohead di Ok Computer in quella capacità di fare della voce e della canzone materiale resistente e non usa e getta, la bellezza di un uomo fragile come in Sophia. Happy Hark è un disco che ha bisogno del suo tempo per essere vissuto e lo merita tutto. Osvaldo Piliego Hot club de Paris Drop It Till It Pops Moshi Moshi Records Pop-punk / *** Hot club de Paris. Non proprio osannati da tutta la critica internazionale, c’è chi li ama e chi non proprio. Due anni sui palchi come support band senza lasciare indifferente il pubblico. In tournèe con Maxïmo Park, Dirty Pretty Things e più recentemente Dartz! e Slow Club tanto per citarne alcuni fra molti, suonano e se la spassano in giro senza interruzione (per questo nuovo anno già una serie di date fissate tra Inghilterra Germania Svizzera e Ronin Lemmig Ghost records Rock / **** A più di due anni di distanza dall’omonimo album di debutto tornano i Ronin di Bruno Dorella con un disco che sorprende per il peso specifico della musica che contiene. Bruno, figura chiave del nostro underground (Ovo, Bachi Da Pietra, gestore dell’etichetta Bar La Muerte), ha concepito un lavoro di rara intensità, evocativo, capace di flirtare con generi apparentemente distanti. Nel sound desertico della band non è difficile scovare echi lontani, siano essi provenienti dal continente nero o dal sud delle Americhe, dal jazz o dalla musica sperimentale. Le melodie, che giocano un ruolo chiave, tendono spesso all’epico, a dispetto di un mood opprimente che pervade tutti i pezzi del lotto. Musica profondamente cinematica, che scorre via non senza lasciare piacevoli strascichi di inquietudine e che riesce, con delle piccole deviazioni inaspettate, a colpire per originalità. L’umore noir infatti, è l’unica caratteristica presente in tutte le composizioni, che si presentano profondamente assortite e affatto monocorde. Su tutte si erge il canto anarchico Il Galeone, con ospite alla voce la bravissima Amy Denio, un ibrido tra canzone popolare italiana e sound di frontiera di insolito vigore e bellezza. Ilario Galati Austria). Chitarre frenetiche, riff di semplice ascolto e ritmo in levare. Canzoni senza pretese, piccoli scatti di eccitante poppunk, molti buoni propositi e idee frizzanti e genuine, titoli esageratamente lunghi e originali. Gli Hot Club de Paris, trio proveniente da Liverpool, nascono nel 2004 e questo è il loro album di debutto. Danno tutta l’idea di essere giovani e freschi, oltre che simpatici. Sul loro sito, tra news e discografia, anche un diagramma biografico..(??) per chi volesse conoscerli più a fondo. Drop It Till It Pops contiene tredici tracce in cui The Futurheads e Snoop Dogg fanno da sfondo. L’etichetta è la Moshi Moshi Records e loro sono da provare. Valentina Cataldo NAS Hip Hop is dead Def Jam Hip-hop / **** Il signor Nasir bin Olu Dara Jones, meglio conosciuto come NAS, acronimo del conciliante “Niggas Against Society”, Ne(g)ri contro la società (“Niggas” è termine spesso usato offensivamente dai bianchi americani contro le persone di colore) è uno di quei artisti che viene elogiato tantissimo dalla critica e dai colleghi, ma che poi non riesce mai a sfondare. Abbiamo infatti a che fare con il miglior album del rapper originario del Queens, giunto alla sua ottava fatica in studio. All’apice della maturità come uomo, ne consegue una grande consapevolezza come artista. Non è più così infrequente assistere, in questo genere di album, a un’autentica parata di stelle, e questo “Hip-Hop is dead” non fa eccezione: tutti vogliono esserci, sia gli amici (Kanye, Snoop, The Game), sia i presunti nemici (Jay-Z,). Cosa distingue NAS dal resto del gruppo (e volendo pensare male, è questo il motivo per cui non ha mai sfondato) è la voglia di dire qualcosa. Il titolo dell’album, che potrebbe sembrare una semplice provocazione, è figlia del dissapore, suo e di un numero sempre crescente di rapper, verso il governo degli Stati Uniti. E così, può, con Jay-Z, lanciare un pamphlet non privo di autocritica (“Black Republican”). I campionamenti non mancano, nel più classico trend del genere, ma è nella scelta degli stessi che NAS appare al momento insuperabile. “In a gadda da vida” per la title-track, primo singolo KeepCool estratto dall’album, Diana Ross (con “The interim”) per “Still Dreaming” (con Kanye, che oramai studia da star pop), ma il momento migliore dell’album, quello che unisce il tributo allla genialata, arriva alla traccia numero 14, quando Nat King Cole (con “Unforgettable”) impreziosisce “Can’t forget about you” (con Chrisette Michele), decisamente il pezzo migliore (non a caso, sarà il secondo singolo). Il Signor Kelis (è sposato con Miss Rogers), a 34 anni, entra ufficialmente nel gruppo di quelli che non sono solo bravi, ma anche di successo. Anche perché, citando la finale “Hope”, “Hip-Hop will never die”. Altrochè, è in forma smagliante. (consiglio per la lettura della recensione: se amate il genere, aggiungete una stella alla valutazione, fidatevi). Ilario Galati Triad Vibration Triad Vibration Zapted / Kiver Tribal jazz / **** È sicuramente interessante il tribal jazz dei Triad Vibration, trio milanese che ha da poco pubblicato questo primo omonimo cd. La band composta da Ezio Salfa (basso elettrico e percussioni minori), Gennaro Scarpato (percussioni e batteria), Tannì (didgeridoo e percussioni minori) viene affiancata dagli ospiti Gendrickson Mena (tromba), Lucia Minetti (voce), Giovanni Venosta (piano), Luz Amparo Osorio (voce) che danno ulteriore spessore ad un lavoro curato in tutti i dettagli. Gli otto inediti si muovono infatti su registri molto diversi: il groove iponotico e la ripetitività quasi ossessiva di Clito e Crazy dog,il divertente gioco di Happy Walk, i ritmi più funky di The product, le aperture jazzistiche di Funk around the world, le atmosfere da club e la melanconia di Cote d’azur, i ritmi arabeggianti di Kusha e il finale sognante riservato alla ninna nanna accarezzata alla chitarra per il piccolo Jacopo. 17 Nicola Andrioli Alba Dodicilune Jazz / **** Tessere le lodi di Nicola Andrioli, pianista brindisino (di recente adozione parigina) classe 1977 è un’operazione ardua, poiché si rischia di cadere facilmente nel retorico o nel già detto, visto che la sua perizia artistica e musicale è fuori da ogni discussione ed è al di là di ogni più rosea aspettativa. In particolare in questa sua opera prima (frutto del meritevole impegno produttivo della Dodicilune) si può felicemente constatare, nelle meravigliose composizioni di Nicola, la perfetta fusione tra scrittura e improvvisazione, tra melodia e ritmo, tra intricate tessiture ritmiche hard bop e modulazioni armoniche talvolta costruite su semplici triadi ‘metheniane’ (alla faccia dei jazzisti ‘duri e puri’), tra il classicismo di Chopin filtrato attraverso Bill Evans (è da ricordare il passato accademico di Andrioli in ambito classico, ricco di premi) e il lirismo più moderno di Brad Mehldau – è da notare come abbia citato due pianisti notoriamente amanti della formula del trio, scelta anche da Nicola in compagnia dei bravissimi Mimmo Campanale e Giuseppe Bassi. Che sia un alba il cui tramonto non arrivi mai. Marcello Zappatore Ennio Rega Lo scatto tattile Edizioni Scaramuccia Canzone d’autore / *** Il primo ascolto non rende sicuramente giustizia a questo nuovo lavoro del cantautore salernitano d’orgine e romano d’adozione Ennio Rega. Dopo Concerie (e il mini album con video clip Scritture ad aria) il pianista e cantante, già vincitore della Targa Tenco del 1993 e di numerosi altri riconoscimenti, torna infatti con Lo scatto tattile che racchiude quattordici brani non semplici, da metabolizzare e imparare ad apprezzare. Molto ben curati gli arrangiamenti, realizzati da Rega con il chitarrista svedese Lutte Berg, realizzati “in diretta” da una piccola orchestra. I pezzi si muovono tra jazz e pop con una spruzzata di musica classica. Nel complesso il lavoro è ben riuscito anche se in alcuni casi Rega esagera troppo nei testi (anche se fa parte del suo stile, quindi prendere o lasciare) e in alcuni frammenti echeggia troppo un certo Battiato. Abash Madri senza terra CD il Manifesto Etno-rock/**** La storia degli Abash non parte da molto lontano, nel 2001 portarono live nelle piazze salentine, e non solo in queste ultime, il frutto del loro primo disco Salentu e Africa, un’originale miscela a base di rock e musica etnica. Successivamente, passando per la seconda ed evolutiva prova in studio Spine e Malelingue (2003), gli Abash sono giunti a Madri senza terra, un lavoro in cui hanno progressivamente ampliato la loro proposta artistica fagocitando nel proprio sound numerose contaminazioni che oggi più di prima contribuiscono in maniera attiva nel plasmare uno “stile”. Personalmente gli definirei una band dedita ad un etno-rock determinato da ritmiche energiche e tendenti nella forma e nelle sonorità a soluzioni contigue al più semplice e comune softmetal; per non parlare dei molteplici incisi, fraseggi ed interventi solistici in cui tastiere, chitarre e teremin si intrecciano richiamando alla mente molte delle modalità tecnico-estetico-espressive tipiche dell’esperienza progressiva degli anni Settanta. Particolarmente incisivo è l’impiego, non eccessivo, del vernacolo salentino che riesce a donare profondità ai temi impegnati sviscerati nei versi dei brani, fra cui sottolineo i concetti, in nessuna maniera retorici, d’amore, pace, uguaglianza e fratellanza. Nicola Pace KeepCool 18 Davide Viterbo è un musicista poliedrico. Violoncellista, chitarrista, arrangiatore, tecnico del suono, produttore, ha lavorato (tra gli altri) con Radio Dervish, Rosa Paeda, Nura, Skizo e Rene Aubry. Proprio dalla collaborazione con il musicista francese è nato lo spettacolo Distant City presentato in anteprima assoluta a novembre nell’ambito del festival barese TimeZones, diretto da Gianluigi Trevisi. Davide Viterbo è un nome per niente “altisonante”, per niente “internazionale”, per niente “hype”, per niente “blasonato” o “osannato”, eppure proprio quel nome ha regalato forse la più bella sorpresa di questa ventunesima edizione del festival di musiche possibili. Il progetto da te ideato ha un titolo molto evocativo, Distant city. Ci vuoi parlare un po’ di quali erano le intenzioni, i sentimenti e le idee che gli hanno dato vita? Sono da tempo attraversato da molteplici percezioni legate a possibili rappresentazioni del tema città, ed ho iniziato ad osservare questo perimetro deflagrante ed implodente, da varie intime prospettive mentre, al contempo, seguivo al di fuori di me, i fili che mi legavano a precedenti artisti che avessero trattato il tema in precedenza. Il racconto di Edgar Allan Poe L’uomo della folla mi ha donato importanti avvii di riflessione (desidero tuttora realizzare una pièce a se stante). Le poesie di Dora Lapolla, - a cui avevo già messo mano in privato, con l’utilizzo di sfondi elettrici e riverberanti hanno tracciato il solco e reso necessaria questa rappresentazione. Quando parlo di necessità intendo stabilire una linea di confine fra le idee artistiche e l’urgenza di raccontare: le idee fanno parte di un accostamento, spesso autoreferenziale, di elementi che potrebbero o no stabilire un contatto tra artista e pubblico; l’urgenza di raccontare impone all’artista di non risparmiarsi nella ricerca dell’alchimia che veicoli il suo operato nell’immaginario di chi osserva al di fuori di se. Avevo dunque iniziato a scrivere un lavoro piuttosto ambizioso per grande orchestra, ma tornato alla realtà, ho deciso di comporre per un ensemble più agile che costituisse corpo unico e fosse occasione di coesione umana fra gli elementi che ne avessero preso parte (chi ascolta, vede..) Nel corso della mia attività di sound engineer ho avuto modo di conoscere tanti musicisti e, senza fretta, ho fatto le mie scelte, rivelatesi ora al di sopra delle migliori aspettative. Tornando al titolo, Distant city l’ho costruita come sequenza di immagini musicali intorno all’elemento simbolico della “citta distante”; una possibile soundtrack, rappresentazione di un globale movimento ansioso, privo di meta; ma anche rappresentazione della citta osservata da lontano che rapisce con le sue luci e riverberi, priva di attriti e contrasti, calma ed avvolgente. Nel tuo passato hai attraversato diversi generi e “scene”, in particolare sei stato il chitarrista di uno dei più significativi gruppi punk italiani (gli Skizo). Raccontaci un pò di quel periodo e cosa è rimasto di quelle esperienze. Mi costringi a ripercorrere cose lontane nel tempo e di questo ti ringrazio perché mi dai modo di affrontare una sintesi del mio percorso, benché non nascondo che la cosa mi par fatica alquanto. Comincio col dire che gli Skizo se pur collocati nella scena del punk italiano, non si riconoscevano pienamente in essa o per meglio dire erano già oltre: il nichilismo che aleggiava nella nostra poetica costituiva un elemento di rottura nei confronti delle certezze proposte da una cultura che con i suoi movimenti tendeva ad inglobarci in strutture di pensiero precostituite e demagogiche. Non che ora le cose siano cambiate, ma neanche noi. Desidero citare per questo un aforisma del mio caro amico e compositore Antonio Breschi: “io non ho cambiato il mondo, ma neanche lui è riuscito a cambiare me, sicchè siamo pari!”. Anziché cambiare le cose intorno, c’era l’intuizione che fosse necessario lavorare dentro di se, ed il disagio esistenziale lo si esorcizzava beffandoci di chi, dall’alto della conoscenza dei testi sacri, proponeva pietanze rafferme. Cosa dire di più, è stato il periodo della mia formazione di cui porto ancora delle reminescenze tanto nella musica che nel pensiero. A quale pubblico è principalmente indirizzata la tua musica? A orecchi di ogni forma e dimensione; non ho tuttavia un indirizzo di marketing e non possiedo magie da pifferaio di Hamelin; resto molto soddisfatto da questo dato che mi rende onore e mi da la possibilità di continuare a comporre per un pubblico che desidera partecipare ad eventi di vera comunicazione, dove sul palco ci sia qualcuno che abbia necessità e cose da raccontare. Le tue composizioni fanno subito pensare alle opere di musica da film. Lo stesso Distant city è stato accompagnato dal lavoro di un videomaker. La scrittura dei brani è stata pensata fin da subito come qualcosa da legare a delle immagini, o è un’idea nata successivamente? Quando compongo ho sempre delle immagini che scorrono nella mia mente, ciò che faccio è colonna sonora di quanto osservo sia dentro, sia oltre me: dovendo quindi collocare il mio lavoro in un archivio musicale virtuale, credo che sarebbe a suo agio fra le colonne sonore; anche se qualcuno potrebbe chiedermi “ma di quale film?” “Non importa” - gli risponderei - “basta osservarsi intorno o chiudere gli occhi”. Quali sono i tuoi prossimi obiettivi? Considero Distant city un cantiere aperto, ed al momento solo un punto di partenza per un ampio spazio di rappresentazione, dove far confluire contributi esterni filmati, letterari e musicali: unirsi intorno ad un progetto è più interessante che appartenere ad un genere. Al momento gli strumenti ed il sound utilizzati sono prevalentemente acustici, ma prevedo di collaborare a breve con manipolatori elettronici del suono e di utilizzare sounds elettrici e noise, lasciando però invariata la poetica del lavoro. Gennaro Azzollini 19 19 È interamente dedicato agli anni ‘70 il nuovo disco di Daniele Sepe. Il vulcanico musicista napoletano ha realizzato un concept su un decennio spesso bollato come funesto ma che ha rappresentato un momento di estrema libertà capace di investire tutti i settori della società. Una spinta al rinnovamento che ha fortemente condizionato l’arte e particolarmente la musica. Il tuo nuovo lavoro si presenta con un titolo che parafrasa Mao, una stella a cinque punte in copertina, il nome della band che è mutuato dalla Raf tedesca… insomma, più di qualcuno sarà impallidito… Hai detto bene, fare impallidire un po’ di gente… era quello che volevo fare. Mi sembra che oggi ci sia una situazione sociale nella quale impallidiamo solo noi… call-center, co.co.pro. lavoro a chiamata, a progetto… tutto questo ci rende palliducci. Mentre i padroni sono come sempre abbronzati e ingrassati e in splendida forma. La mia provocazione con questo disco è quella di ricordare ai più che c’è stato un momento in cui noi si stava meglio e loro, i padroni, stavano peggio. Gli anni ’70 sono stati un decennio difficile, dalla alta conflittualità e dalle grandi istanze sociali, e al contempo sono stati anni molto fervidi sul piano della creatività e della produzione artistica. Naturalmente tu concordi sul fatto che c’è una relazione tra questi due dati? Sicuramente. Ci si poneva il problema del perché fare determinate cose. L’arte, e soprattutto la musica, non era un esercizio fine a se stesso, o peggio, per fare soldi. Era uno modo per esprimersi in un momento in cui il politico entrava dappertutto, anche nei rapporti interpersonali, anche con le nostre fidanzate… Ovviamente io ho fatto questo lavoro per misurare i cambiamenti che si sono prodotti nel nostro paese negli ultimi trent’anni. Per esempio, nel libretto che accompagna il cd c’è una vignetta del Male che ritrae Wojtyla con due prostitute sedute sulle sue gambe, mentre oggi se uno come Crozza fa l’imitazione di Ratzinger passa i guai e gli levano il programma. Oggi sarebbe impensabile fare satira come la faceva il Male, il che significa che siamo tornati indietro anziché andare avanti. Visto che parlavamo del libretto (che contiene tante piccole memorabilia delle cultura antagonista di quel periodo, ndr)… anche questo disco esce per i Materiali Musicali del Manifesto, che vuol dire anzitutto prezzo giusto e confezione ben fatta. Insomma, questo sodalizio procede bene. Si, io mi trovo bene perché nonostante tutte le difficoltà che ci possono essere ci guadagniamo tutti. Ci guadagno io che faccio questo disco, che evidentemente non sarebbe potuto uscire per Bmg. Ci guadagnano i miei ascoltatori che possono acquistare un disco a ‘prezzo politico’. Ci guadagna il Manifesto che con i soldi del disco si finanzia. E sorprendentemente si riesce anche a vendere molto, come nel tuo caso. Si, Viaggi Fuori dai Paraggi sta sulle 40mila copie. Il disco nuovo ha già esaurito la prima stampa, che vuol dire 8mila copie. Sono numeri alti anche per artisti mainstream. Comunque, io continuerei a far musica anche se mi comprassero in 50 persone. E poi naturalmente fare i dischi col Manifesto per me significa anche veicolare un certo tipo di idee. Il disco si apre con Zappa e si chiude con Hasta Siempre di Carlos Puebla. Perché queste scelte? Penso che la musica di Zappa sia eccezionale e mi piace molto anche quello che diceva Zappa, da Plastic People in poi. Ha scritto dei testi formidabili. Poi, con la scusa che Zappa ha scritto roba difficile, in pochi si misurano con il suo repertorio. È vero, ci sono cose impossibili. Ma ci sono tante cose che possiamo suonare anche noi mortali. Volevo aprire il disco con un personaggio totalmente fuori dalle regole così ho scelto Peaches En regalia. Il pezzo di Puebla invece l’ho scelto perché volevo chiudere in una certa maniera. Dall’America Latina ci arrivano notizie molto confortanti, con intere popolazioni che si sono rotte le palle e, con Chavez, Morales e altri, hanno deciso di riprendersi quello che gli spetta. Insomma, mi sembra che da quei paesi ci arrivi una lezione di dignità. Napoli? Non posso non farti una domanda sulla tua città. Che effetto ti fa leggere le notizie di cronaca? Mah, bisognerebbe dire anzitutto che dalle mie parti la criminalità, la camorra, fa vivere un sacco di gente. La realtà dei fatti è che il problema di Napoli non è certo il suo proletariato. Il problema è una borghesia che è sempre stata parassitaria e non ha mai espresso nulla di decente. Vive tranquillamente nei suoi spazi fottendosene di quello che succede in città, tranne quando gli scippano il Rolex. Il problema è che qui c’è una situazione endemica di disoccupazione… sembrano discorsi vecchi ma dalla chiusura dell’Italsider e delle altre grandi fabbriche non è cambiato nulla. Solo un lavoro di facciata svolto dalla giunta Bassolino. Qui la gente si arrabatta per campare e, nell’Europa del 2007, non mi sembra che sia molto edificante. E non c’è la volontà politica per risolvere la situazione perché le proposte sono solo di natura repressiva… e in più il Ministro degli Interni ci viene a raccontare che i neomelodici sono conniventi della camorra… ma uno che vive a Secondigliano che canzoni vuole sentire, secondo te? Daniele, tu sei stato tra i primi musicisti della tua generazione a interessarti al patrimonio musicale pugliese. Che idea ti sei fatto della sovraesposizione che ha avuto la mia regione negli ultimi anni? Io sono stato uno dei primi anche ad abbandonarvi (ride). Mi pare che sia diventata un’altra cosa. Cantare Matteo Salvatore per me significava raccontare la condizione di vita dei nostri nonni, cantare la sofferenza di una terra. Adesso tutto mi sembra molto decontestualizzato e mi fa tristezza che tutto si debba per forza trasformare in una festa. Significa perdere la memoria, non recuperarla. Serve solo pe’ ffa soldi quindi approfittate del momento (ride). Ilario Galati KeepCool 20 Nuovi arrivati in casa Sleepingstar: sono i Montecristo. Fanno rock and roll senza fronzoli, sono romani, un piede nel passato l’altro nel presente. Si sono già esibiti al fianco di gruppi come Eagles of death metal, White flag, Raveonettes. È da poco uscito il loro primo omonimo album. La vostra musica sembra una consacrazione. Da anni si parla di una scena rock and roll capitolina ed oggi arriva questo disco con Sleepingstar. Come vivete questo momento? È un bel momento. Roma negli ultimi anni è in vero fermento come non la vedevamo da metà dei novanta. C’è molto indie, dell’ottimo garage, una scena hardcore e punk sempre molto attiva e di qualità. I locali chiudono e ne aprono altri, c’è confusione sotto il sole, la situazione è eccellente. Montecristo porta alla mente tutto un immaginario che in parte traspare anche dal vostro sound, da dove viene l’idea? Montecristo è un romanzo che ci è caro. Un uomo viene rinchiuso per 14 anni e non sa il perché. Deve trovare qualcuno che gli spieghi come funziona il mondo per capire il motivo della sua reclusione. È un romanzo sulla perdita dell’ingenuità, più che sulla vendetta. Il resto del nostro immaginario ha a che vedere con i disegni di Corben, Frazetta, Kirby, Robert Williams, i fumetti di Len Wein e Bernie Wrightson, gli horror della Hammer, la fantascienza classica e quella “sociale” degli anni 60 e 70, film come Occhi bianchi sul pianeta terra e 2022: i sopravissuti…in realtà siamo ancora molto ingenui. Un progetto giovanissimo, ma che ha subito conquistato stampa e pubblico, almeno così si dice in giro. Alle spalle però avete già rodate collaborazioni, ce ne parli? Ah, in giro si dice così? Bene. Effettivamente ci siamo formati non più di due anni fa, ma non abbiamo saltato tappe, siamo stati molto veloci, perché dalla prima prova ci siamo trovati con una grande voglia di roccheggiare. Nel giro di venti giorni abbiamo fatto i nostri primi concerti, uno con gli Eagles of death metal. Il tipo del locale voleva almeno un demo: “Non ce l’abbiamo, facce sona’ e basta”. È chiaro che il fatto di avere già esperienze musicali ci ha aiutato nel conseguimento di questa velocità d’azione. Flai viene dall’hardcore romano metà anni ‘90, quando suonava con Evidence, Student Zombie e qualche altra band nata e morta nel giro di un mese. Luca ha suonato il basso con Wow! e Tymes Society, Emiliano canta da sempre, ed ha inciso con i Moluart una compilation dove quasi dieci anni fa hanno suonato anche Flai e Valerio, il nostro batterista, che suona tuttora con i Cosmonauti e fa parte del progetto Ardecore con Zu e Jeoff Farina. Ciò che è vintage o che trae comunque ispirazione dal passato, ad alcuni sembra inutile. Voi che avete nelle corde il glam, il punk, l’hard rock come vedete questa cosa? Mah, anche il Boero sarebbe inutile, ma è buono e c’è sempre la possibilità di vincerne un altro. Le influenze di una band sono necessariamente varie, in quanto sono il vissuto musicale di ogni componente del gruppo, e possono andare indietro nel tempo fino ai canti gregoriani. Una cosa sono le influenze, ed il fatto che per alcuni di noi il mondo sia finito la serata di Roma-Liverpool, tutt’altra cosa è ciò che viene fuori quando ti metti a suonare con una band, e le tue influenze si mischiano a quelle degli altri e, perché no, al tuo vissuto quotidiano e alle canzoni che senti su “radio musica nuova” mentre sei in macchina per arrivare in sala prove. Il revival è fenomeno comunque di moda in questi anni, credi sia l’unico rock possibile? Decisamente no. Anche perché non sentiamo in alcun modo di essere una band “revivalista”. Se c’è qualcosa che ricorda il passato, ecco che forse abbiamo in/ consciamente compiuto un benjaminiano “balzo di tigre” indietro negli anni, ma solo per riportare ciò di cui avevamo bisogno nell’adesso temporale, un po’ come fa la moda ai suoi più alti livelli. Ci sentiamo, nonostante tutto, un gruppo attuale, che mangia ciò che vuole da dove vuole e te lo rivomita nuovo nel 2007. Ci parli un po’ del disco? Lo abbiamo registrato nella primavera del 2006 con la produzione artistica di Tony James, fondatore di Generation X con Billy Idol e successivamente di Sigue Sigue Sputnik ed ora Carbon/Silicon con Mick Jones dei Clash. È un disco di 12 pezzi abbastanza eterogenei, con un’impronta Rock’n’roll e un’attitudine punk, o forse è il contrario. C’è un momento acustico, un finale che potrà stupire qualcuno, e una buona dose di pezzi fatti apposta per smuovere le ossa in una serata a base di tequila e birra doppio malto. Due salentini hanno collaborato al disco, come nasce la vostra amicizia con gli Studio Davoli? Più che amicizia è quasi amore. Flai, il chitarrista, ha passato un paio di estati a Lecce in compagnia degli SD e della loro fantamica Alessandra e da allora tutto è iniziato: ha fatto la regia del loro video Superpartner, con Gianluca ha formato un duo/trio da piano bar con il quale si sono esibiti a Otranto e a Roma e con il quale sperano di esibirsi ancora. Con la scioltezza che ci contraddistingue, quando abbiamo avuto bisogno di tastiere e di una voce femminile il pensiero è corso subito a loro, i quali, con la naturalezza degli dei, hanno interpretato i pezzi dandogli in certi casi quello shake che serviva ed in altri una grazia vocale che ha pochi eguali in Italia. Speriamo di averli con noi in qualche data live: verrebbe fuori un concerto bomba. Osvaldo Piliego Il movimento necessario (Jato music) è il primo album dei toscani MURIèL. La loro musica è una convincente miscela di pop e atmosfere più indie, rumore e melodia. Paolo Benvegnù ai comandi è un sigillo di garanzia, i consensi della critica un invito a non perderli di vista. Questo esordio è un disco tagliente e carezzevole insieme. È questa la mia prima impressione. Ho notato nella vostra musica questi due registri: una forte componente melodica accostata a un’attitudine più rumorosa. Come definireste il vostro sound? Il sound dei MURIèL è ricco di sfumature, di cui hai colto le due tendenze principali. Per nostra stessa natura tendiamo ad amare soluzioni inaspettate, questo fa convivere una certa attitudine alla melodia con la ricerca sonora alle sensazioni che vorremmo esprimere. Forse si può dire che il nostro sound è una forma di pop sospesa tra una vena cantautorale ed una più rock..una sorta di pop indipendente che volge realmente verso una indipendenza compositiva. Il vostro sound sembra uscire indenne dagli anni 90, decennio che ha scritto un certo modo di fare rock in Italia. In particolare ascoltandovi mi vengono in mente i C.o.d., grande band trentina. Cosa portate di quegli anni con voi? Gli anni ‘90 hanno investito in pieno sulla nostra adolescenza. Certi gruppi della scena italiana sono stati inevitabilmente dei nostri “idoli” a suo tempo. Questo però non significa che non si possa superare certi cliché e cercare di esprimersi per quel piccolo bagaglio di cose che si hanno da comunicare. Forse è per questo che la nostra attitudine alla composizione è uscita “indenne” da un certo modo di fare musica, perché è cresciuta naturalmente, seguendo la via più adatta al nostro modo di essere e comunicare. I C.o.d. li conosciamo molto bene, sicuramente abbiamo in comune un certo amore per il pop, ma se dovessimo fare un nome di un’artista italiano a cui ci sentiamo particolarmente legati, facciamo sicuramente quello di Paolo Benvegnù. Cosa vi ispira e vi affascina fuori dall’Italia? Sicuramente le straniere! No, dai, facciamo i seri...noi prima di essere MURIèL siamo feroci ascoltatori di musica di ogni tipo. Molto di quello che ci piace viene da fuori, abbiamo le più svariate influenze, ma se devo restringere il cerchio ti dico dEUS, Doves, The Notwist, Calla, Lali Puna, Soulwax, Karate, Motorpsycho, Tortoise, Slint, The Police...ma proprio per citarne pochi. La produzione artistica del disco è affidata a Paolo Benvegnù (e si sente), caro amico di Coolclub.it, come si lavora con lui e quanto ha contribuito alla confezione finale dei vostri brani? Paolo è una persona straordinaria. Questo prima di qualsiasi altra parola da spendere... con lui c’è stata un’intesa umana totale, e da lui noi abbiamo solo potuto imparare. Paolo si è immerso nel nostro mondo, cercando di lavorare soprattutto sull’attitudine, sull’approccio e sull’intenzione di certe soluzioni che adottiamo e facendo crescere fortemente la nostra determinazione per tutto quello che investe il progetto MURIèL. Non è mai intervenuto in modo invasivo sui brani, al contrario ha sempre cercato di mantenere in modo fedele la linea di certe idee di base, aiutandoci a comprendere dove potevamo migliorare e quali soluzioni alternative erano possibili per comunicare in modo più efficace. Nella fase di pre-produzione ha anche suonato con noi, ed è stata un’esperienza davvero importante. Alla fine su 11 brani, solo due risultano davvero stravolti rispetto ai provini del disco, e solo perché era realmente necessario apportare delle modifiche sostanziali. Nell’ormai sterminata scena indipendente italiana, quali gruppi seguite, quali vi piacciono, con quali collaborate? Assieme ai Dilatazione ed ai Soloincasa abbiamo creato un progetto ad ampio respiro dal nome Trydog Lab: si tratta di un vero e proprio laboratorio musicale, una piattaforma espressiva che unisce diverse realtà legate da una comune volontà comunicativa, nata con la finalità di creare uno spazio vitale all’interno della scena indipendente italiana. Come già accennato in precedenza, ascoltiamo davvero molta musica, in Italia ci sono gruppi che seguiamo con particolare attenzione, in questo caso mi limito a citare i gruppi con cui abbiamo avuto contatti di stima ed amicizia, come Perturbazione, Gatto Ciliegia vs il Grande Freddo, Ulan Bator, e nostri coetanei e conterranei come Baby Blue e Gestalt (O.P.). L’etichetta protagonista di questo numero di Cooclub.it è la Suiteside Records. Monica Melissano, di chiare origini salentine, è da anni animatrice della scena indie italiana. Oggi Suiteside cambia casa, da Bologna a Genova, ma non cambia stile: aperta ai generi e al nuovo, sempre in movimento. Ne abbiamo parlato con Monica. Ascoltando il vostro catalogo, la prima cosa che colpisce è la varietà delle proposte, poi si scopre che esiste una traccia, un solco che accomuna i gruppi: la canzone. Alla Suiteside piacciono le canzoni? Assolutamente sì. La musica non può essere qualcosa di avulso dalla vita quotidiana. Ricordate i versi di Morrissey? “Hang the dj, ‘cause the music he constantly plays don’t tell nothing to me about my life”. Ecco, suonare senza l’impulso di comunicare è posso scriverlo? - una masturbazione. Che poi la canzone, o perlomeno un riff, un ritornello, siano spesso il mezzo più efficace per farlo è un’esperienza di ognuno. Per me la musica ha sempre avuto un’importanza non certo di sottofondo. Credo nelle canzoni che si riascoltano dopo anni e anni e fanno provare le stesse sensazioni ed emozioni, credo in frasi che entrano in testa e danno un senso ai propri pensieri e al proprio vissuto. E non sopporto l’idea che ci voglia una preparazione specifica e settoriale per poter “comprendere”. Come nasce l’idea di un’etichetta, quale folle meccanismo ti ha spinto in questa impervia avventura? Il caso, solo il caso. Ho iniziato per passione e amicizia a curare il booking e la promozione dei Rollercoaster; vedendo che le cose andavano bene altri gruppi mi hanno chiesto di fare lo stesso. Poi io sono un po’ accentratrice, nel senso che non mi piace delegare, non avere il controllo su quel che accade, e allora piuttosto che far uscire il loro primo album per un’etichetta già esistente si è preferito aprirne un’altra. Quando (nel 2001) in giro comunque di indies ce n’erano ancora poche. Tu sei da molti anni nella scena indie italiana, come si è evoluta o meglio com’è cambiata? Bhè, appunto, all’inizio eravamo in pochi, e ci si arrangiava. A volte facendo passi azzardati. Sbagli dai quali chi è arrivato dopo ha tratto vantaggio, nel senso che le nuove indies hanno le spalle parate a livello di budget fin dall’inizio, si sanno muovere meglio a livello di accordi di mercato. Molti ora mettono comunque la sopravvivenza dell’etichetta come fine ultimo, anni fa si credeva di più nei gruppi, ci si “sporcava” di più le mani, si azzardavano scommesse non da poco per spingere un disco. Ora mi sembra che i gruppi siano soprattutto manager di se stessi, e l’etichetta sia solo un aspetto della loro attività. Un po’ come il calcio… i giocatori il cui nome è indissolubilmente legato a quello di una squadra non ci sono più. Quale tipo di rapporto stabilisci con le tue band, se non sbaglio sei un po’ come una mamma, ti occupi anche del booking... Macchè mamma…. hai presente la signorina Rottenmeier di Heidi? Ecco, così bisogna fare! A parte gli scherzi, il booking è la prima cosa, se il gruppo non suona è insoddisfatto, e non si recuperano le spese. Il disco alla fine è solo un mezzo per far parlare del gruppo e procurargli date. Poi più che altro mi sento un “tramite”, nel senso che a volte sto ore a parlare coi gruppi per fargli capire come funzionano le cose a livello di live, di promozione, per non creare false aspettative, per non deluderne altre, per concordare assieme le priorità. Che non sono uguali per tutti. Il tuo catalogo, o almeno le ultime produzioni in pochissime righe... Sono molto fiera di aver pubblicato due album agli antipodi. Il nuovo album dei Morose, On the back of Each Day, prodotto da Fabrizio Palumbo dei Larsen, che è intenso, doloroso, oscuro. E Public Talks, l’esordio dei genovesi The Banshee, registrato da Giuseppe Barone (Valvola, Shado rec.), che è graffiante, scanzonato, garage pop vintage con un orecchio ai Jam e l’altro ai Franz Ferdinand. Sarebbe come dire che Il Cielo sopra Berlino è meglio del primo Guerre Stellari. Sono due cose diverse, e per fortuna, in momenti diversi, mi ritengo in grado di apprezzare entrambi. Cosa bolle in pentola, in casa Suiteside? Il nuovo album di Prague, coprodotto con la label di Alessandro, Eaten by Squirrels, in uscita in primavera. Poi vediamo, ho contatti per un altro bel gruppo all’esordio, e vorrei finalmente avere in catalogo qualche licenza dall’estero. Che rapporto hai con il Salento? Pesante. Nel senso che ci sono tornata dopo due anni e i parenti mi hanno “bbinchiata” di orecchiette con le cime di rapa, carciofi fritti, caffettini con panna della Chantilly, rustici…1 kilo e mezzo in più in quattro giorni! A parte questo, il fatto che due anni e mezzo fa mi sia trasferita da Bologna a Genova la dice lunga su quanto mi mancavano il mare, il clima mite, lu ientu e il pesce fresco. Mi piacerebbe poter contribuire a qualche evento salentino, prima o poi, per portare un po’ della mia esperienza e contatti a creare qualcosa lì, come voi state facendo. (O.P.) Coolibrì Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale la letteratura secondo coolcub Pecore vive Carola Susani minimum fax Ho terminato la lettura di Pecore vive di Carola Susani un mesetto fa. Ho letto i cinque racconti che lo compongono e poi ho depositato il volume sulla mia scrivania, accanto alle carte (tutte in perfetto disordine) che generalmente lascio ben in vista perché da consultare. Ero convinto che avrei ripreso il libro tra le mani perché altrimenti lo avrei messo direttamente sugli scaffali della mia libreria. Nel corso di questo mese ho letto altri libri, da Una vita da lettore di Hornby a Diario di un lettore di Manguel, da Colazione da Tiffany di Capote ad Americana di DeLillo. Ho riletto Strade morte di Burroughs e Dicerie dell’untore di Bufalino, avendo sempre accanto a me la glaciale copertina del libro della Susani. Mentre leggevo i libri sopraelencati, a volte sfogliavo le pagine di Pecore vive e mi dicevo che lo avrei riletto al più presto perché c’era un conto in sospeso tra me e quei racconti. Ieri mattina finalmente ho riletto i racconti. Non so perché questa decisione. Forse perché ero rimasto senza libri da leggere. Anzi, a pensarci, stavo terminando la lettura di Strade morte di Burroughs, non uno dei testi più sperimentali dell’”uomo invisibile”, ma pur sempre scritto in una prosa metallica e a tratti snervante. Avevo bisogno di storie domestiche, intime, familiari. Ecco perché, in verità, la decisione di rileggere Pecore vive. Non ho letto le cinque storie da cima a fondo, ma mi sono soffermato sulle parti che come mio solito sottolineo con la mia matita rosicchiata sulla punta. La verità è che avevo bisogno di rientrare nei mondi narrativi creati dalla Susani perché il dolore di cui sono intrisi non possono richiedere una lettura sottile. È uno di quei libri che necessita di una lettura lenta, come quando assapori un cibo dal gusto insolito e prelibato. Allora allenti la masticazione perché prefiguri con tristezza il momento che segue l’ingerire del boccone. Le ferite che coprono i corpi delle protagoniste femminili del libro della Susani meritano una lettura partecipata, perché possibili figure che ci scorrono accanto, nella vita di tutti i giorni, voci fragili che affrontano le difficoltà dell’esistenza alternando stati d’animo inquieti, folli, energici, a volte paradossali e contrastanti. Un’adolescente divisa tra madre adottiva e madre naturale. Una ragazza alle prese con un’ossessione amorosa. Due madri di fronte alla malattia: quella del figlio e la propria. Una vedova sola davanti alla pazzia. Ecco le cinque protagoniste dei racconti della Susani. Tutte con una propria voce. Tutte con un mondo privato da svelare con lentezza durante tessitura del racconto. Rossano Astremo Coolibrì 24 24 L’olio della conversione Luigi Caricato Besa editrice Una vita da lettore Nick Hornby Guanda In Una vita da lettore, Nick Hornby ci racconta saggi e romanzi, attraverso la realizzazione di queste sue “non recensioni” di poche, felicissime righe che comunicano in modo estremamente diretto le sensazioni di sorpresa o noia, la felicità o il dispiacere, insomma i motivi per cui vale comunque ancora la pena di leggere, anche se si è distratti da mille altre faccende domestiche e quotidiane. In realtà il suo libro altro non è che la raccolta di articoli comparsi dal settembre 2003 al giugno 2006 sul mensile The Believer. Questo però non toglie per nulla il fascino di una lettura divertente, scorrevole e appassionante. Un modo di avvicinarsi alla lettura non con i mezzi propri della critica letteraria. Hornby somiglia piuttosto ad un amico che ha scelto di accompagnarci in libreria e di farci orientare tra migliaia di novità, di saggi e di classici ristampati. Ecco una delle tante “perle di saggezza” che troviamo nel libro: “Perché essere un lettore è un po’ come essere un presidente, salvo che la lettura comporta abitualmente poche cene di Stato. Hai un’agenda che vorresti rispettare, ma poi vieni distratto dai casi della vita, come i libri che arrivano per posta, la Terza guerra mondiale, e devi provvisoriamente deviare dalla strada che hai scelto”. O, ancora, un modo di stroncare un libro senza nominare autore e titolo: “È finita che ho fatto volare il libro per la stanza. Al momento in cui scrivo non ho avuto modo di confrontarmi con l’amico che me lo aveva raccomandato, ma temo che scorrerà del sangue”. Il solito Hornby. Inimitabile. Rossano Astremo Fantomas contro i vampiri multinazionali Julio Cortazar Derive e Approdi Questo libro di Julio Cortàzar è straordinario. Il suo carattere è rivoluzionario, metalinguistico, surreale, politico. Quando uscì nel 75 in Messico si presentava sotto le mentite spoglie di un fumetto per nascondere il suo contenuto di denuncia. L’idea di superare il romanzo per diventare illustrazione, fumetto, tavola e poi tornare pagina fa parte di un gioco e di un geniale artificio narrativo che sembra quasi un manifesto della libertà. Insieme ad altri colleghi scrittori (Octavio Paz, Alberto Moravia, Susana Montag) Cortàzar al fianco del mitico Fantomas (celebre personaggio dei fumetti anni 60) ingaggia una lotta contro una setta di fascisti decisi a eliminare li libri dal pianeta. Un escamotage letterario che in questo continuo dialogo tra immagine e parole finirà per diventare denuncia alle multinazionali e agli Stati Uniti e invito alla lotta per la difesa dei propri diritti. Un libro importante, ottima operazione di recupero da parte dell’attenta DeriveApprodi. (O.P.) I sogni dell’alba Piero Grima Editrice nuovi autori Piero Grima è un infettivologo di Galatina. Dirige la divisione di Patologia Infettiva dell’ospedale salentino, e si occupa, in particolare, di ragazzi affetti da AIDS. Si può comprendere così, già da queste poche note biografiche, la resistenza di un lavoro coraggioso, che si scontra ed incontra, quotidianamente, con la sofferenza della malattia; e in più, la tenacia di una missione che, durante i percorsi di ricerca e di cura, deve contenere, tra le altre ansie, la paura più grande di tutte: quella della morte. Forte dei tanti vissuti conosciuti, e degli immensi timori accolti e coccolati, Grima costruisce un personaggio-simbolo, ad immagine e somiglianza dell’essere più timoroso di quell’atto finale che tutto annulla e cessa. E lo fa dandogli le sembianze di un uomo avanti con l’età, cosciente di una fine vicina, ma ancora potente per la forza immensa della memoria, che sorveglia con gelosia il senso dell’esistenza, e restituisce, se evocata, frammenti preziosi di ricordi ormai andati, e tracce prodigiose di tempi lontani. Cino comincia, così, a salvare gli scampoli rimasti di una vita consumata, attraverso l’esercizio folle e gustoso della rimembranza. Supera, con il racconto a se di se, una paura di fatto inestistente, perchè non si può temere l’inconoscibile, e la morte sarà cosa nota una volta avvenuta: prima di allora, qualunque aspettativa legata ad essa peccherà di totale inesperienza. Accetta, così, l’inevitabilità di una sinergia splendida e complessa che vede la morte danzare il mistero della vita, e viceversa, con l’amore ad alimentare questo fluire selvaggio eppure armonioso, che anche nei suoi stalli obbligati ed oscuri conserva tutta la sua ineluttabile creatività. Romanzo sul senso della morte, esplorato ed inquisito attraverso l’”espediente” della vita. Per mezzo di una scrittura morbida ed accogliente, la narrazione segue il giusto ritmo della dolcezza espressiva, e rende i momenti evocati come quadri rigorosi eppure gentili. Lo stile docile sussurra una fiaba, il respiro che lo sottende, invece, urla senza ritegno l’urgenza di un messaggio ancora troppo incomodo. Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello È il racconto aspro e crudo di una guarigione miracolosa, avvenuta grazie all’olio di una lampada votiva, versato sulle natiche piagate e sofferenti del piccolo Giuseppe Desa da Copertino. L’unzione, in realtà, è l’ultimo appiglio di un anziano medico benefattore, che pur convinto uomo di scienza, non nega e non teme l’esistenza dell’inspiegabile. E proprio quell’inspiegabile, che opera ora attraverso le sue mani, benedice e salva una vita ancora troppo acerba, eppure già consacrata alle più feroci umiliazioni ed atrocità. Non vengono risparmiati particolari spietati, in questa pagine nude, sulla tutt’altro che felice infanzia di un bambino, destinato troppo precocemente alla santità. E la storia intima e privata, di un dramma che dall’inizio pare essere “solo” familiare, nel giro di pochi, svelti capitoli si manifesta in tutta la sua universalità epocale. Così, non è solo narrazione estatica di una fede avvertita prima di tutto con il corpo, questa opera prima di Luigi Caricato, e tanto meno cronaca singolare di un sacrificio accolto giorno dopo giorno, tra le cinghiate di una madre troppo timorosa delle mollezze della vita, e le parole offensive e gli atti violenti della gente del tempo. Nei confronti di un ragazzo umile e stolto, goffo e sbadato, che però presto comincerà - e non in senso figurato a “volare”, non si muovono solo i sentimenti delle conoscenze e degli affetti più prossimi, ma la storia intera di un seicento viscido e bastardo. La penna indagatrice scava con ferocia nell’umanità, lo fa alternando tempi e modi, definendo una struttura narrativa centrata sul ritmo dinamico della narrazione. Il risultato è il ritratto di un uomo e della sua epoca, non il giudizio. Perchè i voli son cosa mirabolante e prodigiosa, e solo stupore, nient’altro che stupore, devono suscitare. Stefania Ricchiuto Il Passo del Cammello Lecce-Ravenna. Andata e ritorno Maurizio Monte Edizioni Clandestine Lecce - Ravenna. Andata e ritorno. Non un posto migliore del treno per leggere questo libro, possibilmente quello che ti sta riportando a casa. Maurizio Monte, alla sua prima, vera e propria, opera letteraria, viene definito un ulivo radicato nella sua terra che si distorce dalla disperazione. Lui - come Saverio, protagonista della storia - “oggi vive fisicamente a Ravenna e mentalmente nel Salento, terra natia e musa ispiratrice”. Lui, come Saverio, come tanti, ha fatto le valige ed è andato via in cerca di lavoro e vive tra due mondi che trova radicalmente distanti, in bilico tra la nostalgia del vino rosso a San Martino e la Coolibrì soddisfazione per la perfetta igiene delle vie emiliane. Un libro scritto per gli altri e non per se stesso, parole che dipingono le situazioni e le sensazioni di molti “emigranti” per necessità, un intreccio di persone e paesaggi, quelli che hai lasciato e quelli che incontrerai, una suonata a ritmo di blues e non di taranta. Libro autobiografico - ovviamente- ma con nomi note eventi frutto della fantasia del suo autore. Maurizio scrive per passione ma sente di rivestire un ruolo fastidioso, parlare della sua terra e quello che non va, i suoi coetanei e le coscienze sonnolente di chi pensa che non sia possibile cambiare qualcosa per non dover per forza andare via. Sorridendo –amaramente - alla fine si confessa: “Io però la soluzione nu la tegnu”. Valentina Cataldo Il museo dei pesci morti Charles D’Ambrosio Minimum fax Otto racconti compongono “Il museo dei pesci morti”, il primo libro tradotto in Italia di Charles D’Ambrosio, pubblicato di recente dalla minimum fax. Racconti di ricerche frustrate, nei quali i personaggi inseguono qualcosa di perduto, o peggio ancora, qualcosa che non hanno mai posseduto. Ogni storia presenta uno o più di questi elementi: una degenza in un ospedale psichiatrico, il fallimento all’interno dell’industria cinematografica, o la perdita dei figli. Storie dolenti, scritte in una prosa semplice, diretta, che pone il lettore nel centro focale della disperazione quotidiana dei protagonisti. In “Sceneggiatore” D’Ambrosio racconta la storia di un uomo con disturbi mentali che instaura un rapporto ai limiti del lecito con un’alta paziente malata, una ballerina che tenta continuamente di darsi fuoco, costretta a dormire legata affinché non esegua i suoi progetti da piromane scriteriata. Altro racconto degno di nota è “Lo schema generale delle cose”, la storia di due tossici, Lance e Kirsten che per sopravvivere si fingono volontari di un’associazione che aiuta i neonati tossicodipendenti, bussando alle porte delle case della gente e chiedendo manciate di dollari che possano sostenere questo fantomatico progetto. Si susseguono nelle pagine di D’Ambrosio fragili antieroi, sopravissuti alle insidie dell’esistenza, come Caroline, la protagonista femminile di “Su al Nord”, che ha subito violenze da un amico di famiglia a diciotto anni e che nella sua vita non è riuscita mai ad avere un orgasmo. D’Ambrosio è abile nel costruire piccoli 25 Depeche Mode Black Celebration Steve Malins Chinaski Da Basildon, grigia città dell’Essex meridionale, al firmamento dei grandi stadi, dei milioni di dischi venduti in tutto il mondo, dell’influenza esercitata su una lunga schiera di artisti emersi dopo gli anni ’80 (Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins in testa). Passando inevitabilmente per la strada dell’eccesso, la storia dei Depeche Mode è tutta in crescendo, come dimostra il recente exploit di Playing the angel (disco e tour). Complici il matrimonio artistico con la Mute Records di Daniel Miller, le collaborazioni con produttori illuminati come Flood, Tim Simenon, Ben Hillier, le invenzioni visuali di Anton Corbijn, l’apporto degli ex membri Vince Clarke ed Alan Wilder. Cifre significative: 26 anni, 11 album in studio, una serie di singoli indimenticabili (51 in tutto), l’energia live immutata dal tempo, dagli stravizi, dagli acciacchi dell’età. Steve Malins, già autore di volumi biografici dedicati a Duran Duran, Paul Weller, Gary Numan e Radiohead esplora l’universo pubblico e privato della band inglese dagli esordi ai giorni nostri. Il risultato è un libro eccitante che ha il merito di rivolgersi non solo ai fans più ortodossi ma a tutti gli appassionati di musica in generale. Salite sulla ruota panoramica e allacciate le cinture. (N.G.D’A.) Neil Young - discografia illustrata Stefano Frollano Coniglio Editore Tutto il Neil Young che collezionisti e fan non possono ignorare: dal primo singolo in veste di autore e chitarrista dei The Squires, registrato alla stazione radio canadese CKRC nel luglio del 1963 e pubblicato da una piccola etichetta locale specializzata in musica etnica, fino alle più recenti sortite con Prairie wind (2005) e Living with war (2006). Passando attraverso le esperienze con Buffalo Springfield, CSN&Y, Crazy Horse, le livide istantanee di On the beach (1974), la temporanea svolta elettronica di Reac-tor (1981) e Trans (1983). Impresa difficile, se non proprio titanica, data la prolificità dell’artista di Toronto. Stefano Frollano, classe 1962, ha spulciato meticolosamente tra 45 giri, album, promo, collaborazioni a vario titolo con altri artisti centrando l’obiettivo di un’opera notevole, da leggere e guardare con vivo interesse (centinaia le riproduzioni di copertine, labels e manifesti). Il libro fa parte della collana Discografie Illustrate, ideata da Francesco Coniglio e Fernando Fratarcangeli e curata da Michele Neri. (N.G.D’A.) Le canzoni George Harrison Michelangelo Iossa Editori riuniti Nuovo capitolo della collana Pensieri e parole di Editori Riuniti dedicato a George Harrison. Un personaggio, quello del Beatles tranquillo, spesso messo in ombra dalla prorompente prolificità di John Lennon e Paul Mc Cartney ma che “contribuì fortemente alla crescita della band, proponendo soluzioni musicali e vocali che definirono letteralmente il sound complessivo del gruppo. Elemento cardine della perfetta alchimia che rese inconfondibile la “Beatles Formula”. In questo libro la sua lunga carriera viene ripercorsa attraverso le sue canzoni e le sue parole. Dal periodo con i Beatles in cui firmò canzoni bellissime come While my guitar gently weeps, Here comes the sun. E poi l’uscita dei All things must pass in cui recita “ un’alba non può durare un intero mattino, un temporale non può durare un ‘intera giornata”. Nel libro c’è spazio anche per i concerti di beneficenza (George fu il primo ad organizzarne uno), l’india e un sacco di poesia trasferita in note. Un volumetto importante per chi vuole scoprire che dietro il più giovane e timido dei quattro Beatles si nascondeva un grande uomo. (O.P.) Coolibrì 26 mondi suggestivi e realistici, popolati da individui lacerati da ferite non arginabili, vinti fotografati nei momenti di massima inazione rispetto alla propria vita. Rossano Astremo Sarti Antonio e il malato immaginario Loriano Macchiavelli Dario Flaccovio Editore Una bella riedizione della Dario Flaccovio Editore di un classico di Loriano Macchiavelli, a ragione considerato tra i maggiori esponenti della detective story italiana e padre letterario di Sarti Antonio, protagonista indiscusso della storia del giallo italiano. In questo libro, però, per venire a capo dell’enigma il sergente deve dividere la scena con Poli Ugo, archivista zoppo della questura di Bologna, cinico, ripugnante, non propriamente un personaggio capace di conquistare la simpatia del lettore, eppure geniale. Sullo sfondo una istantanea implacabile di una Bologna che sta per scomparire, scattata da un Macchiavelli disilluso e dolente che stenta quasi a riconoscere una città che sente non appartenergli più. Ed è in questo contesto che Sarti si muove per risolvere un caso di omicidio che mette a dura prova la sua colite e lo costringe, suo malgrado, a chiedere l’aiuto del questurino. Tra truffe sanitarie, ritornate drammaticamente di attualità, e scoperte sconcertanti i due arriveranno forse alla chiusura del caso, lasciando aperto il finale a mille soluzioni possibili. Bellissime le tavole che accompagnano il volume realizzate da Magnus per la prima edizione. Silvia Visconti Il grande Bagarozy Helmut Krausser Barbera editore Come si reagisce davanti al nostro lato diabolico, che lentamente emerge e ci conquista? È questo l’interrogativo che attraversa il romanzo di Helmut Krausser, facendoci fare un viaggio tra i sotterranei della nostra coscienza, quelli di cui ignoravamo l’esistenza. Attraverso le vicende di Cora Dulz, psichiatra trentacinquenne dalla vita matrimoniale piatta ma serena, l’autore ci conduce in un mondo sospeso tra realtà e soprannaturale, di cui è difficile scorgere i confini. Tutto ha inizio quando la protagonista entra in contatto con un paziente singolare, che dapprima sostiene di vedere il fantasma di Maria Callas, poi di essere stato il suo cagnolino, infine di essere addirittura il diavolo, dando credibilità alla sua storia rivelando dettagli molto intimi della vita privata della Divina. Pian piano la psichiatra, dopo le diffidenze iniziali, viene sempre più conquistata da questo strano individuo, che farà emergere le sue pulsioni più segrete e istintive, al di là di ogni convenzione morale. Affascinante. Silvia Visconti Da Vendola a Prodi. I media nelle campagne elettorali 2005-2006 a cura di Stefano Cristante e Paolo Mele Besa L’Università del Salento, da alcuni anni a questa parte, è sede di un osservatorio di Comunicazione Politica che monitora le campagne elettorali alla ricerca della tanto invacata par condicio ma non solo. Il volume, che si apre con una introduzione del professor Stefano Cristante, docente di Sociologia della comunicazione e Sociologia dei fenomeni politici, presenta una prima parte dedicata alle elezioni regionali del 2005, vinte in maniera sorprendente dal candidato di Rifondazione Comunista Nichi Vendola, e una seconda riservata invece all’analisi e all’interpretazione del voto nazionale che ha condotto alla risicata vittoria dell’Unione di Romano Prodi. Due casi diversi, seppur accomunati dal successo del centrosinistra sul filo di lana, che vengono sviscerati attraverso lo spazio che le televisioni, le testate giornalistiche locali e la rete di internet hanno concesso ai due schiaramenti in campo. Il merito del libro è quello di non essere un mero elenco di numeri e minutaggi (che pure condiscono le pagine) ma una interessante raccolta di spunti di riflessione sulle due campagne elettorali, molto diverse tra di loro, che ci siamo lasciati alle spalle. Se nel primo caso furono i comitati, gli incontri, la battaglia “porta a porta” a fare la differenza, nel secondo la padrona indiscussa è stata la televisione con i suo talk show e gli spot. Il libro ospita le riflessioni di docenti, e non solo dell’ateneo salentino, come Onofrio Romano, Salvatore De Masi, Carlo Formenti Sergio Salvatore e Claudio Venuleo, ma è anche l’occasione per l’esordio (se così possiamo definirlo) di alcuni giovani laureati che hanno partecipato al lavoro dell’osservatorio coordinato da Paolo Mele. Un libro per gli appassionati di informazione e di politica che ci racconta un pezzo d’Italia. Trentottenne salentino di Nardò Livio Romano dopo il successo di Mistandivò, pubblicato con Einaudi nel 2001, è diventato punto di riferimento per tutta una generazione di scrittori del tacco d’Italia. Insegnante d’inglese in una scuola elementare, ha pubblicato una racconto in Disertori (Einaudi), tre racconti in Sporco al sole (Besa-Books Brothers), i romanzi Mistandivò (Einaudi 2001) e Porto di mare (Sironi, 2002), il lungo reportage dalla Bosnia Dove non suonano più i fucili (Big sur). Torni nelle librerie dopo circa cinque anni da Mistandivò e Porto di mare. Come mai questa lunga attesa? Non credo sia lunga. Gli scrittori non devono fare un libro ogni anno come i cantanti. Dopo Porto di mare ho cominciato a prendere appunti per questa storia pensando anche al modo di Coolibrì inserire tutto il gran materiale che avevo per la testa in una trama che si rivelò subito molto complessa da gestire. Alla fine avevo la “scaletta” e, parlando a lungo con un mio amico, anche il modo di “mettere a sistema”, se così possiamo dire, la miriade di storie, microstorie, personaggi, argomenti che volevo mettere in scena. Ho impiegato quattordici mesi per scriverlo. Poi ho perso un po’ di tempo con un editore a cui era molto piaciuto il romanzo, infine sono approdato in Marsilio dove è cominciato un editing faticoso e attento con un editor giovane e capace, Errico Buonanno. Niente da ridere in poche battute… Parliamoci chiaro. Questo è un romanzo realista, con tutto quello che ciò significa nel 2007. Realista e minimalista per la pignoleria con cui si sofferma, per esempio, su elementi del tutto prosaici come TAEG e affini amenità che fanno parte della vita di tutti noi occidentali. I libri degli ultimi anni non parlano che di trentenni. Ma si tratta di trentenni dimissionari, precari, dinky, single, mammoni, cocainomani, crapuloni, irrisolti, metropolitani. Nessuno che si sogni di raccontare, come fanno il cinema e la narrativa inglesi (Hornby in primis, ma anche John O’Farrell, India Knight, Jonathan Coe) pure le vite di quei trentenni che hanno messo su famiglia, della gente che prova a farcela, che fa figli, che si barcamena fra familiari da accudire, babysitter, infanzie tristi, debiti. Nella quarta di copertina si legge “Il romanzo di una generazione che rischia di farsi scivolare tra le dita il diritto a un attimo di felicità”. Ci spieghi un po’ questa sensazione... Questo è un romanzo che potremmo ascrivere al genere “storie di famiglia”. Si tratta di una famiglia pennacchiana, fumettistica, allargata la cui casa è un teatrino in cui compaiono e scompaiono figuranti e protagonisti a una velocità da sit-com. I coniugi titolari di questa specie di caffetteria sono Gregorio e Delia, il prototipo umano di quello che viene sbandierato come “solidarismo meridiano”, ma senza che loro due riescano in alcun modo a godere di un briciolo della parte “attiva” della solidarietà stessa. Io son circondato da colleghe che arrivano al lavoro gialle in faccia e prossime al collasso per aver assistito la vecchia mamma durante la notte: ecco, Niente da ridere, che è ovviamente un titolo ambivalente – nel senso che c’è da ridere di continuo ma su argomenti intorno ai quali non ci sarebbe proprio da scherzare - porta al parossismo il familismo mediterraneo in cui lo Stato e i suoi meccanismi di protezione sono assenti. Ne mostra i lati deteriori. Senza scomodare Foucault, mette in scena quanto una famiglia può diventare il posto più violento del mondo. Quanto è autobiografico questo romanzo? Per niente e del tutto autobiografico. Volevo inserire diversi materiali: un “lamento” di fondo che desse voce alla coscienza di Gregorio, la politica (questa volta la messinscena delle Elezioni Comunali), e poi introdurre una materia che mi sta moltissimo a cuore: la malattia mentale, sia quella gravissima, sia quella, diciamo così, da stress della vita moderna (il protagonista è un patito delle benzodiazepine: già nell’incipit, citando ovviamente Let it be, è “sora Alprazolam” che lo soccorre in tempi di guai, piuttosto che la vecchia cara Madre Maria: una rivoluzione culturale che rivela di che pasta è fatta la generazione cresciuta negli anni Ottanta…). È vero che il protagonista ha più o meno la mia età e fa il maestro di scuola come me (e attribuendo a questo personaggio la maggior parte delle avventure che due o tre persone devono avermi raccontato, ho risolto ogni possibile problema potesse loro derivare da questa pubblicazione…). Ma già dopo dieci pagine mi accorsi di quanto questo Gregorio Parigino vivesse di vita autonoma, del tutto estraneo al suo burattinaio. Poi, è ovvio: ci sono anche episodi che ho vissuto personalmente ma sai che non so più, come al solito, dove finisce la finzione e dove comincia la realtà? Durante i giri di editing mi capitava di rileggere dei pezzi e di chiedermi: “Ma questa cosa, è successa sul serio? È successa a me? E se non a me, a chi è successa? Me la sono inventata?”. In ogni caso, la moltissima vita reale che pulsa in questo libro (lontana anni luce dalle storie manierate alla Easton Ellis) è stata talmente trasfigurata perché si adattasse all’architettura di commedia comico/amara che, se pure esistesse un fatto raccontato “esattamente” come è avvenuto nella realtà, la lingua e il ritmo spazzerebbero via ogni illusione di “candid-camera”. Esci per una nuova collana della Marsilio che ha pubblicato anche un altro salentino (Gianni D’Attis). Sei soddisfatto della nuova casa editrice? Questa collana nasce con l’intento di fare della narrativa di qualità e “leggibile”, nell’accezione più nobile del termine: storie che intrattengano, che accompagnino il lettore dalla prima all’ultima pagina senza farlo penare. Mi son trovato molto bene con l’editor che da un lato è stato inflessibile sul voler eliminare un buon 30% di analessi (scelta che a tutt’oggi condivido in pieno, per quanto sulle prime mi sia costato dolore) e un po’ di trucchetti a basso costo da teatro comico, ma anche estremamente rispettoso dell’opera così com’era stata concepita. Cosa leggi ultimamente? Se scrivo, non leggo e viceversa. Ho appena finito un romanzo che spezza nettamente con tutte le cose fin qui fatte. Prima di cominciarlo, ho riletto Dostoevskij, per la prima volta l’Odissea, un po’ di tragedie greche, moltissimi autori israeliani, Joyce Carol Oates della Famiglia americana, Joseph O’Connor che è sempre una scoperta, un vero genio del plot ma le due folgorazioni dell’ultimo anno son state Le Correzioni di Franzen e Revolutionary Road di Yates: due capolavori che mi si sono appiccicati addosso, ognuno per ragioni diverse, in maniera indelebile. Questo numero di coolclub.it è dedicato alle colonne sonore. Qual è la colonna sonora di questo libro? In generale cosa ascolti? Ovviamente la colonna sonora di Niente da ridere è Let it be dei Beatles. È un tormentone che comincia nell’incipit e va avanti fino alla fine. Ma ci sono anche gli Smiths, i Rem, i Radiohead, RHCP, Elvis Costello, Tom Waits e tanti altri. Ho trascorso tutti gli anni Novanta ad ascoltare esclusivamente jazz. Da qualche anno son tornato al rock’n’roll riscoprendo il piacere di farmi stordire dal suono della chitarra elettrica che, secondo me, personifica quella musica. Ma frequento volentieri anche territori limitrofi: rhytm’n’blues e soul senza disdegnare certi prodotti geneticamente modificati ai quali non saprei affibbiare un’etichetta: i Cowboy Jankees, che musica fanno, di preciso? Pierpaolo Lala Coolibrì 28 La torinese Instar libri, nata agli inizi degli anni novanta, si è subito fatta notare per la cura nella scelta dei titoli ma anche per un’immagine nuova nel panorama editoriale italiano. Oggi Instar allarga il suo catalogo e estende la sua distribuzione. Ne abbiamo parlato con l’editor Francesco Colombo. La vostra casa editrice nasce più di dieci anni fa. Cosa è cambiato da allora? Tutto, ma soprattutto sono cambiati i luoghi in cui si vendono i libri. Dieci anni fa, in Italia, c’era una sola catena di librerie che avesse un peso reale, e spesso i suoi punti vendita si differenziavano dalla concorrenza indipendente più che altro per le dimensioni dei locali. Ora le catene sono tre o quattro, e non vendono solo libri, ma una quantità di prodotti più popolari che favoriscono l’ingresso di nuovi potenziali clienti. In più ci sono i supermercati, gli ipermercati, le vendite on line… Una vera rivoluzione, cui però i piccoli editori faticano a stare dietro. I megastore del libro hanno esigenze che chi non può permettersi grandi tirature e investimenti pubblicitari difficilmente riesce a soddisfare. La vostra linea editoriale è orientata prevalentemente verso la narrativa straniera, è un caso o una scelta ? In passato è stata una scelta, ma a ben pensarci, credo, una scelta obbligata. È molto complicato trovare romanzi e saggi italiani, richiede un lavoro di scouting assai difficile che, in qualche modo, nel caso di libri comprati presso case editrici estere è in parte già stato fatto. Ma adesso ci sentiamo pronti anche noi. Quest’anno pubblicheremo il nostro secondo romanzo italiano, s’intitola Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, di Fabio Geda, un esordiente in cui crediamo molto. Nel vostro catalogo ci sono frecce, dirigibili, antenne, ci spieghi la natura e l’idea che c’è dietro queste collane? L’idea è una collana di narrativa (i Dirigibili), una di saggistica (le Antenne). Troppe distinzioni non avrebbero senso per una casa editrice delle nostre dimensioni, e in generale mi sembra che troppe distinzioni non abbiano mai tanto senso. Le Frecce sono nate dall’esigenza di pubblicare anche libri piuttosto esili – intendo come numero di pagine – che richiedevano un formato più piccolo. Il significato dei nomi? Beh sarebbe una bugia attribuire loro dei significati troppo profondi. Li abbiamo inventati tornando da una fiera di Francoforte, in un’atmosfera che ricordo piuttosto giocosa. L’unica cosa che sapevamo con certezza era che non volevamo nomi altisonanti. Un’altra caratteristica dei vostri libri è la cura per la grafica, il packaging, il vostro Natura morta con custodia di sax (nella foto a sinistra) di Dyer è inserito in una sorta di fodero, quindi, non solo attenzione per i contenuti... Nelle nostre intenzioni, l’attenzione al packaging vorrebbe essere una “continuazione” dell’attenzione al contenuto. Una copertina deve essere, per così dire, un vestito adeguato, che presenta il carattere di quello che sta sotto. Fra l’altro abbiamo appena cambiato di nuovo la grafica. Vogliamo che le nostre copertine siano il più possibile l’una diversa dall’altra, come del resto sono i libri: nessuna gabbia fissa, in comune avranno solo pochissimi particolari. Speriamo però che lo “stile” sarà riconoscibile, e soprattutto apprezzato. Come è cambiato, se è cambiato, il pubblico dei lettori in questi anni? Senz’altro è meno provinciale: spesso i lettori conoscono già un autore straniero prima ancora che venga tradotto. Forse, pero, è anche un po’ più succube della pubblicità (ma come potrebbe essere altrimenti), e finisce con il concentrarsi in massa sui soliti due o tre titoli di grido. Molti sostengono che esistano troppi libri, che il mercato dell’editoria sia ormai arrivato al collasso, cosa ne pensi? È vero, purtroppo è assolutamente vero, ma non certo per colpa dei piccoli editori. Vengono pubblicati troppi libri, che di conseguenza hanno vita breve, perché i librai devono liberare continuamente gli spazi su tavoli e scaffali per far posto alle nuove uscite. La piccola editoria è un modo per preservare il lettore dall’omologazione o solo un prodotto di nicchia? Esagerando un po’, mi piacerebbe poter dire che è un “luogo di libertà”. Un piccolo editore può fare, anzi è costretto a fare, conti economici diversi dai grossi gruppi. Non deve rispondere ad azionisti, e in questo senso è più libero nelle scelte. Con ciò non voglio cadere nella retorica del piccolo editore che fa libri di valore senza badare all’aspetto commerciale. Anche noi dobbiamo e vogliamo vendere, e i grandi editori pubblicano tanti libri importanti, solo che loro non possono rischiare, devono andare sul sicuro. Così è accaduto spesso che siano state le piccole case editrici a portare in Italia autori in seguito diventati famosissimi, e di conseguenza finiti nei cataloghi di editori più ricchi. Pensate a Brett Easton Ellis o a Don De Lillo, pubblicati in prima battuta da Pironti, a A.M. Homes, scoperta da Minimum Fax, e a Vikram Chandra, che quest’anno uscirà da Mondadori con quello che è stato annunciato in tutto il mondo come il romanzo dell’anno: i suoi primi due libri, Terra rossa e pioggia scrosciante e Amore e nostalgia a Bombay, li abbiamo tradotti noi. (O.P.) Be Cool il cinema secondo coolcub Rocky Balboa Silvester Stallone Bim distribuzione Nel film Balle spaziali, irriverente parodia della fortunata saga di Guerre Stellari firmata da Mel Brooks, una delle tante esilaranti battute è dedicata al mitico pugile italoamericano Rocky Balboa. In un futuro non meglio identificato un critico cinematografico commentando Rocky 5... mila sottolinea “visti i primi mille, visti tutti”. E in effetti anche questo sesto appuntamento con la storia drammatica e speranzosa assieme del pugile di Philadelphia che dai ring polverosi della provincia diventa campione del mondo, sfida i migliori atleti di tutte le razze, conquista fama e denaro, torna nella polvere per investimenti sbagliati da parte del cognato, urla a squarciagola il nome della sua amata storcendo in maniera inconsueta la bocca, non aggiunge molto ai primi capitoli. Comunque, quando esce un nuovo Rocky bisogna vederlo (e la stessa tenera soddisfazione che provavo da piccolo alle nuove avventure di Scuola di Polizia o Arma Letale). Lo stallone italiano ha ormai sessanta anni, gestisce un ristorante nella sua città, ammorba i clienti con i suoi racconti di sfide memorabili, piange sulla tomba dell’amata moglie, ha problemi con il figlio che non riesce a convivere con l’ingombrante passato del padre, incontra una donna che da adolescente aveva chiesto al grande campione un autografo e che adesso vive con un figlio scapestrato che Balboa cerca di redimere (assieme alla madre...). Ad un certo punto (e in realtà non è che si capisca bene il perché, ma forse mi ero distratto) l’uomo decide che nonostante l’età, la trippetta e il fiatone, deve tornare sul ring. In realtà Rocky penserebbe a qualche piccolo incontro così per divertirsi, per tirare qualche cazzotto invece di cucinare leccornie per i proprio affezionati. Invece, ironia della sorte e della sceneggiatura, si ritrova a poter affrontare in una “esibizione” il giovane Campione del Mondo, imbattuto e imbattibile, che nessuno osa più sfidare e che invece, secondo un match al computer, sarebbe messo ko dal miglior Balboa. E qui dalla stanca prima parte, anche un po’ stucchevole se non patetica, si passa come da copione perfetto e immutabile - nella fase due del film: duro allenamento con materiale di scarto (compresi gli immancabili quarti di bue del macello), corsa sulla famosa scalinata (anche se ormai la statua con le braccia al cielo è stata tolta), frasi memorabili di una poesia che fa rizzare le carni e incontro sul quale nessuno scommetterebbe un dollaro... e invece... Rocky sovverte il pronostico e tira pugni come sassi, cazzotti che sono tir in movimento, ganci che smandibolerebbero anche uno gnù. Il finale, ovviamente, è top secret (e c’è anche un divertito Mike Tyson). Comunque questo è, rispetto agli altri, un Rocky molto decoubertiniano. L’importante è partecipare e dimostrare a se stesso e agli altri che “è meglio essere felici sacrificandosi per quello che si ama piuttosto che essere infelici rinunciandoci”. Rocky non è solo un pugile. Rocky ha accompagnato una generazione di statunitensi, e per riflesso di europei, dal sogno americano alla guerra fredda, dall’amore al razzismo nei confronti dell’immigrato pizza-mandolino, dalle riflessioni sulla lealtà e sulla sportività alle piccole storie senza importanza della quotidianità. Peccato che in questo ultimo round non ci fosse l’indimenticabile voce di Ferruccio Amendola a urlare Adriana... che è un po’ quello che vorremmo urlare noi dopo ogni piccolo o grande successo della vita. Gazza Be Cool 30 Shortbus. permesso L’arte del sogno Michel Gondry Mikado Il regista – autore Michel Gondry ritorna al grande schermo dopo Eternal Sunshine of the Spotless Mind (con Jim Carrey e Kete Winslet) del 2005 e dopo una lunga parentesi di magistrali videoclip musicali e spot pubblicitari. Nel suo ultimo film L’arte del Sogno ci spiega la “Science of Sleep” e fornisce la ricetta per costruire i sogni: “Prendete i colori e le emozioni del presente, mescolatele con i suoni, le voci, le musiche, i ricordi del passato aggiungete qualcosa delle speranze per il futuro ed ecco il vostro sogno”. L’artista Stephan (Gael Garcia Bernal) torna in Francia, dopo un lunghissimo periodo in Messico, spinto dalla madre. Il giovane pensa di aver trovato finalmente il lavoro della vita, che gli permetta di esprimere tutta la sua creatività di disegnatore. Si ritrova, al contrario, catapultato in una realtà che non sembra appartenergli. Tra mille difficoltà linguistiche, si muove infatti tra francese, spagnolo e inglese, si ritrova rinchiuso in uno scantinato, con tre impiegati e un capo dalla mentalità rigida, a realizzare tristi calendari aziendali. L’incontro con la stralunata Sthephanie (Charlotte Gainsbourg), che casualmente va a vivere proprio nella casa accanto alla sua, contribuisce a confondergli ulteriormente le idee. A questo si aggiunge la sua impossibilità di scindere la realtà dal sogno e la fantasia. Gondry è bravissimo a costruire un personaggio che sembra uscito dall’animazione degli anni sessanta e settanta, tenero e vulnerabile. Gael Garcia Bernal è perfetto alter ego del regista e si riconferma un grande interprete del cinema d’autore (La mala education, I diari della motocicletta). Il regista francese imprime alla perfezione su pellicola sia la spietata realtà di tutti i giorni che il mondo onirico: si serve infatti spesso di scenografie, fatte di cartonati e sfondi volutamente finti e della tecnica della stop motion, ormai elemento costitutivo dello suo stile. Sabrina “Zero Project” Manna La ricerca della felicità Gabriele Muccino Medusa A distanza di quasi quattro anni dal suo ultimo film (italiano!), Ricordati di me, Gabriele Muccino torna nelle sale di tutto il mondo con La ricerca della Felicità (The pursuit of happness). Per battezzare il suo esordio hollywoodiano, abbandona completamente l’Italia borghese dei nostri giorni per raccontarci l’America degli anni ottanta. Nel suo ultimo film, il regista ci porta per le strade di San Francisco, quelle stesse che Chris Gardner (Will Smith), un improbabile ma tenace venditore porta a porta, percorre tutti i giorni, pur di piazzare i suoi scanner per ossa. L’uomo, soffocato dai problemi economici, ha una famiglia da mantenere, il piccolo Christopher (Jaden Christopher Syre Smith), la moglie (Thandie Newton) e una montagna di affitti e rette dell’asilo che gli assillano l’esistenza. È proprio quando la compagna lo abbandona, per cercare miglior fortuna a New York, che Chris si rende conto di vivere ormai ai margini del sogno americano. Comincia ad affrontare con il figlio l’iter di tutti i senzatetto: sfrattato dal suo appartamento, si ritrova dapprima a dormire in un motel, fino ad arrivare alla strada e ai ricoveri per homeless. Ma è proprio durante questo percorso che sembra giungere ad una svolta. Viene assunto da stagista in una grossa società finanziaria, con la speranza di ottenere un giorno un posto di lavoro retribuito. Il nostro protagonista intraprende un viaggio, mosso dalla “ricerca della felicità”, come nella migliore tradizione delle storie e dei personaggi del cinema neorealista di De Sica e della commedia agro-dolce di Capra, a cui chiaramente Gabriele Muccino si ispira e rende omaggio. Il “manierismo mucciniano” è presente nella recitazione urlata e sopra le righe, che spesso riemerge in alcuni tratti anche in quest’ultimo film, ma è ben gestita da un grandioso Will Smith (in corsa all’Oscar per questo ruolo), che ci sta abituando a grandi ruoli drammatici (vedi Alì). Il regista lavora con una sceneggiatura, che trova purtroppo debolezza nella ripetitività degli ostacoli e delle disgrazie, prima di arrivare all’agoniato happy end. Lo stile “internazionale”, caratterizzato principalmente dagli ampi e rapidi movimenti di macchina, rimane comunque uno dei grandi punti di forza del regista. Sabrina “Zero Project” Manna Dove tutto è John Cameron Mitchell Bim Sofia, terapista del sesso, che non ha mai raggiunto l’orgasmo. La “dominatrix” in corpetto di pelle nera e frustino che - piedi a mollo in acqua calda - piange. L’ex sindaco di New York che si addormenta sulla spalla di un ragazzino di mestiere modello dai capelli biondi e il viso angelico. Soprattutto James che ha così tanto intorno, ricordi emozioni carezze fotografie, ma non lo riesce a sentire - “è dura non sentire niente nella vita”. Sai cosa è uno Shortbus? Hai presente gli scuolabus gialli? Ecco, quello, ma più piccolo. Lo shortbus è un salotto di New York dai colori dispersi. Dove l’unico padrone è il sesso. Il sesso spinto, etero omo lesbo, a uno due tre quattro, il sesso mostrato, violento dolce, lento frenetico, allo specchio in mezzo ad altra gente che fa sesso. Si guarda si prova si sperimenta si analizza. Ognuno alla ricerca di qualcosa. In fondo siamo tutti “dancers in the dark”, balliamo al lume di candela, aspettiamo e aspettiamo ma il tempo invece di schiarire le cose le complica ancora di più. Un film forte imbarazzante eccessivo erotico spudorato insistente. Amaro estremo pieno. Un film spiazzante, per lo meno all’inizio. Per la regia di John Cameron Mitchell, musiche degli Yo La Tengo, vietato ai minori di 18 anni, Shortbus: per capire che alla fine è tutta una questione di giusta connessione, non è in te il problema, né in lui. Solo, nel collegamento. E un’altra cosa ancora, non si smette mai di cercare le stesse cose, lascialo entrare, dentro te, tutto quello che prova a insinuarsi ma si ferma alla tua pelle. Alla fine la luce ritorna. Valentina Cataldo Manuale d’amore. Capitoli successivi Giovanni Veronesi Filmauro Richiestissimo dal pubblico e stroncato (o quasi) dalla critica, il secondo capitolo del Manuale d’amore di Giovanni Veronesi è uno dei successi (annunciati) dell’inverno. Rispetto al primo fortunato episodio i temi trattati, nel consueto schema, quattro diversi racconti tenuti insieme da un filo conduttore, sono più arditi e sfiorano anche l’impegno sociale. Non convincono affatto la Bellucci e Scamarcio (troppo belli per essere veri) e Fabio Volo e la Bobulova sul tema della procreazione assistita. Decisamente divertenti il duo Rubini e Albanese, coppia gay in bilico tra Salento e Spagna, e Carlo Verdone, “anziano” alle prese con un giovane amore. Tentativo giusto quello di andare oltre la facile risata ma in parte non riuscito. Be Cool Il regista e audace sperimentatore culturale Alessandro Piva non smette di sorprendere. Nato nel 1966 a Salerno, barese d’adozione, è autore de LaCapaGira (1999) e di Mio cognato (2003). Piva è un artista poliedrico che si divide tra mille progetti, come il reportage dell’abbattimento di Punta Perotti e una sorta di backstage della Notte della Taranta di Melpignano. Regista, sceneggiatore, diplomato in montaggio alla Scuola Nazionale di Cinema, ha da poco intrapreso una nuova esperienza come direttore artistico della rassegna Deejay for a day del Mavù, club masseria immerso nella Valle d’Itria, nelle campagne tra Locorotondo e Cisternino. Al centro di questo progetto la partecipazione di un personaggio del mondo dello spettacolo nelle inusuali vesti di deejay. I primi due appuntamenti hanno visto la partecipazione dell’attore andriese Riccardo Scamarcio (nella foto a destra) e di Asia Argento (nella foto in basso), affiancata da Fernanda Lessa. Dalla macchina da presa alla consolle. Raccontaci di questa nuova esperienza fuori dall’ordinario. E soprattutto, quando potremo vedere anche te come dj? L’idea di Dj for a Day è nata con l’intenzione di regalare, a chi frequenta l’ambiente delle discoteche, un’esperienza diversa e lontana da quella che è la tipica uscita per andare a ballare. Da un altro versante 31 abbiamo invece cercato di attirare chi in discoteca rifiuta di andarci, proprio per una questione che riguarda l’andamento delle serate in quei luoghi. Se vuoi è un divertimento meno “gridato”, ma pur sempre intrigante perché si ha l’occasione di vedere un artista slegato dal suo contesto abituale, avendo così l’occasione di conoscerne meglio i gusti e alcuni aspetti. Direi che l’esperimento è riuscito, visto il riscontro ottenuto con Riccardo Scamarcio, ma speriamo che si possa continuare positivamente. Per quanto riguarda una mia partecipazione attiva per il momento sto a guardare, ma vedremo più in là. L’esperienza del Mavù si presta ad introdurre l’argomento di questo numero di Coolclub.it, che è incentrato sulle colonne sonore. Come vedi il lavoro di compositore e quali sono le tue personali indicazioni se ce ne sono? Per abitudine non sono uno di quei registi che pretende di dire la sua su tutto. Lascio molto spazio ai miei collaboratori e alle loro idee, nello specifico Ivan Iusco che ha composto le musiche dei miei lavori. Diciamo che mi limito a dare delle semplici indicazioni su come intendo quella scena e su come mi aspetto venga resa al meglio. A volte mi capita di non riconoscermi nel lavoro del compositore e di proporre nuove soluzioni, mentre altre rimango piacevolmente smentito. Il bello del cinema è anche questo. Fare un film si potrebbe paragonare ad un parto che porta sempre ad una nascita, ma ogni volta attraverso modi, tempi e risvolti differenti. Parlaci dei nuovi progetti che ti aspettano... Al momento sono al lavoro su un film piccolo e su una grossa produzione. Tornando al discorso di prima credo che al giorno d’oggi, con i continui mutamenti che ci sono, sia importante un artista saper essere poliedrico. Non bisogna fossilizzarsi su qualcosa ma essere disponibili a lavorare su più fronti, e te lo dice una persona che ci mette mediamente quattro anni a fare un film. In tutti i tuoi lavori è presente una matrice locale, che hai conservato anche dopo essere approdato al cosiddetto cinema nazionale. Sei molto legato alla tua terra o è solo una questione di opportunità? Negli anni ‘80 andare a vedere film italiani era considerato da sfigati. Negli ultimi quindici anni le cose sono lentamente cambiate e credo che si debba anche a questa “decentralizzazione”. La gente si era stancata di un romacentrismo in cui non si riconosceva e si è riappropriata di varie identità, le proprie. Ora il cinema si riprende e trasmette nuovi segnali positivi soprattutto perchè è cambiata questa percezione della gente nei riguardi dei nostri prodotti culturali. Chiudiamo con un’altra esperienza locale, legata stavolta al Salento. Hai avuto l’occasione di coordinare per Telerama i videomaker che documentavano la “Notte della taranta”. Che tipo di lavoro è stato e che opinione hai delle accuse di approssimazione culturale che questa manifestazione porta con se? L’esperienza della “Notte della Taranta” è stata senza dubbio positiva. Lavorare con altri artisti e avere l’opportunità di raccontare le tradizioni e la loro evoluzione è stato interessante. Da questo vorrei potesse scaturire anche un video, da distribuire prossimamente. Per quanto riguarda le polemiche io cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Forse è vero che la faccia del Salento non è solo questa, ma io penso anche agli enormi vantaggi che questa manifestazione ha portato al territorio, sia in termini economici e turistici, che in termini di visibilità. Certo bisogna stare attenti, ma senza distruggere ciò che è positivo, ma semmai migliorarlo. C. Michele Pierri Nel periodo natalizio su RadioDue dalle 16,30 al posto di Condor, seguita trasmissione di Luca Sofri, è andato in onda per 15 puntate un racconto suggestivo della migrazione. La voce, con un accento marcatamente salentino, era dell’attore leccese Mario Perrotta. Classe 1970, dopo gli studi nella dotta Bologna (laurea in Filosofia con una tesi su Pirandello), il giovane ragazzo che proveniva dal sud ha intrapreso la carriera dell’attore fondando, insieme ad altri amici, la Compagnia Teatro Dell’Argine. Nel 2002 è partito il suo progetto Italiani Cincali, che ha dato vita a due spettacoli teatrali e ad un dvd distribuito con l’Unità, che racconta l’emigrazione degli italiani verso l’europa, verso le miniere, le fabbriche, narra dei soprusi e delle angherie che gli italiani, sprezzantemente chiamati cincali (zingari) hanno dovuto subire. Il passo successivo è stato questo Migranti espress che ha affascinato da subito le gerarchie radiofoniche di mamma Rai e che è stato un grande successo, come si dice in questi casi, di pubblico e di critica. Com’è nata l’idea della trasmissione? C’era già stato un precendete fortunato. Davide Enia, che viene associato per lo stile narrativo a me e ad Ascanio Celestini, aveva infatti proposto Rembò. Ascoltando la sua trasposizione radiofonica pensavo che avrebbe funzionato anche un progetto sull’emigrazione. Io sono un grande ascoltatore di radio e reputo di avere una buona cultura musicale, così ho pensato di mettere insieme le parole e le note per raccontare questo lungo viaggio. In realtà ho fatto una proposta a Radio Due con la convinzione che non mi avrebbero mai preso in considerazione partendo dal presupposto che in una struttura come quella è già difficile capire con chi parlare. Invece l’idea è piaciuta, la puntata zero ha convinto i direttori di rete e così siamo partiti. La tua voce, i tuoi racconti, hanno subito incuriosito tutti. In Rai sono soddisfatti? Dal punto di vista commerciale è difficile dare già dei risultati certi perché i dati vengono considerati su scala trismestrale. Abbiamo però un importante punti di riferimento che è il podcast. Sul sito di radio 2 l’ascolto e lo scarico in podcast già la prima settima superava quota 12mila, l’11% del traffico nel suo complesso. È difficile che un programma nuovo faccia così bene. Poi c’è stato da subito l’affetto degli ascoltatori. Il forum della trasmissione è stato invaso da commenti, da racconti di viaggi, qualcuno addirittura dopo le prime puntate scriveva “Mi aspettavo di sentire Sofri e invece mi ritrovo a piangere”. Inoltre ho ricevuto molte mail, molti complimenti, racconti e testi teatrali da leggere. Insomma è andata benissimo e sono entusiasta. La cosa sorprendente è che non ho ricevuto commenti negativi; magari chi pensa male non si è fatto sentire. Comunque per me è stato un salto siderale: mediamente in un giorno mi ascoltavano le stesse persone che dal vivo avrei raccolto in una decina d’anni. Arrivare a 300 mila ascoltatori quotidiani è un passaggio stratosfertico senza contare tutte le persone che hanno iniziato a scambiarsi gli mp3 con le registrazioni delle puntate anche dopo la fine della trasmissione. Da un po’ di anni tratti questo tema. Quale riflessione esce sull’emigrazione! La cosa che mi fa più disperare è la mia gente che dice che è tutta colpa degli albanesi o degli extracomunitari. Nel 1988, quando sono partito per l’Università, gli stranieri non si erano ancora visti ed era tutto uguale. La cosa più evidente è l’incapacità assoluta di ricordare quello che si è stati. Da questo punto di vista è esemplare la frase che dice, in chiusura dell’ultima puntata, un amico tunisino: Chi è stato schiavo cercherà sempre di schiavizzare qualcun altro. L’idea alla base di Italiani Cincali e di questo nuovo progetto nasce dal non sopportare di scendere a Lecce e sentire queste cose. C’era il rischio che non tutti comprendessero le tue parole. Veramente non mi sono posto il problema, mi piaceva parlare in un Italiano sporco. Ciò che non passa o viene tradotto, nel simpatico glossario che chiude le puntate, o viene risarcito dalla forza del dialetto che ha una carica emotiva molto più potente dell’italiano. Il programma ha una bellissima colonna sonora. Circa 160 brani che svariano tra i generi senza mai cadere nel banale. Tra l’altro c’è solo un pezzo della tradizione e non si tratta di una pizzica “ortodossa”. Come mai? La scelta principale è stata quella di evitare tutto ciò che fosse etnico. Con il senno di poi posso dire che forse una pizzica l’avrei anche messa ma Fabio Rizzo, musicista e regista del programma, mi ha convinto che sarebbe stata troppo scontata. Le uniche due eccezioni sono rappresentate da Tribal sound tarantolato dei Mascarimirì, che apre la prima puntata, e dalle musiche mediterranee di un gruppo armeno nel monologo conclusivo. L’ultimo brano è Camera a sud di Vinicio Capossela. Si tratta di uno dei pochi brani in italiano. Come mai? Il motivo è soprattutto tecnico giacché una canzone italiana sotto il parlato avrebbe distolto l’attenzione dell’ascoltatore che, quando riconosce il pezzo, è portato a canticchiare, anche involontariamente. E poi mi son lasciato affascinare da mondi nuovi alla ricerca di panorami emotivi. Io e Fabio abbiamo fatto un lungo lavoro per trovare la musica giusta che a volte doveva solo accompagnare le parole a volte doveva aggiungere senso. I Muse, ad esempio, aggiungono sempre senso a quello che tu stai dicendo, mentre i Beatles accompagnano. Quando poi ci serviva rilanciare il ritmo del programma inserivamo i Rolling stones o Ben Harper. La ricerca è stata maniacale, abbiamo impiegato sino a 4 ore per trovare un brano. Prossimi appuntamenti? La tournee prosegue sino all’estate, poi a ottobre dovrei lavorare al mio nuovo progetto. Purtroppo continuo a rammaricarmi e a soffrire poiché io a casa mia non lavoro. Non lo dico con il rodimento di chi non lavora. Nelle ultime stagioni ho fatto circa 150 repliche all’anno, ma non riesco a lavorare in gran parte del sud. Questo significa che c’è un politica culturale pari a zero. Una politica fatta di commistioni tra organizzatori, assessori, sotto assessori e i soliti spettacoli. Pierpaolo Lala CoolClub.it C 34 CoolClub.it Il 30 maggio dello scorso anno il Rolling stone di Milano ha ospitato l’anteprima de Gli Originali, uno spettacolo molto particolare in cui alcuni noti personaggi dell’hip hop italiano si sono uniti al maestro compositore Franco Micalizzi e alla sua band per dar vita ad un progetto musicale mai concepito prima d’ora. L’hip hop esce dai propri confini e va a confrontarsi con sonorità decisamente più classiche, quelle che hanno fatto da colonna sonora a tanto cinema negli anni settanta. Nel 2004 il compositore aveva già radunato alcuni dei migliori musicisti dell’ambiente romano e fondato con loro la Big Bubbling Band, per eseguire dal vivo le sue musiche da film. Se Morricone dirige Morricone, Micalizzi dirige Micalizzi. In più B-Boys, Mc’s e dj’s fondendosi con la band danno vita a questo stravagante progetto e lo fanno al meglio, sfruttando la spettacolarità delle performance di Breakdance e Rap e la musicalità ed il ritmo delle sondtracks, adattate e riarrangiate per l’occasione dallo stesso Micalizzi. Classe 1939, dopo le prime colonne sonore alla fine degli anni sessanta, l’autore 35 ottiene il grande successo di pubblico nel 1970 grazie al tema portante de Lo chiamavano Trinità, della coppia Bud Spencer (nella foto) e Terence Hill. Negli anni settanta il compositore diventa l’anima sonora del cinema “cult” di quel periodo scrivendo le musiche di tantissimi film dai nomi memorabili come Roma a mano armata, Napoli violenta, La banda del gobbo, Il cinico, l’infame e il violento, Da Corleone a Brooklyn e molti altri. Gli orginali ha visto la partecipazione di Kaos One, Moddi, i Colle Del Fomento, Turi, Next One, solo per citarne alcuni. Merita inoltre una attenzione particolare la performance del Turntablist (traduzione letterale giradischista) dj Tayone, uno dei più grandi dj-scratcher italiani, originario di Caserta, due volte campione italiano e quarto al campionato mondiale del 1998. Un turntablist di talento, che ha valorizzato il giradischi per mezzo delle sue innovative tecniche di scratch, sino a farlo riconoscere come uno strumento perfetto anche per creare musica...e non solo per riprodurla. Nello spettacolo, dj Tayone si è prodotto in una reinterpretazione per giradischi de Lo chiamavano Trinità. Il video della serata è reperibile su youtube.com, usando come termini per la ricerca “tayone originali”. Tay, oltre alla collaborazione con Micalizzi è di continuo in giro per la penisola con giradischi e mixer al seguito per presentare i suoi nuovi progetti (Fluxer, Rajsful, The stones) con sue performance da solista. Sabato 17 Dj Tayone sarà ospite speciale all’Istanbul Cafè di Squinzano. Al suo fianco i due giovani talentuosi dj salentini: Dj Kosmik e Mr nero. CoolClub.it C 36 MUSICA giovedì 8 / Ohm al Jack ‘n Jill di Cutrofiano (Le) Gli Ohm sono riconosciuti come una tra le migliori cover band d’Italia, musicalmente e scenograficamente, cercando di emulare, con le dovute proporzioni, il suggestivo mondo dei Pink Floyd. Il repertorio è composto da brani che si rifanno ai live e album di maggior successo della mitica band Inglese. La formazione è composta da: Francesco Carrieri (chitarra elettrica, acustica, classica, lap steel e voce), Italo Morelli (voce, tastiere, chitarra acustica ed effetti), Ivano Corvaglia (basso), Gian Piero Tripaldi (batteria e percussioni). giovedì 8 / Ennio Rega all’Otium di Bari venerdì 9 / NonToccateMiranda + Stonecutters ai Sotterranei di Copertino (Le) venerdì 9 / Acoustic r’n’r selection al Beerbanti di Giurdignano (Le) sabato 10 / Tributo agli Iron Maiden sabato 10 / Shoe’s killin’ worm al Teatro Antoniano di Lecce Con il concerto del quintetto Shoe’s killin’ worm prosegue al Teatro Antoniano di Lecce la rassegna Suoni a sud, realizzata in collaborazione con l’associazione l’Orchestrina. I cinque considerano l’embrione melodico come canovaccio, punto di partenza per lo sviluppo estemporaneo del flusso sonoro emozionale. “Il nostro modo di suonare risente di varie tendenze che vanno dal pop, al post rock, all’indie e alla musica elettronica. I testi possono essere sia in italiano che in inglese, coerentemente con le sonorità di cui necessita la canzone” spiegano loro. Shoe’s killin’worm vuol essere fondamentalmente un gruppo live, la formazione si è arricchita con la presenza dei nuovi componenti di una maggiore pienezza di suono, potenziando la gia marcata tendenza alla divagazione psichedelica. Il gruppo è composto da Luca Rossetti (voce, chitarra), Marco Maruotti (chitarra), Michael Mitoli (basso), Cris Nimo (batteria) e Gianluca Grazioli (synth, chitarra, cori). Sipario ore 21.00. Ingresso platea 10 euro (ridotto 8), galleria 5 euro. Informazioni e prevendita Teatro Antoniano 0832.392567. all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) martedì 13 / Jam Session al Madigan’s di Lecce Roberta & Carlo presentano Jam Session, un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Dodici appuntamenti per dodici locali tra le province di Lecce e Brindisi. Ingresso gratuito. martedì 13 / Liquid Laughter Lounge Quartet (Germania) al Bohemien Jazz Cafè di Bari da mercoledì 14 a venerdì 16 febbraio / Finali provinciali Arezzo Wave Band al Jack ‘n Jill di Cutrofiano (Le) Tre giorni di musica dal vivo per ascoltare le 12 band selezionate dalla giuria su una cinquantina di gruppi partecipanti. Sul palco un alternarsi continuo tra rock e prog, musica folk ed elettronica, metal e ska, tradizione e innovazione. Abash, Ashram, Dinamo, Le Supersquillo, Logo, Malgarbo, Otakatroi, Senza rancore Fran, Shank, Spread Your Legs, Superpartner, Wild Leaves si contenderanno la possibilità di raggiungere la finale regionale. mercoledì 14 / Josh T. Pearson alla Taverna del Maltese di Bari giovedì 15 / Niccolò Fabi al Teatro Italia di Gallipoli (Le) venerdì 16 / Exentia al Beerbanti di Giurdignano (Le) venerdì 16 / Giuseppe di Gennaro al Caledonia di Lecce sabato 17 / Masquerade Party ai Cantieri Koreja di Lecce sabato 17 / Dj tayone all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) sabato 17 / Cut al Demodè di Bari (BA) sabato 17 / P40 a Cursi (Le) sabato 17 / Liquid Laughter Lounge Quartet (Germania) ai Sotterranei di Copertino (Le) martedì 20 / Boduf Songs al Bohemien Jazz Cafè di Bari giovedì 22 / Seamus Blake Quartet al Teatro Paisiello di Lecce giovedì 22/ Paolo Zanardi a Controradio di Bari giovedì 22/ Leitmotiv al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) I leitmotiv sono un gruppo rock indipendente. La formazione attuale si è costituita nell’estate 2001 - ma il nucleo è nato qualche anno prima sulle spiagge dello Ionio, all’incrocio con la terra del Salento. Da qui, il progetto CoolClub.it artistico è cresciuto raccogliendo stimoli e fermenti lungo la penisola e ben oltre le Alpi. Le loro canzoni, che coprono i generi più diversi, sono infatti in italiano, francese ed inglese. È dall’incontro e dallo scontro del locale con il globale che la loro musica prende vita e creatività, nelle sonorità e nei contenuti testuali, cercando un difficile trait d’union tra la forza e l’impatto del rock, la tradizione cantautoriale e l’animosità della musica mediterranea. La band è composta da Giorgio Consoli (voce), Dino Semeraro (batteria), Giovanni Sileno (chitarra e piano), Giuseppe Soloperto (basso). venerdì 23 / Andrea Sabatino Quartet al Felix di Trepuzzi (Le) Con il concerto del trombettista salentino Andrea Sabatino prende il via una rassegna che porterà al Felix di Trepuzzi il meglio della scena jazz salentina dal sassofonista Raffaele Casarano al contrabbasista Marco Bardoscia, dalla cantante Agnese Manganaro al sassofonista Francesco Coppola. Un appuntamento per gli amanti della buona musica. Ingresso gratuito. Info e prenotazioni 0832755030. venerdì 23 / Acoustic Ladyland al Beerbanti di Giurdignano (Le) venerdì 23/ Davide Tarantino al Db D’essai di Lecce Il cantautore, finalista Premio Recanati 2006, presenta in collaborazione con Nasca teatri di terra e cine teatro db d’Essai il suo nuovo progetto musicale.Lo spettacolo è un connubio e un viaggio affascinante tra Interpretazione, racconti, percorsi musicali d’autore. Atmosfere rarefatte da jazz club e momenti lirici di grande spessore dove Tarantino e la sua band, danno vita ad un crescendo di forti emozioni. Costo del biglietto € 5.00. Info 0832. 390557 sabato 24 / Tob Lamare all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 24 / Non voglio che Clara alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Musica ricca di atmosfere retrò e moderne allo stesso tempo, malinconiche, intimiste. Già due anni fa i Non Voglio Che Clara con il loro esordio “Hotel Tivoli” lasciarono un segno indelebile nel panorama musicale italiano, grazia a una qualità di scrittura senza precedenti e a uno stile personalissimo, costruito guardando più alla migliore tradizione della canzone italiana di Tenco e 37 Ciampi che ai soliti modelli angloamericani. Il nuovo omonimo album ha confermato questa band come una delle più importanti realtà della musica italiana pop rock. Il concerto del quartetto apre l’edizione 2007 della rassegna Tele e ragnatele della Saletta della Cultura di Novoli. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – [email protected]. Ingresso 5 euro lunedì 26 / Giovanni Allevi al Teatro Orfeo di Taranto (TA) mercoledì 28 / Akkura al Bellamì di Foggia (FG) giovedì 1 marzo / Epo al Caffé Letterario di Lecce e ai Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) La band alle 19.00 terrà uno showcase di presentazione del nuovo cd Silenzio Assenso presso il Caffé Letterario di Lecce presentati da Coolclub.it. Dalle 22.00 invece live set al Jack’n Jill di Cutrofiano. Il gruppo napoletano propone un mix tra i primi RadioHead e la tradizione cantautoriale di Battisti e De Andrè. Ingresso gratuito. venerdì 2 / Agnese Manganaro al Felix di Trepuzzi (Le). Ingresso gratuito. Info e prenotazioni 0832755030. sabato 3 / Kavanàh a Casarano (Le) TEATRO venerdì 16 / Vergine Madre ai Cantieri Koreja di Lecce Sei canti della Divina Commedia, probabilmente i più noti. Sei tappe di un pellegrinaggio nel mezzo del cammin di nostra vita: Il viaggio (Il primo canto dell’inferno), La Donna (Francesca il V), l’Uomo (Ulisse, il XXVI), il Padre (Ugolino il XXXIII), la Bambina (Piccarda il III del Paradiso), la Madre (Vergine madre il XXXIII del paradiso). È la Commedia Umana di Dante, una strada che si rivela costeggiata La redazione di CoolClub.it non è responsabile di eventuali variazioni o annullamenti. Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it Per segnalazioni: [email protected] da figure “parentali”: quello che si compone, guarda caso, è il disegno di una famiglia. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000 domenica 18 / Via a Tuglie(Le) giovedì 22 e venerdì 23 / Na specie de cadavere lunghissimo ai Cantieri Koreja di Lecce Lo spettacolo, diretto da Giuseppe Bertolucci e messo in scena dal Teatro delle Briciole di Parma, nasce da un’idea di Fabrizio Gifuni, con testi da Pier Paolo Pasolini e di Giorgio Somalvico, e prende origine, come scrive il regista, “dal desiderio di distillare, nell’alambicco del monologo, sostanze linguistiche dai sapori apparentemente opposti”. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000 CoolClub.it C’era una volta l’universo Marvel, un intero cosmo fumettistico popolato da secchioni con poteri di ragno, divinità di Asgard e reietti dal DNA impazzito; tutti usciti dalla mente del “Sorridente” Stan Lee e dalla matita di Jack Kirby, Steve Ditko e John Romita Sr. Ma ben 46 anni di storie in prosecuzione, dense di trionfi e tragedie, amori, morti e resurrezioni (troppe!) ad effetto, sono di fatto indigeste da assorbire per chi si vuole accostare oggi ai fumetti della “Casa delle idee” ( il nomignolo affettuoso con cui i fans chiamano la Marvel). Tale annoso problema è stato risolto, alle soglie del ventunesimo secolo, da Joe Quesada, il giovanissimo direttore artistico della casa editrice americana: sfruttando l’interesse sorto nel grande pubblico grazie alle pellicole Spiderman e X-men, Quesada ha proposto una nuova, fiammante, linea editoriale denominata Ultimate, nella quale sono inseriti i personaggi Marvel più noti, con origini e backgrounds nuovi di zecca. Ecco, dunque, apparire nel 2000 Ultimate Spiderman e nel 2001 Ultimate X-men. La linea Ultimate ha il pregio di combinare personaggi celebri ed amati con atmosfere e tematiche più vicine ai gusti delle nuove generazioni di lettori, rispetto alle corrispettive serie tradizionali. Tuttavia, se i nuovi titoli dedicati all’Uomo Ragno ed agli Xmen sono qualitativamente eccellenti (soprattutto il primo) ed hanno riscosso un grosso successo di vendite, sarà nel 2002 che la Marvel tirerà fuori il suo asso nella manica: a marzo vede la luce The Ultimates, la terza serie di questo nuovo universo narrativo in cui fanno la loro apparizione alcuni tra i più rappresentativi eroi Marvel, come Capitan America, Iron Man, Thor ed Hulk. Ultimates dovrebbe essere l’alter ego della classica collana The Avengers (in Italia I Vendicatori) ma si discosta totalmente da essa e dagli usuali canoni del fumetto supereroistico americano. Grazie alla perversa mente di Mark Millar ed ai disegni certosini di Brian Hitch , il fumetto è divenuto la punta di diamante del parco testate Marvel, conquistando i favori dei fans storici della “Casa delle idee” e dei lettori più esigenti ed adulti. Il motivo di tale successo di pubblico e critica? L’ex sindacalista britannico Millar ha reinventato i character con caustica ironia: Thor è un dio no-global che afferma di non odiare Bush perché non è neanche ammesso alle riunioni dei suoi “padroni” e massacra i carabinieri (!), rei d’aver aggredito pacifici manifestanti a Roma; Cap. America è un violento soldato, incapace di adeguarsi alla modernità e ben contento di scaricare in una devozione psicotica verso la patria le sue ansie e frustrazioni; Iron Man è un multimiliardario così annoiato da eccitarsi all’idea del tumore, che gli sta consumando il cervello; Hulk è un Mister Hyde maniaco sessuale, che si vanta della sua eccezionale forza e della dimensione del pene! Ed a tirare le fila l’afroamericano più potente del mondo, dopo Coondeleeza Rice, il generale Nick Fury (modellato sui tratti di Samuel Jackson), deus ex machina delle vicende degli Ultimates deciso a sfruttare per i fini, non troppo puri, dell’amministrazione Bush i super umani. Millar ed Hitch imbastiscono una fortissima critica all’imperialismo militare USA ed alle sue vacue giustificazioni retoriche, in maniera quasi del tutto inedita per il fumetto popolare d’oltreoceano; forti anche della lezione di opere come Whatchman di Alan Moore e Dark Knigth Returns di Frank Miller, decostruiscono ulteriormente la figura del supereroe a stelle e strisce, vera e propria icona del sogno americano, riducendolo a mero simulacro privo di pathos. Entrambi, in tempi differenti, hanno precedentemente intrapreso tale discorso sull’iconoclasta titolo The Authority (pubblicato in Italia da Magic Press), in cui il mito del supereroe era sezionato in mille, rivoltanti, pezzi. Gli Ultimates combattono per mero profitto; si accompagnano alle celebrità del gossip; picchiano le mogli e deridono i propri compagni; sono indifferenti allo strazio degli orfani iracheni che loro stessi hanno reso tali. In fondo agiscono per il bene comune e per la sicurezza di quel paese che ci piace tanto odiare e criticare. Roberto Cesano 38