Il mio ’68 di Margherita Hack Il ’68 è stato molto importante per la ricerca astronomica italiana perché è stata la molla che ha fatto fiorire la moderna ricerca astrofisica ed è anche stato la dimostrazione di quanto sia importante la libertà di ricerca nello stimolare l’iniziativa dei ricercatori. Per rendersene conto è necessario fare una breve storia dell’Astronomia italiana dal 1800 a oggi. L’Astronomia italiana nel secolo XIX ha dato importanti contributi a livello internazionale. Basta ricordare che il primo gennaio del 1801 un astronomo italiano, Giuseppe Piazzi, scoprì il primo di un’affollatissima famiglia di oggetti celesti – il pianetino Cerere – situato proprio fra Marte e Giove, a quella distanza dove, secondo la legge empirica di Titius-Bode, ci sarebbe dovuto essere un pianeta. Nella seconda metà dell’800, Giovanni Battista Donati utilizzò la nuova tecnologia spettroscopica per lo studio di una quindicina di stelle e dopo di lui Angelo Secchi iniziò lo studio sistematico degli spettri stellari. Fece la prima classificazione di spettri stellari, intuendo che era la temperatura la principale causa delle loro diverse caratteristiche, e si dedicò allo studio spettroscopico del Sole insieme ai suoi allievi L. Respighi e P. Tacchini. Inoltre pochi sanno che il più antico giornale internazionale di Astrofisica al mondo è stato Le Memorie della Società degli Spettroscopisti Italiani fondato nel 1872. Infine, vanno ricordate le numerose osservazioni di Marte da parte di Giovanni Schiaparelli durante le due opposizioni del 1877-79 e del 1881. Nella prima metà del ’900, quando si assiste alla nascita della Fisica moderna con la Fisica quantistica e la Relatività, e lo studio fisico dei corpi celesti tramite la spettroscopia diventa il principale campo di ricerca astronomica, in Italia si ha quasi un regresso rispetto al secolo precedente. I dodici osservatori astronomici – Torino, Milano, Padova,Trieste, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Teramo, Catania, Palermo e Carloforte – erano tutti diretti da matematici o cultori di Meccanica celeste, con l’unica eccezione di quello di Firenze diretto a partire dal 1921 da un fisico (Giorgio Abetti). In questi osservatori, che dipendevano direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione e rimanevano indipendenti dalle Università (con l’eccezione di Bologna e Catania), si svolgevano esclusivamente ricerche di Astronomia classica, che ignoravano completamente le ricerche astrofisiche. Solo a Firenze Giorgio Abetti diede grande impulso alle ricerche di Fisica solare e fece costruire la torre solare. La separazione dall’Università e il concentrarsi su ricerche ormai obsolete non era certo il modo migliore per attrarre i giovani. Inoltre gli osservatori erano Istituti monocattedra in cui il direttore aveva praticamente poteri assoluti, non era tenuto a discutere i programmi di ricerca con i suoi collaboratori né a tenerli informati sulle disponibilità finanziarie. Fu solo agli inizi degli anni ’40 che l’Università di Padova, memore delle ricerche che Galileo aveva iniziato proprio a Padova, fece costruire quello che per allora era un grande telescopio, un riflettore da 122 cm, piazzato nella succursale di Asiago. Era uno strumento ideale per ricerche di Fisica stellare ma che cominciò a essere sfruttato a pieno solo all’inizio degli anni ’50 quando un fisico di Arcetri, Guglielmo Righini, iniziò una collaborazione con Asiago e poi alla fine degli anni ’50 quando un altro fisico, Leonida Rosino, assunse la direzione dell’osservatorio. Subito dopo la guerra, gli unici luoghi in Italia in cui si facevano ricerche di Astrofisica erano l’Osservatorio astrofisico di Arcetri a Firenze, quello di Asiago e quello di Merate, succursale dell’Osservatorio di Brera, dove c’era un riflettore di un metro di diametro e dove aveva operato per breve tempo il fisico Livio Gratton, poi emigrato in Argentina. Dopo la sua partenza, anche i suoi allievi – borsisti precari – scomparvero e il telescopio restò inutilizzato, fino al 1955 quando mi trasferii a Merate, proprio per la possibilità di disporre di uno strumento più adatto alle mie ricerche di Fisica stellare di quelli di cui disponevo ad Arcetri. Qualcosa nel panorama di Astrofisica italiano cominciò a cambiare durante gli anni ’60, quando a Padova Rosino dette inizio a una proficua collaborazione con Nicolò Dalla Porta che, dal suo campo, la Fisica delle particelle, tornò a quelli che erano stati gli interessi giovanili, l’Astrofisica. A Firenze Guglielmo Righini continuava l’opera iniziata da Abetti, io assumevo la direzione dell’Osservatorio di Trieste, Mario Gerolamo Fracastoro quella di Catania e poi quella di Pino Torinese e altri due allievi di Abetti, Mario Rigutti e Giovanni Godoli, diventavano direttori degli osservatori di Napoli e Catania. Noi fisici eravamo ormai la maggioranza ma gli osservatori, sia per la loro storia passata che per la separazione dall’Università, non attraevano i giovani e quindi scarseggiavano di nuove leve. Quelli che erano già nei ruoli degli osservatori erano ormai abituati a vivere isolati in quelle chiuse parrocchie che erano gli osservatori diretti dai classici “baroni”, spesso frustrati e senza interazioni con Istituti dove si faceva ricerca moderna. Le agitazioni e le manifestazioni sessantottine contagiarono anche gli astronomi. I ricercatori spontaneamente, e in parte per suggerimento di Mario Rigutti, decisero di fondare un’associazione – l’ANRA (Associazione Nazionale Ricercatori Astronomia) – a cui noi più giovani cattedratici aderimmo subito. Cominciarono così numerose riunioni in cui si discuteva della necessità di dare agli osservatori una struttura più democratica e mezzi ai giovani per incontrarsi e discutere di programmi moderni di ricerca e ottenere borse di studio all’estero. Dopo alcune riunioni, a cui invitammo anche alcuni membri del Comitato Scienze Fisiche del CNR, questo decise di istituzionalizzare la nostra associazione trasformandola in Gruppo Nazionale Astronomia (GNA). Sebbene il GNA abbia avuto sempre pochi fondi, è stato di importanza essenziale per la rinascita dell’Astrofisica in Italia. Prima di tutto, ci demmo una struttura democratica con settori di ricerca – Fisica stellare, Fisica extragalattica e Cosmologia, Fisica del sistema solare, Tecnologie astronomiche – a cui i ricercatori aderivano a seconda dei loro interessi, eleggendo per ciascun settore un consiglio formato da cinque esperti. Questi esaminavano i programmi di ricerca presentati e decidevano le assegnazioni di fondi in base alla qualità e alle disponibilità. Ogni Istituto eleggeva un responsabile dell’unità di ricerca che vigilava perché i fondi assegnati all’Istituto, ma etichettati per quella particolare ricerca, non fossero utilizzati in altro modo dal direttore dell’Osservatorio (cosa qualche volta tentata da qualche incallito barone). Il consiglio scientifico del GNA formato da tutti i responsabili delle unità di ricerca, dai responsabili dei consigli di settore e da un rappresentante dei ricercatori e di uno dei tecnici eletti dalla base stabiliva la divisione dei fondi per settore, in base ai programmi accettati, e i settori esaminavano anche i risultati delle ricerche da essi finanziate. La struttura permise ai giovani di potere organizzare incontri fra coloro che avevano interessi simili, di discutere dei programmi e della loro attuabilità, di creare gruppi spontanei di ricercatori appartenenti a diversi istituti, di organizzare convegni in cui esaminare criticamente i risultati. Tutto questo può sembrare l’ovvia procedura di ogni comunità scientifica ma per la maggioranza degli astronomi italiani, fino ad allora isolati nei loro osservatori, con pochi o nessun contatto con l’esterno, portò al fiorire di idee, di discussioni animate e dette anche a molti la possibilità con modeste borse di studio di trascorrere alcuni mesi presso Istituti europei e americani in cui si faceva ricerca avanzata. In quegli anni stava anche nascendo la ricerca astronomica dallo spazio. Alla fine del’68 fu lanciato con successo il primo satellite della NASA per lo studio delle stelle nell’ultravioletto, OAO 2, e nel 1972 il TD1 dell’ESA. Nel ’72 la NASA lancia il primo satellite per lo studio di spettri ultravioletti ad alta risoluzione, OAO 3 - Copernicus, e nel ’78 NASA e ESA mettono in orbita IUE. Non solo il GNA permise di preparare la comunità italiana al miglior utilizzo di questi satelliti ma, poiché il tempo di osservazione disponibile era molto inferiore a quello richiesto, ricercatori aventi programmi simili erano invitati a collaborare. Questo fece sì che i nostri giovani ricercatori si trovassero a far parte di gruppi internazionali, spesso insieme ai maggiori esperti del campo, e ciò ha contribuito moltissimo a far crescere le loro competenze, la loro iniziativa e il loro entusiasmo. Furono molti i programmi di ricercatori italiani accettati dal comitato scientifico di IUE (un acronimo che significa International Ultraviolet Explorer), addirittura il 30% del totale, tanto che i colleghi stranieri lo avevano ribattezzato Italian Ultraviolet Explorer. Da notare che anche le pubblicazioni di ricercatori italiani accettate su riviste internazionali, relative a osservazioni fatte con IUE, rappresentavano il 30 % del totale. Altri satelliti per le alte energie o per l’infrarosso non ebbero altrettanta entusiastica accoglienza da parte degli astronomi, probabilmente perché lo studio dell’ultravioletto era l’immediata prosecuzione dello studio del visibile, di loro tradizionale competenza, mentre alte energie e infrarosso sono rimasti ancora per qualche tempo di stretta competenza dei fisici. Ma la rivoluzione del ’68 toccò finalmente anche la struttura autocratica degli osservatori astronomici e le resistenze dei direttori. I funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione che si occupavano degli osservatori astronomici attribuivano i fondi per il funzionamento e la ricerca, come pure i posti di ricercatori e di tecnici, in base alla tradizione. Osservatori che una volta erano stati grandi e attivi, ed erano poi decaduti, prendevano le fette più grosse della torta mentre ad altri in pieno sviluppo toccavano le briciole. Importante poi era il peso politico dei direttori, la loro capacità di pressione sui funzionari, proporzionale al numero di “passeggiatine” al Ministero. Evidentemente non si poteva andare avanti così e noi sessantottini, insieme ai più aperti dei colleghi più anziani (come Righini, Rosino, Dalla Porta e Fracastoro) riuscimmo a fondare un consiglio informale di professori di Astronomia (CAPA= Consiglio Allargato Professori Astronomia) esteso a un rappresentante dei ricercatori, che si offerse quale organo di consulenza ai funzionari del MPI, i quali furono ben contenti di accettare le nostre decisioni liberandoli dalle pressioni a cui venivano continuamente sottoposti dai direttori degli osservatori. Nel CAPA discutevamo animatamente per stabilire i criteri di assegnazione dei fondi e del personale in base all’attività scientifica e alle necessità di sviluppo, documentate dalle pubblicazioni e dalle varie iniziative scientifiche. Fu così che osservatori piccoli e da decenni “ in sonno” quali quelli di Catania, Trieste, Napoli e Torino poterono crescere, svilupparsi e attrarre neo-laureati in Fisica, anche dall’estero. È grazie all’attività del CAPA che nacque il CRA (Consiglio Ricerche Astronomiche), organo ufficialmente riconosciuto dal Ministero, che permise una profonda modifica delle strutture degli osservatori dotandoli di un Consiglio direttivo (con rappresentanza di ricercatori e personale tecnico e amministrativo) che affiancava il direttore. Inoltre stabiliva l’assegnazione di personale amministrativo, di segreteria, di bibliotecari mentre, fino ad allora, gli osservatori avevano solo astronomi e tecnici e per l’amministrazione dovevano chiedere al buon cuore della locale Università di distaccare un amministrativo. Inoltre gli osservatori poterono godere in questo periodo di una grande autonomia. Tutte queste circostanze hanno dato un grandissimo impulso allo sviluppo di un’eccellente ricerca. Oggi è grazie al ’68, e all’impulso che questo movimento ha dato alla nascita del GNA, del CAPA e poi del CRA, che la ricerca astronomica italiana è di ottimo livello e molti ricercatori italiani occupano posizioni importanti nei vari consigli dell’ESA, dell’ESO e altri organismi internazionali. L’epoca del CRA è stata l’età d’oro per lo sviluppo della ricerca astronomica. Ma il CRA non aveva personalità giuridica e pertanto non poteva gestire in proprio le grandi imprese e, in particolare, le collaborazioni internazionali. Per esempio, la realizzazione del telescopio nazionale Galileo TNG situato alle Canarie è stata gestita dall’osservatorio di Padova e il grande telescopio binoculare LBT in Arizona è stato gestito dall’osservatorio di Arcetri. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto la creazione di un Istituto Nazionale di Astrofisica INAF che, sul modello dell’INFN che ha così bene operato, si sperava potesse rappresentare un ulteriore salto di qualità per l’organizzazione della ricerca astrofisica. Purtroppo, almeno per ora, l’INAF è stato una grossa delusione, un carrozzone burocratico che ha tolto autonomia agli osservatori, rallentandone l’attività, e che spende per l’amministrazione e la gestione quantità ingenti di denaro che avrebbero potuto essere destinate alla ricerca.