Lezione 23 - 6 dicembre 2005 - Università degli Studi di Parma

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Matematiche complementari I – Capitolo 7. Il concetto di numero
AA. 2005-2006
Lezione 23 - 6 dicembre 2005
7.3. I postulati di Peano. (Continuazione)
7.3.1. Le versioni originali dei postulati di Peano. (Continuazione) Per tornare ai giorni nostri, si
riportano qui gli assiomi nella versione strutturale, anche se non del tutto aderente a quella originale
di tali assiomi 1.
Definizione. (Postulati di Peano) I numeri naturali sono elementi del sostegno della struttura
,0,s , ove 0∈ , s:
→
sono tali che siano soddisfatte le seguenti proprietà:
•
∀n∈ (0
•
∀n,m∈
•
(schema o Principio di induzione) Per ogni proprietà ϕ,
s(n))
(s(n) = s(m) → n = m)
(ϕ(0) ∧ ∀n∈
(1)
(ϕ(n) → ϕ(s(n)))) → ∀n∈
(ϕ(n)).
Prima di procedere qualche commento su queste richieste. La prima richiesta solitamente viene
presentata assieme alla nozione di struttura algebrica: il sostegno della struttura è un insieme non
vuoto. Qui ciò è ribadito dalla presenza di un elemento privilegiato: 0 che è elemento del sostegno.
Il fatto che s sia una funzione da
a
, o legge di composizione interna, comporta che s applicata
ad un numero naturale fornisce sempre un numero naturale.
La prima richiesta messa in evidenza afferma che s non è suriettiva, dato che esiste 0∉s[ ], quindi
s[ ] ⊂
.
La seconda richiesta permette di affermare che s è iniettiva. Ma ciò comporta che s vista come
funzione da
a s[ ] è una biezione, quindi
è un insieme infinito (secondo la definizione di
insieme infinito data da Dedekind).
7.3.2. Il Principio di induzione. Tale Principio serve allora a identificare, tra tutti gli insiemi infiniti,
l'insieme dei numeri naturali (almeno questa era l'intenzione di Peano). Qui però c'è da chiarire il
concetto di proprietà, dato che è lasciato nel vago. Come si vede nella prima formulazione di Peano
non si parla tanto di proprietà ma di classi (o insiemi). Quindi il principio diventa
1
Con la definizione indicata non compaiono i 5 postulati di Peano, nella forma più diffusa oggi sulla letteratura, e
presentati anche da Mac Lane. Qui se ne presentano solo tre; i due che mancano, 0∈ e ∀n∈ (s(n)∈ ) sono
compresi nella affermazione che la struttura che stiamo considerando è una struttura algebrica con un elemento
privilegiato ed una operazione unaria, messa in evidenza prima di elencare le altre proprietà.
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∀K ((0∈K ∧ ∀n∈
(2)
Un insieme K tale che 0∈K ∧ ∀n∈
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(n∈K → s(n)∈K)) →
⊆ K) 2.
(n∈K → s(n)∈K) oggi viene detto un insieme induttivo;
Dedekind lo definisce come una "catena".
sia il "minimo" insieme induttivo o la minima catena,
La (2) si può leggere come la richiesta che,
quindi
è identificabile come l'intersezione di tutte le catene. In modo equivalente, si può
richiedere che il più piccolo sottinsieme induttivo di
∀S ⊆
(2’)
((0∈S ∧ ∀n∈
sia lo stesso insieme
(n∈S → s(n)∈S)) → S =
:
).
Si hanno quindi due diverse formulazioni, una "dall'alto" e l'altra "dal basso". L'equivalenza tra la
(2) e la (2’) è di facile dimostrazione: se vale la (2), allora a maggior ragione vale la (2’) che si
ottiene come caso particolare. Infatti dall'ipotesi S ⊆
=
e dalla conclusione della (2),
⊆ S si ha S
. Viceversa se vale la (2’) allora preso arbitrariamente un insieme induttivo K, si considera S =
(K∩ ). Si ha ovviamente che S ⊆
induttivo e per la (2’), S =
, cioè
e 0∈ , ed inoltre ∀n∈ (n∈S → s(n)∈S), quindi S è
= (K∩ ), ma ciò equivale a
⊆ K, cioè la (2).
Un esempio d'immediata applicazione della (2’) si ottiene considerando S = ({0}∪s[ ]), per tale
insieme si può provare banalmente (0∈S ∧ ∀n∈
(n∈S → s(n)∈S)), quindi S =
. Ciò comporta
che ogni numero naturale è 0 oppure un successivo. Anzi, grazie al primo postulato di Peano, si può
affermare che s[ ] =
* = {n∈
|n
0}.
Questo modo di considerare la proprietà è puramente estensionale: invece che la proprietà si prende
in considerazione l'estensione di essa. Accanto a questa interpretazione del concetto di proprietà
Frege ed altri propongono un'interpretazione intensionale della proprietà, cioè l'identificazione
della proprietà con una formula di un opportuno linguaggio, qui il linguaggio della Aritmetica. In
tal caso ϕ è una formula arbitraria ed il principio viene letto in questo modo.
Non è da credere che la scelta della formulazione dell'induzione nella forma (1), (2) o (2’) sia
irrilevante, soprattutto se si identificano le proprietà con le formule. Sicuramente se si adotta (2) si
ha anche (1), dato che attraverso l'estensione della formula si ha un insieme. D'altra parte poiché
una formula è un ente finito scritto utilizzando un alfabeto, vi è solo un'infinità numerabile di
formule, mentre l'insieme ( ) è un insieme infinito con cardinalità più che numerabile.
2
In questa forma si parla di induzione insiemistica o induzione al secondo ordine perché il quantificatore universale non
è applicato agli elementi di , ma ad insiemi. Pertanto se si assume l'assioma così, non si sta parlando solo di numeri
naturali, ma intervengono anche gli insiemi e quindi le proprietà dei numeri naturali non sono formulate solo all'interno
dell'ambito aritmetico, ma richiedono una teoria degli insiemi in cui "immergerle".
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Si possono pertanto provare teoremi sui numeri naturali utilizzando la Teoria degli insiemi, ma che
non possono essere provati all'interno dell'Aritmetica, cioè coi postulati di Peano in cui si usi l'induzione nella forma intensionale, cioè la (1) in cui le proprietà sono intese come formule.
Ad esempio una proprietà che si può provare mediante la (2) e non con la (1) in cui si utilizzino le
formule è l'unicità di
a meno di isomorfismi. Per contro usando la (1) con le formule,
l'operazione di passaggio al successivo non "esaurisce" tutto
, come mostra la presenza dei
modelli non standard dell'Aritmetica.
Un'osservazione dal punto di vista didattico. È interessante riflettere sulla forma del Principio di
induzione. In esso si distinguono tre parti: la base induttiva, vale a dire ϕ(0) che, solitamente,
consiste in una semplice verifica; si ha poi il passo induttivo, cioè ∀n∈
conclusione ∀n∈
(ϕ(n) → ϕ(s(n))) e la
(ϕ(n)).
Una delle difficoltà didattiche maggiori è quella di distinguere tra il passo e la conclusione. Il passo
ha la forma di un'implicazione; l'antecedente, ϕ(n), viene detto ipotesi induttiva ed il conseguente,
ϕ(s(n)), detto tesi induttiva. La dimostrazione del passo induttivo, un vero teorema nel teorema, è il
punto delicato e solitamente utilizza risultati matematici legati alla natura della proprietà da provare.
Se questi aspetti non vengono ben precisati, ad esempio scrivendo per esteso l'esempio dello
schema di induzione in cui si particolarizza la proprietà ϕ, lo studente difficilmente può cogliere che
tutto l'impianto dimostrativo è teso a provare ϕ(0), di solito una banalità, e che poi assunto ϕ(n) si
prova ϕ(s(n)), e tutto ciò per concludere ancora ϕ(n), la stessa affermazione assunta prima come
ipotesi! È quindi importante mettere in luce il ruolo dei quantificatori ed il raggio di azione del
quantificatore, evidenziato dall'uso corretto delle parentesi. C'è poi anche da chiarire perché basta
provare la base ed il passo induttivo per avere la tesi induttiva, introducendo in questo modo la
problematica del Teorema di deduzione.
Si noti che spesso erroneamente si formula l'ipotesi induttiva dicendo: «si suppone vera ϕ(n)». Per
famosi risultati di Gödel del 1931, i concetti di verità e dimostrabilità sono diversi. Sicché è
corretto dire: «si assume ϕ(n)», senza menzionare la verità di ϕ(n).
La giustificazione intuitiva del Principio di induzione è basata proprio su un ragionamento induttivo, nel senso delle scienze sperimentali: se una proprietà vale per 0, poi vale per il successivo di
ogni numero per cui già vale, pertanto vale per 1, in quanto successivo di 0 e poi per 2, in quanto
vale per 1, e così via, fidando in una sorta di regolarità della natura. Di solito la locuzione e così via,
e i tre puntini …, sottintendono proprio un ragionamento induttivo che in Matematica si può
trasformare in dimostrazione per induzione.
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7.3.3. Principio di induzione e Principio di minimo. Invece dell'assioma di induzione nella forma
(2’) è possibile, seguendo un lavoro del 1908 di Mario Pieri (1860 - 1913), professore all'Università
di Parma, usare il cosiddetto Principio di minimo, vale a dire l'asserzione che
rispetto all'ordine
naturale è un insieme bene ordinato.
Come conseguenza immediata si ha che esiste il minimo di
e questo lo identifica con 0∈
riducendo di fatto il numero dei termini primitivi e dei postulati indispensabili,
Bisogna però prima definire la relazione d'ordine e questo può essere fatto in vari modi, ponendo
per ogni n∈ , n < s(n) e poi considerare la più piccola relazione transitiva che estende questa
relazione data solo per certe coppie 3. Dal punto di vista intuitivo il Principio di minimo, cioè
l'affermazione che un sottinsieme non vuoto di
eA
ha un minimo, è assai più intuitiva. Infatti se A ⊆
∅, allora esiste a∈A. Considerato ora l'insieme finito B = ({0,1,2,…,a}∩A) di esso si può
trovare il minimo mediante un confronto (con un numero finito di casi) tra i suoi elementi. Il
minimo di B è però anche il minimo di A. Si può quindi assumere il Principio di minimo al posto
dello schema di induzione, perché più intuitivo, caratteristica questa che dai tempi di Euclide viene
vista come un pregio per un assioma. Tuttavia il Principio di minimo si avvale dei sottinsiemi di
e non delle proprietà né delle formule.
Teorema di equivalenza. Il Principio di minimo equivale al Principio di induzione.
Dimostrazione. Si prova che il Principio di minimo implica il Principio di induzione.
Si assume il Principio di minimo e di qui si può provare il Principio d'induzione nella forma (2’),
purché si sia provato il fatto che per ogni z∈
tale che z
0, esiste w∈ , il predecessore, tale che z
= s(w). I vedrà in seguito che questa affermazione è dimostrabile.
Sia infatti X ⊆
quindi Y = (
y
tale che 0∈X e ∀n∈ (n∈X → s(n)∈X). Si supponga, per assurdo, che X
- X)
,
∅. Per il Principio di minimo esiste y∈Y che ne è il minimo. Ovviamente si ha
0, dato che 0∈X, quindi 0∉Y. Ma se u è il predecessore di y, si ha u < s(u) = y, pertanto u∉Y. Ma
ciò comporta u∈X, quindi per le richieste su X, anche s(u)∈X, vale a dire y∈X. Ciò è in contrasto
con la determinazione di y come elemento di Y e quindi non appartenente a X.
Viceversa dal Principio o assioma di induzione si ha il Principio di minimo.
Si premette un semplice risultato: sia B ⊆
un insieme non vuoto; si pone C = {x∈
| ∃b∈B(b ≤
x)}. Banalmente B ⊆ C per la proprietà riflessiva della relazione ≤; inoltre z = min(C) se e solo se z
= min(B). Infatti da z = min(C) si ha z∈C, quindi esiste b∈B tale che b ≤ z. Non può essere b < z,
altrimenti b, che è elemento di C sarebbe minore del minimo di C, quindi z∈B. Per ogni elemento
3
Un diverso approccio, ottenuto mediante l'addizione, viene presentato nel successivo paragrafo 3.
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b’∈B si ha z ≤ b’, dato che B ⊆ C e z = min(C). Quindi z è un minorante di B ed appartiene a B, da
cui z = min(B). Viceversa sia u = min(B). Si ha u∈B, quindi u∈C, ma se esistesse w∈C tale che w <
u, allora, per definizione di C esisterebbe x∈B tale che x ≤ w. Di qui per la proprietà "transitiva"
mista di ≤ e < si avrebbe x < u, contro l'ipotesi che u = min(B).
Ora per provare che dall'induzione segue il Principio di minimo si suppone per assurdo che esista
un insieme non vuoto B ⊆
Si pone D = (
che non ha minimo e sia C come detto prima; anche C non ha minimo.
- C). Tale insieme è non vuoto, dato che 0∈D, in quanto, altrimenti apparterrebbe a
C, quindi sarebbe sicuramente il minimo di C. Inoltre se n∈D, cioè n∉C, non esiste m∈C tale che m
≤ n, altrimenti esisterebbe v∈B tale che v ≤ m. Per la proprietà transitiva di ≤, di qui si
concluderebbe v ≤ n, cioè n∈C, mentre n∉C. Si vuole provare che s(n)∈D. Se s(n)∈C e nessun numero naturale minore di s(n) potrebbe essere elemento di C, per quanto osservato sopra. In tal modo
s(n) sarebbe il minimo di C e C è supposto essere privo di minimo, pertanto s(n)∈D. Si ha dunque
che D ⊆
(2’), D =
, 0∈D e per ogni n∈ , se n∈D, allora s(n)∈D. Per il Principio di induzione nella forma
e ciò comporta C = ∅ da cui, a maggior ragione, B = ∅, contro l'ipotesi.
Da queste considerazioni si vede il limite del Principio di minimo. Molto spesso il Principio di
induzione viene assegnato con le proprietà. Passare attraverso il Principio di minimo richiede gli
aspetti estensionali e di utilizzare l'estensione delle proprietà ed una dimostrazione per assurdo,
quest'ultima sicuramente meno accettata dagli studenti.
7.3.4. Applicazioni del principio di induzione – Definizione delle operazioni. Apparentemente il
Principio di induzione è una proprietà dei numeri naturali che può essere applicata solo ai numeri
naturali. Ben presto ci si accorge che ogni volta che in un ambito matematico più vasto si fa uso dei
numeri naturali, c'è la possibilità di avvalersi del Principio di induzione. In questo caso le proprietà
vengono espresse anche con strumenti non riconducibili all'ambito aritmetico.
Ad esempio si può provare per induzione che per ogni insieme finito a, # (a) = 2#a. Questa è una
proprietà insiemistica che viene "ricondotta" ai numeri naturali dalla precisazione che a è un
insieme finito. Si dimostra, senza usare l'induzione, che
(a) e {0,1}a sono insiemi in
corrispondenza biunivoca, senza assumere l'ipotesi che a sia finito.
Un altro esempio, stavolta geometrico: in un poligono convesso con n lati, il numero delle diagonali
è
n ⋅ (n − 3)
. Anche qui la "finitezza" dell'insieme dei vertici del poligono porta la possibilità di
2
ricondurre la proprietà ai numeri naturali ed all'induzione.
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Nei due casi però il passo induttivo viene dimostrato utilizzando proprietà specifiche (insiemistiche
e geometriche, rispettivamente).
Torniamo alla Definizione che fornisce i numeri naturali mediante i postulati di Peano. Questa è una
tipica definizione mediante assiomi, del tutto analoga ad altre definizioni di struttura. Ci sono alcuni
termini primitivi: numero, zero, successivo. Gli assiomi presentano quantificazioni universali
seguite da formule in cui compaiono i connettivi di negazione, congiunzione e implicazione, nonché
il predicato di eguaglianza, che in un certo senso va preso anch'esso come primitivo.
Partendo dai postulati di Peano si possono definire le consuete operazioni aritmetiche mediante la
ricursione: per ogni k,n∈
(3)
k +0 = k
k + s ( n) = s ( k + n )
k ⋅0 = 0
k ⋅ s ( n) = k ⋅ n + k
k 0 = s(0)
k s ( n) = k ⋅ k n
Le proprietà formali relative a queste operazioni hanno ciascuna una loro dimostrazione ottenuta
utilizzando solo i postulati di Peano (e la Logica) 4. Questo argomento veniva una volta trattato
nell'Istituto Magistrale, sotto il nome di Aritmetica razionale. Oggi con tale nome ci si riferisce, di
solito, ad una presentazione del linguaggio degli insiemi e delle prime proprietà dei numeri
cardinali, come fatto in questi appunti nel Capitolo 6.
Queste "nuove" definizioni pongono il problema, assai sentito in ambiente informatico, se le
operazioni aritmetiche definite in modo "più semplice" alla scuola elementare e queste coincidano
oppure no. Si deve cioè avere un criterio per confrontare due o più algoritmi. Sicuramente il fatto
che le operazioni (o gli algoritmi) operino nello stesso modo su tanti esempi quanti si voglia, non è
sufficiente per concludere la loro coincidenza. A questo proposito è noto il cosiddetto paradosso di
Kripgenstein, nome che si ottiene "fondendo" il nome di
Wittgenstein, con quello di Kripke.
Ciascuna delle definizioni ricorsive delle operazioni è del
tipo seguente: si consideri, per il momento, fissato k. Si
Ludwig Wittgenstein
(1889-1951)
definisce una funzione fk:
Saul Kripke
(n. 1940)
→
dicendo come opera su 0
e per ogni n∈ , definendo il valore di fk(s(n)) mediante
fk(n) e un'altra operazione.
4
Anche la definizione dell'ordine discende dai postulati di Peano, si veda il paragrafo seguente. La proprietà di linearità
dell'ordine discende poi dal Principio di minimo, che, come visto è equivalente al Principio di Induzione nella forma (2)
o (2’).
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