Bella giornata, dice. Io ho riso, come fai a non ridere? D’altro canto ha ragione lui. È proprio una
bella giornata. Non c’è una nuvola, c’è un sole che abbronzerebbe persino la neve e tira vento. E a
me il vento piace da morire.
Poverino, appena sono scoppiata a ridere s’è azzittito subito, s’è messo a guardare in basso
e con le racchette ha cominciato a togliersi il ghiaccio dagli scarponi. È anche piuttosto carino per la
sua età. Già, la sua età… quanti anni avrà? Difficile dirlo. Quattordici, forse tredici. Come faccio a
non ridere io che ne ho ventitré? Però mi dispiacerebbe ferirlo, così piccolo, ancora non ha imparato
ad essere stronzo. Perché tanto prima o poi diventerà stronzo anche lui. Così l’ho guardato
benevola, gli ho sorriso e gli ho fatto: Accipicchia che vento!, mi sono accesa una sigaretta e gli ho
detto: fumi?
No mi ha risposto e mi sarei stupita del contrario, ma tanto lo scopo di quella domanda era
farlo sentire all’altezza del compito che s’era prefissato, che poi è sempre quello che si prefiggono
tutti quelli che se ne escono con una affermazione tanto idiota. Gli ho detto fai bene e poi mi sono
presentata, comunque. In ogni caso ha proprio ragione: oggi è esattamente quella che chiamo una
bella giornata, una giornata perfetta. Non mi fa neanche male il ginocchio. La seggiovia s’è fermata
– è andata via la corrente, l’impianto è sempre quello da vent’anni a ‘sta parte – così sfrutto questa
pausa inattesa per mettermi un po’ di protezione. Sei bello nero tu, gli dico io e lui mi risponde: già!
Sei proprio così di carnagione, sì; beato te io ho la pelle delicatissima una vera rottura di palle, ah;
chissà quante ragazze ci avrai che ti dicono che hai un bel colore, ‘nsomma…
L’ho sorpreso a fissarmi mentre mi davo il burro di cacao sulle labbra. Ha fatto finta di
guardare il panorama, faccio bel panorama, eh! mi risponde che non sta guardando il panorama ma
uno che scende velocissimo in fuoripista. Non mi piace come scia e glielo dico. Mi chiede il perché.
Eh, perché!
Quelli come quello là sono convinti di sapere sciare bene perché vanno veloci, ma non
sanno condurre una curva neanche su una pendenza minima. Guarda che salto che ha fatto. Tu i
salti li sai fare? Io? Io no. io i salti non li so fare e non voglio imparare, grazie. Perché ho paura. E
tu? Lui no. sto zitta e faccio finta di prendere il sole, in realtà ascolto il rumore che fa il vento sulle
mie orecchie e mi ricordo
Mi ricordo la prima volta che sono andata a sciare sola. Be’, non proprio sola, ero con Pino.
Mi sentivo felice: era la prima volta che i miei mi lasciavano andare in vacanza sola con un ragazzo,
e poi a sciare. Pino poi era proprio bello, era tutto bello. Ma la cosa che mi piaceva in assoluto di
più era la sua carnagione: chiarissima. Passavamo il più del tempo a spalmarci qualche crema. La
crema protettiva in seggiovia, quella doposole in albergo, la ciaocream a colazione. Già, perché
facevo colazione con Pino, non nel senso di insieme a lui, ma nel senso che me lo mangiavo
proprio. Prima di Pino ci sono stati Giulio e Simone, ma con Pino è stata la prima volta che mi sono
sentita veramente innamorata.
È ripartita, mi fa. Che? La seggiovia, è ripartita la seggiovia. Ah. per un attimo m’è
sembrato avesse la voce di mia sorella. Forse non avrei dovuto dirlo. Mi sa che c’è rimasto male.
Gli dico guarda che mia sorella ha una voce bellissima. Lo credo – fa lui – per una ragazza è una
bella voce. E bravo! Mi hai fatto ridere. Mi sa che dopotutto è anche sveglio il ragazzino.
17, 18, 19 leggo i numeri dei piloni della seggiovia, sempre gli stessi da quando è stata
aperta, dagli anni settanta. Prima venivo qui coi miei, poi ci sono venuta con Pino, poi con Elena e
Federica, poi con Marco, poi da sola.
Sei qui da sola mi chiede e poi se vengo sempre qui e poi mi chiede quant’è che scio e poi se
so a che ora chiudono gli impianti e poi che ore sono adesso e poi se conosco una pista che si
chiama vetrina e poi e poi e poi
Pino sapeva sciare veramente. Da ragazzino aveva fatto parte di una squadra agonistica e si
vedeva: dal culo. Comunque lui era discesista. A tutti quelli che fanno la discesa libera manca un
giovedì, altrimenti non ci sarebbe modo di convincerli a scendere in quel modo. Quando un
discesista scherza viene giù a ottanta chilometri l’ora, e Pino scherzava spesso. 20.
Tu vai veloce? Chiedo. Sì, risponde. Dice che gli piace il vento in faccia. Anche a me piace
la sensazione del vento sul viso, mi dà un senso di libertà, mi sembra di volare, come quando sono
innamorata. Essere innamorata di Pino è stato facile. Lui era bello, atletico, spiritoso e sciava bene.
Mi sono accorta di essere innamorata di lui improvvisamente, durante una discesa. Andavamo
veloci ma la neve era battuta di fresco e mi sentivo sicura. I nostri movimenti erano sincronizzati,
pareva fatto apposta, pareva stessimo danzando, lui mi sciava leggermente dietro, tipo ad un metro
di distanza, poi un millesimo di secondo dopo era a destra, di poco davanti a me, mezzo secondo
dopo davanti a me che lo seguivo nei movimenti guardandogli il culo, un secondo più tardi al mio
fianco che mi guarda mi sorride e mi manda un bacio con la mano – il tutto sciando – 21.
Vento, 22. Lui mi sta chiedendo qualcosa. 23, vento. Non riesco a sentirlo con tutto questo
vento. 24 ancora quattro piloni e siamo arrivati. 25. Il cartello dice che è vietato dondolarsi. In realtà
so benissimo che la nostra non era una danza, so bene che la nostra sincronia era dovuta a qualcosa
di inevitabile, ad esempio alla circostanza che stessimo sciando così in prossimità da essere
obbligati di fatto a ripetere gli stessi gesti, gli stessi movimenti di piegamento e distensione in tempi
molto vicini. 26. Eravamo vincolati a muoverci così dalla pista, dalla gravità e dall’inerzia, ma dopo
tutto, non è quello che accade quando la danza raggiunge la perfezione? Non è quello che succede
quando capita l’amore?
Prepararsi a scendere. 27. Che hai detto? C’è troppo vento! Non riesco a sentirti così. Devi
parlare più forte! Occhèi, questa discesa ce la facciamo assieme, però senza fermarci mai. Ci
vediamo a valle. 28. Arrivati. Andiamo.
Parto prima io, tu mi vieni dietro, dico al ragazzino. Pino partiva sempre dopo di me, poi mi
superava sempre, ma all’arrivo era sempre dietro. Se avesse voluto avrebbe potuto finire qualsiasi
discesa mentre io ero ancora a metà. Lui ci giocava, io m’impegnavo nella discesa, ma lui ci
giocava. Ed arrivava sempre qualche secondo dopo di me, così – diceva – poi mi poteva guardare il
culo. Una volta sciavo meglio, ero meno contratta, la mia azione più fluida, le mie gambe più
indipendenti. Adesso sembro un tronco perché ho paura. Due anni fa sono venuta a sciare con Elena
e Federica, andavamo veloce, io mi sono distratta e ho preso a sciare alla come viene. Ho preso
un’internata ed è stato lì che mi sono rotta il ginocchio.
Il ragazzino sa sciare. Non fa una curva neanche se lo ammazzano, ma sa sciare, si vede.
Il discesista riduce al minimo le curve necessarie, progetta in pochi millesimi di secondo la linea
della propria traiettoria in modo che, tenuti nel giusto conto la resistenza dell’aria e quella della
neve, eventuali ostacoli nonché i dislivelli in qualche modo maggiormente favorevoli, raggiunga e
mantenga la più alta velocità. Il tutto deve essere ottenuto nella posizione di massimo equilibrio. Il
discesista quindi, almeno quando ciò è possibile, scia tenendo il baricentro bassissimo e con braccia
e gambe tenute piuttosto larghe per aumentare la superficie virtuale di appoggio. Nei rettilinei, tutto
questo porta l’atleta nella nota posizione “a uovo”. Io da quando mi sono rotta il ginocchio faccio
un sacco di curve, e fatte pure male. Non conduco più le mie curve, ora ad ogni curva effettuo una
piccola derapata che mi rallenta quel tanto che basta per evitare di prendere sufficiente velocità.
Curva a destra e freno. Curva a sinistra e freno. Più curve, più freno. Meno velocità, meno
probabilità di spaventarmi e cadere. Il ragazzino mi supera da destra. Non ha il culo, praticamente.
Poi me lo perdo dietro un dosso. È molto avanti, è dietro quella collina.
Sono andata a sciare con Elena e Federica quell’anno perché Pino ed io ci eravamo lasciati.
Elena e soprattutto Federica dicevano vedrai, ci divertiremo. Quando sono caduta stavo pensando a
Pino. Sono sulla collina adesso, ne supero la cresta e appena dietro il muro vedo il ragazzino che mi
sta aspettando. Avevamo detto che non ci saremmo dovuti fermare per alcun motivo e lui mi sta
aspettando. Che carino che è. Mi fa cenno di non fermarmi e allora proseguo. Dopo poco me lo
ritrovo accanto. Mi sto divertendo un sacco, ho il vento in faccia.
Arriviamo insieme e gli dico che non si doveva fermare non erano questi i patti. Mi dice che
non si è fermato. È caduto. Rido. Ride. Mi guarda e sta per chiedermi una cosa, poi non dice nulla;
gli chiedo cosa? dice se mi va di bere qualcosa al rifugio, perché no rispondo, è soltanto un
ragazzino.
Il ragazzino che sta sgomitando nella fila ha quattordici anni tre mesi e ventisei giorni. È una figura
grottesca, anche se non è colpa sua. È sporco di peluria tra il naso e la bocca e gli stanno sudando
tutte e due le mani dentro i guanti in cordura. Gli ormoni gli stanno tirando muscoli ossa e tendini
un giorno dopo l’altro. Almeno una volta al mese ha la febbre. La sua voce è uno scherzo crudele:
ogni frase, ogni singola frase, gli esce polifonica; ci sono almeno tre persone in quella voce: un
baritono di mezz’età e fumatore di sigari avana, un mezzo soprano (forse la sua definitiva voce),
una voce contralto checca e quindi più sbiellata che se fosse di donna. Per via di queste tre voci fuse
in una, il più del tempo il ragazzino lo passa in silenzio.
Il “padiglione auricolare” è una piega della cute sostenuta da uno scheletro di cartilagine
elastica su cui si applicano alcuni fascetti muscolari, ed è per questo che alcuni riescono a
muoverlo. La superficie laterale è concava e presenta rilievi e solchi; i rilievi sono: il “trago”,
“l’antitrago”, “l’elice”, “l’antelice”. Padiglione auricolare e condotto uditivo esterno raccolgono le
onde sonore e le convogliano sulla membrana del timpano che per azione di esse si mette in
vibrazione.
Il vento, oltre a produrre suoni, può spostare fisicamente le particelle d’aria, il mezzo
elastico attraverso il quale si propagano le onde sonore.
I peli sono derivati epidermici, corneificati, situati in strette fossette presenti nel derma. In
ogni pelo si distinguono due porzioni: una libera, denominata “fusto”, e una immersa nella cute
chiamata “radice” che inferiormente si dilata nel “bulbo pilifero”. L’intera radice del pelo è avvolta
dal “follicolo pilifero”. Al follicolo pilifero sono annesse una o più ghiandole sebacee nonché un
fascetto di fibrocellule muscolari lisce che costituiscono il muscolo erettore del pelo, la cui
contrazione determina il raddrizzamento del pelo e la sua protrusione. I peli tendono ad ergersi per
il freddo, o per stimolazione cutanea diretta. Raccolgono essudato. L’essudato può essere del tipo
“secreto eccrino” o normale, e del tipo “secreto apocrino”. Le ghiandole sudoripare a secrezione
apocrina sono presenti sulla cute dell’incavo dell’ascella, del seno, degli organi genitali e della
regione perineale. Il secreto contiene lipidi, acidi grassi esterificati e – s’ipotizza – feromoni
analoghi a quelli animali; tutto ciò viene decomposto da batteri presenti sulla cute dando così il
caratteristico odore. La peluria costituisce, inoltre, un carattere sessuale secondario: un segnale di
maturità e disponibilità sessuale.
Al quattordicenne stanno spuntando un’enormità di peli sulle cosce – anche adesso che è in
fila. I peli sono impediti nella crescita dalla calzamaglia in lycra che sta indossando. Il prurito che
ne consegue è insopportabile. Grattarsi con i guanti poi, è del tutto inutile, anzi è frustrante. Al
massimo, e sudando, si riesce ad esercitare uno sfregamento che aumenta il desiderio di slacciarsi i
pantaloni tecnici e scarnificarsi a sangue le cosce con le unghie. Il quattordicenne si contorce come
un lombrico agonizzante e riesce a passare tra due signori corpulenti e lenti lenti. Nessuno gli dice
nulla; nessuno che vuole insegnargli l’educazione; stanno tutti in vacanza ed in fondo è solo un
ragazzino che ruba su una fila, e poi chiacchierano e non hanno tutta questa fretta di sudare e sono
un po’ brilli di bombardino.
Nello stare in fila prima o poi rubano tutti. Il giovane quattordicenne crede d’essere furbo.
Gli adulti gli concedono questa pia illusione. In una coda siamo sia cameratescamente accomunati,
sia competitivamente avversari. Se la fila avesse un altro scopo, tipo, che so, offrirci una possibilità
da una morte quasi certa, sarebbero meno accondiscendenti nei confronti di chi ruba. Immaginare
ora, a questo punto della lettura, le file per raggiungere le scialuppe del Titanic, l’antonomasica
disgrazia.
L’utero è un organo impari e mediano situato nella cavità pelvica. Nella nullipara l’utero
presenta una lunghezza di 6-7 cm, una larghezza massima di 3,5-4 cm e uno spessore di 2,5 cm,
nonché un peso di 40-50 g. l’utero è leggermente inclinato verso il davanti: anteposizione
fisiologica. L’asse del corpo dell’utero con l’asse del collo delimita un angolo aperto anteriormente
di 120-170°: antiflessione fisiologica. In condizioni particolari si possono avere diverse collocazioni
dell’utero che vanno dalla retroflessione, alla lateroflessione, alla torsione.
Il quattordicenne apre la zip della giacca in Gore-Tex© e tende l’elastico dell’abbonamento
fino a far scattare le sbarre. Si mette in posizione e attende che la sbarra del sedile s’avvicini al suo
sedere quel tanto che basta per lasciarvisi cadere sopra. La seggiovia trasporta due persone alla
volta. L’altra è una ragazza di ventitré anni e diciassette giorni che ha l’utero retroflesso. Lei
accompagna il movimento del sedile con la mano.
Quella del ginocchio è un’articolazione complessa. Nell’insieme è un’articolazione a
ginglimo1 angolare essendo possibile esclusivamente il movimento di flesso-estensione, ma sapere
questo non cambia nulla. Quello che cambia è che è facilissimo sugli sci farsi male ad un ginocchio,
e questa facilità triplica se sei un individuo di sesso femminile: la ragazza è stata già operata al
ginocchio sinistro. Da un punto di vista funzionale per il ginocchio va ricordato che l’asse del
femore delimita con l’asse della tibia un angolo aperto lateralmente di 175°: il cosiddetto valgismo
fisiologico. La ragazza, tre anni fa dopo la caduta che l’ha costretta all’operazione, riportava al
ginocchio sinistro un valgismo di 184°,33’,10’’; questo numero così poco intero si porta appresso
l’evidenza del significato patologico. Si prenda ora, a quest’altro punto della lettura, una confezione
di spiedini in legno da barbeque e la si apra. Si affastellino una ventina di spiedini e, tenendo la
fascina saldamente per le estremità con le due mani, la si appoggi su un ginocchio per fletterla.
Facendo forza oltre il carico di rottura proprio del legno in questione, s’avvertirà un sonoro CRACK!
e contemporaneamente la vibrazione si propagherà fastidiosamente lungo la vostra gamba, e verso il
piede, e verso l’anca; in pratica questo è quello che si sente quando si spezza un menisco; pari pari,
non fosse che il CRACK! lo si sente dentro, oltre naturalmente ad uno smisurato, indicibile dolore.
I ragazzino ha rubato sulla fila per lei, per sederlesi accanto in seggiovia. Cerca di
apprezzarne il profumo.
Le pareti dell’utero sono costituite da una tunica esterna sierosa, una media muscolare, il
“miometrio”; e da una interna mucosa, “l’endometrio”. L’endometrio è formato da cellule cigliate e
secernenti. La mucosa dell’utero è soggetta a modificazioni cicliche che costituiscono nell’insieme
il ciclo mestruale; tali modificazioni si verificano dalla pubertà alla menopausa e si ripetono ogni 28
giorni. Le fasi del ciclo mestruale sono: la fase proliferativa, durante la quale si ha la rigenerazione
della mucosa e corrisponde all’accrescimento del follicolo ooforo; successivamente la mucosa
diviene ischemica, i vasi si occludono e si formano dei piccoli ematomi sottoepiteliali e quindi il
sangue si versa nella cavità uterina: si ha così la fase mestruale. La ragazza sta ovulando.
Le cavità nasali si estendono dalle narici alle coane, che mettono in comunicazione le cavità
nasali con la prima porzione della faringe: la rinofaringe. La porzione inferiore del naso, prende il
nome di “Vestibolo” che è quello separato dalle cavità propriamente dette da un rilievo, il “limen
nasi”. Sulle pareti laterali si trovano peli lunghi e robusti, le “Vibrisse”. Le vibrisse svolgono una
prima azione filtrante, arrestano cioè le polveri “grossolane”; la seconda azione filtrante viene
svolta dal muco, il cosiddetto “moccio”, “moccico”, o anche “mocciolo”.
1
In anatomia, dicesi di articolazione a cerniera [N.d.A.];
Si crede comunemente che il massimo volume d’acqua perso da un individuo sia dovuto a
sudorazione (o “traspirazione”), o al più a minzione (o “escrezione”). Ciò è errato. La maggior parte
del volume d’acqua viene perduta in conseguenza di normali atti respiratori; è la cosiddetta perdita
per espirato. In un ambiente scarsamente umidificato, un meccanismo automatico di ritenzione
dell’umidità cede il vapore acqueo presente nell’aria espirata alle cellule cigliate alla base delle
vibrisse; grazie al muco che in concomitanza dello scambio si va seccando, si hanno quelle che
volgarmente si chiamano “Caccole”, “Lumaconi”, “Quadri appesi”, “Autoarticolati”, alle volte
persino “Capperi”.
Le cavità nasali sono irrorate da vasi per conseguire un rapido, efficace scambio termico.
L’aria deve arrivare ai polmoni “a temperatura”. In ambiente molto freddo, il meccanismo di
termoregolazione controllato dall’ipotalamo minimizza le perdite di calore verso l’esterno. Lo
scambio di calore è funzione della superficie di scambio. La forma tridimensionale che ha minor
superficie in rapporto al volume è la sfera. Il corpo riduce le superfici radianti a una sfera: il solo
tronco. Le estremità sono escluse parzialmente dalla circolazione sanguigna. Il naso è un’estremità;
al naso viene ridotto il volume di sangue afferente. S’indolenzisce. Il meccanismo di secrezione del
muco s’inceppa. Cola il naso. L’olfatto cessa di funzionare, perciò il giovane quattordicenne non
riesce a sentire nessun odore, di alcun tipo, figuriamoci il profumo di lei.
La ghiandola mammaria è un organo pari della regione anteriore del torace – estremamente
ridotta nell’uomo, quanto voluminosa nella donna, dove ha una forma emisferica o conica con la
base verso il torace, appoggiata sulla fascia del grande pettorale. All’apice della mammella si trova
“l’areola mammaria”. L’areola presenta alla periferia diversi piccoli rilievi, profondamente ai quali
sono situate ghiandole sebacee e nella zona centrale il “capezzolo”, rilievo di maggiori dimensioni
(fino a 1 cm), sulla cui superficie sboccano gli orifizi dei “dotti galattofori”. Il capezzolo, in
condizioni di riposo, è generalmente molle. Così come accade per i peli, esso può ergersi, o meglio,
inturgidirsi. Le cause che portano all’inturgidimento del capezzolo possono essere:
1. Di natura termica: un clima eccessivamente rigido può portare alla vasocostrizione, come già
visto; il capezzolo ne risulta inturgidito;
2. Di natura meccanica: per azione diretta sul tegumento;
3. Di natura sessuale: in particolari condizioni, precedenti, concomitanti o successivi al coito, il
capezzolo può (o meno) inturgidirsi in risposta a stimoli di natura sessuale. S’ipotizza questo
meccanismo come conseguenza di feedback visivo nei confronti del partner. La femmina
eccitata produrrebbe stimoli visivi capaci d’eccitare di ritorno il maschio;
La bellissima ventitreenne ha uno stupefacente e floridissimo seno. Il quattordicenne l’ha notato
da quando era in fila ed ha sgomitato per sedersi accanto a lei in seggiovia; proprio per quei seni
che continua a fissare anche ora, ora che sono seduti su una panca che sovrasta la vallata, che sono
coppia sospesa su di un precipizio. Lui le sta guardando, cercando di non farsi notare, le ghiandole
mammarie. Il ragazzo s’accorge immediatamente che la ragazza ha i capezzoli inturgiditi, e ciò gli
provoca immediatamente un’erezione. I maschi della specie umana confondono sovente le cause
che portano all’inturgidimento del capezzolo nelle femmine della stessa specie. Lei si gira verso di
lui. Lui le sorride e dice: «Bella giornata, eh!», lei si mette a ridere.
Continuando a ridere, lei gli si rivolge: «Com’è che hai detto prima?», «Guarda che io
prima non ho detto a», «Ah, ah! Che voce buffa che hai, certe volte sembra quella di una
ragazza…». Sul viso del ragazzo, precedentemente pallido per la bassa temperatura, compaiono
macchie porpora che lo fanno sembrare un avvinazzato. «Scusa, non volevo offenderti, è che mi
sembravi mia sorella» fa quella, sempre ridendo. È una comunissima norma del vivere in società il
non ridere mentre ci si scusa con una persona. Ridendo si mina la serietà di ciò che si dice e ciò
produce la sensazione che le scuse non siano sincere. Il ragazzo è in difficoltà: crede che la ragazza
stia ridendo di lui, della sua incapacità a controllare questa stupida voce. Ne è certo. Di chi, di che
cos’altro potrebbe star ridendo?
Lei si mette a prendere il sole. Si sfila la maschera da sci e chiude gli occhi, però continua a
ridere. Mentre sono a metà del tragitto, va via la corrente; l’impianto è vecchio; il moto della fune
s’arresta di colpo. Sono soli, spalla contro spalla, lassù e non si sente nulla se non il vento. Il
ragazzino senza accorgersene si mette a fissare le labbra della ragazza. Le labbra sono delle pieghe
muscolo-membranose la cui struttura portante è il muscolo orbicolare, compreso tra cute all’esterno
e mucosa all’interno.
Facilitato dalla conquista della posizione eretta, un nostro antenato sarebbe gradualmente
passato dall’accoppiamento dorsale (di gran lunga più comune tra gli antropoidi), a quello frontale,
il più comune tra gli uomini attuali. Le labbra si presentano di colore rosso. Nella donna sono
generalmente più carnose che nell’uomo e di colore più acceso; secondo alcuni studiosi, il loro
aspetto richiamerebbe quello del sesso femminile, non visibile durante l’accoppiamento frontale,
costituendo in tal modo una caratteristica sessuale di tipo secondario. «Bel panorama, eh!» fa la
ragazza; «Come? Ah! Non stavo guardando il panorama, guardavo quello là che scende a palla»,
«Sì, ma non mi piace come scia… mi sa che sei sporco sul naso», «Come dici? C’è vento, non
sento», «Hai una caccola che ti esce dal naso», il ragazzino imbarazzato si soffia il naso, la ragazza
se ne accorge e non ride più di lui ma gli sorride e dice: «È il freddo. Mi succede sempre anche a
me», ridono assieme.
L’ipofisi è una piccola ghiandola di forma ovalare alloggiata in una depressione dello
sfenoide, la sella turcica. La funzione della ghiandola è quella di regolare la secrezione della
maggior parte delle ghiandole endocrine dell’organismo. Da un punto di vista strutturale nonché
funzionale, l’ipofisi può essere distinta in due porzioni, una anteriore o “adenoipofisi”, e una
posteriore o “neuroipofisi”. Per quanto riguarda l’adenoipofisi, quella che qui maggiormente
c’interessa, essa è costituita da numerose varietà di cellule delle quali ricordiamo le seguenti: le
cellule cromofile acidofile (cellule α) responsabili dell’ormone della crescita o ormone
“somatotropo” (STH); le cellule gonadotrope che producono l’ormone “follicolostimolante” (FSH)
che determina lo sviluppo degli ovociti e stimola la produzione estrogenica nel sesso femminile,
mentre mantiene la produzione spermatica nel sesso maschile. Queste stesse cellule sono altresì
responsabili della produzione dell’ormone “luteinizzante” (LH) che induce l’ovulazione e produce
la secrezione ovarica del progesterone nel sesso femminile, mentre nel sesso maschile lo stesso
ormone stimola la produzione degli androgeni da parte delle cellule interstiziali del testicolo.
In questo momento stanno lavorando a pieno ritmo tanto l’ipofisi di lui che quella di lei.
Le ossa iliache (ileo, pube, ischio) e il sacro, articolati insieme costituiscono il bacino. Nel
bacino si riconoscono due porzioni: la grande e la piccola pelvi. Il bacino dell’uomo presenta ossa
iliache più robuste, con l’ala iliaca disposta pressoché verticale e un angolo sottopubico acuto. Nella
donna le ali iliache sono più sottili, disposte più obliquamente e l’angolo sottopubico è più aperto e
ha un valore di 110°, contro i 70° del maschio. Questo specifico dimorfismo sessuale ha un duplice
scopo: da un lato contenere un’eventuale progenie e contemporaneamente consentirne l’espulsione
durante il parto; dall’altro, e per i succitati motivi, viene interpretato inconsciamente dal maschio
come un indice piuttosto fedele della fertilità, della capacità di portare a buon fine una o più
gravidanze e, quindi, in conclusione, dell’appetibilità della femmina in questione in termini
squisitamente riproduttivi. Il ragazzino ha potuto apprezzare mentre era in coda i canonici 110°
dell’angolo sottopubico della ventitreenne. D’altro canto il bacino femminile più largo, pur
rappresentando un indiscutibile vantaggio in termini di selezione sessuale, è svantaggioso in quelli
puramente meccanici: il femore della donna è maggiormente sollecitato a flesso-torsione rispetto al
corrispondente femore dell’uomo, e questi sforzi si ripercuotono sulle fibrocartillagini interne del
ginocchio (i cosiddetti “menischi”) e sui suoi legamenti crociati, responsabili della stabilità in senso
antero-posteriore. Questo è il motivo per cui, nelle stesse condizioni, triplica per una ragazza la
probabilità di un trauma al ginocchio.
Comportamenti totalmente nuovi, esperienze passate, nozioni apprese sono informazioni
preziose la cui trasmissione culturale da una generazione ad un’altra rappresenta un palese
vantaggio adattativo: è estremamente più rapida e malleabile della trasmissione di tipo genetico nel
far fronte a nuove situazioni, oppure nel sostituire una soluzione migliore (apparsa dopo) a una
usata prima, ma peggiore. Questo tipo di trasmissione necessita però d’individui che sappiano
generare, trasmettere e apprendere idee nuove: individui intelligenti. Questo meccanismo di
trasmissione è detto “trasmissione esosomatica” o “trasmissione culturale”. Questo manufatto che
avete sotto gli occhi ne è un tipico esempio. L’evolversi nella nostra specie è dunque determinato da
due sistemi di trasmissione, il genetico e l’esosomatico, interagenti tra di loro. Questo ha generato
nuovi criteri di pressione evolutiva: lo stato sociale, il prestigio dell’occupazione, l’ampiezza del
reddito, il possesso di beni o proprietà e introiti non di lavoro, tipo e durata dell’educazione
scolastica, le dimensioni e tipo della residenza, l’ammontare delle spese per oggetti di lusso, lo stato
sociale di coloro con cui l’individuo s’accompagna (le sue “amicizie”). A fronte di quanto appena
detto si capisce bene come mai la ragazza conservi il ricordo del trauma subito al ginocchio e
contemporaneamente a livello cosciente rimuova dall’immagine che ricava del quattordicenne il suo
potenziale riproduttivo, pur essendo quest’ultimo sessualmente maturo. Di qui l’ambiguità della
situazione favorita anche dalla angustia loci del caso. A questo si aggiunga che una sostanza:
“l’exaltoide” (lactone sintetico dell’acido 14-idrossitetradecanoico), un feromone controllato da
secrezioni delle gonadi è percepita chiaramente solo da donne sessualmente mature, e con maggior
acutezza al tempo dell’ovulazione. La bellissima ventitreenne è inconsapevolmente attratta dal
timido quattordicenne, nonostante questo, non lo considera un possibile partner. «Che hai detto?
C’è troppo vento! Non riesco a sentirti così. Devi parlare più forte!», «Ho detto: la facciamo
insieme questa discesa?», «Occhèi, questa discesa ce la facciamo assieme, però senza fermarci mai.
Ci vediamo a valle.». Al pilone 28 gli ormoni STH, FSH ed LH di lui e di lei, i veri protagonisti di
questa storia cominciano la loro rapida discesa da quota 2022 a 1893 m sul livello del mare.
Immaginare ora, a questo punto della lettura, l’aumentato polso cardiaco, le complesse attivazioni
neurali e sinaptiche, il rilascio di endorfine e di adrenalina, le miocontrazioni volontarie e
involontarie, i meccanismi di compenso della pressione interna e tampone dell’acidità sanguigna, le
reazioni di ossidazione a livello dei mitocondri, l’inevitabile morte cellulare, tutti gli sforzi tesi
all’omeostasi e, più in generale, alla trasmissione dell’informazione cromosomica. Pensare, proprio
adesso, alla vi-
-tardi, s’è fatto tardi. Ci fosse una mattina che riesca a stare sui campi da sci per l’apertura. La colpa
tuttavia non è di Pino. Lui è seriamente intenzionato ad “aggredire la pista” sin dall’inizio della
giornata. È che la sera, di fronte ai canèderli e alle crèpes sono tutti grossi atleti. La salopette
srotolata fino ai fianchi. Le ciabatte ai piedi. Una virgola di caffellatte sul baffo oramai prepotente. I
polsi sottili, più consoni ad una ragazza che al legittimo proprietario. Con una spinta gangsteristica
affoga un sindacalista di pan-brioche nel latte. Quando lo tira fuori ne è completamente intriso;
zuppo, ma vivo. Ancora vivo, sì, e non parlerà mai! Giammai! Piuttosto: la morte!
E così sia: «Ah-Amm!»: tutto in bocca, il formidabile Salàndulòr “il mangiatore di spade”
supera sé stesso. Pino vede già le locandine:
IL FORMIDABILE SALÀNDULÒR
ATTRAVERSO I CONFINI
DELLA FISICA
E
OLTRE…
«Mangia ancora in quel modo, e vedi tu gli schiaffi che ti pigli.»,
«Gào Mah’…
…glòm…ciao Ma’. Ma papà ancora non scende? Sono le nove e mezza, avevamo detto che
stamattina stavamo sulle piste presto…»,
«Tuo padre è molto stanco. È in vacanza e dice che se ha voglia di stare a letto sta a letto.»,
«Sì, ma avevamo detto
«Ha detto che se vuoi puoi andare da solo.»,
«Uffa.».
La verità è che stamattina al Papà e alla Mamma di Pino sono venute in mente delle cosacce e
vogliono prendere al volo l’occasione; ed è anche che non è che Pino sia proprio così dispiaciuto
d’andare a sciare da solo. Quei due, cogli sci ai piedi, sono due polmoni, mentre lui è una scheggia.
Oggi è proprio una fantastica giornata. La neve è di quella duretta che scricchiola sotto le
lamine, e il sole vi lascia sopra ombre azzurrine. C’è un vento freddo che t’anestetizza il mento e ti
fa sembrare il naso un rubinetto che perde, ma in compenso non c’è gente, e poi a Pino il freddo
piace. Perlomeno quando fa freddo la calzamaglia assolve ai suoi scopi e non prude solamente.
Seduto in seggiovia, quella che dalle casse porta alla base degl’impianti di risalita, Pino
immagina d’essere un pilota d’elicotteri e manovra esperto il bastoncino a mo’ di cloche. I tempi
morti delle giornate di sci di Pino assumono sovente le forme dell’elicottero, del jet e del robot.
Eccolo è lì, pronto a scegliere dal ventaglio delle piste che gli si propina quella che sarà la
prima discesa della giornata. Ha scelto la sua carta e la toglie dal mazzo, del resto sceglie sempre la
stessa: la montefreddo. Fosse stato coi suoi, Pino avrebbe imboccato la discesa senza scaldarsi,
senza allacciare gli scarponi e senza guardare, senza tema di collisioni con altri eventuali sciatori,
così, giusto per tenere su on l’onnipresente apprensione genitoriale; da inesorabili e sussiegose
cassandre portasfiga quali sono, sembrano quasi augurarsela qualche catastrofe, per poi poter dire:
essìchettélàvevodétto. Ma oggi non è con i suoi, quindi fa le cose come gli hanno insegnato. I suoi
attrezzi solcano il sordo nitore della pista ornandola di serie alterne di doppie parentesi:
((
))
((
))
((
Lui, che pure di norma si riduce allo stretto indispensabile in fatto di curve. Si concede
persino il lusso di prodursi in uno slalom un po’ barocco, ornato di microaccelerazioni e
pseudocasuali cambi di ritmo e, abbattendo con gli schinieri e i paragomiti una dopo l’altra le
incorporee bandierine che lo separano dall’arrivo, raggiunge, niveo cavaliere vittorioso di Pirro,
l’infilata di cristiani che aspettano di risalire a quota metri duemila e ventidue. Ed è lì (o là se
preferite) che la vede. La vede e la sua salivazione s’arresta di colpo. La vede e un fremito lo
percorre. La vede e la riconosce, malgrado l’albèdo2 di lei, superiore a quello della neve che li
circonda, la renda uno spettacolo insostenibile per le fovee delle sue retine. La vede e sa. La vede e
comprende: a Papà!… ma quale stanco e stanco…
Scorto il luccichio del Graal, Parsifal ne è irremediabilmente attratto, e Pino si fa largo tra
quelle attrezzature obsolete e quei tutoni catarifrangenti da ausiliari del traffico; s’insinua impavido
in un ginepraio di bambini di una scuola sci, supera quella sempreverde icona sexy del maestro, e
finalmente può, distratto e casuale più che mai, capitarle accanto in attesa che la seggiovia
immantinente come un’aquila li ghermisca e se li porti in cielo, innocenti come due agnellini.
Non più belluina carlinga di elicottero Apache, non più argenteo turboreattore né abitacolo
di ciclope robot, il biposto della seggiovia si fa per l’occasione romantico dondolo incernierato sulla
ruota panoramica dei desideri: io, tu e l’immensità di quest’orografia ventosa ed innevata. Un refolo
birichino e il quattordicenne Pino collide contro il maliardo bouquet della sconosciuta. Un altro
ancora più dispettoso e gelido del primo e quell’effluvio subito si disperde. Il poverino si fa tutto
naso ma, ahimè!, l’algore repentino che lo ha investito gli strappa, per così dire, il frusto di bocca.
In ottica, rapporto tra il flusso luminoso riflesso e diffuso in tutte le direzioni da parte di una superficie e
quello da essa ricevuto da un fascio di raggi paralleli [N.d.A.];
2
Nell’inopia in cui si trova pensa di elemosinare dagli altri quattro sensi, ma l’udito (lei si limita a
canticchiare una languida aria pop) non può dargli sufficiente soddisfazione e il gusto – oh! Il
gusto! – sarebbe folle solo pensarlo (ciò nonostante s’abbandona per qualche secondo ad una
fantasia un po’ retrò, con lei-“Rossella O’Hara” in preda all’isteria per il pericolo di una disgrazia
appesa a quel cavo d’acciaio, e lui-“Rett Buttler” che la rimette in riga con due manrovesci ben
assestati e un lungo, passionale e umido bacio). Nelle condizioni in cui versa (lassù; senza manco
conoscerla), sonda le limitate possibilità del tattile, ma non appena sfiora col ginocchio destro il
sinistro di lei, ella lo ritrae spaventata – NON infastidita!, lui ci potrebbe giurare il proverbiale
milione – solo spaventata. Non gli resta che la vista, l’odiosa vista. Vedere ma NON toccare:
sembrano ripetergli tutte le mute femmine con cui non ha in effetti mai avuto a che fare. Però che
vista…sempre sia lodato il creatore per le tue sinuosità e sempre sia magnificata l’opera
dell’industria tessile che rende manifesto quel che l’antica giacca impermeabile non avrebbe reso
visibile. Oh! quella fibra elastica e idrorepellente che fascia ed evidenzia le tue grazie! Grazie,
grazie e ancora grazie. Sbaglio o quel rilievo è un capezzolo? Un quattordicenne potrebbe fare follie
per un capezzolo. Un quattordicenne per un capezzolo ben fatto potrebbe osare l’inosato, potrebbe
addirittura parlarle. La pagina 47 del catalogo di acquisti per corrispondenza al quale sua mamma è
abbonata, prende forma davanti ai suoi lubrici occhi. L’immagine del reggiseno per allattare, quello
con la finestra che svela l’areola, si sovrappone con vividezza surreale a quella del petto della
giovane donna e il giovanotto che abita nei calzoni di lui intona la canzona di Bacco di Lorenzo il
Magnifico: Quant’è bella giovinezza…
Lo sguardo, specie se penetrante, ha di questi poteri: chi ne è l’oggetto si sente osservato, così
lei si volta ma Pino, che forse se lo aspettava, risponde tosto: «Bella giornata, eh!» e lei, che forse
pure un’uscita tanto idiota da qualcuno se l’aspettava da quando s’era svegliata stamattina, si mette
a ridere. È bello vederla ridere pensa il nostro mentre la bella l’accontenta. Sembra non volersi
arrestare. Be’, adesso basta però, conclude egli. «Fumi?», «No, grazie.», dannato tabagismo!
Infallibile arma di seduzione che regala spigliatezza e ocra agl’incisivi e alle unghie, dardo di
Amore che perfora in un sol colpo il suo cuore e i tuoi polmoni, perché ancora non vi sono stato
iniziato?, si domanda il timido quattordicenne, e mentre se lo domanda la seggiovia di colpo
s’arresta, la ruota s’è fermata ad una quota felice: il panorama di lassù è meraviglioso; il giostraio
universale che tutto vede e tutto può, strizza l’occhio al ragazzino e gli dice, con parole di vento:
Vai! Vai, Vai cosi! Ed è a questo punto che Pino, un quattordicenne, un ragazzino dall’occhio
sveglio e dalla fervidissima immaginazione, s’abbandona a gagliardi flashforward che lo vedono di
lì a qualche ora, in questo gioco che è l’amore, sconfitto in una partita che non voleva giocare, con
questa ragazza ubertosa più grande di lui che non riuscirà mai più a dimenticare, e poi più avanti,
invitto in qualche altra partita più accessibile ai suoi mezzi, e poi più in là ancora negli anni,
s’immagina felicissimo al fianco di una bellissima ragazza che non ha ancora un volto né un nome,
e poi infelicissimo per la perdita di quella stessa ragazza al cui viso e al cui nome, entrambi
incogniti, pure s’era già affezionato, e poi sempre più in là nel tempo e sempre più stanco di giocare
allo stesso vecchio gioco con ragazze senza volto né nome e allora, giostraio universale, visto che
indietro, prima di questa partita che non avrei voluto giocare, non puoi o non vuoi mandarmi, ferma
tutto adesso – sta pensando il quattordicenne ormai vecchio – affinché possa giocarmi quest’unica
partita fino in fondo, comunque mai leggermente, o possa al contrario scegliere di non giocarla mai
del tutto e mentre noi, io e lei, lei, siamo seduti affianco su questo dondolo sempre più arruginito,
venga la notte, e poi una nuova alba, e nuovamente notte, e poi si sciolga la neve per poi tornare e
poi riandarsene ancora e ancora e ancora.