Conoscere è un atto di partecipazione a complessi sistemi sociali di apprendimento. Wenger (2000) Comunità di Pratica e Apprendimento 1 Giuditta Alessandrini, Università degli studi di Roma Tre* 1. Comunità di pratica: ambito di definizione L’idea di comunità di pratica esercita ormai da qualche anno un forte e per certi versi inatteso appealing non solo per i formatori ma anche per ricercatori, insegnanti, responsabili di risorse umane e studiosi di scienze umane. La recente pubblicazione in italiano di opere e scritti di Wenger ha consolidato, inoltre, un certo interesse anche in ambito accademico su tale area di ricerca e di prassi formativa. In questo mio contributo tralasciamo l’idea di un’ampia e articolata riflessione critica sui fondamenti teorici del costrutto della comunità di pratica. Pur tuttavia occorre sottolineare alcuni punti chiave che delineano la matrice del concetto dal punto di vista dell’approccio all’apprendimento per poter meglio comprenderne la valenza dal punto di vista operativo. La rilevanza del contributo di Wenger nasce dal fatto che negli scenari di formazione e lavoro nelle società avanzate è in atto un significativo spostamento di asse verso l’attenzione ai processi di interazione sociale come contesto specifico di apprendimento: la disponibilità di tecnologie della relazione più mature, l’enfasi sulla collaborazione, la diffusione di modalità orizzontali di coordinamento tra gli attori organizzativi sono tutti elementi che determinano le condizioni per l’attualità dell’approccio delle comunità di pratica (d’ora in avanti codp). Il concetto di comunità di pratica (con tutte le sue implicazioni semantiche di tipo sia sociologico sia antropologico) è quanto mai centrale nello scenario della società della conoscenza. Vediamo, dunque, di approfondire innanzitutto la dimensione semantica: le comunità di pratica, nella definizione “classica” di Wenger, sono definibili come gruppi di persone che hanno in comune un interesse o una passione per qualcosa e che in base a questo interesse interagiscono con una certa regolarità per migliorare il loro modo di agire. In sostanza, passeremo in rassegna alcuni aspetti relativamente alle matrici ideali del costrutto e faremo una riflessione sui significati chiave del concetto rispetto all’operatività. 1 Il presente contributo è stato pubblicato nel volume di Giuditta Alessandrini (a cura di), Comunità di Pratica e Società della Conoscenza, Le Bussole, Carocci, Roma, 2007. Il libro descrive, con un linguaggio piano e discorsivo, il tema delle comunità di pratica dal punto di vista del discorso pedagogico-formativo, analizzando gli aspetti di tipo teorico-metodologico e passando in rassegna alcune “buone pratiche” nel settore della formazione. * Il presente contributo prende spunto dalle ricerche scientifiche pubblicate nel corso degli anni e citate in bibliografia; inoltre, possono essere visionate nel sito del LAOC “Laboratorio di Apprendimento Organizzativo e di Comunicazione” (www.laoc.eu). 1 2. La genesi del concetto Come sono giunti, dunque, Wenger e Lave a elaborare questo concetto che così tanta fortuna sta acquisendo ormai già da qualche anno nei contesti della formazione professionale e degli adulti? In un testo di Wenger del 1998 – tradotto in italiano nel 2006 – è possibile trovare una vera e propria sistematizzazione dei concetti che inquadrano il tema della comunità di pratica nell’ambito di una teoria sociale dell’apprendimento. I primi studi sulle comunità di pratica, che risalgono alla fine degli anni ottanta, erano rivolti ad approfondire il concetto di apprendimento situato (Lave, Wenger, 2006; Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995; Striano, 2000), definizione emersa come esito di alcuni studi in ambito psicologico e antropologico. Questi studi in particolare erano scaturiti da una riflessione sul fenomeno specifico dell’apprendistato: le ricerche prendevano in esame l’interazione tra gli apprendisti, i loro istruttori e gli altri lavoratori, anche saltuari, dell’azienda, in situazioni locali, in cui ancora l’influenza delle tecnologie di rete era assente o estremamente limitata. Una prima attenzione al tema si deve alle ricerche sui comportamenti dei dipendenti della Xerox negli anni ottanta; già allora le comunità erano descritte come «piccoli gruppi di persone che lavorano insieme per un certo tempo e collaborano allo sviluppo di un lavoro comune, operano alla pari e li lega la percezione condivisa che ciascuno ha la necessità di sapere quello che conoscono gli altri» (Orr, 1995). Wenger e Lave riflettono, viceversa, sul fatto che nell’apprendistato è fondamentale non solo il rapporto tra esperto e novizio, ma anche quello tra i membri della comunità che partecipano all’esperienza di apprendimento. La relazione fondamentale nell’apprendistato è dunque una relazione di “partecipazione evolutiva” e di trasformazione dell’identità all’interno di un approccio che possiamo definire comunitario. Da questa riflessione emerge negli autori l’idea di elaborare il concetto di partecipazione periferica legittimata (legittimate peripheral partecipation, lpp) per far riferimento ai processi specifici di apprendimento chiamati in causa. Gli elementi cardine che emergono all’interno del costrutto della codp sono i due “poli”, comunità e pratica, che si innestano su un altro concetto chiave, quello di apprendimento situato. Quest’ultimo termine rimanda a un approccio teorico all’apprendimento caratterizzato in senso sociale che sarà oggetto di analisi nel prossimo paragrafo. A Wenger e Lave si deve il merito di aver codificato una realtà sotto gli occhi di tutti e già in qualche modo presente sotto altre “etichette” definitorie. Le comunità di pratica sono dappertutto e sono «i mattoni costitutivi di un sistema sociale di apprendimento poiché sono i contenitori sociali delle competenze che costituiscono questi sistemi», sostiene Wenger in uno scritto recentemente riproposto in lingua italiana in una miscellanea (Wenger, in Zucchermaglio, Alby, 2006). La fortuna del concetto è stata enorme negli ultimi anni, anche se il costrutto viene spesso applicato a uno spettro ben più ampio di quello originario come i project teams (cioè gruppi formalmente definiti) e a gruppi di persone che lavorano on line (come i progettisti di software). Un ulteriore aspetto di rilievo, è che si evidenziano due accezioni di significato, la prima orientata a una dimensione teorica e descrittiva (che si inserisce in un quadro teorico più ampio) e la seconda a una di tipo prestazionale che vede le codp come una soluzione consulenziale orientata a migliorare l’organizzazione. È chiaro che, se ci si accosta al tema dal punto di vista di un approccio strumentale, possono emergere numerose riserve anche rispetto al contesto d’uso (non sempre legittimo e pertinente) del costrutto. Se, viceversa – come intendo esporre in questo contributo - il costrutto è “letto” nelle sue 2 implicazioni teoriche e metodologiche, è più facile comprenderne la consistenza e la possibilità di sviluppo. 3. L’apprendimento come pratica sociale Il costrutto della codp si correla a una visione ben determinata di apprendimento che è in linea, peraltro, con una parte della letteratura classica. L’apprendimento viene considerato, dunque, come parte integrante della vita quotidiana. In modo più specifico, gli assunti da cui parte la teoria dell’apprendimento di Wenger sono i seguenti: • la natura “sociale” degli individui; • la conoscenza (knowledge) intesa come competenza in attività socialmente apprezzate; • il conoscere (knowing) inteso come partecipazione ad attività socialmente apprezzate. Sulla base dei tre assunti viene proposta una teoria dell’apprendimento come partecipazione sociale. Il termine “partecipazione” significa per Wenger essere “partecipanti attivi” nelle pratiche di comunità sociali e nella costruzione di identità in relazione a queste comunità. Quando partecipiamo a processi di interazione, secondo questa visione, costruiamo la nostra identità. Il che significa che partecipare influenza ciò che facciamo ma anche ciò che siamo. Le componenti di particolare rilievo di questo schema concettuale sono quattro: • il significato: sta a indicare la nostra capacità di sperimentare la vita e il mondo come qualcosa di significativo (Wenger, 2006, ed. or. 1998); • la pratica: è in sostanza l’insieme degli schemi di riferimento che sostengono il coinvolgimento nell’azione; • la comunità: rinvia alla configurazione sociale nella quale la nostra partecipazione è considerata competente; • l’identità: si determinano processi in divenire nell’ambito delle nostre comunità. L’apprendimento è quindi visto come appartenenza, come esperienza, come azione e come divenire. L’ambito concettuale a cui si riferisce il nostro autore nel suo volume più sistematico (ivi, 2006) fa riferimento in realtà non tanto a una teoria specifica dell’apprendimento, ma a una teoria sociale dai confini e dalle connotazioni disciplinari molto ampie: dalle tesi “platoniche” alla sociologia di Émile Durkheim e Max Weber, fino a Anthony Giddens, con riferimenti ad altre discipline come la linguistica e la psicologia. È fortemente influenzato, inoltre, da alcuni assiomi dello strutturalismo, secondo cui è più rilevante la struttura che l’individuo e le sue singole azioni. La focalizzazione sul contesto situazionale, cioè l’attenzione all’ambiente reale e fenomenico che l’individuo vive nella sua esperienza di apprendimento, rimanda ad alcune scuole di pensiero che negli ultimi vent’anni hanno creato un solco nell’interpretazione dei processi di cognizione: la teoria fenomenologica di Martin Heidegger fino agli approcci “ecologici” di Humberto Maturana e Francisco Varela, l’interazionismo simbolico in sociologia e etnometodologia. Non ultimo il riferimento a studi in ambito linguistico sull’idea dell’identità come narrazione. La conoscenza – in estrema sintesi – emerge da questi riferimenti come un processo mediato dalle caratteristiche strutturanti dei contesti sociali. Anche rispetto al concetto di pratica i debiti riconosciuti da Wenger sono molti: dal riferimento all’idea di praxis di origine marxiana a Jürgen Habermas, fino agli studi dei sociologi Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron e ad alcuni approcci di sociologia della scienza. 3 Questa costellazione multidisciplinare è sottolineata come quadro di riferimento implicito che giustifica la teoria sociale dell’apprendimento del nostro autore. Si tratta di un tentativo di sistematizzazione pur encomiabile; non sfugge il rischio di “sfondamento” delle radici teoriche della codp in un insieme troppo vasto di idee e concetti che appartengono a tutta la storia del pensiero del xx secolo. Wenger sintetizza molto efficacemente gli assiomi della sua teoria con particolare riguardo all’apprendimento (cfr: figura 1); vediamo nel riquadro di approfondimento i principi che enumera. Ognuno degli aspetti riportati nel riquadro di approfondimento richiederebbe un approfondimento, ma preferiamo sviluppare solo alcune considerazioni di sintesi. Figura 1 - Le declinazioni dell’apprendimento L’apprendimento: • è soprattutto capacità di negoziare nuovi significati; • crea strutture emergenti; • è esperienziale e fondamentalmente sociale; • trasforma le nostre identità; • costituisce delle traiettorie di partecipazione; • implica la gestione dei confini; • concerne l’energia sociale e il potere; • presuppone l’impegno; • implica l’immaginazione ; • è un fatto di allineamento; • implica un’interazione tra locale e globale; considerazioni di sintesi. 4. Caratteristiche di una codp Una comunità non è di per sé una comunità di pratica se non sono presenti alcune caratteristiche: la pratica infatti diventa un elemento per così dire “aggregante” della comunità; in questo orizzonte occorre chiedersi come si articola, dunque, la pratica e quali sono le sue specificità. Scorgiamo soprattutto tre dimensioni nello schema concettuale del nostro autore. • Impegno reciproco: un’interazione all’interno della comunità che si esplichi in discussioni, attività in comune, aiuto reciproco. La condivisione di interessi è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza di una comunità di pratica: è cruciale l’aspetto interattivo e un impegno nell’attività comune, che dev’essere condiviso anche se può essere discontinuo. L’appartenenza a una codp è dunque un patto di impegno reciproco ed è ciò che definisce la comunità. Se ci sono intense relazioni intorno ai compiti da svolgere, allora possiamo parlare di comunità di pratica e non semplicemente di team o di network. Sottolinea, infatti, Wenger che la pratica non esiste in astratto e che l’impegno reciproco richiede interazioni continue. • Impresa comune: un’identità che deriva dalla condivisione di interessi e soprattutto dalla dedizione e lealtà dei suoi aderenti (commitment) nei confronti della comunità; in queste condizioni la comunità acquisisce una competenza collettiva e i suoi membri imparano gli uni dagli altri. Un’impresa comune è un “processo collettivo di negoziazione” che indubbiamente fa comprendere il significato della complessità di un impegno reciproco. La responsabilizzazione diventa parte integrante della pratica: da ciò deriva il fatto che il processo sia “generativo” ma anche “vincolante”. 4 • Prassi condivisa o repertorio comune: la presenza di un insieme di risorse e di pratiche condivise che sono il risultato del continuo confronto informale e dialettico delle esperienze personali messe al servizio della comunità. Il processo di sviluppo di queste risorse può anche non essere svolto in modo conscio e intenzionale, ma semplicemente attivarsi in maniera spontanea in conseguenza dei rapporti sociali che si instaurano con gli altri membri della comunità. Il repertorio di una comunità di pratica include routine, parole, strumenti, modi di operare che in parte hanno aspetti di reificazione (cioè di “costruzione di realtà”) e partecipazione. È interessante, ad esempio, la definizione che Wenger fornisce del termine “repertorio” in quanto «set di risorse condivise dalla comunità per enfatizzare il carattere sperimentato e la disponibilità per un ulteriore coinvolgimento nella pratica» (Wenger, 2000). Le comunità di pratica sono dunque, per il nostro autore, gruppi di persone che condividono un interesse per qualsiasi cosa fanno e che interagiscono con regolarità per imparare a farlo meglio, gruppi di individui, cioè, che condividono esperienze e, attraverso questo processo di interazione, apprendono sia come soggetti sia come parte di gruppi sociali. Quando dunque una comunità può essere considerata “vitale”? È indubbio che le comunità non vivono per sempre ma hanno un proprio ciclo di vita: è importante, allora, in questa direzione trovare modalità che consentano ai partecipanti di sentirsi professionisti che comunicano intensamente costruendo identità e repertori condivisi. È rilevante osservare che non si tratta tanto di vicinanza fisica ma di vicinanza di pratiche per dar luogo a una comunità. È più significativa la condivisione che la vicinanza-distanza. Infatti, il costrutto della comunità di pratica ha trovato un grande interesse nell’area delle virtual community. Ambienti virtuali che consentono lo scambio di messaggi – come forum, wiki e blog o sistemi di videoconferenze – a basso costo, nella misura in cui creano le condizioni per mantenere viva l’identità degli attori organizzativi, determinano incentivi per i processi di condivisione necessari a coltivare la comunità. 5. Le codp come campo di costruzione dell’identità Nel quadro di riferimento complessivo che stiamo descrivendo in queste pagine, il tema dell’identità è parte integrante di una teoria sociale dell’apprendimento. Da qui deriva che il tema dell’identità è quindi strettamente connesso alla comunità. Il focus sulla comunità fa risaltare il problema della non partecipazione e partecipazione, dell’esclusione e dell’ inclusione degli attori di una comunità. Che cosa significa, dunque, “costruire un’identità”? È chiaro che il tema dell’identità ha svariate connotazioni e interpretazioni sul piano disciplinare. Le scienze sociali si sono focalizzate sul carattere relazionale e intersoggettivo dell’identità e hanno studiato nel tempo le caratteristiche e le dinamiche che contraddistinguono la sua genesi e il suo sviluppo. La visione dell’identità come “costruzione sociale” e prodotto storico emerge in particolare dalla letteratura di taglio antropologico. Si deve indubbiamente però a Erik H. Erikson – che a sua volta sviluppava un’idea freudiana – l’aver per la prima volta richiamato l’attenzione in modo sistematico al tema dell’identità, in particolare l’idea che lo sviluppo del senso soggettivo di continuità personale dipenda dall’opportunità per l’individuo di trovare il riconoscimento della propria identità in gruppi e comunità più estesi. Altre correnti come l’interazionismo simbolico, la teoria dei ruoli sociali di Robert Merton, l’approccio parsoniano hanno fornito importanti contributi allo studio di processi identitari. 5 Anche se non sono sempre esplicitati i legami di cui si avvale Wenger, è indubbio che egli si ricollega a un consistente filone di ricerche centrate sulla visione dell’identità come risultato dinamico dei processi di mediazione sociale. Secondo Wenger, la costruzione dell’identità consiste nel negoziare i significati del nostro agire in quanto membri di una comunità (Wenger, 2006, ed. or. 1998). Che cosa significa questa espressione, dunque? Possiamo sostenere che l’identità è una sorta di “cerniera” tra il sociale e l’individuale: in altri termini, se è vero che la nostra visione del mondo, i nostri linguaggi manifestano la ricchezza e la complessità delle nostre relazioni sociali, la nostra identità come individui non può dissociarsi dalla nostra identità come membri di una comunità. È importante a questo proposito evitare di cadere nel pregiudizio secondo cui tutto ciò che è individuale traspira libertà, mentre il sociale è fonte di vincoli e di limitazioni, così come l’ipotesi inversa. In sostanza non si può vedere come ineliminabile il conflitto tra individuale e sociale. Ma la formazione di una comunità di pratica è anche un processo di negoziazione dell’identità. Possiamo individuare, seguendo questo ragionamento, diverse modalità di estrinsecazione dell’identità: identità come esperienza negoziata, come appartenenza alla comunità, come traiettoria di apprendimento, come nesso di multiappartenenza, ma anche come relazione tra il globale e il locale. È interessante dedicare qualche riflessione al fatto che per Wenger l’identità è una sorta di stratificazione di eventi, di partecipazione e di reificazione attraverso cui si trasformano sia la nostra esperienza che la sua interpretazione sociale. L’identità è il risultato di un intreccio di esperienze partecipative e di proiezioni che viene continuamente elaborato nella pratica. Le dimensioni dell’identità sono correlate a quelle della competenza e si declinano come reciprocità dell’impegno, responsabilità nei confronti di un’impresa, negoziazione di un repertorio. Come dice Wenger (2006, ed. or. 1998): «Sappiamo chi siamo in base a ciò che è familiare, comprensibile, usabile, negoziabile, sappiamo chi non siamo in base a ciò che è estraneo, opaco, disagevole, improduttivo». L’identità è vissuta e negoziata, ha carattere sociale e si configura nel tempo come una “traiettoria” che incorpora sia passato che futuro in quanto essa stessa (l’identità) è oggetto di apprendimento. È possibile, dunque, nella costruzione teorica che sostiene le comunità di pratica, individuare un parallelismo tra pratica e identità. L’identità può essere colta, infatti, come: • esperienza negoziata di sé (in quanto partecipazione e reificazione); • appartenenza; • traiettoria di apprendimento; • nesso di multiappartenenza; • appartenenza definita globalmente ma vissuta localmente. Alla stessa stregua, la pratica: • è negoziazione di significato; • comunità; • storia comune di apprendimento; • confine e paesaggio; • costellazioni. L’identità è assimilata a una stratificazione di eventi finalizzati alla partecipazione e alla reificazione attraverso cui l’esperienza e la sua interpretazione sociale si “informano” a vicenda. Wenger costruisce, dunque, un quadro complesso e articolato che identifica come ecologia sociale dell’identità. 6 Il parallelismo tra pratica e identità è suggestivo ma conduce anche ad avanzare un approccio critico dal punto di vista della pedagogia della persona; l’elemento che potenzialmente caratterizza l’identità – in una visione antropologica di taglio umanistico, ad esempio –, la specificità della dimensione individuale in quanto soggettualità (cioè centralità del soggetto in quanto essere responsabile), sembra essere totalmente assorbita dalla dimensione dell’interazione sociale. “Appartenenza” e “reificazione” sono i due simulacri ai quali nella teoria di Wenger si sacrifica inesorabilmente il soggetto (così tendenzialmente enfatizzato nell’approccio pedagogico tout court). Siamo convinti che la persona non sia altro che un partecipante a pratiche (practitioner)? Che la dimensione individuale possa essere assorbita senza problemi e senza tracce ineliminabili dai vettori che spingono le comunità, quali l’impegno reciproco, l’impresa comune e il repertorio condiviso? E’ sufficiente ricordare che l’impianto complessivo della costruzione ecologica (come viene definita) è coerente e ben costruito, anche se i presupposti sui quali si poggia sono ipotizzati più come postulati che come risultati emergenti da logiche empiriche. L’identità necessita anche di confini: il riferimento a questo concetto occupa addirittura un capitolo nel volume sistematico del 1998. È opportuno qui approfondire meglio tale concetto anche in riferimento all’idea di traiettoria, perché è strettamente correlato all’idea di identità. Il quadro che ci descrive Wenger presenta sostanzialmente le nostre identità come dimensioni che creano traiettorie sia all’interno che tra le comunità di pratica. L’accezione di traiettoria è quella di un percorso che implica un movimento continuo e no n un tragitto previsto o disegnato. Il sé è oggetto di approcci e tecniche di autosviluppo e quindi implica processi trasformativi che per certi versi si possono identificare essi stessi con processi di apprendimento che si innestano nella pratica (Mezirow, 1991). Nel contesto della comunità di pratica sono identificati diversi tipi di traiettorie: • periferiche (sono quelle che non portano a una piena partecipazione); • dirette verso l’interno (sono quelle dei neofiti che entrano nella comunità con la prospettiva di diventare “partecipanti” a pieno titolo); • interne (si tratta di direzioni tendenti a rinegoziare la propria identità); • di confine (sono movimenti che tendono al superamento dei confini e al collegamento tra le comunità di pratica); • dirette verso l’esterno (si tratta di processi di spostamento verso nuove relazioni). Una comunità di pratica può anche essere descritta, dunque, come un campo di traiettorie possibili, quasi un’arena di possibili futuri e possibili passati. La nozione di traiettoria – nella misura in cui enfatizza la dimensione temporale – caratterizza l’identità come “divenire” e come sostanzialmente influenzata dallo sforzo di creare un processo di coerenza nel tempo. È chiaro, infine, che il concetto di identità è anche connesso a quello di multiappartenenza. Ogni attore sociale è membro e practitioner di più comunità: in questo senso l’identità è vista come “nesso di multiappartenenze”. Per rifarci a un’espressione suggestiva di Wenger, «la multiappartenenza è l’espressione vivente dei confini» (Wenger, 2006). Ognuno di noi può far parte di diverse comunità di pratica e quindi avere diverse esperienze dei confini. Ma come fanno le comunità di pratica a organizzare le proprie interconnessioni? Secondo Wenger, esistono alcuni oggetti di confine che facilitano il compito o, viceversa, si possono venire a determinare alcuni sostanziali fattori di intermediazione. I primi sono “artefatti”, documenti, forme di reificazione intorno alle quali le comunità creano le loro interconnessioni. I secondi sono “connessioni” messe a disposizione da persone che possono introdurre fattori ed elementi di una pratica 7 in un’altra pratica. I processi di standardizzazione delle informazioni (ad esempio la modulistica) possono fungere da “oggetto di confine”: ad esempio, la partecipazione ai bandi europei attraverso l’imposizione di framework per il lavoro cooperativo crea artefatti che delineano confini entro i quali si determina lo spazio di ammissibilità delle azioni dei membri di una comunità. Il discorso sugli oggetti di confine è particolarmente interessante perché chiama in causa la progettazione degli artefatti. Quando una persona utilizza un artefatto diventa a tutti gli effetti anche un membro di una comunità di pratica. Basti pensare, ad esempio, alla cosiddetta “metafora della scrivania” introdotta da Windows come standard: è un artefatto che ha creato la possibilità di dialogo nell’ambito di una popolazione di utenti completamente diversi tra loro e appartenenti a comunità molto differenti. Ognuno di noi attraversa i confini di diverse comunità e contribuisce alla negoziazione di significato all’interno delle diverse pratiche. È indubbio che abbiano una notevole importanza anche le pratiche di confine. Il compito della pratica di confine – come suggerisce il nostro autore in una delle sue opere tradotte in italiano (Wenger, 2006, ed. or. 1998) – è quello di gestire i confini riconciliando le posizioni e trovando soluzioni. Anche i corsi di formazione potrebbero essere identificati come pratiche di confine; il corso, infatti, è un luogo dove le comunità operanti in ambiti diversi cercano di comunicare tra di loro al di là dei confini specifici che caratterizzano il loro ambito di attività. Un discorso a parte riguarda il tema dei confini istituzionali e della pratica: i confini della pratica non coincidono infatti con i confini istituzionali. Un’unità organizzativa può non percepirsi come codp, ma diverse codp possono convivere in un ambito organizzativo. Tali ambiti possono coincidere con una o varie comunità di pratica o addirittura nessuna comunità; queste possono anche gettare ponti tra confini istituzionali e intrattenere relazioni di reciprocità che tendono ad attenuare i confini (Wenger, 2000). Ad esempio, i progettisti di un software formativo interagiscono con i creatori dei contenuti di apprendimento del corso (che possono afferire alle discipline più svariate) scambiando pareri e idee nella misura in cui di fatto diminuiscono i confini. Un’ultima interessante osservazione è che confini e periferie tendono a sovrapporsi: ad esempio – come riporta lo stesso Wenger – il fatto che i liquidatori delle pratiche sanitarie conoscano il gergo dei medici fa sì che si creino “intrecci” tra la comunità dei medici e quella dei liquidatori. 6. Note conclusive Il carattere fortemente suggestivo del tema della comunità di pratica scaturisce da alcuni fattori: la crescente tendenza nei paesi avanzati verso forme “orizzontali” di comunicazione, la crescita di spinte verso l’autoapprendimento, la presenza di forme “meticciate” di apprendimento e di lavoro e, infine, il valore di intermediazione giocato sempre più nello scenario futuro delle tecnologie di rete. Da qui il grande interesse tra i formatori sul tema, anche considerando le prospettive applicative possibili, ad esempio, nella formazione professionale e universitaria. Per valutare le effettive “promesse” che scaturiscono dall’approccio e dal costrutto della codp, è opportuno approfondire le dimensioni teoriche che caratterizzano il tema, correlate, naturalmente, alla teoria dell’apprendimento come pratica sociale elaborato in seno alle opere di Wenger. Tra le domande chiave, ad esempio, possiamo considerare le seguenti: in che misura si differenziano le comunità di pratica dalle comunità di apprendimento? È chiaro che non si tratta di sinonimi ma che esistono elementi di differenziazione significativi. 8 NOTA BIBLIOGRAFICA Alessandrini, G.(1994), La formazione continua nelle organizzazioni, Tecnodid, Napoli. Alessandrini, G. (1995), Apprendimento organizzativo, Unicopli, Milano. Alessandrini, G. (1998), Manuale per l'esperto dei processi formativi, Carocci, Roma Alessandrini, G. (a cura di) (2000), Formazione e organizzazione nella scuola dell’autonomia, Guerini e Associati, Milano. Alessandrini, G. (a cura di) (2002), Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Franco Angeli, Milano. Alessandrini, G. (a cura di) (2004), Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, Guerini, Milano. Alessandrini, G. (a cura di) (2005), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Carocci, Roma. Alessandrini, G. (a cura di) (2005), Formazione e sviluppo organizzativo, Carocci, Roma. Alessandrini, G. (a cura di) (2007), Comunità di pratica e società della conoscenza, Le Bussole, Carocci, Roma. Mezirow, J. (1991), Transformative Dimensions of Adult Learning, Jossey-Bass, San Francisco. Orr, J. (1995), Condividere le conoscenze, celebrare l’identità. La memoria di comunità in una cultura di servizio, in Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio (1995). Pontecorvo C., Ajello A.M., Zucchermaglio C. (1995), I contesti sociali dell’apprendimento, Led, Milano. Striano, M.P. (2000), I tempi e i luoghi dell’apprendere. Processi di apprendimento e contesti di formazione, Liguori, Napoli. Wenger, E. (2000), Comunità di pratica e sistemi sociali di apprendimento, in “Studi Organizzativi”, 1, pp. 1134. Wenger, E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano (ed. or. 1998). Zucchermaglio C., Alby F. (2006), Psicologia culturale delle organizzazioni, Carocci, Roma. L’AUTORE Giuditta Alessandrini è professore ordinario (Raggruppamento MPED 01) titolare dell'insegnamento di Pedagogia Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Roma TRE, ove insegna anche Pedagogia del Lavoro e Pedagogia delle risorse umane nel corso di Laurea Magistrale. È direttore del Master Universitario di I livello a distanza GESCOM “Gestione e sviluppo della conoscenza nell’area delle risorse umane ” (www.master-gescom.it). E’ delegato per l’Orientamento in uscita ed il placement nell’ambito del GLOA (Gruppo di lavoro per l’orientamento in Ateneo, e delegato per i Rapporti con Almalaurea). Svolge attività di servizio, consulenza e docenza per numerose facoltà, società ed Enti. 9