Pagina 1 di 7 voci dalla Palestina occupata BoccheScucite quindicinale di controinformazione - n. 26 - 31 gennaio 2007 Dedicata ad Abir Potevamo iniziare il sommario di questo numero con l'attualità di alcune note a margine della Giornata della memoria (leggerete su questo un'esculsiva di Zvi Shuldiner da Gerusalemme e i commenti di un sopravvissuto all'Olocausto e di Moni Ovadia); oppure potevamo iniziare segnalandovi un lucidissimo commento alle coraggiose posizioni di un Presidente Usa che si permette di usare il termine "apartheid" per la Palestina; ma avremmo anche potuto raccomandarvi prima di tutto la lettura di Raniero La Valle sullo "stato ebraico" d'Israele o alcune "brevi" di notizie e storie da non perdere. Lasciate invece che dedichiamo questo numero alla piccola Abir. Per lei nessuna prima pagina (e neanche ultima). D'altra parte la sua storia non è per niente strana e non fa notizia come i morti degli scontri Hamas-Fatah: Abir aveva nove anni e mentre usciva dalla sua scuola di Anata, un villaggio vicino a Ramallah, è stata colpita da un colpo sparato dai soldati israeliani. Abir è morta, anzi, è stata uccisa come gli altri 4.503 palestinesi registrati dalla statistica di Internazionale (1.045 gli israeliani, sempre dal 2000). Per aver cercato di tirare una granata contro una jeep dell'esercito che occupava Hebron, suo padre Bassan Aramin, si è fatto nove anni di carcere. Ma non passerà una sola ora in prigione il soldato che la mattina di mercoledi scorso ha sparato alla testa di sua figlia Abir, di nove anni... ”In Israele i soldati non vengono mai incarcerati per aver ucciso un arabo. L'esercito non ha aperto nessuna inchiesta. La versione ufficiale parla di Abir colpita da un sasso lanciato da uno dei suoi compagni contro le nostre forze": così ha commentato il terribile evento l’israeliana Nurit Peled, fondatrice di Parent’s circle. Nessuno aprirà mai un'inchiesta. Noi, attoniti e frastornati, possiamo solo "aprire" il nostro BoccheScucite prestando la voce, il grido, il lamento, alla piccola, nostra Abir. 03/02/2007 Pagina 2 di 7 “In Israele si può, ma non in Italia”... ZVI SHULDINER per BoccheScucite BoccheScucite: Il contesto internazionale si sta imbarbarendo con la guerra fallimentare di Bush... ZVI SHULDNER: Mai si era vista una tale reazione. Perfino il Rapporto Backer, chiarissimo nella denuncia del falimento, non ha scalfito il perverso piano del Presidente. Se continua così, l'unica speranza resterà l'Europa. Anche se sappiamo bene che all'evolversi sempre più pesante della tanto cercata 'guerra civile' stanno contribuendo non solo Israele, ma anche gli Stati Uniti e l'Europa stessa. BoccheScucite: E come interpreta il discorso del Presidente della Repubblica Napolitano che collega antisemitismo e antisionismo? ZVI SHULDINER: C'è un'evidente confusione di piani. Ci sono in realtà due dimensioni molto diverse da distinguere: il piano ideologico e quello politico. Qui in Israele ci sono innumerevoli tesi che parlano addirittura di a-sionismo o post-sionismo, ma restando su un piano ideologico. Tutto questo però non evidenzia che il problema è su un altro piano, per il quale non si mette assolutamente in dubbio l'esistenza di Israele. Anche i palestinesi conoscono bene lo sviluppo storico per cui Israele si è formato e affermato come stato nella regione. Questo è indiscutibile. Ma la questione è che si possa e si debba valutare e criticare lo Stato d'Israele senza metterne il dubbio l'esistenza. BoccheScucite: Invece le parole di Napolitano -come affermano gli 'Ebrei contro l'occupazione'"impropriamente identificando antisionismo con antisemitismo sconcertano e rattristano rischiando di portare acqua al mulino di chi, affammando i palestinesi e costruendo il muro in Cisgiordania, lavora ad una nuova pulizia etnica in nome della sicurezza d'Israele". ZVI SHULDINER: È fondamentale, in questo tempo di enormi confusioni, affermare il diritto di critica verso il governo. Ma ciò che più stupisce è che qui in Israele questo diritto non è assolutamente messo in dubbio. La voce degli ebrei che da noi esprime quotidianamente le sue denunce e riserve sulle scelte di Israele, non scandalizza nessuno. E questo -lo ripeto- non ha niente a che fare con l'esistenza di Israele. È come se chi critica Bush volesse distruggere l'America! Memoria di ieri, comportamenti di oggi... una durissima critica del presidente dello Yad Vashem Il responsabile del principale memoriale dell’Olocausto ha attaccato i coloni ebrei che molestano i Palestinesi ad Hebron, dicendo che gli abusi ricordano l’antisemitismo che precedette la seconda guerra mondiale. Lapid, un sopravvissuto all’Olocausto, che perse suo padre nel genocidio nazista, ha affermato in un commento settimanale a Radio Israele che gli atti di alcuni coloni di Hebron gli riportavano alla mente la persecuzione sofferta dagli Ebrei alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel suo paese d’origine, la Jugoslavia. Diceva Lapid: “Non c’erano forni crematori o pogroms che rendessero amara la nostra vita in diaspora prima che cominciassero ad ammazzarci, ma le persecuzioni, le molestie, il lancio delle pietre, le difficoltà di sostentamento, le intimidazioni, gli sputi e il disprezzo. Avevo paura di andare a scuola perché i piccoli antisemiti erano soliti tenderci agguati lungo la strada e bastonarci. Che differenza c’è rispetto ai bambini palestinesi di Hebron?” (…) Lapid ha affermato che se non c’è paragone fra l’Olocausto e le sofferenze dei Palestinesi per le politiche di Israele, ciò non significa che Israele non sia colpevole. Ha concluso: ”È inconcepibile che la memoria di Auschwitz consenta di ignorare il fatto che fra noi ci sono Ebrei che si comportano oggi con i Palestinesi esattamente come Tedeschi, Ungheresi, Polacchi e altri antisemiti si comportarono con gli Ebrei”. (da Ha'aretz, 20 gennaio 2007) Moni Ovadia: tra memoria e retorica La questione principale della memoria è a mio parere un'altra. Se la memoria non è uno strumento di costruzione del futuro, se non viene sottratta alle forme retoriche della routine, rischia di diventare un boomerang. Per evitare una simile pericolosa eventualità, è urgente vivificare il senso ultimo della Shoà nella battaglia contro ogni forma di razzismo, di sopraffazione, di offesa alla dignità e al diritto degli uomini, di ogni uomo. Solo il legame con le grandi battaglie per l'uguaglianza, per la pace, per la giustizia sociale, per la sacralità universale di ogni esistenza umana tiene viva quella memoria e la rilancia eticamente contro 03/02/2007 Pagina 3 di 7 l'inaridimento celebrativo e l'isterilirsi nelle forme museali che ne fanno una comoda copertura delle false coscienze. Certi politici di casa nostra il 27 gennaio indossano l'espressione di circostanza, partecipano a qualche cerimonia, fanno tre moine all'attuale governo israeliano, così per il resto dell'anno si danno a legittimare il peggior revisionismo che riabilita il crimine fascista, coccolano il ricordo del criminale di guerra Benito Mussolini, sostengono provvedimenti xenofobi, tollerano ed elogiano i Cpt che, pur fatte le debite differenze, sul piano etico e giuridico hanno la forma del lager. Questi politici, sputano sulla Costituzione repubblicana, si alleano con i gruppuscoli nazifascisti lasciandoli liberi di scorazzare bardati dei più lugubri simboli e gesti del Regime violando sistematicamente la Legge. Il modo migliore di onorare la memoria, è opporsi a questo schifo e costruire un mondo libero da ogni fascismo, politico ed economico. È bene non dimenticare mai che la Shoà ha colpito innanzitutto l'essere umano. Lo ha negato nell'ebreo, nello zingaro, nell'oppositore politico, nell'omosessuale, nel testimone di Geova, nel menomato fisico e mentale e in chiunque disse no a quella barbarie, per questo un grande testimone che visse sulla propria pelle la disumanizzazione, Primo Levi, scrisse Se questo è un uomo. Ogni uso capzioso della Shoà è sbagliato ed ingiusto anche quando è fatto dai politici israeliani per legittimarsi. Il sacrosanto diritto di Israele all'esistenza e alla sicurezza, deve poggiare sui solidi argomenti autonomi del Diritto internazionale. La riduzione della memoria della Shoà a propaganda, è un vulnus alla memoria stessa, al suo significato universale e alla sua verità. (dalla rubrica Malatempora, L'Unità) Jimmy Carter: "Palestina, Pace non Apartheid" L'attacco dell'establishment ebraico all'ex presidente Jimmy Carter si fonda sul fatto che questi, nel suo ultimo libro, ha osato dire la verità che è nota a tutti: tramite l'esercito, il governo di Israele pratica una forma brutale di apartheid nel territorio che occupa. L'esercito ha trasformato ogni villaggio ed ogni cittadina palestinese in un campo di detenzione recintato, o bloccato; tutto questo per tenere d'occhio gli spostamenti della popolazione, e rendere loro la vita difficile. Israele impone persino un coprifuoco totale ogni qualvolta i coloni, che hanno usurpato illegalmente le terre dei palestinesi, celebrano le loro festività o compiono le loro parate. Come se non bastasse, i generali che comandano la regione emanano frequentemente ulteriori ordini, regolamenti, direttive e norme (non dimentichiamo che sono i signori del territorio). Oramai hanno requisito ulteriori terreni allo scopo di costruire strade “solo ebraiche”: strade meravigliose, ampie, ben asfaltate, con un'ottima illuminazione notturna – tutto questo su terra rubata. Quando un palestinese passa su una strada siffatta, gli si confisca l'auto e lo si manda via. Una volta sono stata testimone di un tale incontro fra un guidatore e un soldato che raccoglieva i dati prima di confiscare l'auto e di mandare via il suo proprietario. “Perché?” ho chiesto al soldato. “È un ordine: questa è una strada-solo-perebrei” ha risposto. Ho domandato dove fosse il cartello che lo indicasse, per informare altri guidatori a non percorrerla. Ha risposto in modo semplicemente sbalorditivo. “È affar suo saperlo! E poi, cosa vuoi che facciamo? Che mettiamo qui un cartello a cui qualche reporter o giornalista antisemita possa scattare una foto, per poter mostrare al mondo che qui esiste l'apartheid?” L'apartheid esiste davvero qui. E il nostro esercito non è “l'esercito più morale del mondo”, come ci dicono i comandanti.(...) Israele può uccidere civili, donne e bambini, vecchi e genitori con i loro figli, deliberatamente o no, senza accettare alcuna responsabilità. Può derubare la gente dei loro campi, distruggere i loro raccolti, rinchiuderli come animali allo zoo. C'è qualcuno che ritiene che questo non sia apartheid? (...) Israele è una potenza occupante che da 40 anni opprime la popolazione del luogo, che ha il diritto ad un'esistenza sovrana ed indipendente, vivendo con noi in pace. Non ci limitiamo a negare alla popolazione palestinese i diritti umani. Non solo rubiamo loro la libertà, la terra e l'acqua: applichiamo punizioni collettive a milioni di persone e nella frenesia della vendetta, distruggiamo pure il rifornimento di energia elettrica per un milione e mezzo di civili. Così non si possono pagare i salari ai dipendenti perchè Israele trattiene 500 milioni di shekel che appartengono ai palestinesi. E dopo tutto ciò restiamo “puri come la neve che cade”. I nostri atti non sono marchiati da alcun disonore morale. Non c'è alcuna separazione razziale, alcun apartheid. Ė un'invenzione dei nemici di Israele. Evviva i nostri fratelli e sorelle negli USA! La vostra dedizione è apprezzata moltissimo: avete davvero allontanato da noi una brutta macchia. Ora possiamo avere una spinta in più, nel maltrattare, sicuri di noi stessi, la popolazione palestinese, tramite “l'esercito più morale del mondo”. 03/02/2007 Pagina 4 di 7 (da un articolo dell'israeliana Shulamit Aloni - trad. Paola Canarutto) Dare tutto per la Palestina! GIOVANNI FRANZONI, membro del Concilio Vaticano II come abate della Basilica di San Paolo ha compiuto un gesto molto significativo di comunione con il popolo palestinese: ha donato l'ANELLO EPISCOPALE, simbolo delle nozze con la chiesa, a favore dell' Ospedale di Gaza. Raniero La Valle ha così commentato l’evento: (…) Se l’anello è il simbolo delle sue nozze con la Chiesa universale, vuol dire che esso è la cosa più preziosa che ha, è in certo modo il simbolo della sua più vera identità, non solo di quella passata, ma anche di quella presente. Dunque, sempre per restare nel campo delle metafore e dei simboli nel quale ci muoviamo - ma i simboli sono importanti - dare l’anello vuol dire dare se stesso per la Palestina, dare se stesso alla Palestina. Cioè dare non qualcosa di marginale, ciò che avanza, ma tutto. Dunque il primo significato di questo gesto è di invitare tutti gli altri a fare lo stesso: a dare alla Palestina, per così dire, non qualche cosa, ma tutto. Ciò naturalmente comporta un’idea di ciò che la Palestina rappresenta oggi, perché non si può dare tutto o chiedere di dare tutto per una cosa che non ne valga la pena. Dare tutto per la Palestina può voler dire solo due cose: o che la situazione della Palestina è talmente disperata che solo mettendo in gioco tutto si può salvare, o che la Palestina è diventata talmente centrale da essere ormai il simbolo di tutto: della vita, della pace, della comunità internazionale, del diritto, della giustizia. Nel caso della Palestina sono vere tutte e due le cose. Ma l’anello non è solo un simbolo nuziale, e quindi il simbolo di un’identità. È anche il simbolo della religione, e nel nostro caso è il simbolo del cristianesimo.Il problema della pace in Palestina, dei due popoli e dei relativi Stati, è anche un problema religioso. E siccome questa cosa è stata finora occultata e negata, anche a fin di bene, perché si pensava che, messa da parte la religione, il problema si potesse più facilmente risolvere, la mia ipotesi è che, fallito tutto il resto, la cosa che ci rimane ancora da fare per la Palestina, è di portare alla luce ed affrontare come tale il problema religioso di Israele e della Palestina. Non per delegare a Dio la soluzione del problema che noi non sappiamo risolvere, ma al contrario per rimuovere un fraintendimento che fa di Dio il principale ostacolo alla soluzione del problema.Perché non c’è dubbio che Dio è implicato nel pensiero che ha dato origine allo Stato di Israele, così come è implicato nel pensiero di chi oggi lo combatte appellandosi all’Islam e al jihad. E dato che il problema c’è, mi sembra ormai un fatto di onestà intellettuale ma anche una necessità politica non dissimularlo, non far finta che non esista, ma affrontarlo per quello che è. In questo senso io saluterei come una cosa positiva il fatto che il presidente Prodi recentemente si sia riferito allo Stato di Israele come a uno Stato ebraico. Non so esattamente in che termini e in quale contesto lo abbia fatto, ma l’essenziale sta in questo semplice nominare lo Stato d’Israele come Stato ebraico. Ed è questo semplice appellativo che è stato salutato dal Premier israeliano Olmert come un fatto nuovo, ciò per cui ha ringraziato Prodi. Questo fatto semplicissimo apre una quantità di problemi. Di per sé è una constatazione ovvia: lo Stato d’Israele è e, almeno per quanto riguarda la sua classe politica e i suoi leaders religiosi , vuole essere uno Stato ebraico. Altrimenti avrebbe una Costituzione, non osserverebbe il Sabato, e farebbe di Gerusalemme una capitale politica, e non una capitale eterna e transtorica di Israele; non impianterebbe colonie nei territori palestinesi rivendicando uno ius loci che nessun diritto, neanche il diritto internazionale, gli riconosce, non metterebbe muri per separare gli Ebrei dai Gentili, non vivrebbe nell’angoscia di perdere la maggioranza demografica di etnia ebraica; e nelle sinagoghe il sabato non si saluterebbe lo Stato d’Israele come “l’inizio della redenzione”; né esso sarebbe considerato come proprio da ebrei sparsi in tutto il mondo. Tuttavia in Occidente non si parla mai di Israele come di uno Stato ebraico. Dire “Stato ebraico” viene considerato non politicamente corretto. Anche in un mio articolo su Liberazione l’espressione fu censurata. E ciò perché nella cultura occidentale, che è laica e secolare, definire uno Stato come ebraico o una Repubblica come islamica contiene in se stesso un discredito, una critica; e per di più c’è il terrore che ogni critica allo Stato di Israele, se si ammette che sia uno Stato ebraico, si attragga l’accusa di antisemitismo; e Israele naturalmente fa di tutto per tacciare di antisemitismo ogni critica allo Stato come tale. È una specie di ricatto culturale, che tutti subiscono e a cui cercano di sottrarsi accettando la convenzione che l’ebraismo non c’entri. Perfino nel Concilio per non correre questo rischio si fece in modo che la parola Israele non entrasse nella dichiarazione, pur così amichevole, sul rapporto con gli ebrei.Ed ora abbiamo la sorpresa che il Primo ministro israeliano ringrazi un capo di governo occidentale che chiama Stato ebraico lo Stato d’Israele.E questo allora pone un altro problema. Perché il Primo ministro d’Israele si rallegra, invece di arrabbiarsi, quando Prodi parla di Stato ebraico? Io credo che ciò dipenda dal fatto che Olmert scambia il problema con la soluzione: basterebbe riconoscere che Israele è uno Stato ebraico e tutto sarebbe risolto. Ciò è legato al fatto che la vera legittimazione dello Stato d’Israele starebbe, per la classe dirigente israeliana, nel fatto che esso sia lo Stato ebraico e questa legittimazione verrebbe dalla Shoà. In tal modo però la Shoà non è veramente superata, come sarebbe necessario per un simile crimine, ma continua a condizionare e a pesare sul popolo ebraico e sul suo Stato. Io penso che la Shoà sarà veramente vinta quando cesserà di fare 03/02/2007 Pagina 5 di 7 vittime; quando, pur rimanendo per sempre nella memoria, come è stato per la schiavitù d’Egitto, cesserà di condizionare la vita presente del popolo ebraico e del suo Stato. Ormai la legittimazione dello Stato di Israele ha altri ed autonomi fondamenti, non ha bisogno di appellarsi alla Shoà e perciò dovrebbe cessare per i suoi nemici ogni ragione di negare la Shoà, così come non c’è alcuna ragione di negare la schiavitù d’Egitto o l’esilio a Babilonia. Ora, il riconoscimento dello Stato di Israele come Stato ebraico non è la soluzione, è il problema. Se la classe dirigente israeliana, come anche Olmert fa intendere, pensa che sia la soluzione, è perché pensa che l’ebraicità (che si parli di “Stato ebraico” o di “Stato degli ebrei”), non solo sia la legittimazione dello Stato, ma anche la fonte di legittimazione di confini che includano tutta la terra di Israele, l’Eretz Israel, dal mare al Giordano, la ragione necessaria e sufficiente per mettere Gerusalemme fuori da ogni discussione e da ogni possibile condivisione con i palestinesi, la ragione che giustifica l’ottemperanza a una propria legge, e non alla legge internazionale e alle risoluzioni dell’ONU, la giustificazione per escludere ogni diritto dei palestinesi profughi al ritorno, perché non esisterebbe alcun diritto che non sia ebraico al possesso della terra e ad abitare nella terra di Israele, ed è infine il motivo per stabilire unilateralmente la propria separazione, come popolo non profano, dalle Genti, dagli stranieri, dai palestinesi, dai nemici. Ma se queste non sono le soluzioni, sono i problemi, e i problemi devono essere assunti. Il problema dell’ebraicità dello Stato di Israele deve essere assunto appunto come problema, e prima di tutto dagli israeliani e dagli ebrei stessi; ma in quanto problema universale anche da noi. Non perché la soluzione del problema sia nella negazione dell’ebraicità di tale Stato, come molti laici d’Occidente pensano. Noi non possiamo pretendere che la forma del secolarismo, della laicità, della riduzione della religione ad affare privato, che si è imposta in Occidente, sia l’unica cultura ammessa e debba essere fatta propria da tutta la gente del mondo. Che Israele sia o non sia Stato ebraico è una cosa che solo gli israeliani possono decidere (come noi abbiamo deciso alla Costituente che l’Italia non fosse uno Stato cattolico) e noi dobbiamo accettare la loro decisione.Il problema è invece che cosa davvero significhi tale ebraicità. Se essa davvero significhi che c’è una terra per diritto divino assegnata a Israele, da cui tutti gli altri sono esclusi. Se essa davvero significhi che debba esserci una maggioranza di etnia ebraica nello Stato. Se essa veramente significhi che Gerusalemme non è negoziabile come città terrena, e debba essere tenuta prigioniera con la forza; se essa veramente significhi che gli stranieri possano essere separati da muri e sottratti all’universalità umana di cui Israele è parte e della quale dovrebbe essere anticipazione e segno. Vale a dire che c’è in ballo una ricomprensione dell’ebraismo, in relazione ai tre suoi grandi elementi costitutivi: la legge, il popolo, il territorio, a cui oggi è stato aggiunto anche lo Stato; una ricomprensione dell’ebraismo che implica una conversione, che non è la conversione dell’ebraismo a qualche altra cosa, tanto meno al cristianesimo, ma è una conversione dell’ebraismo alla stessa propria identità più profonda e alla propria fede più pura; anche la Chiesa si è trovata e si trova dinanzi a questo problema, ogni volta che essa voglia davvero uscire dalla sua fase costantiniana e da una condizione di cristianità.Questa conversione dell’ebraismo, fino a rendere possibile al popolo ebreo di vivere in pace sulla terra, è una conversione analoga a quella che si richiede all’Islam per rendere possibile ai popoli arabi e islamici di vivere in pace sulla terra, ed analoga a quella che si richiede alle Chiese cristiane per poter rivendicare non se stesse e le proprie radici, ma per poter promuovere l’universalità e la pace sulla terra. Dunque quello che ancora possiamo fare per la Palestina è di mettere in gioco il meglio di noi stessi, a cominciare dalle nostre culture e dalle nostre religioni. E se lì c’è un problema che la religione acuisce e rende dirompente, fino a mettere a rischio la convivenza degli uomini sulla terra, allora siccome la religione e le religioni non possono volere questo, si tratta di impostare un problema di conversione che non è solo personale e privato, ma istituzionale e pubblico. E questo ha a che fare con la politica.Io penso che sia questa la laicità oggi richiesta, quella di rimettere in causa le stesse religioni, di postulare, per così dire, una conversione di Dio, e cioè del modo in cui noi lo percepiamo, perché la convivenza e la pace, in Palestina e nel mondo, diventino possibili. Il gesto di Giovanni Franzoni è un gesto potente, se ci provoca a fare ciò che c’è ancora da fare. (Raniero La Valle, 11 gennaio 2007) Passi avanti... Il 19 gennaio stava per entrare in vigore un decreto dell’Ufficio del Comandante del Settore Centrale, Generale Yair Naveh. Il decreto proibisce ai conducenti israeliani di avere in macchina passeggeri palestinesi nei territori occupati. (…) Gli attivisti per la pace israeliani hanno deciso che bisogna protestare contro questo nauseante ordine. Diverse organizzazioni hanno pianificato azioni di protesta per il giorno in 03/02/2007 Pagina 6 di 7 cui il decreto sarebbe entrato in vigore. Hanno organizzato un “Freedom ride” ovvero “Un giro della libertà”, per cui i proprietari israeliani di macchine che stavano entrando in Cisgiordania (una offesa criminale di per sé) avrebbero dato un passaggio ai palestinesi locali, che si sono prestati come volontari per l’azione. Una iniziativa impressionante solo da organizzare. Conducenti israeliani e passeggeri palestinesi che infrangono apertamente la legge, affrontando possibili arresti e processi nelle corti militari. Ma all’ultimo momento, il generale “ha congelato”l’ordine. La manifestazione è stata annullata. L’"ordine" che è stato sospeso (ma non ufficialmente revocato) emetteva un forte odore di apartheid. (…) La fine dell’occupazione arriverà nell’ambito di un contesto di pace tra i due popoli che abiteranno in due stati liberi e vicini – Israele e Palestina – con un confine tra loro tracciato dalla Linea Verde. Io spero che questo possa essere un confine aperto. Forse allora – inshallah – i palestinesi potranno girare liberamente sulle macchine israeliane, e gli israeliani gireranno liberamente sulle macchine palestinesi. Quando quel tempo arriverà, nessuno si ricorderà del Generale Yair Naveh, o perfino del suo capo, Generale Dan Halutz. Amen. (Uri Avneri, 20 gennaio 2007) ...e passi indietro Il movimento pacifista israeliano ‘Peace Now’ (Pace adesso) ha denunciato che il ministero dell’edilizia israeliano ha recentemente lanciato un appalto per la costruzione di 44 nuovi appartamenti nella popolosa città-colonia di Maalé Adumim in Cisgiordania, all’immediata periferia di Gerusalemme. Il movimento sottolinea come a Ramallah la Rice avesse ribadito con grande energia che il Tracciato di pace del Quartetto deve essere rispettato in tutte le sue componenti, una delle quali – sottolinea Peace Now - è il congelamento delle attività di insediamento ebraico in Cisgiordania Due storie da non dimenticare Fuori tutti Ho appena sentito Sami, un amico palestinese (con passaporto italiano), sposato con una italiana... abitavano a Roma dove lui insegnava all'università, hanno venduto tutto per tornare a Betlemme... gesto profetico perché, mentre tutti scappano, Sami ed Elisabetta hanno comprato casa giù e sono partiti con i loro piccoli figli . Sono tornati a Betlemme per dare un segno di speranza e per dire ai loro/nostri fratelli che è possibile vivere ancora a Betlemme nonostante tutto... ma il governo israeliano (che sa tutto!!!) sta rendendo impossibile la loro vita... il visto di Betta è scaduto e non vogliono rinnovarlo oltre 3 mesi. Sono 10 giorni che hanno ritirato il passaporto di una cittadina italiana e nessuno sa nulla e non può far nulla o non vuole far nulla (vedi governo italiano a cui si sono rivolti!!!). Hanno i due bambini piccoli con loro e così immaginatevi questa povera moglie e mamma che ogni tre mesi dovrebbe rientrare in Italia per poi ritornare dalla famiglia (ma la faranno passare poi dopo la prima volta??? C'è anche questo rischio perché si vocifera che ogni presenza straniera è sgradita ad Israele e tra poco dovrebbe uscire una legge nuova su questo tema per "far partire" o "espellere" tutti i cittadini stranieri. E se non la facessero rientrare, come si ipotizza, i bambini (italiani) non possono uscire da soli... immaginatevi la situazione e la disperazione di questa famiglia! don Mario Cornioli Milano Tel Aviv, andata e ritorno “Alle 14.35 del 9 gennaio 2007 sono arrivata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con il volo della Swiss Air proveniente da Zurigo. Appena scesa dall’aereo mi sono recata ad uno degli sportelli dove, solitamente, viene fatto il controllo del passaporto, posta qualche domanda sul motivo del soggiorno e rilasciato il visto d’entrata. Dopo le prime domande l’impiegata allo sportello, consultato il terminale, ha compilato un foglio e mi ha chiesto di seguirla: da quel momento, fino al mio ritorno all’aeroporto di Zurigo, i documenti mi sono stati requisiti. Dopo un’attesa di circa mezz’ora in una piccola saletta ho avuto il primo e ultimo colloquio: è durato non più di una decina di minuti durante i quali mi sono stati esposti, in modo confuso e contraddittorio, i presunti motivi per i quali il Ministero degli Interni mi rifiutava il visto di entrata. Nonostante io abbia prontamente esibito le lettere a me rilasciate dal Comune di Vinci e dalla Regione Toscana che spiegavano il motivo della mia richiesta di visto, sono stata cacciata fuori dall’ufficio e intimata ad aspettare di nuovo nella sala d’attesa dove ero stata precedentemente sistemata. Dopo circa mezz’ora sono stata scortata da tre persone della sicurezza nella zona del ritiro bagagli: da quel momento, per circa un’ora, mi è stato intimato di non usare il telefono. Sono stata sottoposta ad un lungo interrogatorio e, per circa due ore, sono stata 03/02/2007 Pagina 7 di 7 sottoposta ad un perquisizione dei bagagli e corporale umiliante e minuziosa. Gli addetti alla perquisizione hanno più volte tentato di impedirmi di parlare al telefono: a quel punto, però, mio sono imposta invocando il mio diritto a comunicare con l’Ambasciata e la mia famiglia.Nel tardo pomeriggio sono stata chiusa in una cella, non mi è stato dato né da bere né da mangiare, né mi è stato possibile recarmi in bagno. La cella era un luogo fatiscente, con insetti ovunque e brande per dormire al limite del decente. La spessa porta di acciaio non permetteva, se non prendendola a pugni e calci, di comunicare con i carcerieri. Fino all’ultimo mi è stato praticamente impossibile sapere gli estremi del mio ritorno (ora d’imbarco, orario di arrivo, luogo di arrivo). Durante la notte i carcerieri sono entrati per ben tra volte nella cella urlando e svegliando tutti, con l’apparente motivo di richiedere i “biglietti dell’aereo” che però erano in loro possesso, insieme agli altri documenti. Alle ore 5.30 a.m. sono stata scortata dalla polizia fin sopra all’aereo della Swiss Air diretto a Zurigo: i miei documenti insieme ai biglietti aerei vecchi e nuovi sono stati consegnati al capitano. Arrivata a Zurigo sono stata consegnata, insieme ai miei documenti ad un addetto dell’aeroporto svizzero e condotta in un ufficio nel quale sono stata trattenuta una mezz’ora circa. Dopo un breve interrogatorio, una volta fotocopiati i documenti, sono state finalmente libera di girare per l’aeroporto e prendere il volo per Milano.” Margherita, internazionale italiana Hanno detto... IL MINISTRO DEGLI ESTERI MASSIMO D'ALEMA deve stare più attento alle cose che dice... In un’intervista all’Unità ha parlato della «parte democratica del mondo ebraico» e in un’altra all’Espresso di «reattività di una lobby che impedisce una discussione serena» e, infine, nella prefazione al libro di Bice Foà Chiaromonte, ha chiesto agli ebrei «più capacità di esercitare uno stimolo critico sulla politica israeliana». Vi lasciamo immaginare quante critiche abbia ricevuto in queste settimane, con altrettanti scandalizzati articoli denigratori sui più importanti quotidiani italiani. I VESCOVI PER LA TERRASANTA. "La formazione di uno Stato palestinese, che metterebbe fine all’occupazione, richiede terre contigue e chiama in causa la costruzione della barriera di separazione israeliana e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. I palestinesi hanno bisogno di libertà di movimento per lavorare, visitare i familiari, andare a scuola e curarsi. Vanno eliminate tutte le umiliazioni ai check points e ai confini ed è necessario favorire i ricongiungimenti familiari.(...) Eliminare la violenza e riconoscere lo Stato di Israele aiuterà a ricostruire la fiducia e l’apporto della comunità internazionale verso l’Autorità palestinese. Servono atti coraggiosi per spezzare il ciclo della paura israeliana e della rabbia palestinese che dominano la situazione attuale. Il futuro di tutti i popoli della Terra Santa dipende dal fatto di assicurare una pace giusta e duratura". (dal comunicato dei vescovi del Coordinamento delle Conferenze episcopali a sostegno della Chiesa in Terra Santa diffuso a Gerusalemme al termine della loro visita di solidarietà. Fonte: Misna) Tutti i destinatari della mail sono in copia nascosta (D. Lgs. 30-6-2003 n.196). Gli indirizzi ai quali mandiamo la comunicazione sono selezionati e verificati ma può succedere che il messaggio pervenga anche a persone non interessate. VI CHIEDIAMO SCUSA se non volete ricevere più "BoccheScucite". Vi preghiamo di segnalarci, se non siete interessati a ricevere ulteriori messaggi, mandando un messaggio con oggetto: RIMUOVI a [email protected] e verrete immediatamente rimossi dalla mailing list. 03/02/2007