anno accademico 2008/2009 dipartimento di diritto europeo

ANNO ACCADEMICO 2008/2009
DIPARTIMENTO DI DIRITTO EUROPEO - STUDI GIURIDICI
NELLA DIMENSIONE NAZIONALE, EUROPEA, INTERNAZIONALE
La fondatezza della pretesa e il processo amministrativo
TESI DI DOTTORATO IN DIRITTO AMMINISTRATIVO
(XX CICLO)
DOTTORANDO:
TUTOR:
DOTT. Anna Sciré
CHIAR.MO PROF. Guido Corso
La fondatezza della pretesa e il processo amministrativo.
Premessa.
Cap. I Il processo amministrativo e le pretese del ricorrente.
1. Caratteri storici dell’attuale sistema di giustizia amministrativa.
2. Interessi oppositivi e interessi pretensivi: i limiti del giudizio impugnatorio.
3. I principi costituzionali in materia di giustizia amministrativa: l’art. 24 Cost. e la logica della
spettanza.
4. Le posizioni della dottrina.
4.1. La teoria dell’oggetto di giudizio nell’elaborazione di Nigro.
4.2. L’accertamento “autonomo” del rapporto nell’elaborazione di Greco.
4.3. Il giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto: la ricostruzione di Piras.
5.
Oggetto del giudizio e satisfattività del processo.
Cap. II Il giudice amministrativo e il sindacato sulla fondatezza della pretesa: il thema
decidendum.
1.
Presupposti sistematici della questione.
1.2. Ai primordi del processo amministrativo: giurisdizione di diritto soggettivo e fondatezza
della pretesa.
2.
La delimitazione del thema decidendum.
2.1 La proponibilità di eccezioni in senso proprio nel processo amministrativo.
2.1.1La domanda riconvenzionale.
2.2 L’integrazione della motivazione in corso di causa e la soddisfazione dell’interesse
sostanziale del ricorrente.
3.
La corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
3.1 La prassi dell’assorbimento dei motivi.
3.2 La graduazione dei motivi di ricorso.
Cap. III Il sindacato sulla spettanza e le peculiarità della fase istruttoria.
2
1.
Gli strumenti probatori tipici del processo amministrativo consentono al g.a. di sindacare la
fondatezza della pretesa?
1.1. L’istruzione probatoria nelle ipotesi di giurisdizione di merito.
1.2. Gli strumenti di prova nella giurisdizione esclusiva.
1.2.1. I mezzi di prova nella materia di pubblico impiego non privatizzato.
1.2.2. La preclusione delle prove legali.
1.3. I limiti dell’istruzione probatoria nel giudizio di legittimità: la prova testimoniale.
1.4. L’accesso al fatto e la consulenza tecnica d’ufficio: rapporti con il sindacato sulla spettanza.
2. Giudizio sulla spettanza e onere della prova.
3. Sindacato sulla pretesa sostanziale e tutela dei terzi: l’intervento “jussu judicis”.
Cap. IV La fase decisoria ed il soddisfacimento dell’interesse sostanziale.
1. Aspetti generali della questione: le azioni proponibili innanzi al giudice amministrativo e le
pronunce adottabili.
2. Le azioni di accertamento.
2.1. L’accertamento del diritto controverso nelle materie di giurisdizione esclusiva.
2.2. Azione di accertamento e interesse legittimo.
2.3. La decisione sul silenzio.
a) L’ambito di applicazione del rito avverso il silenzio: in particolare la tutela dei diritti
soggettivi.
b) Natura della pronuncia: verso l’azione di adempiemnto?
c) Segue. I limiti della statuizione sul silenzio.
d) Pronuncia sul silenzio e istruttoria processuale: una possibile lettura evolutiva.
e) Natura e ruolo del commissario ad acta: in particolare il regime di impugnativa degli atti.
2.4. L’ “ordine” di esibizione nel diritto di accesso.
2.5. L’accertamento “in negativo” della fondatezza della pretesa nel regime dei vizi formali.
3. Le azioni costitutive.
3.1 L’azione di annullamento.
3.2. L’annullamento dell’atto negativo esplicito e la tutela dell’interesse pretensivo.
3.3. La caducazione degli atti consequenziali.
3
4. Le sentenze di condanna.
4.2 La condanna al risarcimento degli interessi pretensivi.
4.3. Risarcimento in forma specifica versus reintegra in forma specifica.
5. I tentativi di evoluzione del sistema in via pretoria: in particolare la declaratoria di cessazione
della materia del contendere a seguito di annullamento dell’atto per vizi formali.
Cap. V L’esecuzione del giudicato.
1. Introduzione al tema. i “limiti oggettivi” del giudicato amministrativo nella dotrina e nella
giurisprudenza tradizionali.
2. Le principali critiche alla concezione tradizionale del giudicato amministrativo. Il contributo
di Nigro.
2.1 Segue: il giudicato amministrativo nell’ottica del giudizio sul rpporto.
3. Il legame tra procedimento e processo e l’onere per l’amministrazione di acclarare tutti i fatti
che giustificano l’esercizio del potere.
4.
La posizione della giurisprudenza.
4.1 La tesi del giudicato a formazione progressiva.
4.2 La soluzione elaborata dalla giurisprudenza tedesca dell’unica possibilità di scelta e le sue
applicazioni in campo nazionale.
5.
Pretesa del ricorrente, esecuzione del giudicato e potere pubblico.
Conclusione sistematica: Realizzazione della logica della spettanza e processualcivilizzazione
del giudizio amministrativo.
4
Premessa.
Nel 1976 Mario Nigro, prendendo in esame i principi costituzionali in materia di
giustizia amministrativa, lamentava che la loro forza espansiva non era stata
sufficientemente esplorata dalla dottrina e dalla giurisprudenza e anzi vissuta “con qualche
temperamento” dalla stessa Corte costituzionale1.
Ancora oggi l’interprete si muove in un quadro d’insieme incerto.
Da una parte l’affermazione della piena “giustiziabilità” delle situazioni soggettive
ad opera del legislatore costituzionale, dall’altra le scarne norme di diritto positivo che
disciplinano il sistema di giustizia avverso gli atti e i comportamenti dell’amministrazione.
Tra questi due poli opposti si agita la “perenne oscillazione”2 della giurisprudenza
amministrativa tra aperture sostanzialiste e anacronistici ritorni al formalismo.
Al centro del quadro restano le parti del giudizio, ossia i destinatari ultimi nel cui
nome la giustizia è amministrata, ma prima ancora il cittadino che al giudice chiede una
“giustizia speciale” perché invocata non nei confronti di altro cittadino ma nei confronti
dello Stato stesso.
Da questa specialità del sistema di giustizia amministrativa rispetto a quella
ordinaria si suole fare discendere una serie di limitazioni del giudizio amministrativo che si
traducono, secondo un diffuso sentire, in altrettante restrizioni di tutela per il ricorrente.
Ma viene da chiedersi con l’insigne Autore “che cosa è artificiosa amputazione di
tutela e che cosa la conseguenza necessitata dallo stesso tipo di situazione giuridica
tutelata”.3
L’impressione che si ha è che oggi, malgrado la copiosa opera ricostruttiva della
dottrina e l’incessante lavorio della giurisprudenza, a quella domanda non si sia ancora
fornita una risposta certa.
La tradizionale riluttanza del giudice della cognizione a estendere il
proprio
sindacato sino alla fondatezza della pretesa sostanziale avanzata dal ricorrente ha finito per
svilire le potenzialità del giudizio amministrativo, frapponendo rilevanti ostacoli
sistematici ad ogni istanza volta a superare la sua tradizionale configurazione di mero
giudizio sull’atto.
1
M. Nigro, Giustizia amministrativa, 1976, p. 80.
L’espressione è di D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano 2002, pp. 2930.
3
L’espressione è di M. NIGRO, Giustizia amministrativa, op. cit., p. 82.
2
5
Alle “ingiustizie della giustizia amministrativa”4 la giurisprudenza amministrativa
ha tentato di ovviare per un verso anticipando la soddisfazione dell’interesse sostanziale
del ricorrente alla fase cautelare, per altro verso spostandola alla fase esecutiva. 5
Sotto il primo profilo si sono ampliate le maglie della tutela cautelare (fino a non
poco tempo fa ristrette alla mera sospensione del provvedimento impugnato) sino alla
adozione di provvedimenti di contenuto positivo.
Sotto il secondo aspetto la timidezza della cognizione, rispettosa fino all’eccesso
del potere e incapace di penetrare la sostanza del rapporto, ha implicato un ispessimento
del ruolo dell’ottemperanza alla quale è stata rinviata la statuizione in ordine alla spettanza
del bene anelato.
Questo modo di operare oltre che destare perplessità sotto il profilo sistematico, si
traduce in una deminutio di tutela per il cittadino il quale sarà costretto il più delle volte ad
affrontare una serie lunga ed estenuante di ricorsi per giungere ad ottenere una risposta
definitiva in ordine alla pretesa sostanziale fatta valere in giudizio.
Ma più ancora, denuncia un atteggiamento di pessimistica rassegnazione ai limiti
(forse più presunti che reali) del processo amministrativo.
La mancata definizione di una linea di confine certa oltre la quale il giudice
amministrativo non può spingersi ingenera inoltre un grave senso di incertezza presso gli
utenti del sistema giustizia: il cittadino che si veda negato illegittimamente un bene della
vita dalla pubblica amministrazione non è messo in condizione di conoscere al momento
della proposizione dello strumento di tutela giurisdizionale quale tipo di tutela quel
processo è in grado di assicurargli, in quali tempi e con quali modalità.
Ciò che occorre chiarire è in altre parole quali siano i “limiti di sistema” che
impediscano al giudice amministrativo di conoscere e decidere della questione sostanziale
prospettata e quali siano invece le superfetazioni della giurisprudenza.
Occorrerà innanzitutto verificare se il giudizio amministrativo nell’attuale
connotazione consenta al giudice, almeno sotto il profilo sistematico, di verificare la
fondatezza della pretesa sostanziale vantata dal ricorrente.
Si ritiene che la strada da seguire nel far ciò sia costituita dal raffronto con le norme
che regolano il processo civile sui diritti.
4
MERUSI –SANVITTI, L’“ingiustizia” amministrativa in Italia, Bologna, 1986. Vengono in mente altresì le
parole di M. S. GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, I, in Riv. Dir. proc., 1963, p. 523
e ss. per il quale il sistema di giustizia amministrativa italiano è in realtà un “parasistema”, un “edificio
sinistro e sinistrato”.
5
G. CORSO, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro it., 1989, V, c. 421.
6
Occorrerà verificare a monte se il sistema di giustizia amministrativa costituisca un
universo chiuso ed autosufficiente, ovvero se, come si ritiene, esso sia stato pensato sin
dall’inizio in funzione complementare rispetto a quello che regola il processo sui diritti.
Una volta ammessa la generale applicabilità delle norme e dei principi che regolano
il processo civile al giudizio amministrativo occorrerà verificare se vi siano e quali siano le
specificità del giudizio amministrativo rispetto a quello civile e quali i punti di contatto.
Ci si soffermerà su alcuni dei caratteri tipici che configurano il nostro sistema di
giustizia amministrativa, sin dai primordi, come
modello a giurisdizione di tipo
soggettivo, volto in via prioritaria alla tutela di interessi individuali, sia pure attraverso il
diaframma della legittimità violata, nonché degli strumenti di reazione processuale a tal
fine approntati.
Si tenterà uno studio trasversale del processo volto a verificare se il giudice
amministrativo possa ampliare l’oggetto della propria cognitio alla pretesa vantata dal
ricorrente, ovvero se – in un’ottica più tradizionale – debba limitarsi alla verifica della
fondatezza dei motivi di ricorso, se possieda gli strumenti istruttori necessari a sindacare la
spettanza della posizione giuridica azionata. Si tenterà di chiarire quali siano i limiti
decisori del g.a. nei confronti della p.a. e, in particolare, quali siano i confini tracciati dal
doveroso rispetto del principio della separazione dei poteri.
Infine si tenterà di chiarire quali siano i confini del giudicato amministrativo e della sua
esecuzione. Se, in particolare, il giudicato amministrativo sia idoneo a rappresentare un
accertamento idoneo a fare stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa in ordine al rapporto
controverso.
In altri termini occorrerà verificare se, nel rispetto della specificità della
giurisdizione amministrativa, sia possibile far riconquistare al giudizio di cognizione gli
spazi che gli sono propri senza, per ciò stesso, snaturare la funzione giurisdizionale e
operare inopportune sovrapposizioni tra poteri.
7
Capitolo I
Il processo amministrativo e le pretese del ricorrente.
1. Caratteri storici dell’attuale sistema di giustizia amministrativa.
Com’è noto il dibattito parlamentare che condusse all’approvazione della Legge
abolitiva del contenzioso del 1865 fu caratterizzato dal contrapporsi di due opposte visioni.
Su un primo versante si ponevano coloro (e costituivano la maggioranza) che
proponevano l’abolizione dei “tribunali ordinari del contenzioso amministrativo”. Secondo
costoro l’abolizione dei tribunali del contenzioso e la devoluzione del rispettive materie ai
giudici ordinari si iscriveva “nell’ordine normale voluto indeclinabilmente in un Governo
Costituzionale dalla separazione ed indipendenza dei poteri e della responsabilità
dell’amministrazione”.6
Sul versante opposto un indirizzo minoritario osservava che proprio l’affermato
principio della separazione dei poteri avrebbe dovuto condurre ad escludere possibili
ingerenze dei giudici ordinari negli “affari” dell’amministrazione.7
I fautori del mantenimento degli organi del contenzioso amministrativo (Crispi,
Cordova, Rattazzi), ossia di giudici speciali dell’amministrazione, soccombettero nel
dibattito parlamentare nei confronti della maggioranza guidata da Minghetti, Macini,
Boccompagni e Borgatti, favorevole all’abolizione del contenzioso.
L’abolizione dei tribunali del contenzioso lasciava così privo di tutela il cittadino a
fronte di quella “immensa serie di atti e provvedimenti amministrativi sottratti alla
competenza giudiziaria”8.
6
A. Salandra, La giustizia …, p. 379. Che la logica sottesa alla legge abolitrice del contenzioso
amministrativo fosse quella di cercare un punto di equilibrio tra “libertà (diritto) del cittadino e libertà
(potere) dell’amministrazione” (F. Benvenuti, Giustizia amministrativa, voce dell’Enc. Dir. Vol. XIX,
Milano, 1970 p. 589 ss.) è comunemente rilevato nella dottrina dell’epoca. Cfr. M. S. Giannini-A. Piras,
Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, voce
dell’enc. Dir. Vol. XIX, Milano, 1970, p. 229 ss.; E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso
la pubblica amministrazione, Milano 1956, p. 9 ss., ove si rileva come nel sisyema delineato dalla legge
abolitiva “il termine interesse designava un’entità che, in contrapposto al diritto soggettivo, non riceveva
protezione perché non esprimeva alcun valore …Tutta la riforma degli istituti si fondava sulla distinzione fra
ciò che era giuridicamente rilevante, epperò degno di protezione –dell’unica protezione che allora poteva
essere ritenuta tale: quella dell’autorità giudiziaria- e ciò che siffatta rilevanza non aveva e che, pertanto era
logico chiamare semplicemente interesse”.
7
Entrambe le posizioni dottrinarie sono riportate da Salandra, op. cit- 316.
8
Così S. Spaventa nel celebre discorso pronunziato il 6 maggio 1880 nella sede dell’Associazione
costituzionale di Bergmo. Osserva Mancini: “L’ultima e più lamentata lacuna, scorta nella esecuzione della
legge del 1865, sta nel difetto di tutela rispetto alla immensa serie di atti e provvedimenti amministrativi
sottratti alla competenza giudiziaria. Questa offesa ad interessi gravissimi, protetti se non da disposizioni
positive di leggi, da consuetudini, da regolamenti, da ragioni intrinseche di equità e di giustizia. Codesti
interessi trovarono presso noi un tempo… una certa tutela dinanzi ai tribunali del contenzioso
8
A tale lacuna si tentò di ovviare con la legge Crispi del 1889 istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato.
In particolare con la legge del 1889 si consentì al g.a. la possibilità – preclusa al
g.o. dagli artt. 4 e 5 della L.a.C. – di annullare gli atti amministrativi lesivi di diritti e di
condannare l’amministrazione ad ottemperare nel caso in cui la stessa non si fisse
conformata spontaneamente al giudicato.
La necessità di colmare il vuoto lasciato dalla L.A.C. era resa ancora più pressante,
peraltro, dalla tendenza invalsa presso i giudici ordinari a declinare la propria giurisdizione
di fronte ad un atto amministrativo, ancorché illegittimo9.
Tendenza quest’ultima avallata anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato
che a quell’epoca, e fino alla legge 31 marzo 1887, n. 3761 (che ha attribuito la
risoluzione dei conflitti di attribuzione e di giurisdizione alla Corte di Cassazione), era
giudice dei conflitti.10
Il sistema delineato dal combinato disposto dell’allegato E della L.A.C. e della
legge Crispi del 1889 pertanto può sintetizzarsi in questi termini: i diritti soggettivi
ricevevano tutela, di regola, innanzi al g.o. che si limitava disapplicare l’atto illegittimo
eventualmente portato alla sua cognizione; la tutela di quegli stessi diritti spettava al g.a,
tutte le volte in cui gli stessi fossero stati lesi da un provvedimento amministrativo.
In quest’ultimo caso la tutela apprestata dagli organi di giustizia amministrativa
poteva estendersi alla caducazione dell’atto illegittimo.
Si trattava, in altri termini, di assicurare una tutela più efficace ai diritti soggettivi
nei confronti degli atti amministrativi, e tra i diritti soggettivi in particolare ai diritti di
libertà e di proprietà, ritenuti nella logica liberale del tempo degni di massima
considerazione.11
amministrativo, la cui competenza non era circoscritta alla materia dei diritti violati , era più larga e più
estesa di quella deferita ora ai tribunali ordinari. Ma in oggi, rimasti in balia dell’Autorità amministrativa,
pare non abbiano sopra tutto fra le mutabilità e le influenze politiche, sufficiente guarentigia. Da qui le
querimonie cui ho prima accennato e il bisogno generalmente sentito di provvedimenti che viemmeglio
assicurino la giustizia nell’amministrazione”. Il brano lo si può leggere in V.E. Orlando, Contenzioso
amministrativo, voce in Digesto italiano, vol. VIII, parte II, Torino , 1895-1898, p. 908.
9
Cass. 9 giugno 1880, in Rep. Gen. Giur., 1880, voce Competenza (materia civile), n. 313; Cass. S.u., 25
maggio 1886, in Foro it., 1886, I, 962; Corte App. Bologna 30 marzo 1869, in Giur. It., 1869II, 196, secondo
la quale: “l’autorità giudiziaria può ben conoscere della legalità o no degli atti amministrativi per ricusarsi o
no di applicarli, ma ciò solo quando la illegalità è denunciata in via di eccezione, non quando è dedotta in via
di azione diretta e principale per farne dichiarare la conseguente nullità, ed impedirne la esecuzione”.
10
Cons. Stato, 12 giugno 1872, in Rep. Gen. Giur., 1876, voce Competenza amministrativa e giudiziaria,
n.25; Cons. Stato 4 dicembre 1875, Rep. En. Giur., 1876, voce Competenza amministrativa e giudiziaria, n.
24.
11
Sul punto G. Greco, l’accertamento autonomo del rapporto, op. cit. 78, più di recente, si vedano gli studi
condotti in occasione del centenario dell’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato e fra questi in
particolare, gli scritti di S. Sambataro, Il rifiuto del contenzioso amministrativo e la legge del 1865, di A.
9
Il sistema di giustizia amministrativa nasce dunque come completamento di quella
civile, il che consente di superare le dispute esistenti al tempo in ordine alla natura
giuridica della “nuova” giurisdizione amministrativa.
E’ infatti noto che, sin dal discorso di Silvio Spaventa di Bergamo del 1880 (una sorta di
manifesto programmatico in ordine alle linee di fondo del modello di giustizia
amministrativa che in quel periodo storico si andava delineando)12, si fronteggiarono due
modelli di fondo in ordine al ruolo ed alla funzione in se del Giudice amministrativo:
-
da un lato, un modello di Giudice deputato alla tutela di un interesse individuale (se pure,
somministrata attraverso lo specchio riflesso dell’illegittimità attizia): al riguardo è
evidente che il modello in questione contenesse in nuce gli elementi atti a delineare lo
schema di un processo di parti, secondo il modello tipico della giurisdizione di diritto
soggettivo13;
- dall’altro, un modello di Giudice deputato in via prevalente (se non esclusiva) alla
salvaguardia della legalità nell’agire amministrativo, sia pure veicolata in giudizio
attraverso lo snodo di una vicenda individuale (i.e.: secondo lo schema tipico della
giurisdizione di diritto oggettivo)14.
E’ altresì noto che il legislatore (con la legge n. 5992 del 1889) sancendo che il
sistema di giustizia è volto alla “tutela dell’interesse di individui o di enti morali giuridici”
(ivi, art. 3) ha compiuto (per quanto in origine si registrassero pareri discordanti15) una
Quartulli, L’istituzione della IV sezione, tra ragioni pratiche ed ideologiche, di R. Iannotta, Le condizioni
politiche e sociali coeve alla istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato e le prospettive attuali, di F.
Benvenuti, La IV sezione e la perdurante esigenza di tutela dei diritti soggettivi, di G. Paleologo, La prima
Quarta sezione, tutti pubblicati nel vol. I, rispettivamente pp. 51 ss., 77 ss, 117 ss, 163 ss. 203 ss.
12
Il testo del discorso in questione (dal titolo ‘La giustizia nell’amministrazione’) può essere rinvenuto nel
volume dei Discorsi parlamentari di S. Spaventa, edito a cura della Tipografia della Camera dei deputati nel
1913 (pag. 550 seg.).
13
Ed in questo modo esso fu delineato da F. CAMMEO nel suo Commentario alle leggi sulla giustizia
amministrativa (Milano, 1910). Sul punto, v. anche F. R OVELLI, Sui caratteri delle sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato, in: Riv. Dir. pubbl., 1914, I, 208.
14
All’indomani della promulgazione della legge Crispi del 1889 (e a dispetto dell’inequivoca formulazione
testuale del suo art. 3), l’approccio in questione riscosse un diffuso favore in ambito dottrinale, fino ad essere
autorevolmente sostenuto da V.E. ORLANDO (La giustizia amministrativa, in: Trattato Orlando, Milano,
1901, p. 728, ss.).
E’ altresì rilevante osservare che lo stesso ispiratore della legge istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio
di Stato (nonché primo Presidente della stessa), Silvio Spaventa, ebbe ad affermare che il proprium del nuovo
organismo consistesse, appunto, nella verifica della legalità dell’azione amministrativa (sul punto: S.
SPAVENTA, Discorso per l’inaugurazione del Consiglio di Stato, in: Riv. Dir. Pubbl., 1909, p. 290, ss.).
15
La tesi favorevole al riconoscimento della natura obiettiva della giurisdizione amministrativa fu sostenuta
da V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, cit., 728; da S. Spaventa, nel discorso (non pronunziato) per
l’inaugurazione del Consiglio di Stato, edito in riv. dir. pubbl., 1909, 290; da A. Salandra, La giustizia
10
precisa opzione in favore del modello soggettivistico segnando le linee di fondo del
sistema di giustizia amministrativa giunto quasi inalterato sino ai nostri giorni.16
L’indagine storica ci consente così di superare l’apparente contraddizione di un
sistema di tutela congegnato sul modello della giurisdizione di tipo soggettivo, ma al
tempo stesso modellato sullo schema del giudizio di tipo impugnatorio.
Le difficoltà in cui si imbatte ancora oggi il processo amministrativo di legittimità
derivano proprio da tale (apparente) contraddizione: dall’essere strutturato come
processo su atti (art. 26 T.U. 1054/1929 e artt. 2 e 3, legge 1034/1971) mentre esso è il
luogo di esercizio della giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali (artt.
113 e 24 Cost.).17
Sarebbe stato forse più coerente con la predetta impostazione soggettivistica
ammettere una forma di tutela ampia dell’interesse sostanziale. Si consideri peraltro che il
sistema contenzioso ereditato dal Regno Sardo e rimasto in vigore fino alla legge abolitiva
del contenzioso del 1865, conosceva già allora una più ampia tutela rispetto a quella che si
esaurisce nella mera tutela impugantoria; una tutela che in termini attuali si potrebbe
azzardare a definire “piena” in quanto diretta a lambire anche profili non strettamente
giuridici dell’attività amministrativa, conferendo ai giudici poteri adeguati.18
Il lasso di tempo trascorso dopo la legge del 1865 avrebbe consentito in astratto di
superare il giudizio di irrilevanza giuridica e politica degli interessi legittimi (dinamici)
mosso dal Sen. Mancini. Tuttavia la dottrina non si era spinta al di là di generiche
sollecitazioni della loro tutela giurisdizionale. Non si era approfondita la natura e struttura
degli interessi, né di conseguenza, si erano studiate le forme di tutela ad essi più
confacenti.19
La mancanza di un’elaborazione dottrinaria adeguata è da ricercarsi con ogni
probabilità, nella circostanza che a quei tempi la categoria degli interessi dinamici
amministrativa neo governi liberi, Torino, 1904, 848 e ss; da G. Chiovenda, Principi, op. cit., 358. la tesi era
però smentita dalla stessa legge del 1889. A favore della natura subiettiva della giurisdizione si schierò la
dottrina successiva, cfr. in particolare F. cammeo, Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa,
Milano 1910; F. Rovelli; Sui caratteri delle sezioni giurisdizionale del Consiglio di Stato.
16
Sul punto C. Contessa, Tendenze evolutive del processo amministrativo tra disponibilità delle parti e
controllo di legalità, relazione al Convegno “Attualità della giustizia amministrativa” tenutosi a Lecce il 14
marzo 2008.
17
In questo senso V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, p. 519.
18
Statuiva l’art. 31 R. D. 30 ottobre 1856 ch “le sentenze dei Consigli di Governo (organi giurisdizionali di
primo grado) produrranno gli stessi effetti di quelle dei Tribunali civili e saranno esecutorie negli stessi
modi”. Cfr. sul punto sul punto G. Stancanelli, i poteri di decisione del Consiglio di Stato, in La giustizia
amministrativa a cura di Giovanni Miele, Vicenza, 1968, p. 71 e ss.; G. Miele, La giustizia amministrativa,
ivi, p.25.
19
Lamenta la scarsa elaborazione V. E. Orlando, Contenzioso amministrativo, voce cit., p. 849 e ss. P. 887 e
910.
11
costituiva un fenomeno di dimensioni molto più limitate rispetto a quanto non lo sarebbe
stato un futuro e fino ai nostri giorni in uno Stato a forte impronta sociale. 20
Il limitato numero di concessioni e autorizzazioni amministrative sussistendo al
momento dell’approvazione della legge Crispi non può nemmeno essere paragonato
all’esplosione degli interventi amministrativi oggi conosciuti.
Come si è visto oltre che circoscritto quantitativamente il fenomeno degli interessi
dinamici si presentava dai contorni piuttosto incerti, si parlava indifferentemente di interets
a appracier di “diritti minori” o “condizionati”21, facendo richiamo a categorie e istituti di
contenuto in realtà non sempre omogeneo.
Non è difficile comprendere allora perché la tutela giurisdizionale avverso gli atti
della p.a. fu limitata dai compilatori della legge del 1889 alla mera forma della
impugnazione di atti e provvedimenti: se non fu presa in considerazione altro tipo di tutela
giurisdizionale anche avverso gli atti lesivi dei c.d. interessi statici, ciò è dovuto alle
suddette ragioni storiche e agli indirizzi culturali dell’epoca che apparivano fortemente
condizionati da un’interpretazione particolarmente rigorosa del principio della separazione
dei poteri.
Non pare viceversa, che alla base della scelta operata dal legislatore del 1889 si
ponesse alcuna insuperabile necessità dommatica22, alcun vincolo di sistema, ma piuttosto
come ebbe a sottolineare illustre dottrina poco più che un “pregiudizio”, la comune
opinione secondo la quale “l’imporre ad una autorità amministrativa una data linea di
condotta, perché conforme al diritto, eccede dalla funzione giurisdizionale e rientra nel
campo della stessa funzione amministrativa”.23
Da tale pregiudizio si è fatto discendere l’ulteriore corollario “che la giurisdizione
in questa materia possa soltanto esplicarsi in via di annullamento o di inibizione, non mai
per via di precetti positivi”.24
20
V. Bachelet, La giustizia amministrativa, cit. p. 20.
Così Cordova, I discorsi parlamentari, p. 434.
22
In questo senso G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, Milano, 1980, p. 84.
23
F. Cammeo, Commentario, cit. p. 307.
24
F. Cammeo, op. ult. cit. p. 410. Così l’illustre Autore tratteggiava i caratteri della giurisdizione
amministrativa, sul piano della teoria generale (p. 305): “Quando si tratta di rapporti di diritto
amministrativo, la giurisdizione più perfetta e completa deve esplicare i suoi comandi in modo diverso a
seconda dei diversi casi. Se si tratta di atti non discrezionali sul fondo del rapporto giuridico, essa deve
ordinare all’amministrazione di fare o di non fare, di revocare determinati atti o di emetterne di nuovi,
secondo che il diritto subiettivo del cittadino ha contenuto positivo o negativo (iscrizione nelle liste elettorali;
esenzione da un’imposta e dal servizio militare). Allorché si ratti di atti, che contengono sul fondo del
rapporto giuridico un elemento di discrezionalità, il giudice indaga se furono emessi: a) dall’autorità
competente; b) con le forme prescritte; c) e nei casi previsti dalla legge. Se il vizio è di incompetenza o di
forma, il giudice ordinerà l’annullamento dell’atto, salvo all’amministrazione il potere di rinnovare l’atto in
sede competente e con le forme richieste. Se il vizio è di aver emesso l’atto fuori dei casi previsti, o
21
12
La breve ricostruzione storica, sin qui condotta delle origini del sistema di giustizia
amministrativa consente di formulare alcune prime considerazioni sulle sue peculiarità.
La prima considerazione è che il sistema di giustizia amministrativa così come
delineato dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo e dalle leggi istitutive degli
organi di giustizia amministrativa più che costituire il “limite” della tutela giurisdizionale
degli interessi costituisce il “contenuto”, o come meglio si cercherà di chiarire nel
prosieguo, uno dei possibili contenuti della tutela giurisdizionale medesima.
Le limitazioni dei poteri cognitori e decisori del giudizio amministrativo andranno
verificati, piuttosto, in via sistematica, tenendo conto dei principi fondamentali che
governano il nostro ordinamento ed in particolare dei principi costituzionali.
La seconda considerazione è che tra il complesso delle norme che regolano il
processo civile e quello amministrativo non vi sia separazione ma in un certo senso
circolarità: l’indagine sulle origini del sistema di giustizia amministrativa induce a ritenere
che tra la giurisdizione ordinaria sui diritti e quella amministrativa sugli interessi, vi sia
una matrice comune denominata dall’esigenza di apprestare tutela alle situazioni di diritto
lese dall’attività amministrativa autoritativa.
Scopo comune delle due giurisdizioni è dunque quello di assicurare giustizia al
ricorrente e non di ripristinare la legalità violata, come sarebbe invece in un’ottica
prettamente oggettivistica.
Se si muove da tale assunto può anche ritenersi che tra le regole che disciplinano il
processo amministrativo e quelle che regolano il processo civile si instauri una sorta di
osmosi che consenta, nella piena parità dei due processi, di attingere alle regole del
processo civile laddove non ricorra alcuna “specialità” che imponga una deroga a quei
principi.
In quest’ottica alla legge processuale civile andrebbe attribuita natura e funzione di
legge generale sul processo per la tutela dei diritti, legge che subisce una limitazione tutte
le volte in cui il diritto sia compresso dall’esercizio di un potere autoritativo.
Tra legge processuale civile e amministrativa si instaura così un rapporto da genere
a specie: le regole dettate dalle leggi processuali amministrative si applicano per quegli
l’annullerà puramente e semplicemente allorché altro non c’è da fare e non cui siano altri casi in cui l’atto
possa essere emanato; o constatando che il caso comporti un diverso provvedimento in virtù di altra
autorizzazione legislativa, provvederà in modo positivo, e come occorre. Sempre, poi, ordinerà che gli effetti
passati dell’atto illegittimo siano riparati, e che gli effetti futuri cessino immediatamente. E la riparazione
sarà in natura: ove sia possibile, e mediante equipollenti, specialmente pecuniari, nel caso opposto”.
13
aspetti del processo connotati da specialità, salvo il riespandersi la regola generale tutte le
volte in cui tale “specialità” non ricorra.25
La possibilità per il giudice amministrativo di superare i rigidi confini della tutela
meramente impugnatoria andranno verificate nel corso della trattazione con riguardo alle
singole fasi del processo. Ma sin d’ora può trarsi una prima conclusione: non vi sono limiti
strutturali che impediscano al giudice amministrativo di assicurare una tutela sostanziale
dell’interesse azionato in giudizio che si esprima nelle forme diverse dalla mera
caducazione dell’atto viziato.
25
G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, foro it. 1989
14
2. Interessi oppositivi e interessi pretensivi: i limiti del giudizio impugnatorio.
L’espressione “interesse” esprime un concetto relazionale in virtù del quale un
soggetto propende verso un bene suscettibile di arrecargli una utilità (reale o anche solo
presunta). Caratteristica dell’interesse è peraltro che l’attività desiderata è suscettibile di
essere ostacolata o vanificata dagli altri membri della collettività ovvero da forze naturali.
In questo senso si suole affermare comunemente che l’intererse evoca l’idea della
tensione dello sforzo, del conflitto, della rivalità o competizione. 26
L’interesse legittimo in particolare si caratterizza per l’assenza in capo al titolare
del potere decisionale circa la realizzazione dell’interesse giuridicamente protetto, che
spetta al titolare della potestà.27
L’indisponibilità della posizione soggettiva vale a distinguere l’interesse legittimo
dal diritto soggettivo caratterizzato, invece, dalla circostanza che l’ordinamento accorda al
suo titolare pieni poteri in ordine alla realizzazione dell’utilità desiderata.
Anche i diritti soggettivi conoscono la distinzione tra diritti assoluti e relativi, i
primi caratterizzati dal fatto che la realizzazione dell’interesse dipende dal solo
comportamento del titolare, i secondi dalla necessità che a tale realizzazione collabori un
secondo soggetto.
In quest’ultimo caso però la realizzazione dell’interesse sostanziale del titolare del
diritto discende da un “comportamento” di un altro soggetto posto in situazione di
soggezione, comportamento eventualmente coercibile da parte del titolare con appositi
strumenti accordati dall’ordinamento.
La realizzazione dell’interesse legittimo, invece, è rimessa all’esercizio di un potere
facente capo all’amministrazione che nell’esercitarlo è libera di compiere una scelta di tipo
comparativistico tra l’interesse vantato dal singolo e la restante massa di interessi facenti
capo alla collettività.
L’evoluzione dello stato di diritto dalle forme dello stato liberale a quelle dello
stato sociale ha consentito alla dottrina di individuare all’interno dell’ampio genus degli
interessi legittimi gli interessi di tipo oppositivo da quelli di tipo pretensivo.
La partizione, che com’è noto è da attribuire a Mario Nigro,28 si fonda sul tipo di
interesse protetto.
26
G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino 2006, 146.
M. S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, p. 80.
28
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., 119.
27
15
Negli interessi che rientrano nel primo tipo (interessi oppositivi) il nucleo centrale è
costituito dall’interesse alla “conservazione di un bene”, negli interessi di tipo pretensivo,
nell’interesse all’“acquisizione di un bene”.
La diversità contenutistica riflette a ben vedere la diversa posizione del soggetto
titolare del medesimo interesse rispetto al potere amministrativo.
Nel primo caso, il cittadino si limita a resistere all’amministrazione e ad opporsi ad
essa; nel secondo caso, invece, egli si attende qualcosa dalla p.a., si aspetta qualcosa da
essa.
La partizione solo in parte come si diceva corrisponde a quella nota ai civilisti tra
diritti assoluti e relativi: l’interesse infatti, anche quando si presenta nelle forma statica si
confronta sempre con l’esercizio di un potere. Nondimeno l’accostamento presenta una
qualche utilità dal momento che gli interessi oppositivi, come i diritti assoluti, aspirano
solo all’omissione di ogni turbamento nel godimento del bene, mentre gli interessi
pretensivi, al pari dei diritti relativi, anelano ad un comportamento specificamente
satisfattivo.
Gli interessi oppositivi hanno trovato ampia diffusione nello stato liberale:
nell’ideologia liberale la funzione principale dell’esecutivo era infatti quella di assicurare,
in via preventiva oltre che repressiva, l’ordine sociale.
Gli interessi pretensivi al contrario hanno avuto piena diffusione con l’emersione
dello stato sociale.
Con la riscoperta dei diritti naturali, con l’affermarsi dei diritti fondamentali
dell’individuo con la costituzione americana dapprima, e con la Carte dei diritti dell’uomo
francese successivamente, con il passaggio da un’economia essenzialmente rurale a quella
industriale, da uno stato monoclasse ad un o pluriclasse, lo Stato viene chiamato a svolgere
numerose prestazioni alle quali in precedenza provvedevano i singoli.
Ai “nuovi” doveri pubblici corrispondono altrettante situazioni soggettive
giuridicamente rilevanti facenti capo ai singoli.
Nell’ottica dello stato sociale i diritti di libertà e i valori ad essi sottesi non solo
debbono essere riconosciuti e tutelati dall’ordinamento, ma, ed è questa la vera conquista
del liberalismo, vanno altresì promossi attraverso azioni positive volte alla cura degli
interessi concreti.
Di qui, altresì, la denominazione di tali interessi come dinamici in quanto
espressione di un rapporto di tensione tra un soggetto e un bene in contrapposizione agli
interessi statici finalizzati alla tutela di beni già appartenenti alla sfera giuridica del titolare.
16
Con ogni probabilità proprio agli interessi dinamici intese far riferimento Silvio
Spaventa nel discorso pronunciato il 6 maggio 1880 nella sede dell’Associazione
costituzionale di Bergamo in occasione dell’apertura dei lavori preparatori che avrebbero
condotto all’approvazione della legge Crispi del 1889, laddove richiama l’attenzione sulla
necessità di apprestare tutela a quegli interessi che “comunque non tocchino propriamente
un diritto, possono tuttavia recare offesa ad interessi gravissimi, protetti se non da leggi, da
consuetudini, da regolamenti, da ragioni intrinseche di equità e di giustizia”.
Il sistema di tutela congegnato dalla legge Crispi appariva, peraltro, non
pienamente adatto a garantire la piena soddisfazione dell’interesse sostanziale vantato dal
ricorrente sia che egli agisse a tutela di un interesse oppositivo 29, che di un interesse
pretensivo.
L’annullamento dell’atto per vizi formali e per quella particolare violazione di
legge
rappresentata
dall’incompetenza
all’adozione
dell’atto,
lascia
pressoché
impregiudicata la discrezionalità della p.a. nell’adozione di un nuovo atto parimenti lesivo
dell’interesse sostanziale vantato dal ricorrente, anche se fondato su ragioni differenti
rispetto a quelle previste nell’atto originario.
Sotto tale profilo emerge un primo limite del giudizio amministrativo che è quello
di non consentire l’estensione dell’oggetto del giudizio a motivi diversi da quelli dedotti
dal ricorrente.
Secondo l’impostazione tradizionale infatti nel processo amministrativo non è dato
sollevare eccezioni in senso proprio, ciò in quanto l’eccezione porta alla cognizione del
giudice elementi differenti rispetto a quelli dedotti dall’attore, producendo l’effetto, anche
se indiretto, di ampliare l’oggetto originario del giudizio.
Gli effetti di tale principio sul piano della tutela sostanziale del ricorrente sono
evidenti. Quand’anche l’amministrazione fosse stata a conoscenza di profili di illegittimità
diversi e ulteriori rispetto a quelli fatti valere come motivi di ricorso dal ricorrente, la
stessa non avrebbe potuto in alcun modo esternarli in giudizio.
Le ragioni sostanziali che ostano alla soddisfazione della pretesa sostanziale vantata
dal ricorrente non possono pertanto emergere nel corso del processo, ma sono rinviate alla
riedizione, in sede procedimentale, dell’esercizio del potere amministrativo.
La declaratoria di illegittimità per quanto detto dovrà limitarsi ai soli vizi dell’atto
dedotti senza poter “far stato” per quelli solo deducibili; il che rende il giudicato
29
In senso contrario G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. cit. 79.
17
amministrativo asfittico facendogli assumere il valore del noto apostrofo guicciardiano che
separa i due segmenti del fluire dell’attività amministrativa. 30
Il giudizio sull’atto appare tanto meno idoneo ad incidere sulla futura attività
amministrativa quanto minori sono i possibili profili di impugnazione (ossia le ragioni
esternate dall’amministrazione), fino al paradosso del comportamento inerte che lascia alla
p.a. piena libertà di determinarsi con riguardo alla attività futura.
La situazione è aggravata dalla prassi giurisprudenziale dell’assorbimento dei
motivi in base alla quale la valutazione della ricorrenza dei vizi formali ed in particolare
del vizio di incompetenza conducendo all’annullamento dell’atto impugnato esime il
giudice dall’esame delle censure sostanziali.
I limiti del giudizio amministrativo emergono con la maggiore evidenza quando si
faccia valere in giudizio un interesse pretensivo.
Chi agisce in giudizio a tutela di un interesse pretensivo, lamenta un danno che gli
deriva da un comportamento inerte ovvero da un atto di diniego espresso opposti
dall’amministrazione ad un’istanza diretta al conseguimento di un risultato, realmente o
presuntivamente favorevole, al richiedente.
Il cittadino leso da un comportamento inerte o dal diniego non lamenta dunque
l’illegittimità dell’atto di diniego o dell’inerzia, ma agisce al fine di ottenere il bene della
vita cui inerisce la pretesa avanzata e rimasta inevasa.
La sentenza che “annulla” il silenzio o che dichiara illegittimo il provvedimento
negativo esplicito, non preclude all’amministrazione di continuare a rifiutare l’atto
richiesto dal ricorrente per ragioni diverse da quelle censurate dal ricorrente, anche se già
esistenti al tempo in cui veniva emesso il provvedimento originario.
Il che finisce per innescare un meccanismo a catena in virtù del quale il ricorrente
sarebbe onerato ad impugnare di volta in volta i provvedimenti di diniego adottati
dall’amministrazione per ragioni differenti rispetto a quelle esplicitate nel precedente
provvedimento e dunque non coperte dal giudicato.
30
Il principio della stretta correlazione tra giudicato e vizi dedotti è stato sostenuto dalla giurisprudenza e
dalla dottrina tradizionali. Tra i primi sostenitori del principio E. Guicciardi, La giustizia amministrativa,
Padova, 1954, 248 e ss. E F. Benvenuti, voce Giudicato, (dir. Am.) in Enc. Del Dir., vol. XVIII, Milano,
1969, p. 893. successivamente la giurisprudenza è pervenuta ad un temperamento della posizione iniziale
ammettendo l’operatività della regola processualcivilistica secondo la quale il giudicato si estende a tutti i
vizi dell’atto impugnato, dedotti o anche solo deducibili, per tutte cons. stato, sez. IV, 14 settembre 1984, n.
678.
18
L’indagine sin qui condotta spiega, ma non giustifica, l’originaria ritrosia del
giudice amministrativo a lambire la fondatezza sostanziale della pretesa azionata in
giudizio dal ricorrente.
E ciò con riguardo non solo agli interessi c.d. dinamici, che come si è visto
apparivano estranei alla sfera originaria di applicazione del giudizio amministrativo, ma
anche con riguardo agli interessi statici, ovvero a quegli interessi posti a tutela dei diritti di
libertà e di proprietà offesi dall’attività amministrativa illegittima.
Ciò che occorrerà verificare e allora se le tradizionali limitazioni della tutela
giurisdizionale amministrativa siano conciliabili con i dettami costituzionali, se la
Costituzione “lega” la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione alle forme e ai
contenuti del giudizio di impugnazione, ovvero consente, o pretende altri tipi di processo e
altre forme di tutela.31
31
In questi termini M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., 85.
19
3. I principi costituzionali in materia di giustizia amministrativa: l’art. 24 della
Costituzione e la logica della spettanza.
Probabilmente appare eccessivo voler trovare nella Costituzione un’opzione circa
il tipo di processo; nondimeno se proprio la si vuole interrogare è indubbio che essa
solleciti l’adozione di quelle forme che – sia in ordine alla natura del comportamento
sindacabile (sindacabilità non dei soli atti in senso stretto, ma anche dei comportamenti
tenuti dall’amministrazione e finanche delle semplici omissioni), sia in ordine ai poteri del
giudice (possibilità non solo di emettere sentenze di annullamento, ma anche di condanna a
tenere un certo comportamento o di sostituzione dell’amministrazione inerte), sia in ordine
all’efficacia e all’esecuzione della decisione – siano idonee a rafforzare ed ampliare la
tutela dei singoli.
Com’è noto l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana è stata
accompagnata da un ampio dibattito relativo all’impatto della legge fondamentale sul
sistema di giustizia amministrativo così come delineato dalla disciplina vigente.
In proposito si sono affacciate due diverse opzioni interpretative.
Secondo un primo indirizzo (Miele) il complesso delle norme costituzionali in
materia di giustizia avrebbe consolidato il precedente sistema caratterizzato da una netta
distinzione, che si riflette in diverse modalità, forme e gradi di tutela, tra diritti soggettivi e
interessi legittimi.
Secondo altra opinione invece agli artt. 24, 103 e 113 Cost. andrebbe attribuito
valore fortemente innovativo rispetto alla disciplina precedente (Cannada Bartoli, Berti).
Acanto alle due diverse opzioni ermeneutiche, come sempre avviene, si è poi
affermato un terzo filone interpretativo, secondo il quale il testo costituzionale anche se
nella sostanza ha consolidato il sistema di giustizia delineato in precedenza, ha concorso al
completamento e al miglioramento di esso “rinnovandone” per così dire lo spirito.32
Di tutto rilievo appaiono in tal senso i principi della pari dignità delle giurisdizioni
di cui all’art. 113 Cost, il principio della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale
degli interessi di cui all’art. 24 Cost., la piena parità e dignità delle posizioni soggettive di
diritto e di interesse ricavabile dalla medesima disposizione, la completezza della tutela
giurisdizionale che ai sensi dell’art. 113 non può essere limitata a particolari atti o a
particolari mezzi di impugnazione.
32
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit. 81.
20
Accanto alle norme che specificamente riguardano la giustizia la costituzione
contiene una serie di prescrizioni per così dire neutre destinate a trovare applicazione a
prescindere da un particolare settore di interesse. Le norme costituzionali sulla giustizia
amministrativa vanno dunque integrate da una parte con i principi del pluralismo e del
garantismo personalistico di cui all’art. 2 Cost., dall’altra con le direttive di completamento
dello stato sociale e con il precetto di uguaglianza sostanziale dei cittadini di fronte
all’ordinamento evincibili dall’art. 3 Cost.
L’art. 24 della Costituzione nell’enunciare il principio secondo il quale “tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” rende ragione
di quelle ricostruzioni che aveva riservato all’interesse una posizione degradata rispetto al
diritto.
Vengono in rilievo in particolare le tesi che a vario titolo avevano configurato
l’interesse legittimo come situazione soggettiva a tutela occasionale33 ovvero come
situazione giuridica di natura meramente processuale34 o ancora, secondo una diversa
variante di quest’ultima tesi, quale mero potere di reazione processuale attribuito al
soggetto per la tutela del suo interesse leso dall’attività amministrativa35.
Come è stato osservato, l’art. 24 Cost. nel porre al centro della garanzia
costituzionale la posizione giuridica dei cittadini, si mostra di portata più ampia rispetto
al successivo art. 113 Cost.36
L’art. 24 infatti nel garantire incondizionatamente tutela giuridica alle posizioni
di interesse vieta non solo di operare discriminazioni tra diritti e interessi, ma altresì di
introdurre disparità di trattamento tra le diverse categorie di interesse.
L’art. 24 Cost. ci consegna il principio della piena parità dei due ordini di
giurisdizione, principio che va letto in combinato con l’art. 113, comma 2, secondo il
quale “la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Quale che sia la portata che si voglia attribuire al principio, appare innegabile la
forza espansiva che esso è in grado di esercitare sul sistema di giustizia amministrativa.
Un sistema di tutela coerente con il dato costituzionale sarà allora quello in
grado di fornire, attraverso forme di tutela necessariamente differenti, lo stesso grado di
33
Ranelletti, Le guarentigie della giustizia della pubblica amministrazione, Milano 1934, 161 ss.
Guicciardi, Concetti tradizionali e principi ricostruttivi nella giustizia amministrativa, in Arc. Dir. Pubbl.,
1937, 56 ss.),
35
A. Piras, Interesse legittimo e processo amministrativo, Milano, 196, II, p.19, nota 24, p. 24, nota 29 e p.
37
36
In questo senso V. Bachelet, La giustizia amministrativa nella costituzione italiana”, Milano, 1966, p. 18.
34
21
utilità, ossia la medesima utilità finale tanto al titolare di un diritto soggettivo che di un
interesse legittimo.
Potrà eccepirsi che in quest’ultimo caso la soddisfazione dell’interesse finale è
necessariamente mediata dall’attività amministrativa. L’eccezione non sembra però
cogliere nel segno.
L’attività amministrativa si pone quale condizione irrinunciabile per la
soddisfazione dell’interesse nella fase fisiologica del rapporto, ossia allorché il cittadino
abbia avanzato un’istanza volta all’ampliamento della propria situazione soggettiva.
Una volta che tale fase si sia conclusa senza che l’amministrazione abbia
provveduto ovvero ove abbia adottato un provvedimento negativo esplicito, non potrà
opporsi al cittadino che ricorra avverso il silenzio o l’atto di diniego ancora la riserva di
esercizio funzionale del potere, in quanto ciò si tradurrebbe in un diniego di tutela in
violazione di quanto sancito dall’art. 24 Cost.
La forza espansiva dei principi costituzionali in materia di giustizia
amministrativa probabilmente non è stata sufficientemente esplorata neanche dallo
stesso Giudice costituzionale se è vero che in un precedente sul finire degli anni ’80 si
legge che “gli interessi legittimi correlati all’azione amministrativa non hanno una
soglia costituzionalmente garantita”.
Per contro l’entrata in vigore della costituzione repubblicana rende ancora più
pressanti alcuni interrogativi in ordine all’idoneità del sistema di giustizia
amministrativa a garantire piena tutela al cittadino nei confronti dell’amministrazione.
Viene da chiedersi infatti cosa significhi pienezza della tutela se si ammette che
il giudice amministrativo possa adottare nei confronti della p.a. alcuni tipi di
provvedimenti e non altri, cosa significhi effettività della tutela se la pronuncia che
accerti l’illegittimità di un atto per vizi di forma, ovvero del diniego o del silenzio lasci
impregiudicata la possibilità per l’amministrazione di adottare un nuovo atto
sostanzialmente reiterativo del precedente.
La soluzione al quesito è stringente. O l’intero sistema di giustizia
amministrativa deve essere sospettato di illegittimità costituzionale, ovvero devono
trovarsi delle alternative, in via interpretativa, per assicurare al ricorrente che agisca in
giudizio lamentando la lesione di un proprio interesse sostanziale la stessa utilità finale
che egli sarebbe in grado di ottenere dal processo ove egli fosse titolare di una posizione
di diritto.
22
Né appare possibile, come pure si è tentato di fare in passato, l’utilizzazione
degli strumenti del processo civile dinanzi al g.o.
Anteriormente alle recenti riforme del processo amministrativo che, tra l’altro,
hanno accresciuto i poteri cautelari del giudice amministrativo si era ritenuto che per
colmare le lacune di tutela cautelare del modello impugnatorio potesse farsi ricorso al
rimedio di cui all’art. 700 c.p.c per garantire la conservazione della situazione in attesa
della pronuncia di merito.
Il tentativo ha interessato due ordini di controversie: quelle in materia di diritto
o pretese nascenti dal pubblico impiego e quelle in materia di emittenza televisiva. Sia
nell’uno che nell’altro caso numerose ordinanze pretorili hanno accordato protezione ex
art. 700 c.p.c. per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale voluta dall’art. 24
Cost.
La soluzione prospettata in via pretoria si è mostrata però profondamente lesiva
del principio costituzionalmente rilevante della dualità delle giurisdizioni come fu
rilevato dalle numerose decisioni con le quali la corte di Cassazione ha annullato le
ordinanze pretorili per difetto di giurisdizione del g.o.37
L’unica alternativa possibile appare allora quella di fare applicazione nel
processo amministrativo delle regole e delle forme di tutela del processo civile. 38
Se si accetta la tesi secondo la quale la legge processuale civile costituisce la
legge generale del processo per la tutela delle situazioni soggettive e le leggi processuali
siano leggi speciali, senza che ciò comporti alcuna limitazione alla pari dignità dei due
processi, nulla impedisce di attingere alle regole del processo civile laddove nessuna
“specialtà” ricorra39.
La giurisprudenza amministrativa ha già in varie occasioni fatto applicazione
degli strumenti processuali civilistici all’interno del processo amministrativo; valga per
tutti il riferimento alla tutela dei diritti dei lavoratori attratti nella giurisdizione esclusiva
del g.a.
37
Per la materia del pubblico impiego v. Cass. Civ., s.u., 25 ottobre 1979, n. 5557; id. 16 marzo 1981, n.
1484; id. 17 gennaio 1986, n.277. per la materia televisiva cfr. Cass. Civ. s.u. 1 ottobre 1980, nn. 5335 e
5336.
38
G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, cit. p. 917, il quale rileva che all’infuori dei casi in
cui norme specifiche disciplinino in modo autonomo aspetti del processo amministrativo, il ripudio in blocco
delle regole del processo civile non ha ragion d’essere e sembra piuttosto risolversi in un a”petizione di
principio”.
39
G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, op. ult. cit., p. 917.
23
Nella
giurisdizione di legittimità, basti pensare alla poderosa opera
giurisprudenziale che anteriormente alla riforma del 2000 ha ampliato sul modello della
tutela cautelare propria del processo civile i poteri del giudice della cautela.
Non si tratta peraltro di operare un mero trapianto delle regole che disciplinano il
processo sui diritti al processo sugli interessi, ma di applicare regole che sono fondate
direttamente o indirettamente sui precetti costituzionali.
La disciplina del processo civile, come si dirà meglio in seguito, contiene regole e
principi fondati più o meno direttamente sul precetto costituzionale. 40
Così ad es. la regola del contraddittorio enunciata dall’art. 101 c.p.c intesa come
imprescindibile esigenza di consentire ai destinatari del provvedimento del giudice di
influire sul contenuto di tale provvedimento va inteso come espressione del principio
dell’uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e del diritto alla difesa che l’art. 24 Cost.
definisce ”inviolabile”.
Ancora il precetto costituzionale di cui all’art. 111 che vuole il giusto processo
“regolato dalla legge”, segna il confine tra cognizione piena (imprescindibile per la
tutela dei diritti e degli interessi) e cognizione sommaria sottraendo al giudice ogni
discrezionalità circa le modalità di realizzazione del contraddittorio.41
In questo senso il tentativo attuato dalla giurisprudenza di spostare il giudizio
sulla fondatezza della pretesa da una fase processuale a contraddittorio pieno, quale
quella di cognizione
ad una fase a contraddittorio limitato
quale quella
dell’ottemperanza appare difficilmente conciliabile con il dettato costituzionale.
Così, ancora, principi quali quello della disponibilità della tutela giurisdizionale,
nonché il principio della domanda e il principio della disponibilità dell’oggetto del
processo
42
sono funzionali all’attuazione di un sistema di giustizia di tipo
soggettivistico volto alla tutela di diritti e interessi così come imposto dall’art. 24 Cost.
40
Per un esame approfondito dei singoli principi in relazione al loro grado di attuazione nella costituzione, v.
Trocker, Processo civile e costituzione, Milano, 1970; per un’esposizione sistematica dei principi del
processo civile in relazione ai precetti costituzionali v. Andolina-Vignera, Il modello costituzionale del
processo civile italiano, Torino 1990; L. P. Comiglio I modelli di garanzia costituzionale del processo, in
Riv. trim. dir. e proc. Civ. 1991, p. 673 e ss.; A. Proto Pisani; Il nuovo art. 11 Cost. e il giusto processo civile,
in Foro it., 2000, V, 242 ss.
41
In questo senso C. Mandrioli, diritto processuale civile, Torino, 2005 p. 490 ; A. Proto Pisani, Giusto
processo e valore della cognizione piena, in Riv. Dir. Proc. Civ., 2002, p. 265 e M. Bove, Art. 111 Cost. e
giusto processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2002, p. 479 ss.
42
Principi rispettivamente espressi dall’art. 2907 c.c. secondo il quale “alla tutela giurisdizionale dei
diritti provvede l’autorità giudiziaria ordinaria”, dall’art. 81 (per agire in giudizio occorre avervi
interesse), 99 (chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente) e
112 c.p.c. (“il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”).
24
Ugualmente sono fondati sulla costituzione e sostanzialmente operanti nel nostro
sistema di giustizia i principi dell’imparzialità e indipendenza dei giudici (artt. 101, 107
e 108 Cost), nonché quello per il quale ogni provvedimento di un giudice deve essere
motivato e conforme a diritto (art. 11 e 113 Cost. e art. 113 c.p.c.) e deve poter essere
assoggettato a controlli idonei a garantire questa conformità (art. 11, comma 7 Cost).43
Su un piano diverso si pongono invece i principi per i quali non può ravvisarsi
un fondamento diretto nella Carta costituzionale, nemmeno come conseguenza
imprescindibile dei suoi dettami.
Si tratta essenzialmente i criteri tecnici volti a dare attuazione a determinati
orientamenti di politica legislativa anche se per molti di essi come si vedrà è possibile
trovare un collegamento o quanto meno una correlazione con gli orientamenti
costituzionali.
Tipico tra questi ultimi è il principio della congruità delle forme allo scopo o
della strumentalità delle forme, che pur costituendo un orientamento di tecnica
legislativa appare riconducibile all’esigenza di garantire una giustizia rapida e non
formalistica, esigenza alla base di molte disposizioni costituzionali in materia di
giustizia.
La stessa cosa può dirsi del principio di libera valutazione delle prove, che per
certi versi può ritenersi un corollario del principio di autonomia del giudice in contrasto
con la tendenza medioevale di legare il giudice ad una valutazione automatica delle
prove. 44
43
Sul fondamento costituzionale dei principi vigenti nel processo civile e sulla loro attuazione, v. AndolinaVignera, op. cit. p. 61 e ss., 101 e ss., 147 e ss. Cfr. anche L. P. Comoglio, I modelli di garanzia, cit., p. 680.
44
L’accoglimento del principio della libera valutazione della prova così come quello della disponibilità della
prova rappresenta però nel nostro ordinamento solo una tendenza. Tanto l’art. 115 in materia disponibilità
della prova che l’art. 116 c.p.c. in materia di disponibilità della valutazione della prova contengono infatti
ampie clausole di salvezza per i “casi in cui la legge dispone altrimenti” ossia di casi in cui la disponibilità
della prova è sottratta alle parti e csi in cui le prove vincolano pienamente il giudice (c.d. prove legali).
25
4. Le posizioni della dottrina.
La dottrina tradizionale ha mostrato assoluta indifferenza al problema della
effettività della tutela giurisdizionale degli interessi legittimi fino alla metà del secolo
scorso.
La questione veniva posta in termini semplici e alternativi: se l’interesse è
tutelato dall’ordinamento esso dà luogo ad un diritto munito dell’azione giudiziaria, se
si trattava di un interesse-non diritto vantato nei confronti della p.a. “…i titolari di
siffatti interessi possono domandarne in vari modi e con diversi effetti la tutela, ma non
possono pretendere che questa si risolva nella loro soddisfazione”. 45
Più a monte l’idea stessa dell’interesse legittimo come interesse solo
occasionalmente protetto ovvero di rilievo meramente processuale sembrava eliminare
in radice qualsivoglia problema di “effettività” della tutela giurisdizionale.
In coerenza con tali premesse il proprium del processo amministrativo veniva
individuato nel mero annullamento dell’atto, dal quale discendeva il duplice effetto
eliminatorio e preclusivo, quest’ultimo limitato alle censure dedotte dal ricorrente e
ritenute fondate dal giudice.
Dopo un iter talvolta lungo il processo amministrativo approda dunque al misero
risultato di riportare le parti alle reciproche posizioni di partenza, ovvero alle posizioni
che avevano al tempo della proposizione dell’istanza. Nel caso di ius superveniens la
sentenza dichiarativa non approda neanche a tale risultato.
L’esigenza di ovviare alle manchevolezze del modello impugnatorio puro hanno
indotto la dottrina a cercare soluzioni atte a garantire una tutela più efficace al cittadino
leso da atti o da comportamenti della p.a.
45
Santi Romano, Corso di diritto amministrativo. Principi generali, Padova, 1932, p. 156-157; nello stesso
senso F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, ed. del 1917, ristampa con note di aggiornamento a cura
di G. miele, Padova, 1960, p. 539 secondo il quale “nel nostro ordinamento positivo è diritto un interesse
protetto dalla legge con l’intenzione di tutelarlo nella persona del subbietto, con tutela precisa, dipendente
dalla valutazione di fatti semplici e tale che l’interesse medesimo possa essere integralmente soddisfatto,
escluso ogni apprezzamento discrezionale; è interesse legittimo un interesse tutelato dalla legge o
occasionalmente cioè in riguardo all’utile pubblico, anziché all’utile del soggetto, o capace di imperfetta
soddisfazione, perché tutelato da norme che segnano i limiti di facoltà discrezionali”; ancora si legga G.
Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, op. cit. p. 357-358 secondo il quale “il ricorso (a tutela degli
interessi n.d.r.) non è accolto perché si riconosca un bene al ricorrente … (poiché) la legittimità degli atti
amministrativi non è un bene garantito al singolo in sé ma alla collettività”.
26
4.1. L’oggetto del giudizio amministrativo nell’elaborazione di Nigro.
L’illustre Autore identifica l’oggetto del processo amministrativo nella verifica
dell’affermazione dell’attore di aver diritto al mutamento giuridico da lui richiesto,
ovvero di avere un potere di provocare il mutamento stesso.46
Il potere “processuale” di chiedere l’annullamento dell’atto, non sarebbe
doppiato, secondo la riferita posizione, da un corrispondente potere o diritto
“sostanziale” che dovrebbe essere rivolto non più verso il giudice, ma verso l’autorità
amministrativa.
Cosa che appare esclusa, secondo la tesi in parola, dall’assenza di un
corrispondente obbligo (che dovrebbe sussistere ove all’interesse all’annullamento si
attribuisse natura di interesse sostanziale) facente capo all’amministrazione di annullare
d’ufficio gli atti amministrativi viziati.
Tuttavia l’interesse materiale pur non doppiando l’interesse processuale entra a
far parte dell’oggetto del processo sempre attraverso la lente dell’impugnazione
dell’atto: l’unica utilità che il ricorso può attribuire all’interesse materiale vantato dal
ricorrente è quello connesso alla caducazione dell’atto, le uniche ragioni che potrà
vantare il ricorrente sono solo le censure che si potranno rivolgere all’atto sotto forma di
motivi di ricorso.
In quest’ottica l’effetto principale della sentenza amministrativa sarà quello di
eliminazione dell’atto viziato, effetto al quale si aggiunge quello di ripristinazione delle
situazioni giuridiche su cui aveva inciso l’atto annullato.
Ma a differenza della sentenza civile, caratteristica del processo amministrativo,
e conseguentemente della sentenza, è quella di inserirsi nel flusso dell’attività
amministrativa come momento intermedio tra l’esercizio passato e l’esercizio futuro
della potestà”.47
La sentenza amministrativa oltre a riportare la situazione giuridica ad uno stadio
anteriore all’eliminazione dell’atto viziato, produce pertanto anche l’effetto di vincolare
l’attività amministrativa successiva alla sentenza.
E ciò che l’Autore chiama effetto conformativo della sentenza amministrativa,
ossia quel particolare effetto, noto alla giurisprudenza amministrativa, che consente alla
sentenza di fissare la corretta sistemazione degli interessi, e dunque di soddisfare la
pretesa sostanziale del ricorrente.
46
47
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., pp. 240-241.
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., p. 248
27
La natura e la consistenza del vincolo sull’attività amministrativa successiva alla
sentenza variano in relazione alla qualità del potere (discrezionale o vincolato) e al tipo
di vizio per il quale è stato disposto l’annullamento dell’atto.
Tanto maggiori saranno gli spazi di discrezionalità (quelli che l’Autore chiama
“spazi liberi”) che residueranno alla pronuncia di annullamento, tanto minore sarà la
capacità della pronuncia di incidere sull’assetto di interessi definitivo, e tanto minore
sarà la idoneità della sentenza a soddisfare l’interesse sostanziale del ricorrente.
La ricostruzione operata da Nigro dell’efficacia della sentenza e più a monte
dell’oggetto del processo amministrativo, sebbene abbia riscosso ampi consensi presso
al giurisprudenza, non ha mancato di destare perplessità nella dottrina successiva.
Le perplessità hanno riguardato essenzialmente due aspetti.
Innanzitutto viene in rilievo il già censurato slittamento della cognizione del
rapporto dalla sede naturale del giudizio di cognizione alla sede diversa del giudizio di
ottemperanza: solo in sede di ottemperanza potrà infatti specificarsi, esplicitarsi e
completarsi la regola contenuta in nuce nel giudicato amministrativo.
Come si è già detto la soluzione proposta da una parte snatura il giudizio di
ottemperanza sbilanciandolo eccessivamente sulla cognizione, dall’altro comprime
irragionevolmente il diritto di difesa delle parti.48
Secondariamente il giudicato di annullamento non appare idoneo a “conformare”
la successiva attività amministrativa allorché il giudizio, allorché si ricorra avverso il
silenzio dell’amministrazione ovvero avverso un atto di diniego.
In entrambe le ipotesi infatti il giudicato amministrativo non è idoneo a coprire
alcun tratto dell’attività amministrativa: i limiti all’esercizio dell’attività amministrativa
possono essere dedotti come vizi e dunque essere sottoposti all’attenzione del giudice
solo se il potere è stato effettivamente esercitato.
Il che non accade per gli atti negativi ovvero allorché l’amministrazione ometta
di provvedere, in entrambe le ipotesi l’unico vizio deducibile consiste proprio nel
mancato esercizio del potere; in entrambe le ipotesi la sentenza non è idonea a
determinare quale sarebbe il corretto esercizio delle fasi future della funzione
48
Per un acritica alla concezione che configura il giudizio di ottemperanza come giudizio prevalentemente di
cognizione anziché di esecuzione, V. Caianiello, Intervento al Congresso sui “Problemi del nuovo processo
amministrativo”, in Impresa, ambiente, pubblica amministrazione, 1977, II, p. 25.Per i caratteri del giudizio
di ottemperanza v. per tutti M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit. 332, si veda inoltre C. Calabrò; pronuncia
completa e satisfattoria, 1976, p. 404 che definisce il giudizio di ottemperanza come “una particolarissima
forma di giudizio che somma in sé caratteri del processo di cognizione e di uno speciale processo di
esecuzione”.
28
amministrativa, né, di conseguenza,
sostanziale.
49
di decidere sulla fondatezza della pretesa
49
G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. it., 52.
29
4.2. L’accertamento “autonomo” del rapporto nell’elaborazione di Greco.
Per ovviare alle critiche mosse alla tesi che individua l’oggetto del giudizio
nell’accertamento della pretesa all’annullamento giurisdizionale del giudizio sul
rapporto e al tempo stesso al fine di rispondere alle richiamate esigenze di affettività
della tutela autorevole dottrina propone di affiancare alla tradizionale azione di
annullamento avverso gli atti amministrativi illegittimi, l’accertamento del rapporto
indipendente dal giudizio di annullamento.
Il giudizio sulla fondatezza della pretesa vantata dal ricorrente e dunque sulla
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per l’emissione del provvedimento
richiesto, resta estraneo al giudizio di legittimità sull’atto.50
Com’è evidente l’ambito di applicazione dell’accertamento autonomo è
essenzialmente quello degli interessi legittimi dinamici, in considerazione della loro
particolare struttura nonché dell’esigenza di tutela ad essi sottesa.
Ma i risultati cui perviene l’indagine possono essere estesi, con i dovuti
adattamenti, anche agli interessi legittimi statici, per i casi in cui l’efficacia preclusiva
del giudicato di annullamento non escluda la reiterazione del provvedimento lesivo.51
Nel pieno rispetto del principio della domanda inoltre l’accertamento autonomo
del rapporto si realizza solo se la parte ricorrente o la parte resistente abbiano in
concreto richiesto tale accertamento e si siano adoperate, sul piano istruttorio, al fine di
conseguirlo.52
L’azione di accertamento “autonomo” (ossia indipendente dall’accertamento
compiuto nell’ambito del giudizio di annullamento), sarebbe ammissibile secondo
Greco nel nostro ordinamento de iure condito, non sussistendo ostacoli sistematici al
suo esperimento all’interno del processo amministrativo: il modello di processo
amministrativo così come emerge dalle leggi processuali costituirebbe, secondo tale
ricostruzione, il grado per così dure “minimo” di tutela apprestato dall’ordinamento, ma
che non esclude di per sé l’esperibilità di altre forme di difesa.53
50
G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. cit., p. 33.
G. Greco, L’accertamento, op. ult. cit. p. 7.
52
G. Greco, L’accertamento, op. ult. cit., p. 242.
53
G. Greco, L’accertamento, op. ult. cit. p. 215.
51
30
4.3 Il giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto: la ricostruzione di Piras.
La tesi, sviluppata con grande finezza d’argomentazione dall’illustre studioso,
opera una sorta di ribaltamento della concezione tradizionale del processo
amministrativo, ponendo al centro del processo non più l’atto amministrativo, bensì il
rapporto giuridico che si instaura tra la p.a e il cittadino 54.
Il ribaltamento dell’ottica tradizionale del processo è basata su uno
sdoppiamento tra interesse protetto rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva di
favore ed interesse legittimo che sorge solo allorché l’emanazione di un atto
amministrativo arrechi all’interesse protetto un pregiudizio.
La nozione di pregiudizio acquista così un’importanza centrale nella
ricostruzione di Piras, assolvendo l’importante funzione di criterio di identificazione
dell’azione.
Il pregiudizio diventa pertanto il momento di collegamento tra l’interesse
materiale e il processo ed è definito come un situazione giuridica che nasce soltanto
dopo l’emanazione dell’atto da cui deriva il pregiudizio e che ha per contenuto un
potere di annullamento. Si tratta pertanto di una situazione a carattere strumentale posta
in funzione di garanzia del ripristino della posizione antecedente all’emanazione
dell’atto impugnato.
Il giudice amministrativo accerta il rapporto potestà-interesse legittimo
preesistente all’esercizio dell’azione amministrativa, qualificando le relative posizioni
sostanziali e individua così l’assetto definitivo che per legge tale rapporto avrebbe
dovuto assumere.
Le parti, e in particolare l’amministrazione, sono vincolate da tale accertamento
e sono tenute ad assumere tutti i comportamenti positivi o negativi, che l’accertamento
stesso impone (es. adozione di un dato provvedimento), mentre l’annullamento dell’atto
scaturisce
come
conseguenza
ovvia
ed
automatica
dalla
circostanza
che
l’amministrazione ha fornito un assetto di interessi diverso da quello astrattamente
previsto per legge ed accertato nel caso concreto dal giudice.
Secondo Piras la sentenza (ogni sentenza) va considerata essenzialmente come
un “fatto di accertamento” dal quale discende la preclusione per le parti e il giudice di
ricostruire il rapporto in termini diversi da quelli definiti dalla sentenza medesima.55
54
Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962.
In questo consiste la c.d. efficacia preclusiva dell’accertamento nel “rendere giuridicamente impossibile
vuoi per le stesse parti, vuoi per il giudice e per qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento, così il risalire
55
31
L’estensione dell’oggetto del giudizio all’intero rapporto intercorrente tra le
parti, non può non riflettersi sulla ricostruzione dei limiti oggettivi del giudicato: se
infatti l’oggetto del giudizio è esteso all’intero rapporto, vengono meno i limiti
strutturali del giudicato amministrativo legati ai motivi di ricorso.56
Il giudice non conosce più del rapporto controverso attraverso il filtro dei motivi
di impugnazione ma conosce e giudica direttamente sul rapporto, il giudicato
amministrativo, pertanto, al pari di quello civile, sarà idoneo a coprire non solo i vizi
fatti valere in giudizio dal ricorrente ma anche quelli soltanto deducibili, conferendo
così alla sentenza stabilità di effetti.
Si giunge per tale via ad investire il giudice del potere di definire il rapporto
amministrativo concreto sulla cui base viene richiesta la tutela, e dunque a dichiarare
una volta per tutte quale debba essere l’assetto definitivo del rapporto.
Coerentemente con tale impostazione, Piras è portato a respingere le tesi
tradizionali che individuano l’oggetto del processo nella situazione giuridica sostanziale
variamente identificata nella mera questione di legittimità dell’atto 57, nel potere (diritto)
di annullamento dell’atto58, nell’esercizio del potere amministrativo, di cui l’atto non è
che l’espressione finale59, infine nello stesso interesse legittimo leso, cumulativamente
con la questione di legittimità dell’atto.60
Malgrado rappresenti tutt’oggi, per l’ampiezza di prospettiva, la profondità di
indagine e la ricchezza di riferimenti teorici, il tentativo più importante di fondare su
basi scientifiche nuove il sistema processuale amministrativo, la tesi in parola non ha
trovato significative applicazioni in giurisprudenza né consensi unanimi in dottrina.
Un primo profilo di criticità attiene alla definizione dell’oggetto del giudizio
come ”rapporto”.
direttamente alle fonti normative, come il ricostruire diversamente il fatto”. Solo un effetto preclusivo così
configurato può soddisfare l’esigenza di garantire alla parte vittoriosa in giudizio il godimento del risultato
del processo. Piras, Interesse legittimo, cit. II, p. 140 e pp. 147-148.
56
Piras, Interesse legittimo, op. cit. II, pp. 215-217.
57
Così A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958, p. 259 e ss; S. Cassarino,
Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, p. 339.
58
Così E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I,
Milano, 1957, p.112; E. Garbagnati, La giurisdizione amministrativa (concetto e oggetto), Milano, 1950, p.
67; M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit. p. 240.
59
Questa tesi è stata proposta da M. Nigro, Problemi veri e falsi della giustizia amministrativa dopo la legge
istitutiva dei tribunali regionali, in Riv. trim. dir. Pubb., 1972, p.1834; id. Giustizia amministrativa, op. cit.
264. In termini sostanzialmente analoghi G. Berti, Connessione e giudizio amministrativo, Padova 1970, p.
107 e ss.
60
Questa costituisce l’interpretazione più tradizionale dell’oggetto del giudizio amministrativo, sostenuta, tra
gli altri, da R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, p. 526 e P. Virga,
La tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, Milano, 1976, ed. II, p. 125.
32
Si è contestato innanzitutto che per indicare la relazione intercorrente fra
l’amministrazione e il cittadino si possa parlare di “rapporto” in senso proprio e stretto,
atteso che le parti poste in relazione non si trovano su un piano di parità, come invece la
concezione civilistica di rapporto sembrerebbe richiedere. 61
Secondariamente, anche ammesso che tra cittadino e amministrazione possa
instaurarsi un rapporto in senso proprio, non appare chiaro tra quali elementi si
instaurerebbe il “rapporto”: “tra il potere dell’amministrazione e l’attesa del cittadino?
O tra il primo e i poteri strumentali del secondo?”62
Un’altra critica si incentra nel rilievo che la concezione in parola porterebbe ad un
restringimento della tutela per il ricorrente per il caso in cui l’atto sia impugnato per
soli vizi di forma.
In applicazione del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, la mancata proposizione di motivi che di ricorso attinenti a vizi sostanziali
(anche per ragioni non dipendenti dalla volontà del ricorrente) impedirebbe al ricorrente
di contestare in altra occasione la legittimità sostanziale dell’atto impugnato.
Nondimeno l’amministrazione, una volta rinnovato l’atto affetto da vizi di forma ha la
“certezza della legittimità sostanziale della sua azione”.63
Lo stesso dicasi quando l’atto sia inficiato dal solo vizio di incompetenza: in
questa ipotesi infatti il giudice sarebbe tenuto per espresso dettato normativo ad
annullare l’atto rimettendo l’affare all’autorità competente (art. 45 T.U. n. 1054 del
1924 e art. 26, coma2, L. 1034 del 1971). Sicchè l’annullamento dell’atto non
presuppone, né potrebbe presupporre l’accertamento del rapporto.64
Ma le critiche di maggior rilievo attengono alla difficile conciliabilità della tesi
in parola con la struttura del processo amministrativo e con il suo oggetto così come
definite dal dato normativo: non pare infatti che possa pervenirsi all’accertamento
dell’intero rapporto amministrativo nel quadro del giudizio di annullamento senza
operare un’evidente forzatura del dato normativo.
Le poche norme che disciplinano il processo amministrativo descrivono infatti
un tipo di giudizio essenzialmente cassatorio, modellato sullo schema della vocatio
iudicis, incentrato sulla denuncia di vizi di legittimità che rilevano quali motivi del
ricorso.
61
M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit. 240.
M. Nigro, op. ult. cit., 240.
63
Piras, Interesse legittimo, cit. II, p. 78.
64
Così G. Greco, L’accertamento autonomo, op. cit., p. 133.
62
33
Inoltre la tesi che identifica l’oggetto del giudizio nel rapporto amministrativo si
innesta sempre in un giudizio impugnatorio diretto all’annullamento di un atto
amministrativo che si assume lesivo della posizione soggettiva del ricorrente.
Inoltre la ricostruzione dell’oggetto del processo in termini di giudizio sul
rapporto non varrebbe a superare i imiti del giudizio di impugnazione con riguardo agli
interessi pretensivi lesi dal silenzio della p.a o da un provvedimento di diniego esplicito.
In quanto in tali ipotesi non è sufficiente annullare il diniego o dichiarare
illegittimo
il
silenzio,
ma
occorrerebbe
rendere
coercibile
l’obbligo
65
dell’amministrazione di provvedere nel senso richiesto dal ricorrente.
In realtà, com’è stato messo in luce da attenta dottrina66 nessuna delle
argomentazioni sopra sinteticamente riportate sembra assumere portata dirimente.
Alla prima critica relativa alla configurabilità di un rapporto intercorrente tra p.a.
e cittadino è agevole controbattere che per rapporto giuridico deve intendersi ogni
“conflitto di interessi regolato dal diritto”67 e che tale qualificazione prescinde dalla
natura giuridica degli interessi coinvolti.68
Quanto all’efficacia della sentenza di accoglimento resa per soli vizi di forma, che
si tradurrebbe secondo la tesi riferita in un giudicato favorevole per l’amministrazione,
potrebbe eccepirsi che l’efficacia del giudicato si estende non già a tutti i vizi dell’atto,
ma solo ai vizi che potevano essere dedotti al momento della proposizione del ricorso.
Ne consegue che nel caso la sentenza di accoglimento per vizi formali potrà fare stato
nel rapporto tra cittadino e amministrazione solo con riguardo ai vizi che il ricorrente
conosceva (o avrebbe potuto conoscere) al tempo della proposizione del ricorso,
ancorchè di fatto non siano stati dedotti, ossia con riguardo ai vizi astrattamente
deducibili.
65
Lo stesso Piras sembra ammettere i limiti cui conduce la teoria dell’oggetto del processo modellato sullo
schema del giudizio sul rapporto laddove prevede che la sentenza che decide sul silenzio o sull’atto di
diniego debba statuire anche in ordine all’”ulteriore determinazione del rapporto”, non potendosi limitare a
ripristinare la situazione esistente al momento dell’azione, ma dovrà contenere altresì l’accertamento positivo
dell’obbligo dell’amministrazione a porre in essere il provvedimento richiesto. A. Piras, Interesse legittimo,
cit. II, 563, nota 132. In realtà nell’ottica del giudizio sul rapporto l’obbligo per l’amministrazione di
provvedere nel senso voluto dal ricorrente discenderebbe dal principio secondo il quale il giudicato copre il
dedotto e il deducibile. In altri termini l’amministrazione non potrebbe negare nuovamente il provvedimento
sperato adducendo motivi già esistenti al momento della proposizione del ricorso o sopravvenute nel corso
del giudizio.
66
Per tutti, V. Caianiello, Manuale, op. cit., 509.
67
La definizione è di F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, Padova, 1936, 1, 25 e ss.
68
34
Quanto alla presunta incompatibilità del giudizio sul rapporto con la struttura
dell’attuale processo amministrativo, basterà richiamare in questa sede quanto già detto
con riguardo ai caratteri storici del processo amministrativo.
Come si è già anticipato la connotazione impugnatoria del giudizio
amministrativo è dipesa da contingenze storiche ben precise, che non valgono ad
escludere di per sé una connotazione diversa. In questo senso si è affermato che la tutela
annullatoria costituisce la tutela minima per le posizioni di interesse.
Infine non appare dirimente l’argomentazione secondo la quale la ricostruzione
dell’oggetto del processo in termini di rapporto non varrebbe a superare i limiti del
giudizio di impugnazione con riguardo ai c.d. interessi pretensivi lesi dal silenzio o
dall’atto di diniego.
In realtà nell’ottica del giudizio sul rapporto l’obbligo per l’amministrazione di
provvedere nel senso voluto dal ricorrente discenderebbe dal principio secondo il quale il
giudicato copre il dedotto e il deducibile: l’amministrazione non potrebbe così negare
nuovamente il provvedimento sperato adducendo motivi già esistenti al momento della
proposizione del ricorso o sopravvenuti nel corso del giudizio.
35
5. Oggetto del giudizio e satisfattività del processo.
Com’è evidente l’individuazione dell’oggetto del processo non riveste una
portata puramente teorica.
Dalla individuazione dell’oggetto del giudizio discende il grado di effettività e di
pienezza di tutela che l’ordinamento giuridico appresta alle posizioni oggettive: la
concezione formale dell’oggetto del processo che porta a ravvisarne l’oggetto nell’atto
impugnato sfocia in una decisione asfittica incapace di incidere funditus sulla pretesa
sostanziale vantata dal ricorrente69;
al contrario la ricostruzione dell’oggetto del
giudizio come rapporto, consentirebbe al giudizio amministrativo di lambire gli aspetti
sostanziali del rapporto controverso, garantendo effettiva tutela a chi ha ragione 70.
In realtà, sembra cogliere nel segno quella dottrina che osserva come le due
posizioni non siano inconciliabili, rappresentando, si potrebbe aggiungere, due facce
della stesa medaglia, nel senso che “anche quando la questione di legittimità dell’atto
dell’amministrazione condiziona l’intero svolgimento del giudizio, ciò non significa
necessariamente che al giudice sia preclusa la cognizione della pretesa sostanziale del
cittadino”. Vale a dire che “l’impugnazione di un provvedimento, di cui si chiede
l’annullamento, può essere anche il mezzo per ottenere una pronuncia del giudice sulla
fondatezza sostanziale della pretesa dell’amministrazione o del cittadino, e in questi casi
i sindacato sull’atto impugnato è solo uno strumento o un momento preliminare per la
valutazione d parte del giudice …”71.
Sembra così condivisibile la concezione ormai comunemente acquisita in
dottrina circa la natura e la funzione della giurisdizione amministrativa, secondo cui
questa va intesa come posta a tutela degli interessi sostanziali del ricorrente, e più in
particolare del processo amministrativo “ormai …pienamente ricostruito come processo
di parti, come tale volto a tutela re situazioni giuridiche soggettive parzialmente protette
69
Tale tesi presenta poi una serie di differenziazioni: l’oggetto del giudizio amministrativo è stat individuato pertanto
nella questione di legittimità dell’atto impugnato A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano,
1958, p. 260; nel potere di provocare l’annullamento dell’atto Garbagnati, la giurisdizione amministrativa, Milano,
1950, p. 67; M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., p. 228; nell’interesse legittimo e nella coeva questione di
legittimità dell’atto R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, p. 526;
nell’affermazione di una situazione giuridica M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989; p. 128.
70
A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, op. cit., p. 460; F. G. Scoca, Il silenzio della pubblica
amministrazione; Milano, 1971, p. 294; Stella Richter, L’inoppugnabilità, Milano, 1970, p. 122.
71
Così A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, p.
36
da una norma che disciplina congiuntamente anche le correlate potestà discrezionali
dell’amministrazione”72.
D’altra parte le norme che disciplinano il processo amministrativo sembrano
pertanto possedere un contenuto per così dire “neutro” rispetto all’oggetto del giudizio e
ai conseguenti poteri di cognizione del giudice.
In particolare, come messo in luce da autorevole dottrina73, nessuna indicazione
circa la natura dell’oggetto può ricavarsi dagli artt. 32 T.U. C.d. S. e 37 R. D. 642 del
1907 secondo le quali il ricorrente propone il ricorso definendone rispettivamente
l’oggetto e le “ragioni” poste a fondamento.
Né maggiormente illuminante appare l’art. 17, n. 2 R.D. 642/07 nella parte in cui
commina la nullità del ricorso mancante della determinazione dell’oggetto del processo.
La ratio delle disposizioni è da ricercarsi, infatti, nella impossibilità del giudice, a
causa della sua posizione di terzietà rispetto al ricorso, di enucleare da sé la ragione del
ricorso.
Per attribuire in positivo un contenuto occorre peraltro risalire alle caratteristiche
del processo amministrativo così come delineate dalle leggi istitutive degli organi di
giustizia amministrativa nonché dalle norme costituzionali in tema di giustizia.
Ed invero la connotazione soggettiva della giurisdizione amministrativa come
fissata sin dalle origini dalla legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato,
sembra contrastare con la ricostruzione che identifica l’oggetto del processo nel mero
annullamento dell’atto impugnato e nei motivi di ricorso i limiti dei poteri cognitori del
giudice.
Se infatti la tutela giurisdizionale deve essere funzionale alla realizzazione “dei
diritti e degli interessi” così come previsto dalla Carta costituzionale allora anche il
giudizio deve essere funzionale alla realizzazione di quella tutela.
Né a diverse conclusioni deve far pervenire la natura impugnatoria del giudizio,
ciò in quanto lo schema impugnatorio non è prerogativa esclusiva del rapporto tra
pubblica amministrazione e cittadini, ricorrendo viceversa anche nelle controversie
72
Cfr. Migliorini, Disapplicazione e inapplicabilità, (Atti del convegno su “Impugnazione e disapplicazione dei
regolamenti” Roma, Palazzo Spada, 16 maggio 1997), Torino, 1998, 238. Cfr. altresì Cassarino, Manuale di
diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 102 ss. il quale rileva come sia “innegabile che taluni
connotati del processo amministrativo, quali il ripudio dell’azione popolare […], la piena disponibilità del
giudizio da parte del ricorrente”, oltre all’obbligo di notifica del ricorso ai contro interessati “fanno
legittimamente pensare ad un processo e ad una giurisdizione, rivolti alla tutela di un interesse del singolo” e,
più in generale, alla tutela “di interessi individuali”. Tuttavia, precisa l’autore, il particolare oggetto su cui verte
il processo “non consente una piena assimilazione con la funzione volta a dirimere i conflitti di interessi fra le
parti”.
73
In questo senso A. Piras, Interesse legittimo, cit., p. 23.
37
intercorrenti tra privati. Così ad esempio nel caso di contestazione di delibere
assembleari, comprese quelle condominiali, di transazioni o di licenziamenti: si tratta
tutte di ipotesi in cui il ricorrente è tenuto ad impugnate l’atto entro un breve termine di
decadenza.
In queste ipotesi ciò che formalmente viene chiesto al giudice è l’annullamento dell’atto
impugnato, ma è chiaro che, dal punto di vista sostanziale, la pretesa del ricorrente va
oltre, in quanto attraverso la richiesta di annullamento viene in realtà invocata una
diversa disciplina del rapporto, esattamente come , del resto, resistendo a tale domanda,
si chiede che venga accertata l’esattezza dei presupposti di fatto e di diritto su cui l’atto
impugnato si fondava.
Nelle controversie tra amministrazione e cittadino la situazione non muta.
Secondo autorevole dottrina “l’annullamento altro non è che la forma obbligata che
assume la sentenza [ … ] che accoglie il ricorso del privato [ … ]. La sentenza, per il
fatto
stesso
di
accertare
il
fondamento
o
l’illegittimità
di
una
pretesa
dell’amministrazione, detta la disciplina dei rapporti tra le parti, nel senso che in ogni
caso nessuno può sottrarsi alla statuizione che essa reca. Il vincolo per le parti è
identico, sia che si tratti di esercitare nuovamente il potere discrezionale, sia che si tratti
di determinare i comportamenti conseguenti al rigetto del ricorso”74.
Non solo, ma che il processo sia da intendere a tutela di situazioni soggettive è
dimostrato, oltre che da una serie di indici normativi da esaminare forniti dalla stessa L.
205 del 2000, da tutta un’evoluzione giurisprudenziale nel modo di concepire i singoli
istituti processuali a cominciare dalla tutela cautelare, all’istruzione, al giudizio di
ottemperanza, al sindacato sulla motivazione dei provvedimenti e così via. In altri
termini, tutta una serie di indici a conferma di un nuovo modo di intendere la
giurisdizione amministrativa, non più come mero strumento di verifica della legittimità
(formale) dell’atto impugnato, ma sempre più come mezzo di risoluzione dei conflitti
tra cittadini e pubblica amministrazione.
Ogni provvedimento amministrativo rappresenta l’esercizio di una specifica potestà
amministrativa, la quale consiste nel dare un certo assetto all’interesse pubblico
perseguito e agli interessi pubblici e privati eventualmente coinvolti. Quando il privato
impugna l’atto in realtà “critica l’assetto conferito agli interessi, ne propone un altro, e
74
Così S. Satta, Giustizia amministrativa, III, Padova, 1997, p. 427-429. Cfr. anche E. Cannada Bartoli, Processo
amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. Dig., I, XIII, 1966, p. 1078, il quale non rileva alcuna
contraddizione “nel definire la giurisdizione amministrativa come giurisdizione sua atti e nel ritenere, al contempo la
natura soggettiva, trattandosi di valutazioni compatibili siccome concernenti aspetti differenti del problema”.
38
chiede al giudice di farlo proprio ed imporlo all’amministrazione”. In tal modo, il
giudizio amministrativo si conferma un giudizio su un conflitto sostanziale di interessi,
poiché “la sentenza amministrativa non si limita ad eliminare l’atto, ma necessariamente
si pone come attività di identificazione del corretto modo di esercizio del potere [id est,
del corretto assetto di interessi] e cioè come regola del comportamento futuro
dell’amministrazione”75.
75
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., p. 236. V. altresì E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo, op. cit., p.
1082, secondo il quale la tutela dell’interesse legittimo si attua mediante l’annullamento del provvedimento, il quale
viene impugnato perché dispone un illegittimo assetto di interessi confermando così la tesi secondo cui “ la questione
sulla legittimità del provvedimento impugnato si lega con quella concernente la disposizione degli interessi”. Infatti, “in
quanto conosce di codesto assetto, il giudice conosce di tali interessi, ma […] congelati nel provvedimento”. Per G.
Corso, Per una giustizia amministrativa più celere, in Giur. Amm. Sic., 1988, 2, II, p. 19, “il dato da cui partire è che,
per prescrizione costituzionale, il processo amministrativo serve per la tutela del cittadino, non per il controllo della
pubblica amministrazione. Serve alla protezione di interessi, non all’annullamento di atti illegittimi. L’illegittimità è
sanzionabile, a mezzo del processo, se ed in quanto sia associata alla lesione di un interesse”.
39
Capitolo II
Il giudice amministrativo e il sindacato sulla fondatezza della pretesa: il thema
decidendum.
1. Presupposti sistematici della questione.
Nell’impostazione classica del giudizio amministrativo il giudice è vincolato ai
motivi di ricorso. Da tale affermazione si fa discendere il duplice corollario del divieto
di annullamento per vizi diversi da quelli denunciati dal ricorrente e del limite dei poteri
cognitori del giudice ai soli elementi di fatto e di diritto addotti a fondamento del
ricorso.76
Un processo così inteso modellato sullo schema del ricorso avverso l’atto sarebbe
strutturalmente inidoneo a fondare una pronuncia sulla fondatezza sostanziale della
pretesa vantata dal ricorrente.
Tale affermazione si fonda su una rigida interpretazione delle regole processuali che
disciplinano il processo amministrativo e segnatamente dell’art. 6, comma 1, nn. 2 e 4,
R.D. 642 del 1907 nella parte in cui rispettivamente prescrivono che il ricorso deve
contenere, tra l’altro, “l’indicazione dell’atto o provvedimento amministrativo che
s’impugna” nonché “la sommaria esposizione dei fatti, i motivi su cui si fonda il
ricorso, con l’indicazione degli articoli di legge o di Regolamento che si ritengono
violati …”.
Secondo l’interpretazione richiamata, il g.a. sarebbe vincolato alla cognizione dei
soli profili di illegittimità denunziati dal ricorrente, non potendo egli conoscere di
ulteriori motivi di censura.
L’oggetto del ricorso e il conseguente thema decidendum rientrerebbero, pertanto,
nella disponibilità esclusiva del ricorrente, non potendo né il giudice, né le altre parti del
processo mutare o ampliare l’oggetto originario.77
La situazione è ulteriormente aggravata dalla prassi giurisprudenziale di dichiarare
assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso una volta che sia accolto anche un solo motivo. E
ciò pur quando il motivo accolto riguardi un vizio di forma e i motivi assorbiti (o parte
di essi) concernano vizi sostanziali.
76
Cfr. Cassarino, Le situazioni, op. cit. p. 339.
Per una sintesi delle posizioni assunte dalla dottrina tradizionale sull’oggetto del giudizio amministrativo e
sull’ampiezza dei poteri cognitori e decisori del giudice v. Amorth, Una nuova sistematica della giustizia
amministrativa, in Riv. dir. pubbl., 1943, I, p. 64; v. inoltre Cassarino, Le situazioni giuridiche e l’oggetto
della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956 in particolare pp. 241 e 339 e ss.
77
40
Secondo l’interpretazione tradizionale pertanto
il principio della domanda
soffrirebbe di diverse applicazioni a seconda che lo si invochi nel processo
amministrativo o nel processo civile.
La diversa applicazione del principio della domanda sarebbe il riflesso, sempre
secondo l’impostazione tradizionale, della diversa valenza dell’azione nei due tipi di
giudizi.
Nel processo civile il convenuto concorre con l’attore alla determinazione del
thema decidendum mediante la proposizioni di eccezioni e di domande riconvenzionali
(si parla al riguardo del carattere bilaterale dell’azione), laddove nel giudizio
amministrativo l’oggetto
del decisum sarebbe fissato unilateralmente dal solo
ricorrente, essendo preclusa la possibilità per le parti intimate di introdurre nel giudizio
elementi diversi da quelli immessi dal ricorrente con la proposizione del ricorso
originario.
La ricostruzione dell’azione nel processo amministrativo e i suoi riflessi sui limiti
cognitori del giudice amministrativo appaiono però di difficile conciliabilità con il
dettato costituzionale sotto un duplice profilo.
Innanzitutto la ricostruzione in chiave unilaterale dell’azione e dell’oggetto del
giudizio sembra contrastare con il principio del contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c.,
principio oggi costituzionalizzato a seguito della recente novella dell’art. 111 Cost.
Il principio del contraddittorio implica, infatti, che al convenuto venga
riconosciuta una posizione processuale uguale e contraria a quella dell’attore, potendo
egli difendersi negando la fondatezza delle pretese dell’attore.
Secondariamente,
il
carattere
univoco
dell’azione
-che
non
consente
l’ampliamento del thema decidendum originariamente fissato nel ricorso- sembra
ritorcersi contro lo stesso ricorrente dal momento che dall’apparente vittoria (ossia
l’annullamento dell’atto) egli non ricaverà alcun effettivo vantaggio potendo i motivi
ostativi alla soddisfazione del suo interesse sostanziale essere fatti valere
l’amministrazione in sede di riedizione del potere.
Si tratterà allora di verificare se ed in che limiti sia possibile superare la rigidità
delle posizioni tradizionali dando spazio alla regola del contraddittorio anche nel
processo amministrativo.
L’affermazione di un modello processuale rispettoso del canone costituzionale
della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale impone quanto meno una
rimeditazione delle posizioni tradizionali.
41
D’altra parte occorrerà verificare se e quanto la specificità del processo
amministrativo e delle posizioni sostanziali alla cui tutela esso è funzionale, consenta di
trasportare all’interno del processo amministrativo le regole elaborate dalla scienza
processualcivilistica.
42
1.2. Ai primordi del processo amministrativo: giurisdizione di diritto soggettivo e
principio dispositivo.
Com’è noto la dottrina processualcivilistica ha fornito diverse letture del principio
della disponibilità della tutela giurisdizionale o principio dispositivo78.
Secondo una prima accezione, la nozione di principio dispositivo descrive il potere
della parti di influire attraverso il proprio comportamento processuale sullo svolgimento
del giudizio (ad esempio attraverso atti di impulso processuale – come nel caso della
domanda di fissazione d’udienza ), ovvero di disporre dello stesso rapporto processuale
(come nel caso della rinunzia al ricorso di cui all’art. 46 del R.D. 642/07). 79
Per una diversa – e più diffusa - accezione, la nozione in parola descrive, in modo più
circoscritto, il potere delle parti di influire sulla formazione del materiale di cognizione,
secondo il modello che, già nel 1953, Feliciano Benvenuti ebbe a definire con la nota
formula di principio dispositivo con metodo acquisitivo80.
Secondo l’opinione oggi prevalente il principio dispositivo, letto in chiave estensiva,
si identifica nel complesso dei poteri e delle facoltà di ordine processuale i quali
consentono alle parti in lite:
- in via diretta ed immediata, di circoscrivere il thema decidendum;
- nonché – in via mediata – di individuare il complesso delle questioni in ordine alle quali
si formerà il convincimento del Giudice81.
78
Circa il principio della disponibilità della tutela giurisdizionale nella sua più vasta accezione, cfr. A. PROTO
PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in: Commentario al cod. proc. civ., diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973,
p.1049, ss.
Ai fini che qui rilevano mette conto richiamare la definizione fornita da C. MANDRIOLI (in: Diritto
processuale civile, I, Torino, 2000, p. 86), secondo cui il principio in questione postula che «il titolare
(affermato) del diritto sostanziale è libero di chiedere oppure di non chiedere [la tutela giurisdizionale],
come anche di rinunciare ad essa una volta chiestala. Ed è anche evidente che tale disponibilità sta a sua
volta in correlazione con la disponibilità del diritto sostanziale, poiché il chiedere o non chiedere la tutela di
quel diritto è un modo di disporre di esso.
79
Circa l’accezione di principio dispositivo inteso come formula che compendia il complesso di poteri volti
ad incidere sullo svolgimento e sull’esito stesso del processo, cfr.: G. CHIOVENDA, Principi di diritto
processuale civile, Napoli, 1912, p. 725, ss.; P. CALAMANDREI, Linee fondamentali del processo civile
inquisitorio, in: Studi in onore di Chiovenda, Padova, 1927, p. 131, ss..
Con riferimento più specifico al processo amministrativo, ci si limiterà a rinviare all’ormai classica
esposizione di V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, p. 357, ss.
80
F. BENVENUTI, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, p. 69, ss.; id., Istruzione del
processo amministrativo, in: Enc. Dir., vol. XXIII (ad vocem).
81
La nozione – per così dire - ampia del principio di disponibilità della tutela giurisdizionale è stata ben
descritta, oltre cinquant’anni or sono, da T. CARNICINI, nel suo Tutela giurisdizionale e tecnica del processo,
in: Studi in onore di Redenti, II, Milano, 1951, p. 741, ss.
Nell’occasione, l’A. evidenziò in modo convincente le radici di diritto sostanziale del fenomeno processuale
della disponibilità della tutela giurisdizionale. Sul punto, cfr. anche C. MANDRIOLI, op. cit., p. 86.
43
Intesa in tale più vasta accezione, la nozione – per così dire – ampia di disponibilità
processuale delle parti del giudizio risulta contigua con (ed influenza in modo reciproco) lo
stesso principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c.82
Principio quest’ultimo che si sostanzia in ciò che il potere di determinare l’ambito
dell’oggetto del processo, in modo vincolante per il giudice, spetta a chi propone la
domanda (qualsiasi sia la forma da essa rivestita di atto di vocatio in jus o di vocatio
judicis).
Del principio di disponibilità dell’oggetto del processo e delle prove si dirà più
diffusamente in seguito, in questa parte giova solo evidenziare che, sebbene con i
temperamenti di cui si dirà sotto il profilo probatorio, il principio dispositivo appare
pienamente coerente con la natura soggettiva del giudizio amministrativo ideato sin dalle
sue origini come processo di parti.
Poche parole saranno sufficienti per ricordare come la successiva evoluzione
normativa e giurisprudenziale non si sia mai discostata in modo significativo dal
richiamato modello di giudizio amministrativo inteso come processo di parti, fondato su un
accentuato carattere dispositivo, e come le occasioni per discostarsi da quel modello, nel
corso degli anni, siano state accolte dalla stessa giurisprudenza amministrativa con estrema
cautela.
Al riguardo basterà citare la tiepida accoglienza che nel dibattito pubblicistico ha da
sempre incontrato la proposta (per altro, periodicamente risorgente) di introdurre nel
giudizio amministrativo la figura del Pubblico Ministero (proposta di cui si è rilevato,
appunto, il carattere distonico rispetto al principio soggettivistico e dispositivo che, sin
dalle sue origini, caratterizza il modello nazionale di processo amministrativo)83.
Si pensi inoltre alla tradizionale resistenza all’introduzione di forme di azione
popolare (al di là di limitate e tassative ipotesi) ritenuta inconciliabile con la della tutela
giurisdizionale, nonché, e più in generale, l’estrema cautela con cui la giurisprudenza
amministrativa ha ammesso ed ampliato l’area di tutelabilità degli interessi superindividuali.84
82
Le relazioni sistematiche fra il principio di cui all’art. 112 c.p.c. ed il più generale principio dispositivo
(inteso come «preciso riferimento del dovere decisorio del giudice alla domanda, nel senso che tale dovere è
condizionato e determinato, appunto, dalla domanda») sono messe in rilievo da C. MANDRIOLI, op. cit., p.
80.
83
Sul punto, C. BIAGINI, Istituzione del pubblico ministero presso il Consiglio di Stato e presso i tribunali
amministrativi regionali, in: Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, p. 1715, ss.
84
Sul punto, C. BIAGINI, Istituzione del pubblico ministero presso il Consiglio di Stato e presso i tribunali
amministrativi regionali, in: Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, p. 1715, ss.
44
E’ innegabile che l’evoluzione normativa degli anni più recenti abbia introdotto
alcune figure processuali le quali presentano accentuati caratteri di specialità rispetto alla
tradizionale configurazione del principio dispositivo e dei relativi corollari applicativi.
Si pensi alla disciplina processuale dettata dal comma 2 dell’art. 246 del ‘Codice
dei contratti’ (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), in tema di norme processuali per le
controversie relative ad infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici e di interesse
nazionale85 nella parte in cui -riprendendo il disposto di cui all’art. 14 del d.lgs. 20 agosto
2002, n. 19086- stabilisce che, in caso di controversie in tema di ‘grandi opere’ pendenti
innanzi agli organi di G.A., «non occorre domanda di fissazione dell’udienza di merito,
che ha luogo entro quarantacinque giorni dalla data di deposito del ricorso».
Un secondo esempio di deviazione legale dal principio dispositivo nella sua più
vasta accezione è rappresentato dal comma 3 del medesimo art. 246 del ‘Codice dei
contratti’ (anche in questo caso, in tema di contenzioso sulle ‘grandi opere’).
La norma in questione, stabilisce che «in sede di pronuncia del provvedimento
cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli
interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita
realizzazione dell’opera, e, ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, si valuta
anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque
comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle
procedure»87.
Un’ulteriore previsione normativa di particolare interesse ai fini che qui rilevano
concerne la disponibilità stessa del rapporto processuale ed è desumibile dalla disciplina in
materia di tutela del paesaggio.
Ci si riferisce, in particolare, al comma 11 dell’art. 146 del Codice dei beni
culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) il quale, nel delineare la disciplina
85
Si tratta di una disposizione che presenta evidenti analogie sistematiche con l’art. 45 del d.P.R. 6 giugno
2001, n. 380 (Testo Unico dell’edilizia) il quale, riprendendo l’analoga previsione di cui all’art. 22 della l. 28
febbraio 1985, n. 47, stabilisce che, in caso di diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria,
«l’udienza viene fissata d’ufficio dal presidente del tribunale amministrativo regionale per una data
compresa entro il terzo mese dalla presentazione del ricorso».
In ambedue i casi la devoluzione in capo al Giudice del potere/dovere di fissare l’udienza di discussione
sembra porsi in tendenziale contrasto con il principio di impulso processuale delle parti il quale (con
particolare riguardo al processo amministrativo) rappresenta, appunto, un tipico corollario del principio
dispositivo inteso nella sua più vasta accezione.
86
‘Attuazione della l. 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti
produttivi strategici e di interesse nazionale’.
87
Sul punto, cfr. C. VOLPE, Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo. Alcune
considerazioni sugli artt. 12 e 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in: www.giustizia-amministrativa.it; G.
SAPORITO, Le limitazioni al potere cautelare del giudice amministrativo in materia di appalti di oo.pp. e di
espropriazioni per p.u., in: www.giust.it, 2002.
45
processuale applicabile per l’ipotesi di impugnativa proposta avverso l’autorizzazione
paesaggistica, stabilisce che «il ricorso è deciso anche se, dopo la sua proposizione ovvero
in grado di appello il ricorrente dichiari di rinunciare o di non avervi più interesse». 88
Tutte le ipotesi menzionate senza alcuna pretesa di esaustività, sono accomunate
dall’accentuato carattere di specialità rispetto al tradizionale principio dispositivo, secondo
cui spetta alle parti del giudizio (e solo ad esse) l’individuazione e l’allegazione dei fatti e
delle circostanze che dovranno essere utilizzati dal giudice ai fini del decidere.
Tuttavia, l’esame sistematico delle richiamate figure conduce ad escludere che le
suddette fattispecie costituiscano altrettanti indizi di un’inversione di tendenza rispetto al
passato nel senso di una tendenziale oggettivizzazione del processo amministrativo; le
deroghe al principio della disponibilità dell’oggetto del giudizio amministrativo a ben
vedere trovano giustificazione, infatti, nella particolare rilevanza sotto il profilo socioeconomico degli interessi pubblici coinvolti, rilevanza che giustifica lo strappo alle regole
ordinarie del processo amministrativo come giudizio di parti.
88
Anche in questo caso, la norma presenta un evidente carattere di specialità rispetto al tradizionale
corollario del principio dispositivo rappresentato dal potere (tipico ed esclusivo) della parte attrice di
rinunziare al ricorso, in tal modo determinandone l’improcedibilità.
46
2.La delimitazione del thema decidendum
2.1 La proponibilità di eccezioni in senso proprio nel processo amministrativo.
Nel linguaggio processuale il termine “eccezione” è usato con significati di varia
ampiezza, il più ampio dei quali comprende ogni tipo di istanza con funzione di
contrasto rispetto alla domanda,89 e perciò comprensiva, oltre che delle allegazioni o
negazioni di fatti, del rilievo del difetto dei requisiti e finanche delle semplici
argomentazioni difensive.
Questa nozione di eccezione in senso ampio è comprensiva pertanto anche delle
c.d. eccezioni processuali o di rito90, si pensi ad es. alle eccezioni volte a far valere la
nullità relativa degli atti processuali ai sensi dell’art. 157 c.p.c.91
Secondo un significato più ristretto, invece, il termine eccezione indica solo le
eccezioni di merito o sostanziali che emergono dall’art. 2967 c.c.92 e che comprende
l’insieme dei fatti estintivi, modificativi e impeditivi adotti dal convenuto per
contrastare la pretesa dell’attore.
Com’è evidente ai fini della presente indagine viene in rilievo l’eccezione in senso
sostanziale o di merito in quanto tale idonea ad incidere, si vedrà in che modo, i poteri
cognitivi del giudice.
All’interno della nozione di eccezione in senso sostanziale, come sopra definita,
la scienza processualcivilistica suole distinguere a sua volta le eccezioni in senso
improprio, che consistono in semplici negazioni dei fatti costitutivi addotti dall’attorericorrente a fondamento delle sue pretese e le eccezioni in senso proprio che consistono
nella richiesta di una decisione negativa su una domanda altrui sul fondamento di fatti
diversi impeditivi modificativi o estintivi.
Solo queste ultime pertanto, a differenza delle prime, sono idonee ad apportare un
ampliamento dell’oggetto del processo.
La negazione dei medesimi fatti costitutivi affermati dall’attore non implica
infatti alcun ampliamento dell’oggetto della cognizione del giudice traducendosi in una
89
In questo senso Chiovenda, Istituzioni, I, cit., p. 305; Satta, Commentario, I, Cit. P. 434.
Sulla distinzione v. ancora Chiovenda, Istituzioni, cit., 306.
91
Com’è noto l’ordinamento processuale distingue tra nullità assolute rilevabili d’ufficio e di regola, salvo
che la legge non disponga diversamente, non sanabili e nullità relative, sanabili e rilevabili solo su istanza
della parte che ha interesse alla declaratoria di nullità.
92
Grasso, Dei poteri del giudice, p. 1270.
90
47
mera azione “di accertamento negativo”93 della domanda con la quale il convenuto
rimane all’interno del perimetro dell’oggetto del giudizio determinato dall’attore.
L’attività difensiva potrebbe riguardare anche un profilo di diritto, così ad
esempio il convenuto potrebbe contestare la correttezza dell’interpretazione della legge,
ma in tal caso essa sarebbe inidonea ad incidere sull’ambito della cognizione.
Ciò in quanto il giudice non è vincolato nell’applicazione delle norme di diritto
dai motivi di parte, potendo egli applicare il diritto come crede a prescindere dai
suggerimenti dell’una o dell’altra parte (il che non esclude peraltro che nella pratica tali
suggerimenti possano rivelarsi di una qualche utilità).
Com’è evidente il problema dell’ammissibilità nel giudizio amministrativo
dell’eccezione si pone con esclusivo riferimento alla c.d. eccezione in senso proprio con
la quale la parte resistente o il controinteressato contestano la fondatezza delle pretese
del ricorrente adducendo fatti diversi da quelli addotti dal ricorrente in via di azione.
La dottrina amministrativistica non ha dedicato grande interesse al tema,94
distinguendo pragmaticamente tra eccezioni pregiudiziali o incidentali (tali da assolvere
il giudice dall’obbligo della regola del giudizio nel primo caso; o tali da aprire un
rapporto processuale incidentale rispetto a quello principale nel secondo); e deduzioni di
carattere logico giuridico con le quali in sostanza il resistente e il controinteressato
tentano di dimostrare l’insussistenza di vizi di legittimità addotti dal ricorrente
(eccezioni in senso improprio nel significato di cui si è detto).
La questione, che come auspicato dalla dottrina95 meriterebbe nuove indagini, va
analizzata distinguendo tra giurisdizione di legittimità e esclusiva.
In sede di giurisdizione esclusiva di diritti soggettivi, non sembrerebbero
sussistere ostacoli alla piena ammissibilità di eccezioni in senso proprio, in tali ipotesi
infatti il giudice conosce in modo pieno e diretto del rapporto intercorrente tra il
ricorrente e la p.a.
La questione di maggior rilievo si pone invece nelle ipotesi di giurisdizione
generale di legittimità.
Il carattere di piena giurisdizione assunto anche dalla giurisdizione di legittimità
come più volte ricordato, non può non comportare un autonomo potere del giudice
93
C. Mandrioli, manuale, op. cit., p. 129.
L’unico studio monografico sul tema è quello di De Renzo, L’eccezione nel processo amministrativo,
Napoli, 1968.
95
E. Picozza, Manuale di diritto processuale amministrativo,
, 2008, p. 189.
94
48
amministrativo di ricostruzione del fatto controverso indipendentemente da come esso è
stato acquisito nel corso nel processo.
Se il giudizio amministrativo deve mirare ad accordare tutela all’interesse
sostanziale vantato dal ricorrente i poteri giudiziari non potranno ritenersi limitati alla
mera verifica della veridicità dei fatti dedotti dal ricorrente a fondamento del ricorso, ma
dovranno estendersi necessariamente a verificare se per caso non sussistano altri fatti,
diversi da quelli dedotti in via di azione, che dimostrino la correttezza dell’attività
amministrativa.
Ciò si ribadisce, non solo a tutela del principio del contraddittorio, ma altresì a
garanzia del principio di effettività della tutela giurisdizionale per lo steso ricorrente.
Troverebbe così piena attuazione la duplice regola racchiusa nel testo dell’art.
2697 c.c. alla cui stregua “chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti
che ne costituiscono il fondamento” e specularmente “chi eccepisce l’inefficacia di tali
fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui
l’eccezione si fonda”.
L’onere dell’amministrazione di dedurre in giudizio tutti i motivi che ostano alla
soddisfazione della pretesa sostanziale, darebbe piena attuazione al principio espresso
dall’art. 112 c.p.c. secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non
oltre i limiti di essa, e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere
proposte solo dalle parti”.
Ulteriore conseguenza della piena applicazione del principio della domanda è
quella che il giudice, come previsto dallo stesso codice di rito, dovrebbe dare per
ammessi i fatti non contestati.
Il problema a questo punto si sposta, sui limiti di ammissibilità dell’eccezione
dettati dalla specificità del processo amministrativo e, più in particolare dalla specialità
delle posizioni giuridiche che in esso si fanno valere.
A parere di scrive la questione va esaminata distinguendo tre diverse ipotesi:
a) nella prima possono raggrupparsi le eccezioni con le quali l’amministrazione contesta
l’esistenza di un presupposto o di una condizione giuridica necessaria per
l’accoglimento del ricorso.
Si pensi al caso dell’amministrazione che, convenuta per il diniego di rilascio di
un provvedimento di concessione edilizia, contesti a monte l’esistenza del diritto di
proprietà in capo al ricorrente, ovvero la sua legittimazione ad agire intesa come
titolarità della posizione giuridica fatta valere in giudizio.
49
In queste ipotesi il motivo ostativo all’accoglimento del ricorso, quantunque
fondato su un fatto diverso rispetto a quello dedotto dal ricorrente, si riflette a ben
vedere sulla stessa sussistenza dei presupposti e condizioni dell’azione, dando luogo ad
una pronuncia di rito per carenza di legittimazione o di interesse.
b) la seconda ipotesi comprende tutti i
motivi ostativi
che non incidono sulla
legittimazione o sull’interesse ad agire.
E’ il caso ad es. dell’amministrazione che dopo aver negato un provvedimento
autorizzatorio per vizi di forma, contesti in sede processuale la fondatezza dell’interesse
fatto valere per un motivo sostanziale.
Si pensi al caso di un ricorso proposto avverso al provvedimento con il quale
l’amministrazione nega il titolo abilitativo a costruire per vizi di forma, tutte le volte in
cui la stessa eccepisca poi in giudizio l’esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta
sull’area interessata ovvero il superamento della cubatura consentita dagli strumenti
urbanistici per quella determinata area.
In entrambi i casi, il motivo dedotto dall’amministrazione in via di eccezione non dà
luogo ad una pronuncia sulle condizioni dell’azione.
In tali ipotesi potrebbe eccepirsi che la previsione di un onere in capo
all’amministrazione di introdurre nel giudizio in via di eccezione
tutti i fatti
modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa sostanziale vantata dal ricorrente
finirebbe per trasformare il processo in strumento di iperprotezione del ricorrente.
La mancata contestazione in giudizio dei fatti costitutivi addotti dal ricorrente,
precluderebbe, infatti, all’amministrazione di opporre successivamente i fatti ostativi
all’accoglimento dell’istanza.
A tale critica può tuttavia replicarsi che essa non tiene conto della natura
soggettiva della giurisdizione amministrativa e della conseguente configurazione del
processo come giudizio di parti.
Il giudizio amministrativo infatti non è finalizzato alla realizzazione
dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere, bensì a verificare la fondatezza
della domanda attorea nel pieno rispetto del principio della parità tra le parti; ciò che
rileva pertanto ai fini della definizione della controversia non è la verità assoluta ossia la
correttezza obiettiva del rapporto, ma la verità processuale, ossia l’assetto di interessi
che risulta dalla dialettica delle parti.
50
c) nella terza ipotesi, più problematica, possono ricomprendersi i casi nei quali
l’amministrazione contrasti la pretesa del ricorrente adducendo valutazioni discrezionali
non espresse nel corso del procedimento.
In realtà la possibilità per l’amministrazione di eccepire in corso di causa ragioni
ostative al soddisfacimento della pretesa sostanziale del ricorrente fondate su
valutazioni discrezionali deve ritenersi preclusa dalla natura e dai limiti del sindacato
giurisdizionale sull’attività amministrativa: il giudizio sulla fondatezza della eccezione
implicherebbe infatti una sovrapposizione della valutazione giudiziale alla scelta
effettuata dalla p.a.
51
2.1.1 La domanda riconvenzionale.
Per lungo tempo ha dominato in giurisprudenza l’idea che la proposizione della
domanda riconvenzionale96 fosse incompatibile con la struttura fondamentalmente
impugnatoria del processo amministrativo.
Si osservava infatti che la proposizione della domanda riconvenzionale con la
quale la parte resistente faccia valere una “domanda nuova” o diversa rispetto a quella
proposta dal ricorrente sia incompatibile con l’assunto secondo il quale la fissazione del
thema decidendum attraverso la definizione dei motivi di ricorso spetti in via esclusiva
al ricorrente.97
La giurisprudenza successiva si è mostrata favorevole ad una revisione delle
originarie posizioni, seppure riconducendo la domanda riconvenzionale all’interno del
ricorso incidentale98.
Si è infatti osservato che il ricorso incidentale è l’unico strumento che consente
al resistente l’ampliamento del petitum e della causa petendi del giudizio già instaurato.
E’ rimasta minoritaria invece l’opinione secondo la quale per la proposizione
della domanda riconvenzionale sarebbe sufficiente la presentazione di una mera
memoria, ritualmente notificata e poi depositata (senza il rispetto dei tempi e delle
forme del ricorso incidentale) 99.
In realtà che la domanda riconvenzionale nel processo amministrativo possa
proporsi con le forme del ricorso incidentale appare quanto meno dubbio100.
Il concetto di domanda riconvenzionale si ricava dall’art. 36 del codice di rito
che attribuisce al giudice della causa principale la competenza a conoscere anche delle
96
Sulla ammissibilità della domanda riconvenzionale nel processo amministrativo si veda A. Di Giovanni, La
domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova 2004; Sulla domanda riconvenzionale nel
processo civile v. S. Evangelista, Riconvenzionale (domand), in Enc. Gur. Treccani, vol. XXVII, Roma,
1991, G. Tarzia, C. E. Balbi, Riconvenzionale (diritto processuale civile), in Enc. Dir. vol.XL, Milano, 1989,
665 e ss.
97
In questo senso si veda per tutte, Tar Friuli, 11 aprile 1996, n. 289, per la quale: “Nel giudizio
amministrativo il thema decidendum” è definito dal solo ricorrente, anche nelle ipotesi di giurisdizione
esclusiva, sicché il compito del resistente è limitato a contestare i motivi di gravame, senza poter proporre
domanda riconvenzionale”.
98
Così, da ultimo, Tar Napoli, sez. I, 27 settembre 2004, n. 12592; Cons. Stato, sez. V, 31 31 gennaio 2001,
n. 353, in Riv. giu. Edil., 2001, I, 421 secondo cui “Nelle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, è inammissibile l’eventuale domanda riconvenzionale potendosi ampliare
l’oggetto del giudizio mediante il solo strumento del ricorso incidentale, da notificare alle altre parti in virtù
del principio del contraddittorio”; negli stessi termini Cons. Stato, sez. V, 31 gennaio 2001, n. 353, in Riv.
giur. Edil., 2001,I, 421; Tar Puglia, Bari, sez.II, 26 novembre 2002, n. 5147, in Foro amm., 2002, f.11; Tar
Umbria, 24 marzo1999, n. 218, in Urb. E app. 1999, 1349.
99
Per tutte, si veda Tar Marche, 11 febbraio 2000, n. 290.
100
Sul punto si veda E. Picozza, Manuale, 181-182.
52
domande riconvenzionali che dipendano dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da
quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione.
L’art. 167 relativo allo svolgimento del processo di cognizione a sua volta
dispone che nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre a pena di decadenza
le eventuali domande riconvenzionali oltre alle eccezioni processuali e di merito che
non siano rilevabili d’ufficio.
Dalle citate disposizioni è dato desumere che con la domanda riconvenzionale, il
convenuto non si limita a chiedere il rigetto della domanda allegando fatti diversi da
quelli fatti valere dall’attore (come avviene nell’eccezione in senso proprio), bensì
giunge addirittura a proporre un’altra sua propria ed autonoma domanda, rispetto alla
quale egli assume il ruolo proprio dell’attore (facendo conseguentemente assumere
all’attore anche il ruolo di convenuto).
Unica condizione per l’ammissibilità della domanda riconvenzionale è peraltro
quella della sua connessione oggettiva con i fatti costitutivi della domanda principale o
con i fatti estintivi, impeditivi o modificativi già introdotti nella causa sotto forma di
eccezioni, “senza che occorra una vera e propria comunanza di causa petendi”101.
Da queste brevi considerazioni emerge la diversità di funzione tra i due istituti
della domanda riconvenzionale e del ricorso incidentale.
La finalità della domanda riconvenzionale è da ricercarsi infatti esclusivamente
in una ragione di economia processuale, potendo la domanda proposta in via
riconvenzionale costituire oggetto di un autonomo giudizio; finalità del ricorso
incidentale è invece quella di consentire al controinteressato una difesa nei confronti del
ricorrente.
Nel primo caso l’interesse ad agire è autonomo e prescinde dall’iniziativa
giurisdizionale del soggetto agente in via principale, nel secondo, invece, l’interesse alla
proposizione del ricorso incidentale strettamente connesso alla presentazione del ricorso
principale.
Per quanto formalmente strutturato come azione di annullamento, il ricorso
incidentale consiste, infatti, in una eccezione volta a dimostrare l’infondatezza del
ricorso principale e, quindi, a conservare l’assetto di interessi delineato dall’atto
impugnato102.
Il che spiega anche la caratteristica di stretta accessorietà e dipendenza del
ricorso incidentale rispetto a quello principale, enunciata dall’art. 37 ult. comma T.U.
101
102
Così Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, op. cit., p. 95.
Cfr. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, op. cit., p. 809.
53
Cons. Stato secondo il quale il primo non è efficace se proposto dopo la rinuncia del
ricorso principale, o se quest’ultimo è dichiarato inammissibile.
Nondimeno, ove si muova dalla premessa che il processo amministrativo sia
finalizzato a realizzare gli interessi sostanziali delle parti, non si vede quale ostacolo
sorga all’ammettere la possibilità per la parte resistente (per lo più, ma non
necessariamente la p.a.) di proporre una domanda riconvenzionale, subordinando tale
possibilità esclusivamente alla notifica e al successivo deposito della relativa
memoria103.
Con l’importante conseguenza che il giudice amministrativo avrà l’obbligo di
pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale anche nel caso di rinuncia al ricorso
principale o di cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda
principale.
Risolto in via di principio il problema dell’ammissibilità dell’azione
riconvenzionale nel processo amministrativo, resta da individuare quale sia il possibile
campo di applicazione dell’istituto nel processo amministrativo.
Nessun ostacolo sorge ad ammettere la domanda riconvenzionale nelle
controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del g.a.
L’ipotesi più frequente è quella della domanda riconvenzionale che dipende dal
titolo dedotto in giudizio dall’attore-ricorrente (il concessionario impugna l’atto di
risoluzione del rapporto concessorio e l’amministrazione propone la domanda
riconvenzionale di accertamento e condanna del ricorrente al risarcimento del danno per
inadempimento gli obblighi nascenti dalla stessa).
L’esempio dà luogo, com’è evidente, ad un’ipotesi di domanda riconvenzionale
dipendente dal titolo dedotto in giudizio dall’attore.
Ma potrebbe prospettarsi anche un’ipotesi di riconvenzionale collegata al titolo
che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione.
Ad
es.
nell’ambito
dell’eccezione
di
compensazione
dedotta
dall’amministrazione, essa chiede la condanna dell’attore al pagamento della differenza
(rispetto al credito vantato dal ricorrente) risultante a suo favore104.
103
L’art. 167 c.p.c., secondo il quale la domanda riconvenzionale è sottratta all’onere della notifica, non
appare applicabile al processo amministrativo, caratterizzato, in conformità alla struttura impugnatoria ch lo
connota, dall’esigenza che le domande intese ad ampliare il thema decidendum debbano essere
necessariamente introdotte in giudizio previa loro notifica alle parti interessate.
104
La fattispecie potrebbe porsi nei seguenti termini: il ricorrente contesta la pretesa al pagamento degli oneri
di concessione edilizia, l’amministrazione comunale eccepisce la compensazione con oneri non assolti della
lottizzazione presupposta e chiede il pagamento o anche la realizzazione diretta degli obblighi medesimi.
54
Più discussa è invece l’ammissibilità della domanda riconvenzionale nel
processo di legittimità.
Malgrado l’opinione maggioritaria tenda ad escludere tale evenienza105, tuttavia
non pare sorgano ostacoli ad ammettere il ricorso a tale strumento processuale quanto
meno nelle ipotesi in cui la p.a. faccia valere le proprie pretese risarcitorie nei confronti
del ricorrente ex art. 7 L. 205/00.
105
Cfr. tar gli altri Picozza, op. cit., p. 182.
55
2.2 L’integrazione della motivazione in corso di causa e la soddisfazione
dell’interesse sostanziale del ricorrente.
La soluzione sopra prospettata in ordine alla proponibilità di eccezioni in senso
proprio o stretto nel processo amministrativo presuppone risolta in senso positivo la
diversa questione attinente l’integrabilità in corso di giudizio della motivazione dei
provvedimenti.
E’ evidente infatti che ove si ammetta la possibilità in capo all’amministrazione di
dedurre in giudizio fatti diversi da quelli dedotti dal ricorrente a fondamento delle
censure, tali fatti possano inerire anche a circostanze non esplicitate nella motivazione
del provvedimento impugnato.
Com’è noto la giurisprudenza ha mantenuto fino ad oggi un atteggiamento di
sostanziale chiusura nei confronti della possibilità per l’amministrazione di apportare in
giudizio argomentazioni e produzioni difensive non esplicitate nel corpo del
provvedimento impugnato.106
Le argomentazioni poste a sostegno del divieto sono tanto di ordine sostanziale107,
che processuale.
Queste ultime a loro volta sono riconducibili a due ordini di considerazioni.
In primo luogo, si afferma che la possibilità di integrazione postuma della
motivazione contrasterebbe con la stessa struttura del processo di legittimità modellato
sullo schema del ricorso avverso l’atto.
Nell’impostazione tradizionale, infatti, lo schema impugnatorio implicherebbe
che la res litigiosa debba considerarsi cristallizzata nell’atto impugnato e
106
Cons. Stato, sez. VI, 26 giugno 2003, n.3849, in Cons. St. 2003, I, 1422, che nega sia l’integrazione che
l’interpretazione autentica della motivazione in corso di causa da pare dell’amministrazione; id. sez. IV, 29
aprile 2002, n. 2281 in Urb. E app., 2002, n. 935; Cons. Sta. Sez. I, 15 dicembre 1999, n. 1028/99, in Cons.
st. , 1999, I, 1028; Tar Napoli, sez. II, 18 dicembre 2003, n. 15430, in Foro amm. – Tar, n. 12/20003, p.
3593; TRGA Bolzano, 30 agosto 2000, n. 253, in I tar, 2000, I, 4419; Cons. St., sez. IV, 23 novembre 202, n.
6435; nonché da ultimo Cons. St. sez. VI, 29 maggio 2008, n. 2555.
107
Si fa rilevare che l’ammissibilità dell’integrazione c.d. postuma finirebbe per svilire il
carattere innovativo contenuto nell’art. 3 L. 241/90, dal momento che la prescrizione in esso contenuta
resterebbe priva di sanzione.
La degradazione della motivazione comporterebbe inoltre la stessa degradazione del
provvedimento finale, in ragione della stretta correlazione tra motivazione procedimentale e motivazione.
Più in generale si lamenta che l’ammissibilità dell’integrazione postuma incorso di causa innescherebbe
una progressiva de quotazione dello stesso provvedimento, che potrebbe più considerarsi il momento
finale del procedimento, in quanto resterebbe sempre aperta la possibilità per l’amministrazione di
un’integrazione successiva dello stesso.
Infine il divieto di integrazione postuma della motivazione è stato fondato sul dato logico –
temporale della necessaria preordinazione della motivazione nella parte dispositiva del provvedimento
(Cons. St. sez. IV, 22 aprile 2002, n. 2281).
56
conseguentemente non possa più ritenersi modificabile a partire dal momento della
notifica del ricorso giurisdizionale.
Secondariamente, si ritiene che la possibilità concessa alla sola amministrazione
di incidere unilateralmente sull’oggetto del giudizio attraverso il mutamento della
motivazione dell’atto si tradurrebbe in un’inammissibile violazione del principio,
costituzionalmente rilevante, della parità delle parti nell’ambito del processo.
Inoltre la integrabilità postuma della motivazione alimenterebbe la prassi c.d. dei
ricorsi al buio, ossia di ricorsi proposti avverso atti (carenti di motivazione) che
potrebbero rivelarsi pienamente legittimi dopo l’instaurarsi del giudizio. 108
Di fronte a siffatte argomentazioni la replica non può che essere costituita ancora
una volta, dal rilievo dell’evoluzione avvenuta nelle caratteristiche del modello
impugnatorio proprio del giudizio di legittimità, pacificamente riconosciuta dalla stessa
giurisprudenza in varie occasioni, ma che con riferimento all’integrazione della
motivazione in corso di causa non sembra sufficientemente percepita.
In un giudizio orientato al rispetto dei canoni costituzionali di effettività e
pienezza della tutela giurisdizionale il ricorrente ha infatti ogni interesse ad ottenere
l’emersione nel corso del giudizio di tutte le possibili ragioni che contrastano alla
soddisfazione del proprio interesse sostanziale.
Tale interesse, ad avviso di chi scrive, sussiste peraltro tanto se si faccia valere in
giudizio una posizione di interesse pretensivo che oppositivo.109
Nel primo caso la ragione è di intuitiva evidenza: il titolare di un interesse
pretensivo ha tutto l’interesse ad ottenere l’emersione in giudizio, quanto più ampia
possibile, delle ragioni di diniego opponibili dall’amministrazione avverso l’istanza di
ampliamento della propria posizione giuridica, poiché quanto più esteso è il sindacato
del giudice e l’accertamento compiuto sulla legittimità di tali ragioni, tanto più forte
diverrà poi la loro posizione, in virtù del c.d. effetto conformativo prodotto dalla
decisione di accoglimento del ricorso nei confronti della successiva attività
amministrativa.
Anche nella seconda ipotesi, ossia allorchè il ricorrente vanti una posizione di
interesse oppositivo, è preferibile un pronuncia di rigetto ad una (apparente) vittoria,
108
A. Azzana, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo, Milano, 1968, 311-314.
In senso parzialmente differente invece cfr. D. Vaiano, Pretesa di provvedimento, op. cit. 586, secondo il
quale il problema dell’integrazione postuma della motivazione si pone con riguardo ai titolari di interessi
pretensivi, atteso che i titolari di interessi oppositivi “possono quanto meno ritenersi interessati ad ottenere
comunque l’annullamento dell’atto concretamente ed effettivamente lesivo del loro interesse materiale per
qualsiasi motivo di illegittimità tale annullamento sia pronunciato (salvo a vederselo poi eventualmente
nuovamente adottare dall’amministrazione emendato dal vizio riscontrato) …”.
109
57
che lascia impregiudicata la possibilità per l’amministrazione di adottare un nuovo
provvedimento di contenuto sostanzialmente analogo a quello impugnato costringendo
così il privato ad una spirale infinita di impugnative.
Sulla base di simili argomentazioni sembra incamminarsi un minoritario
orientamento giurisprudenziale secondo il quale al divieto di integrazione postuma della
motivazione “corrisponde non già un accrescimento delle garanzie e dei risultati
perseguibili in sede processuale, ma una loro contrazione, giacché l’annullamento del
provvedimento impugnato, visto come obiettivo, lascia all’amministrazione tanto più
margine di movimento dopo la sentenza quanto minore è il sindacato della funzione che
il provvedimento stesso consente e quanto minore è il contenuto in termini di
accertamento e di indirizzo vincolante che i giudice è in grado di esprimere in ordine
ala pretesa sostanziale”.110
L’integrazione della motivazione in corso di causa dunque non solo non lede il
diritto alla difesa del convenuto, ma, altresì, deve ritenersi necessaria per attuare la vera
essenza della funzione giurisdizionale che è quella di rendere giustizia a chi ha ragione.
La tesi favorevole alla modificabilità della motivazione dei provvedimenti in
corso di causa sembra avvalorata dalla recente riforma del processo amministrativo che,
tra l’altro, ha previsto la possibilità per il ricorrente di integrare il contenuto delle
censure originariamente proposte avverso l’atto impugnato mediante la proposizione di
“motivi aggiunti”.
Il rimedio processuale, che consente al ricorrente di articolare le censure diverse
da quelle oggetto del ricorso originario, scaturenti dal tardivo apprezzamento delle reali
motivazioni dell’amministrazione consente, infatti, di ritenere superato il pericolo di
una violazione del principio della parità delle parti, violazione che potrebbe ricorrere
ove il privato fosse costretto a subire una nuova motivazione senza possibilità di
confutarla.
Ma ad avvalorare la possibilità di integrazione postuma della motivazione
valgono ulteriori considerazioni.
In particolare la generalizzazione del rimedio risarcitorio, esteso dall’art. 7,
comma 3 L. Tar al giudizio di legittimità fa sì che l’amministrazione debba essere posta
in grado di far valere tutte le ragioni di interesse pubblico che possano individuarsi
presenti o meno nella motivazione del diniego o dell’atto lesivo, quali cause impeditive
110
Così Tar Veneto, sez.I, 10 giugno 1987, n.648.
58
del soddisfacimento della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio in modo da
circoscrivere la sua eventuale responsabilità.
Ancora, una conferma della tesi favorevole all’integrazione postuma della
motivazione in corso di causa può trarsi dalla recente riforma del regime dei vizi
formali introdotta dalla 15/05.
Se infatti la violazione dei vizi di forma, in caso di attività vincolata, non conduce
all’annullamento del provvedimento impugnato tutte le volte in cui l’amministrazione
provi che l’atto non avrebbe potuto avere un contenuto diverso (art. 21 octies, comma 2,
legge 241/90), è evidente che deve riconoscersi all’amministrazione la possibilità di
controdedurre sui vizi di forma adducendo anche ragioni sostanziali diverse da quelle
esternate nel testo dell’atto.111
D’altra parte, come si è visto, l’onere per l’amministrazione di enunciare in
giudizio tutte le ragioni che ostano alla soddisfazione dell’interesse sostanziale del
ricorrente (attraverso l’adozione del provvedimento sperato ovvero la rimozione di
quello lesivo), discende dal generale criterio di riparto dell’onere della prova di cui
all’at. 2967 c.c. secondo il quale l’amministrazione, al pari di qualsiasi soggetto
convenuto (o resistente), ha l’onere di dimostrare in giudizio i fatti impeditivi, estintivi
o modificativi della posizione fatta valere dall’attore-ricorrente.
In conclusione non sembra sussistano ostacoli né di ordine sostanziale, né di
ordine processuale all’emersione in giudizio di tutti i motivi astrattamente idonei a
111
In questo senso Tar Campania, Napoli, sez.IV, 20 novembre 2006, n. 9984. La giurisprudenza sul punto
non è giunta in vero a soluzioni univoche. In particolare, secondo un primo orientamento (T.A.R. Piemonte,
Sez. I, 9 novembre 2005, n. 3501) anche dopo l’introduzione dell’art. 21 octies, comma 2, deve essere
esclusa la possibilità di una motivazione postuma che consenta all’Amministrazione di esternare nel corso del
giudizio le ragioni sottese al provvedimento di diniego impugnato, perché tale possibilità è incompatibile con
la natura demolitoria del processo amministrativo, che impone di fare esclusivo riferimento al contenuto
dell’atto, e perchè anche nel caso di atti vincolati il venir meno di ogni margine di apprezzamento
discrezionale non esonera l’Amministrazione dall’obbligo di rendere conoscibili i presupposti della
determinazione adottata, corredando l’atto di un congruo supporto motivazionale, la cui assenza non può
essere
valutata
alla
stregua
di
un
mero
vizio
formale.
In direzione opposta muove altra parte della giurisprudenza (T.A.R. Abruzzo Pescara, 14 aprile 2005, n. 185;
13 giugno 2005, n. 394; T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, 4 maggio 2005, n. 760), secondo la quale in caso
di provvedimenti vincolati il tradizionale principio del divieto di motivazione postuma (già scalfito
dall’affermazione della responsabilità della pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi e dalla
codificazione dell’istituto dei motivi aggiunti) deve considerarsi definitivamente superato alla luce dell’art.
21 octies, comma 2. In particolare secondo tale orientamento - premesso che il difetto di motivazione non si
configura, di per sé, come un vizio sostanziale (che, ove sussistente, conduce all’annullamento del
provvedimento impugnato), bensì come uno dei vizi sulla forma degli atti cui fa riferimento l’art. 21 octies,
comma 2 - deve ritenersi che attraverso l’introduzione della regola del raggiungimento dello scopo si sia
realizzata una trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto, sicché
l’Amministrazione intimata può oggi rappresentare in corso di giudizio ogni elemento utile per evidenziare la
palese infondatezza della pretesa del ricorrente.
59
sorreggere una decisione
sfavorevole al privato; al contrario ragioni di giustizia
sostanziale impongono di ritenere tale evenienza non solo possibile, ma doverosa.
60
3. La corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Com’è noto il dovere decisorio del giudice si fonda sulla regola generale di cui
all’art.112 c.p.c. secondo la quale “il giudice deve decidere su tutta la domanda e non
oltre i limiti di essa”.
Il principio o, se si preferisce la regola, della corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato sebbene trovi espressa enunciazione solo con riguardo al giudizio civile
deve ritenersi operante con riguardo a qualunque tipo di processo in quanto diretta
espressione del principio della strumentalità della tutela giurisdizionale rispetto alla
soddisfazione delle posizioni soggettive sostanziali che nel processo si fanno valere.
Il titolare (affermato) del diritto (o dell’interesse) sostanziale è libero di chiedere
oppure non chiedere tutela, come anche di rinunciare ad essa una volta chiestala. Ed è
evidente che tale disponibilità sta a sua volta in correlazione con la disponibilità del
diritto sostanziale, poiché il chiedere o il non chiedere la tutela di un diritto è un modo
di disporre di esso.
Il principio in discorso dice in sostanza tre cose: innanzitutto che a) il giudice deve
decidere ossia enuncia espressamente il dovere decisorio; secondariamente, b) collega il
dovere decisorio alla domanda, nel senso che tale dovere decisorio è condizionato e
determinato appunto dalla domanda; infine c) precisa l’oggetto e l’ambito del dovere
decisorio in discorso stabilendo che i limiti della decisione debbono coincidere con i
limiti della domanda.
La prima enunciazione fissa il dovere decisorio del giudice non ad una pronuncia
purchessia ma, ove la domanda sia qualificata dal ricorrere delle condizioni dell’azione,
ad una pronuncia sul merito.
Giudicare sul merito vuol dire investire il diritto sostanziale, ossia accertare l’esistenza
o la non esistenza del diritto o dell’interesse affermato nel ricorso.
La seconda enunciazione è espressione della regola di cui all’art. 2907 c.c. secondo il
quale la tutela giurisdizionale dei diritti è prestata “su domanda di parte e, quando la
legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio”, nonché nell’art.
99 c.p.c. il quale enuncia, sotto la rubrica principio della domanda: “chi vuol far valere
un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”.
61
Il che significa che colui che propone la domanda, per ciò stesso, acquista un “diritto
al processo”, una sorta di esclusiva su questo diritto e sul conseguente dovere decisorio
del giudice.
Ma l’enunciazione in parola fissa altresì il dovere del giudice di pronunciarsi su tutte
le domande, principio quest’ultimo non pienamente attuato nel processo amministrativo
a causa della prassi giurisprudenziale del c.d. assorbimento dei motivi di ricorso, della
quale si dirà in seguito.
La terza enunciazione fissa i limiti oggettivi e soggettivi del potere decisorio
innanzitutto con riguardo al tipo di azione esercitata (azione di accertamento di
condanna o costitutiva), secondariamente con riguardo al contenuto del giudizio.
La violazione di tale corollario può dar luogo, a seconda dei casi, a vizio di
ultrapetizione o ad omissione di pronuncia.
Così ad es. il giudice al quale fosse stata chiesta una condanna, pronunciasse una
sentenza di accertamento mero, incorrerebbe nel vizio di parziale omissione di
pronuncia (rispetto al margine in più che distingue la condanna dall’accertamento
mero), mentre se accadesse il contrario, il vizio sarebbe di ultrapetizione.
Quanto al contenuto del giudizio, e ferma restando la libertà del giudice di applicare le
norme di diritto che meglio ritiene adattabili al caso concreto (principio che viene
spesso enunciato col brocardo jura novit curia), il giudice è vincolato dall’indicazione o
allegazione dei fatti costitutivi introdotti in giudizio in via di azione o di eccezione.
Anche tale regola subisce un’attenuazione nel processo amministrativo attesa la
tradizionale riluttanza della dottrina e della giurisprudenza ad ammettere la
proponibilità di eccezioni in senso proprio nel processo amministrativo.
Nei paragrafi che seguono si tenterà di verificare se ed eventualmente in che misura le
riscontrate divergenze tra il processo civile e il processo amministrativo trovino
giustificazione nella natura della posizione giuridica che ivi si faccia valere.
62
3.1 La prassi dell’assorbimento dei motivi.
La nozione di assorbimento accomuna fenomeni in realtà molto differenti tra loro il
cui elemento distintivo è rappresentato in ogni caso da una mancata pronuncia relativa
ad un punto della controversia.
Si suole distinguere così tra assorbimento in senso proprio che ricorre tutte le volte in
cui tra le questioni proposte intercorra un particolare nesso logico in virtù del quale la
soluzione data all’una (sia essa una questione principale o assorbente) preclude o rende
superfluo l’esame delle altre.
Si pensi ad es. alle ipotesi in cui in cui una domanda (condizionata) sia proposta sotto
condizione che un’altra sia accolta (principale), ovvero all’ipotesi in cui una domanda
(subordinata) sia proposta per l’evenienza che l’altra sia respinta.
L’assorbimento in senso proprio può discendere altresì dalle caratteristiche intrinseche
delle questioni proposte, si pensi ai motivi di ricorso che prospettando un profilo di
illegittimità più radicale “assorbano” i motivi che configurino illegittimità meno
incisive.
In entrambe le ipotesi l’assorbimento dei motivi e la conseguente mancata pronuncia
su una parte della domanda non dà luogo ad alcuna violazione della regola della
coincidenza tra il chiesto e il pronunciato, costituendo al contrario, in alcuni casi,
applicazione del principio medesimo.
Diversa è invece l’incidenza sul principio della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato del c.d. assorbimento improprio dei motivi, intendendo per tale la prassi
giurisprudenziale, fondata su ragioni di economia processuale, secondo la quale una
volta accolto il ricorso per un motivo, il giudice è esonerato dallo scendere all’esame
delle altre doglianze prospettate.
Nella pratica del processo amministrativo il ricorso all'assorbimento avviene in
situazioni differenti, e difficilmente assimilabili dal punto di vista teorico:
a) innanzitutto si può avere assorbimento tra diverse questioni ugualmente di rito (nel
senso che il giudice, risolta in senso ostativo all'esame del merito una questione
pregiudiziale, omette di pronunciare sulle altre);
b) in secondo luogo, ed assai di frequente, si ricorre alla pratica dell'assorbimento nei
rapporti tra questioni di rito e merito della controversia (così che il giudice, ritenuto il
63
ricorso infondato nel merito, si astiene dall’esame delle eccezioni litis ingressum
impedientes);
c) infine l'assorbimento può interessare alcuni motivi di ricorso (per cui, ritenuto
fondato uno di questi, il giudice annulla l'atto impugnato senza esaminare gli ulteriori
profili di illegittimità denunciati).
Prescindendo dall’esame delle prime due ipotesi, sembra opportuno, ai fini della
presente disamina, restringere il campo d'indagine a quest’ultima fattispecie.
La questione relativa alla compatibilità della prassi dell’assorbimento dei motivi di
ricorso con il principio della domanda è strettamente connessa alla diversa questione
relativa alla individuazione della domanda nel processo amministrativo.
In sostanza si discute se con il ricorso al giudice amministrativo siano esercitate tante
azioni quanti sono i vizi motivi dedotti (con la conseguenza che altrettanti saranno i capi
della domanda corrispondenti), ovvero se l’azione resti unica (così che unica sarà anche
la domanda) anche in presenza di una molteplicità di doglianze.
Se si ritiene unica l’azione esercitata e la correlativa domanda112 restino unitarie
malgrado la prospettazione di diversi motivi di ricorso, questi ultimi costituiscono solo
singoli punti di cognizione all’interno della stessa domanda e poiché il dovere di
pronuncia del giudice è riferito esclusivamente alla domanda, ne discende che l’organo
giudicante potrà liberamente scegliere in ordine ai motivi da esaminare e all’iter da
seguire per giungere ad una pronuncia che esaurisca la richiesta di annullamento.
Ne consegue che il mancato esame di alcuni dei profili di illegittimità dedotti non
comporterà in ogni caso omissione di pronuncia anche quando avvenga nelle forme
dell’assorbimento improprio.
112
In questo senso v. Andreani, Forma del ricorso ed esercizio dell'azione nel giudizio amministrativo, in
questa Rivista, 1983, 243 e ss., spec. 258; la presenza di una pluralità di azioni esercitate nell'unico processo
è sostenuta anche da Gleijeses, Profili sostanziali del processo amministrativo, Napoli, 1962, 155-158, spec.
nelle note 27 e 28, dove si contesta apertamente l'opinione opposta. Lo stesso A., tuttavia, propone una
ricostruzione della nozione di causa petendi che si discosta da quella tradizionale, d'impostazione
chiovendiana, e viene ad essere individuata non direttamente nel singolo motivo, ma nella affermata lesione
di una situazione soggettiva sostanziale, alla quale, peraltro, il vizio è indissolubilmente connesso; in termini
non dissimili, più di recente, cfr. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988,
248-249; sul punto v. anche Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati,
Napoli, 1963, 54-55, nonché 57, nota 1; La Valle, Il vincolo del giudice amministrativo ai motivi di parte, in
Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 84 e ss.
64
Al contrario affermando la corrispondenza motivo di ricorso/diritto/azione/domanda113,
l’assorbimento improprio, quando non sia riconducibile ad una statuizione implicita,
comporta una omissione di pronuncia su un punto autonomo della controversia.
Conclusioni non dissimili possono essere raggiunte muovendo dalle posizioni che
caratterizzano la tesi intermedia (Nigro) tendente a raggruppare i motivi di ricorso in
capi di domanda a seconda degli effetti (pieni, semipieni e vincolanti) che sono idonei a
determinare a carico dell’amministrazione nel caso del loro accoglimento 114. Sicchè,
secondo tale ultima ricostruzione, l’assorbimento dei motivi potrebbe avvenire solo tra
motivi riconducibili allo stesso capo della domanda.115
Altra dottrina (Casetta) 116 tende a identificare ogni singolo motivo di gravame con un
autonomo capo della domanda con la conseguenza di ammettere l’assorbimento dei
motivi soltanto nell’ambito dello stesso capo di domanda, ossia con riferimento ai punti
di cognizione che vi confluiscono.
Alla tesi della pluralità di azioni sembra aver aderito anche la giurisprudenza
tradizionale117, malgrado non siano molte le pronunce che prendono espressa posizione
sul punto.
113
Nel senso dell’unicità dell’azione sembra doversi intendere, tra gli altri, anche l'opinione di F. Satta,
Giustizia amministrativa, Padova, 1988, 207, il quale, dalla constatazione che nel processo amministrativo
sono generalmente prospettati più vizi, anche con il medesimo motivo, deduce che «questi vizi non sono in
realtà figure autonome, che trovino effettivo riscontro sul piano del giudizio, ma sono soltanto aspetti di un
unico vizio ...: è il vizio di legittimità, cioè l'ingiustizia della valutazione discrezionale che, non denunciabile
come tale, può essere espressa solo in termini di difformità del provvedimento rispetto ad una serie di
principi e criteri di correttezza giuridica e razionalità di condotta e di giudizio, cui l'amministrazione deve
adeguarsi».
114
In tal senso Nigro, L'appello, cit., 436 e ss., spec. 437: «La domanda di annullamento con pluralità di
motivi che pur muove dall'affermazione di un solo diritto all'annullamento, si scinde così in tanti capi, quante
sono le dimensioni di vincolo - e quindi i tipi di vantaggio - che i diversi motivi possono produrre attraverso
l'annullamento».
115
Cfr. Nigro, L’appello, cit., p. 33 il quale ritiene che la tesi della pluralità dei diritti di impugnazione
ciascuno correlato ad un motivo di ricorso non riesce a spiegare “il fenomeno dell’assorbimento innanzitutto;
in secondo luogo il fatto che che non ogni motivo di ricorso dà luogo ad un distinto capo di domanda (…);
infine, lo stesso istituto dei motivi aggiunti”. In senso analogo Piras, Interesse legittimo, iI, cit., p. 255-256.
116
Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano 2008, 791.
117
Così, espressamente, Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 1987, n. 203, in Cons. St., 1987, I, 344; Cons. Stato,
sez. V, 16 settembre 1993, n. 903, in Giur. it., 1994, III, 1, 504 con nota di Cannada Bartoli, Soccombenza
parziale del ricorrente e appellabilità della sentenza. Diversa opinione è invece espressa in una non recente
decisione: v. Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 1978, n. 408, in Cons. St., 1978, I, 623, dove si afferma che la
domanda che rileva ai sensi dell'art. 112 c.p.c. sarebbe unicamente la domanda di annullamento dell'atto,
indipendentemente dai vizi-motivo che la caratterizzano.
65
A parere di chi scrive la prassi giurisprudenziale dell’assorbimento (improprio) dei
motivi andrebbe rimeditata oltre che per i citati profili di incompatibilità con il principio
della domanda, in ragione di due ulteriori ordini di considerazioni.
Innanzitutto essa sembra inconcilabile con la natura del giudicato amministrativo di
annullamento la cui caratteristica è quella di incidere su una realtà in movimento quale è
l’azione amministrativa nel suo divenire. Ne discende che tanto più ampi saranno i
profili cognitori e decisori del giudice amministrativo, tanto più incisivo sarà il
conseguente effetto del giudicato sull’attività amministrativa susseguente.
Secondariamente la prassi dell’assorbimento dei motivi non appare conciliabile con la
possibilità di chiedere tanto in sede di giurisdizione esclusiva, che di legittimità, la
tutela risarcitoria.
Infatti presupposto costantemente affermato dalla giurisprudenza per l’ammissibilità
dell’assorbimento è quello che dall’eventuale accoglimento della censura assorbita non
possa derivare alcun vantaggio al ricorrente, evenienza questa che oggi dovrà essere
vagliata anche sotto il profilo risarcitorio.118
118
In questo senso sembra orientata la più recente giurisprudenza cfr. Cons. Stato, sez.VI, 20 novembre
2007-25 gennaio 2008, n. 213.
66
3.2 La graduazione dei motivi di ricorso.
Com’è noto la disciplina positiva e segnatamente gli artt. 6, n. 3 e 37 del R.D. n.
642 del 1907, nonché l’art. 32 del R.D. 1054 del 1924 non contiene alcuna indicazione
sull’ordine di trattazione delle questioni.
Com’è stato correttamente rilevato tali disposizioni ed in particolare l’art. 6, n.3
del regolamento di procedura, lungi dall’individuare i criteri per identificare l’azione,
hanno la funzione, essenzialmente processuale, di definire i rapporti tra poteri delle parti
e poteri del giudice relativamente all’introduzione dei fatti costitutivi nel processo.
Essa pertanto è deputata a svolgere nel processo amministrativo la medesima
funzione svolta dall’art. 163, n. 4 c.p.c., che disciplina il contenuto della citazione.119
Nel silenzio del legislatore la giurisprudenza amministrativa facendo applicazione
dei canoni comuni al processo civile ha ritenuto prioritario l’esame delle questioni di
rito attinenti ai presupposti processuali e alle condizioni dell’azione.
Il processo amministrativo conosce con frequenza di fattispecie diversificate di
“pregiudiziali di rito”: giurisdizione, tempestività, integrità del contraddittorio,
sussistenza di un provvedimento impugnabile nella giurisdizione generale di legittimità;
alle quali si aggiungono questioni variamente definite dalla dottrina processualistica
come pregiudiziali di rito o come preliminari di merito: legittimazione e interesse, sotto
i rispettivi profili sostanziale e processuale.
È opinabile, tuttavia, che esista un rigido ordine di trattazione delle questioni: può
fondatamente sostenersi che la insussistenza della giurisdizione preceda ogni altra
questione, perché anche la valutazione della ricevibilità del ricorso quanto a
tempestività e la verifica dell'integrità del contraddittorio possono essere svolte solo dal
giudice che abbia giurisdizione; si può, peraltro, in maniera altrettanto convincente,
sostenere che, se il ricorso non è ricevibile, il giudice deve limitarsi a dichiararlo tale,
senza esaminare nemmeno il profilo della giurisdizione, che richiede comunque una
sommaria disamina della questione controversa.
In realtà non esiste una regola sull'ordine di trattazione delle questioni, ma solo un
criterio indicativo d'opportunità.
119
Cfr. Nigro, Processo amministrativo e motivi di ricorso, in Foro it., 1975, V, c. 17.
67
Questo criterio è spesso influenzato dal caso concreto e sovente il giudice tende a
prendere in considerazione, tra più questioni pregiudiziali, quella idonea a risolvere la
controversia con una pronuncia sul rito.
Di più, è frequente rinvenire sentenze che espressamente prescindono dall'esame
delle eccezioni preliminari sollevate dai resistenti per addivenire a un rigetto del ricorso.
Com’è evidente, la determinazione dell’ordine di trattazione delle questioni di rito
non presenta punti di contatto con la tematica afferente al rispetto del principio della
disponibilità del processo.
La mancanza dei presupposti
processuali o delle condizioni dell’azione obbliga il giudice ad arrestare il giudizio ad
una mera pronuncia sul rito senza potersi addentrare a sindacare la fondatezza
sostanziale della pretesa avanzata dal ricorrente.
Diversa è invece la questione relativa alla trattazione delle questioni di merito.
In linea di principio vale anche per queste ultime la considerazione secondo la
quale non esiste un ordine di trattazione delle questioni afferenti il merito, e su tale
considerazione si fonda la prassi, giustamente criticata, dell’assorbimento dei motivi.
Sul punto si pongono essenzialmente due questioni tra loro interdipendenti.
Occorre stabilire innanzitutto se, pur in assenza di un’espressa previsione
normativa, ragioni di opportunità logica impongano la trattazione prioritaria di alcune
questioni rispetto alle altre.
Secondariamente, se il giudice possa ritenersi libero di “scegliere” la trattazione
dei motivi di ricorso da trattare prioritariamente rispetto agli altri o se debba invece
ritenersi vincolato alla graduazione dei motivi operata dalla parte.
Con riguardo alla prima questione la giurisprudenza ha enucleato alcune ipotesi in
cui l'esame di alcuni motivi si imporrebbe con precedenza logica rispetto agli altri,
secondo una tecnica che si potrebbe definire di assorbimento necessario; ed è giunta ad
affermare che, una volta proposti e non rinunciati, alcuni motivi vadano
necessariamente esaminati prima degli altri, senza che la parte ricorrente possa “
disporre ” degli stessi, graduandone, in via principale o subordinata, l'esame.
L’orientamento è stato sostenuto, in particolare, con riguardo al vizio di
incompetenza. Secondo il riferito indirizzo il vizio di incompetenza, se dedotto,
andrebbe esaminato per primo, rispetto alle altre censure, senza che possa addivvenirsi a
una pronuncia sui profili di illegittimità sostanziale del provvedimento.
Ciò essenzialmente per due ragioni: innanzitutto perché l'autorità competente
potrebbe non emanare alcun atto o emanare un atto di diverso contenuto, e,
68
secondariamente, perché non appare opportuno che la decisione sul merito della pretesa
sia adottata in mancanza di contraddittorio con l'autorità amministrativa cui spetta la
cura della materia120.
L’indirizzo si fonda sull’assunto, tutt’altro che dimostrato, secondo il quale gli
artt. 45, comma 1, R.D. 1054/1924 e 26 L. Tar nella parte in cui dispongono entrambi
che se il giudice amministrativo “accoglie il ricorso per motivi di incompetenza annulla
l’atto e rimette l’affare all’autorità competente” implicherebbero l’obbligo della previa
trattazione del vizio di incompetenza rispetto agli altri motivi di ricorso.
Tuttavia, come rilevato da autorevole dottrina, le disposizioni citate lungi dal
disporre una priorità logico-giuridica in ordine all’esame dei motivi di ricorso,
sembrano riferirsi al vizio di incompetenza “in sé considerato, senza badare al concorso
con altri motivi”.121
A tali argomentazioni può aggiungersi la considerazione di carattere generale
secondo la quale la pretesa priorità logica del motivo di incompetenza rispetto agli altri
motivi di ricorso sembra contrastare con il carattere indefettibilmente “soggettivo” della
giurisdizione amministrativa.
Proprio ponendo in luce il carattere soggettivo della giurisdizione la
giurisprudenza successiva ha progressivamente abbandonato l’assunto della prioritaria
trattazione del vizio di incompetenza122.
Con riguardo al secondo profilo (relativo alla possibilità di graduazione dei motivi
di ricorso) è opportuno richiamare l’indirizzo giurisprudenziale che nega al ricorrente la
possibilità di vincolare il giudice a un determinato ordine di trattazione delle censure.
Tale indirizzo si fonda sulla distinzione tra graduazione dei motivi di ricorso e
graduazione delle domande: si afferma così che se è possibile proporre domande in via
subordinata, non altrettanto sembra potersi dire in relazione ai motivi di ricorso, che non
costituiscono “ domande ” in senso processualcivilistico 123.
Così, per esempio, è stato ritenuto che, impugnata una graduatoria concorsuale, il
ricorrente non possa pretendere che sia esaminata prima la censura di errata valutazione
dei propri titoli, in modo da conseguire la nomina, e poi, in caso di esito negativo, far
valere un motivo di illegittimità concernente l'intera procedura: non si può conseguire la
120
Cons. St., sez. IV, 5 giugno 1995, n. 415, in For. amm., 1996, III, p. 286. Si rinvia anche a Cons. St., sez.
V, 6 dicembre 1988, n. 787, inedita. Per un diverso ordine di considerazioni, Cons. St., sez. IV, 12 marzo
1996, n. 310, in Cons. St., 1996, I, p. 378.
121
Cannada Bartoli, Processo, in Nov. dig. it., Torino, 1966, cit., 1087
122
Tar Campania, sez. IV, 2 novembre 19993, n. 468 e Cons. St. sez. IV 12 marzo 1996, n. 310.
123
Cfr. cons. stato, sez.V, 24 febbraio 1997, n. 184.
69
nomina a seguito di un concorso la cui procedura, secondo quanto dedotto dallo stesso
ricorrente, sia integralmente invalida124.
Del pari, in materia di operazioni elettorali, si è ritenuto che, a fronte di una
censura concernente la legittimità del procedimento nel suo complesso e di un'altra
censura che comporterebbe la mera correzione del risultato elettorale in favore del
ricorrente, il giudice debba esaminare con precedenza la questione della regolarità delle
operazioni elettorali nel loro complesso 125.
Anche tale orientamento non si sottrae a censure sotto il profilo del doveroso
rispetto della garanzia costituzionale ad una tutela piena ed effettiva.
In questo senso sembra orientarsi la più recente ed apprezzabile giurisprudenza del
Consiglio di Stato che in due recenti arresti del 2008126 ha affermato che l’ordine
seguito dal giudice nell’esame delle censure non possa prescindere dal doveroso rispetto
del principio dispositivo.
L’indirizzo riferito è giunto così ad affermare la necessità della previa trattazione
delle censure da cui possa derivare un effetto pienamente satisfattivo delle pretese del
ricorrente. Nel caso di specie si è così affermato che in presenza di un motivo diretto a
escludere il primo classificato di una gara di appalto e di un altro motivo tendente ad
una rinnovazione (parziale o totale) delle operazioni di gara, solo l’accoglimento della
prima
censura
soddisfa
l’interesse
della
seconda
classificata
ad
ottenere
l’aggiudicazione dell’appalto.
124
Cons. St., sez. V, 25 febbraio 1997, n. 184, in Cons. St., 1997, I, p. 227 (solo massima).
Cons. St., sez. V, 30 gennaio 1997, n. 113, in Cons. St., 1997, I, p. 85 (solo massima).
126
Cons. Stato, sez. VI, 20 novembre 2007-25 gennaio 2008, n. 213 e Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2008,
n. 3002.
125
70
Cap. III
Il sindacato sulla spettanza e le peculiarità della fase istruttoria.
1. Gli strumenti probatori tipici del processo amministrativo consentono al g.a di
sindacare la fondatezza della pretesa?
Tradizionalmente l’atteggiamento dei giudici amministrativi riguardo l’istruzione
nel processo di legittimità deve dirsi caratterizzato per un certo self-restraint di fronte
alla possibilità di utilizzare gli strumenti processuali idonei a garantire un accesso
diretto alla conoscenza dei fatti sottostanti al giudizio.
La riferita posizione giurisprudenziale si fonda su una lettura particolarmente
restrittiva della fondamentale norma in materia di istruzione probatoria costituita
dall’art. 44 T.U. Cons. Stato secondo la quale (nel testo anteriore alla novella del 2000)
“se la sezione a cui è stato rimesso il ricorso riconosce che l’istruzione dell’affare è
incompleta…può chiedere all’amministrazione interessata nuovi chiarimenti o
documenti, ovvero ordinare all’amministrazione interessata di fare nuove verificazioni,
autorizzando le parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti”.
Influenzata dalle più volte ricordate convinzioni circa la ritenuta natura
impugnatoria–cassatoria del processo amministrativo, la dottrina e la giurisprudenza
hanno tratto dalla disposizione citata i seguenti corollari.
Innanzitutto si è ritenuto che la fase dell’istruttoria nel processo amministrativo
assumesse la funzione di mero “completamento” dell’istruttoria procedimentale e che
pertanto rivestisse carattere “solo eventuale” ben potendo l’istruttoria procedimentale
essere completa.127
Secondariamente dal dato letterale della norma si è desunto il carattere tassativo dei
mezzi istruttori ivi indicati (documenti, chiarimenti e verificazioni) gli unici strumenti
d’altra parte ritenuti compatibili con un processo impugnatorio.
127
Per tutti in questo senso Zanobini, corso di diritto amministrativo, cit. vol II, p. 222-223 “nel processo
amministrativo, l’istruttoria non è una fase necessaria e costante, ma un elemento soltanto eventuale. Come in
ogni altro giudizio, la parte che propone la domanda deve infatti dare un fondamento alla sua tesi: la semplice
affermazione di essa non ha per il giudice alcun valore e neppure fa sorgere il dovere di iniziare un’istruttoria
dalla quale la dimostrazione venga fornita. Se la documentazione non manca, come di regola avviene
l’istruttoria resta generalmente esclusa, quante volte con essa la tesi risulti pienamente provata. Può darsi
però che la documentazione vi sia, ma insufficiente o contraddittoria: soltanto in questi casi l’istruttori ha
luogo, ma questa ha perciò sempre carattere eventuale e complementare”.
71
In terzo luogo dall’esegesi del citato art. 44 T.U. Cons. Stato si è desunta l’esistenza
di un ampio potere istruttorio facente capo al g.a. consistente nella facoltà di individuare
circostanze sulle quali ammettere mezzi di prova, nella scelta del mezzo probatorio
opportuno e nell’indicazione della parte sulla quale far ricadere il relativo onere.
Si parla al riguardo secondo una nota espressione di “principio dispositivo con
metodo acquisitivo” a significare che, in relazione ai fatti affermati dalla parte a
sostegno della propria prospettazione il giudice anche senza istanza, procede
all’acquisizione delle prove reputate utili o necessarie128.
In quest’ottica il giudice amministrativo è il
“signore della prova”129 ossia è
dominus ed arbitro insindacabile della valutazione sulla sufficienza o meno
dell’istruzione dell’affare al fine dell’adozione della richiesta decisione giurisdizionale.
I principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza tradizionale in materia di
istruzione probatoria, com’è evidente, sono modellati sullo schema di un giudizio in cui
“campeggia” l’atto; “L’atto amministrativo è l’elemento di delimitazione tanto del
contenuto dell’affermazione del ricorrente, quanto del contenuto della resistenza
(soprattutto da parte dell’amministrazione) alla pretesa del ricorrente, e determina anche
la natura di questa resistenza”.130
Ove, viceversa, ci si muova nella logica propria di un giudizio che assume a oggetto
la questione dell’accertamento della fondatezza o meno della “pretesa di
provvedimento”131 avanzata nei confronti della pubblica amministrazione diviene
evidentemente necessario che la cognizione giudiziale si estenda fino ad accertare
l’effettiva corrispondenza alla realtà dei fatti posti dalle parti a fondamento delle proprie
affermazioni.132
128
L’assunto si fonda oltre che sul citato art. 44, sugli artt. 26 e 27 del regolamento di procedura del
1907, in tema rispettivamente di esibizione di documenti e di prove testimoniali e perizie nella
giurisdizione di merito.
Per converso, l’art. 28 dello stesso regolamento fa espresso riferimento all’istanza istruttoria della parte
così dando origine ad un sistema misto nel quale convivono poteri ufficiosi e poteri sollecitati dall’istanza
di parte.
129
Secondo la notissima immagine proposta in dottrina da M. Nigro, Il giudice amministrativo “signore della
prova”, già in Foro it., 1967 e negli Studi in memoria di Andrea Torrente, ripubblicato in Id., Scritti giuridici
Milano, 1996, vol. I, pag. 683 ss.
130
Nigro, Giustizia amministrativa, cit. 2001, 303.
131
L’espressione è tratta da D. Vaiano, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, cit. , p. 508.
132
La maggioranza delle opinioni espresse sul punto in dottrina sembra avere a più riprese sottolineato come,
specialmente con riferimento alle caratteristiche assunte dal giudizio amministrativo di annullamento,
dovesse considerarsi ormai incostituzionale la limitazione dei mezzi istruttori nel processo amministrativo di
legittimità discendente dalla tradizionale interpretazione delle norme vigenti. In questo senso F.P. Luiso, Il
principio del contraddittorio e l’istruttoria nel processo amministrativo tributario, in Dir. proc. Amm., 2000,
p. 335-337; G. Azzariti, Limitazione dei mezzi di prova e struttura del processo amministrativo di legittimità,
in Giur. Cost., 1990, II, pp. 1707-1708; A. Travi, Garanzia del diritto d’azione e mezzi istruttori nel giudizio
72
L’esigenza della completezza e dell’esattezza della rappresentazione dei fatti trova
oggi un ulteriore e più preciso riferimento, oltre che nel diritto costituzionale alla difesa
di cui all’art. 24 Cos., nel principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. così
come novellato dalla legge del 2001, il quale nel garantire la c.d. “parità delle armi” tra
le parti processuali, certamente coinvolge anche la materia dell’istruzione probatoria ed
il diritto di ciascuna di queste a ricorrere a tutti quei mezzi di convincimento del giudice
che sino in grado di dimostrare l’effettiva esistenza dei fatti posti a fondamento delle
rispettive pretese.
Il principio del giusto processo sub specie del corollario del diritto alla prova
finisce per influenzare, come si avrà modo di chiarire nel prosieguo, anche la disciplina
delle modalità di deduzione e di acquisizione della prova.
Sotto quest’ultimo profilo il giudice amministrativo da signore della prova, pare
piuttosto
divenire
giurisdizionale
che
il
garante
richiede
della
correttezza
necessariamente
la
sostanziale
dell’accertamento
completezza
e
l’esattezza
dell’istruttoria.
Le suddette esigenze di ampliamento dei poteri istruttori del giudice amministrativo
sono state poste a fondamento dei recenti interventi normativi attuati dapprima con il
d.lgs. 80/98 e successivamente con la l. 205/00, con i quali il legislatore ha inteso
operare un ampliamento dei mezzi istruttori in applicazione di quel “diritto alla prova”
consacrato
a livello costituzionale dagli artt. 24, 111 e 113 Cost. e sancito dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In particolare con l’art. 35 d.l.gs. 80/98 come riscritto dall’art. 7 L. 205/00 il
legislatore, sulla scorta delle sollecitazioni derivanti dal Giudice costituzionale133, ha
esteso i mezzi di prova previsti per il processo civile a tutte le controversie rientranti
nella giurisdizione esclusiva del g.a. (laddove l’originario testo dell’art. 35 limitava la
portata innovativa della disposizione solo alle materie di cui agli artt. 33 e 34).
Inoltre l’art. 16 l. 205/00, anticipando la già sollecitata pronuncia di legittimità
costituzionale134, ha esteso al giudizio amministrativo l’utilizzabilità di quel particolare
strumento di accertamento del fatto costituito dalla consulenza tecnica d’ufficio.
amministrativo, in Dir. proc. Am., 1987, p. 577, G. Virga, Le limitazioni probatorie nella giurisdizione
generale i legittimità, in Dir. proc. Amm., 1990, p. 124 ss.; F. P .Luiso, Il principio del contraddittorio e
l’istruttoria nel processo amministrativo e tributario, cit. p. 334 ss.
133
Ci si riferisce in particolare alla nota decisione della Corte cost., 10 aprile 1987, n. 146 con la quale la
Corte ha dichiarato incompatibili i limiti probatori del processo amministrativo in tema di pubblico impiego
con i principi desumibili dall’art. 24 Cost, della tutela dell’azione in giudizio e della garanzia della difesa.
134
Il Cons. di stato, sez. IV, 17 aprile 2000 con ordinanza n. 2292, in Ras. Cons. Stato, 4/2000, I, p. 987
aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle
73
Si tratta allora di verificare se le citate riforme attuate dal legislatore in materia di
istruzione probatoria nel processo amministrativo abbiano attuato un radicale
mutamento culturale del modo di intendere l’accesso al fatto da parte del g.a., ovvero
se, al di là delle apparenze, esse si iscrivano nel solco della tradizionale visione
oggettivistica del processo amministrativo.
Il profilo verrà esaminato nei successivi paragrafi.
disposizioni di cui all’art. 19, L. 1034/71 e 44 T.U. Cons. stato 1054/24 nelle parti in cu il complessivo
sistema probatorio risultante da tali norme non consente al giudice amministrativo, nella giurisdizione
generale di legittimità...di avvalersi,a i fini dell’accesso al fatto, di perizie accertamenti tecnici o consulenze
tecniche d’ufficio, per contrasto con gli artt. 3, 24 commi 1 e 2, e 113 Cost”.
74
1.1 L’istruzione probatoria nelle ipotesi di giurisdizione di merito.
Ai sensi dell’art. 27, R. D. 642/07, nel processo di merito sono ammessi, oltre ai
mezzi di prova propri del giudizio di legittimità, anche testimonianze, ispezioni e
perizie e “tutte le altre indagini che possono condurre alla scoperta della verità”,
formula intesa nel senso che sono ammessi tutti i mezzi di prova, ad eccezione delle
prove legali (confessione e giuramento).
Similmente l’art. 44, comma 2, T.U. Cons. Stato dispone che “Nei giudizi di
merito il Consiglio di Stato può … ordinare qualunque altro mezzo istruttorio, nei modi
determinati del regolamento di procedura”.
La maggiore estensione dei mezzi istruttori nelle ipotesi rientranti nella
giurisdizione di merito si comprende in considerazione della particolare natura di tale
giudizio.
Secondo la ricostruzione data da autorevole dottrina135 la formula “giudizio di
merito” assume nel linguaggio comune due significati.
Con essa si intende ad un lato il giudizio di fatto (in contrapposizione al giudizio
di diritto o di legittimità), dall’altro il giudizio di merito equivale a giudizio di
opportunità, ossia giudizio sulla adeguatezza, giustizia di un atto o di un
comportamento.
Com’è stato rilevato136, le ipotesi di giurisdizione contemplate dall’art. 27 t.u.
Cons. Stato (al quale rinvia l’art. 7 della legge 1034/71) sono quasi tutte riconducibili al
giudizio di fatto (si pensi alle contestazioni tra comuni di province diverse per
l’applicazione di una tassa, o alle contestazioni sui confini di comuni e province, o ai
ricorsi contro le deliberazioni in materia di pedaggi provinciali e comunali).
L’unica ipotesi di giurisdizione di merito che conservi oggi attualità è quella
diretta ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di
conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali.
Ipotesi quest’ultima che sembra in verità rinviare anch’essa più ad un giudizio di
fatto – se l’autorità si sia conformata o meno al giudicato – che ad un giudizio di
opportunità.
135
136
G. Corso, Istruttoria nel processo amministrativo
G. Corso, Istruttoria, op. ult. cit.
75
Il che spiega la ragione storica per la quale il legislatore ha inteso estendere nelle
ipotesi di giurisdizione di merito la portata dei mezzi istruttori, rispetto a quelli posti
normalmente nella disponibilità del g.a. in sede di legittimità.
In altre parole, l’estensione dei poteri cognitori del g.a., rettamente ricostruita, va
rapportata all’oggetto del giudizio più che alla natura dei poteri giurisdizionali che in
esso vengono posti in essere.
Ne consegue che anche sotto tale profilo nessun limite si oppone ad estendere gli
stessi poteri cognitori al giudice di legittimità, tutte le volte in cui l’oggetto materiale
del decidere richieda parimenti la più ampia cognizione dei fatti posti a fondamento
delle pretese.
L’assunto sembrerebbe trovare conferma nella tesi (invero controversa) che
consente la possibilità di chiedere la tutela risarcitoria per la prima volta nell’ambito del
giudizio di ottemperanza.
Pur non potendosi ricostruire in questa sede i termini dell’annosa questione che
ancora oggi divide la dottrina e la giurisprudenza, può nondimeno rilevarsi che ove si
acceda alla tesi favorevole all’ammissibilità della domanda proposta per la prima volta
in sede di ottemperanza,
resterebbe da chiedersi se esistano plausibili ragioni per
differenziare il regime probatorio a seconda che la domanda di risarcimento sia proposta
in sede di cognizione, oppure nel corso del giudizio per l’esecuzione del giudicato.
Del resto, già qualche anno fa era stata prospettata la tesi secondo la quale
proprio la sostanziale continuità tra giudizio di cognizione e processo di esecuzione
(con giurisdizione estesa al merito, ma tuttavia caratterizzata da momenti di cognizione
e specificazione del giudicato) non giustificherebbe un diverso regime dell’istruttoria.137
137
V. Spagnuolo Vigorita, Notazioni sull’istruttoria nel processo amministrativo, in Dir. proc. Amm., 1984,
p.16.
76
1.2 Gli strumenti di prova nella giurisdizione esclusiva.
In base all’art. 35, comma 3, “il giudice amministrativo, nelle controversie di cui
al comma 1 [ossia nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva], può
disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché
della consulenza tecnica d’ufficio, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento.
L’assunzione dei mezzi di prova e l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio
sono disciplinati, ove occorra, nel regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n.
642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle
esigenze di celerità e concentrazione del giudizio”.
La disposizione citata non ha mancato di dar luogo ad incertezze in ordine alla
sua esatta portata applicativa.
Per una prima chiave di lettura, formatasi peraltro nella vigenza della
disposizione precedente alla novella della L. 205/00, la norma si riferirebbe solo ai
giudizi risarcitori correlati alla nuova giurisdizione esclusiva nelle sole “materie” di cui
agli att. 33 e 34 D. Lgs. 80/98138.
Tale interpretazione, invero fortemente osteggiata dalla dottrina139 e dalla
giurisprudenza140 prevalenti, si fondava sul dato letterale dell’art. 35, comma 3 nella
parte in cui attraverso il richiamo al comma 1, sembrava limitare la portata applicativa
della riforma alle sole controversie ricomprese nelle “materie” di giurisdizione esclusiva
previste dal d.lgs. 80/98.
Per una seconda tesi (anch’essa elaborata prima dell’entrata in vigore della L.
205/00), invece la portata applicativa dei nuovi mezzi di prova andrebbe estesa a tutte le
controversie (anche non risarcitorie) ma pur sempre riconducibili alle sole materie di cui
agli artt. 33 e 34.
Per una terza e preferibile tesi, invece, i nuovi mezzi istruttori
sarebbero
applicabili a tutte le ipotesi (vecchie e nuove) di giurisdizione esclusiva.
138
L. Bagarotto, Posizioni giuridiche soggettive e mezzi di prova nei giudizi amministrativi, in Cons. Stato,
II, 2567.
139
M. Lipari, D.lgs. 80/98: le controversie “devolute al giudice amministrativo”, in Urb. E app., 1998, 602 e
ss.; M. Stevanato, D.Lgs. n. 80/98 e giurisdizione esclusiva del guidice amministrativo, in particolare nella
materiea edilizia, inRivista giur. Dell’edilizia, 1998, 605 e ss.
140
In favore della tesi estensiva si veda per tutte Cons. Stato, sez. VI, 6 giugno 2000, n. 3212, in Studium
juris, 2000, 1283, relativa ad una concessione di beni pubblici. Nello stesso senso, secondo la lettura
prevalente, anche Cass. Civ, s.u. n.500/99, che, sia pure a fini risarcitori, individua negli artt. 33 e ss. Del
d.lgs. 80/98 una nuova disciplina generale della giurisdizione esclusiva del g.a.
77
Quest’ultima interpretazione è prevalsa infine nella giurisprudenza141 e accolta
con favore dalla dottrina.142
La questione interpretativa è stata risolta com’è noto dal legislatore con l’art. 7
L. 205/00 che modificando l’art. 35, comma 1 D.lgs. 80/98, ha fatto venir meno le
originarie incertezze chiarendo che l’ambito di applicazione dei nuovi strumenti
istruttori coincide con l’intero ambito delle controversie devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Così definito l’ambito applicativo della norma, non è apparso chiaro, tuttavia,
nel contesto sistematico della disciplina, se i mezzi istruttori previsti in sede di
giurisdizione esclusiva operino solo quando l’azione è proposta per la tutela di diritti
soggettivi, oppure anche quando la domanda concerne interessi legittimi.
Secondo un primo indirizzo l’irrilevanza, in sede di giurisdizione esclusiva del
g.a. della distinzione tra posizioni giuridiche di diritto e di interesse ai fini del riparto di
giurisdizione, non esclude la residua rilevanza della distinzione ai fini della
determinazione dei poteri cognitori e decisori del giudice nella controversia.143
Ne consegue che secondo tale lettura l’ambito di applicazione dei nuovi mezzi
istruttori andrebbe limitato alle sole controversie vertenti in materia di diritti soggettivi
e non anche di meri interessi, laddove una interpretazione estensiva della disposizione
finirebbe per condurre ad un’irrazionale differenziazione, nell’ambito della tutela degli
interessi legittimi tra interessi affidati alla giurisdizione di legittimità, connotata dai
limiti processuali ordinari, e quella riservata agli interessi coinvolti in controversie
rientranti nella giurisdizione esclusiva, arricchita dai nuovi mezzi istruttori.
Secondo la tesi unitaria invece l’ambito di applicazione degli strumenti istruttori
previsto dall’art. 35 d.lgs. 80/98 riguarda tanto le controversie in materia di diritti
soggettivi quanto quelle riguardanti gli interessi legittimi.144
141
Per tutte v. Cons. Stato, sez. VI, 6 giugno 2000, n. 3212, in Studium juris, 2000, 1283, relativa ad una
concessione di beni pubblici.
142
M. Lipari, D.Lgs. 80/98: le controversie “devolute al giudice amministrativo”, in urb. E app., 1998, 602 e
ss.,; M. Stevanato, D.lgs. n. 80/98e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in particolare nella
materia edilizia, in Riv. giur. Dell’edilizia, 1998, 605 e ss.
143
In questo senso per tutti C. Mignone, I mezzi di prova in rapporto alle plurime giurisdizioni del giudice
amministrativo, in Dir. proc. Amm, 1/2003, p. 24.
144
Cfr. sul punto Cons. Stato, VI, 7 giugno 2000, n. 3212, in Cons. Stato, I, 1390 secondo il quale: “la legge,
nel consentire in determinate materie di giurisdizione esclusiva l’utilizzo dei mezzi di prova stabiliti dal
codice di procedura civile, lo fa in termini generali, senza distinzioni basate sulla natura della situazione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio. In precedenza cfr. Tar Lombardia, sez. III, 25 giugno 1987, n. 374,
in Trib. Amm. Reg., 1987, I, 2864 secondo il quale dopo la sentenza della Corte cost. n. 146 del 1987 in tema
di mezzi di prova nella giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, il g.a. può disporre, anche
d’ufficio, la prova testimoniale, senza necessità di operare distinzioni per materie o in base alla posizione
78
A sostegno di tale assunto si pone innanzitutto una ragione di opportunità
ravvisata nella difficoltà che è posta alla base della stessa esistenza delle ipotesi di
giurisdizione esclusiva di distinguere le due situazioni soggettive; a ciò si aggiunga la
considerazione che la vera portata innovativa apportata dall’art. 35 d.lgs. 80/98 si coglie
proprio con riguardo alla estensione dei nuovi mezzi istruttori agli interessi legittimi, dal
momento che con riguardo ai diritti soggettivi a tale risultato poteva pervenirsi anche
precedentemente alla novella in via interpretativa. 145
E’ chiaro allora che il problema si sposta più a monte sulla verifica della
compatibilità con i principi costituzionali degli attuali limiti processuali relativi al
giudizio di legittimità.
La questione verrà approfondita nel prosieguo, in questa sede basterà rilevare
che in coerenza con il più volte ricordato principio costituzionale di effettività della
tutela, la soluzione in ordine all’ampiezza dei poteri istruttori (anche) nelle controversie
rientranti nella giurisdizione esclusiva del g.a. dovrà essere risolto alla luce del principio
della domanda.
In applicazione di tale principio infatti l’ampiezza dei poteri istruttori del g.a.
sarà destinata a variare secundum eventum litis, a seconda cioè che il ricorrente richieda
al giudice al mera verifica della legittimità dell’atto che assume lesivo ovvero la verifica
della fondatezza della pretesa sostanziale fatata valere in giudizio.
In quest’ottica tende a svalutarsi allora la distinzione relativa alla natura delle
situazioni soggettive relative alle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del
g.a.
L’interpretazione proposta non sembra incontrare peraltro alcun ostacolo di
ordine letterale nel disposto di cui all’art. 35 D.lgs. 80/98 nella parte in cui stabilisce
che il giudice “può” disporre nelle controversie di giurisdizione esclusiva “l’assunzione
dei mezzi istruttori previsti dal codice di procedura civile”.
La norma infatti, riletta alla luce dei principi costituzionali in materia di diritto di
difesa, non può voler dire necessariamente che sia sempre rimesso alla discrezionalità
del giudice (ovvero alla sua incontestata signoria) di disporre o meno dell’ampio
strumentario di prove previsto nel processo civile, ma che questi abbia il potere –
soggettiva del dipendente (fattispecie relativa all’impugnazione dell’atto applicativo di una sanzione
disciplinare).
145
In questo senso M. Lipari, I principi generali dell’istruttoria nel processo amministrativo dopo la L. n. 205
del 2000. Le trasformazioni del giudizio e gli indirizzi della giurisprudenza, in Dir. proc. Amm. 1/2003, pp.
130-131.
79
dovere di ricorrervi tutte le volte in cui lo richieda la complessità della controversia che
egli è chiamato a decidere.
80
1.2.1. mezzi di prova nella materia di pubblico impiego non privatizzato
In forza della sentenza 10 aprile 1987, n. 146 nelle controversie in materia di
pubblico impiego rimaste devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. sono ammissibili
oltre ai mezzi istruttori indicati dall’art. 35, altresì i mezzi ammissibili
nelle
controversie di lavoro privatizzato.
Ai sensi dell’art. 421 c.p.c. il giudice nelle controversie di lavoro può disporre
d’ufficio di ogni mezzo di prova, “anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
In pratica questa norma mentre consente di superare i limiti di ammissibilità
configurati dal codice civile, dà al giudice il potere di determinare il thema decidendum
e di assumere le iniziative al riguardo, purché nei limiti dei fatti allegati dalle parti.
Il giudice su istanza di parte può inoltre disporre “l’accesso sul luogo del lavoro
purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti” e “dispone altresì, se ne ravvisa
l’utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso” (art. 421, comma 3, c.p.c.).
L’ultimo comma dell’art. 421 dispone poi che il giudice può interrogare
liberamente sui fatti della causa anche le persone che non potrebbero testimoniare.
Com’è evidente caratteristica essenziale dell’istruzione probatoria nel rito del
lavoro è la possibilità attribuita al giudice di assumere i mezzi di prova oltre i limiti
previsti dal codice civile.
La questione assume rilievo, in particolare, con riguardo alla prova testimoniale
soggetta ai sensi dell’art. 2721 c.c. ad una serie rilevante di limitazioni legali (per i
contratti e per i patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento).
Tuttavia deve rilevarsi che la giurisprudenza amministrativa ha fatto scarsa
applicazione degli strumenti di prova offerti dal rito civile del lavoro, giungendo, in via
di fatto, a disapplicare la sentenza del 1987.
Ciò è dipeso in larga misura da un atteggiamento di chiusura del g.a. rimasto
legato al tradizionale dogma della “centralità del documento”, e dunque all’idea della
sufficienza della prova documentale nella ricostruzione del fatto da pare del g.a.
In questo senso sembra muovere la giurisprudenza amministrativa laddove
ritiene non rilevante ai fini della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro
(subordinato o autonomo), la prova per testimoni, sulla scorta della considerazione che
mentre nel giudizio civile la qualificazione del rapporto è tipicamente una accertamento
81
di fatto, nel processo amministrativo la base del rapporto si individua, di regola, nel
provvedimento. 146
146
Cons. Stato, sez. V, 10 marzo 1999, n. 230. Analogamente, Cons. giust. Amm. Reg. sic. 18 settemre
1996, n. 262 ha ritento inammissibile nel processo amministrativo la prova testimoniale chiesta dal
pubblico dipendente per dimostrare che le mansioni da lui esercitate di fatto sono diverse da quelle
risultanti dalla scheda di ricognizione delle mansioni fatte dall’amministrazione.
82
1.2.2. La preclusione delle prove legali.
Quanto ai mezzi istruttori concretamente utilizzabili dal g.a. in sede di
giurisdizione esclusiva occorre subito rilevare che il legislatore ha escluso dal novero
delle prove presenti nel processo civile le c.d. prove legali, ossia l’interrogatorio
formale (volto a provocare la confessione) e il giuramento disciplinati rispettivamente
dagli att.228 e ss e 233 e ss c.p.c. oltre che dagli artt. 2730 e ss. c.c.
Caratteristica delle prove legali è quella di vincolare il giudice nel suo
apprezzamento, in particolare l’efficacia della confessione, così recita l’art. 2733 c.c.,
comma 2, è quella di formare “piena prova contro colui che l’ha fatta, purché non verta
su fatti relativi a diritti non disponibili”.
Anche il giuramento147, al pari della confessione della parte è una dichiarazione
compiuta da una delle parti sulla verità dei fatti della causa, ma a differenza della
confessione essa proviene dalla parte alla quale i fatti dichiarati non nuocciono, ma
giovano.
Con
l’ulteriore
differenza
che
nella
confessione
l’attendibilità
della
dichiarazione si fonda sulla massima di esperienza che fa ritenere veri i fatti dannosi
per chi li dichiara, mentre nel giuramento l’attendibilità della dichiarazione trova
fondamento innanzitutto nell’assunzione dell’impegno morale e sociale cui la
dichiarazione si correla, ma soprattutto nell’efficacia intimidatrice della gravità delle
conseguenze previste per chi giura il falso (art. 371 c.p.).148
La disciplina positiva prevede due ipotesi di giuramento: il giuramento decisorio
e quello suppletorio. Il primo è definito dall’art. 2736, n. 1 c.c. come quello che una
parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisone totale o parziale della causa. Si
tratta di una “sfida” che la parte destinataria può “rilanciare” contro la parte che la
propone, sfidandola a giurare sugli stessi fatti, ma in senso, ovviamente, contrario (art.
234 c.p.c.).
Il giuramento suppletorio è definito invece dall’art. 2736 n.2 come quello che è
deferito d’ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la causa quando la
147
In argomento Allorio, Il giuramento della parte, Milano 1937; Carnelutti, Ntura del giuramento, in Riv.
dir. proc., 1947, I, p.183 e ss; Furno, Natura giuridica del giuramento e libertà di valutazione giudiziale, in
Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 1947, p. 362 e ss; Andrioli, Giurameno, in Novissimo dig. It., VII, Torino, 1961,
p. 943 e ss.
148
In questo senso Mandrioli, Diritto processuale civile, op. cit., 257 ; Liebman, Manuale, II, cit., p. 152 e,
tra gli altri, Provinciali, Giuramento decisorio, in Enc. Del dir., XIX, Milano, 1970, p. 111.
83
domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di
prova.
In entrambe le ipotesi l’efficacia del giuramento è la più efficace che si possa
immaginare poiché una volta reso il giuramento il giudice resta vincolato al suo esito
dovendo dichiarare senz’altro vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l’altra,
senza che quest’ultima possa essere ammessa a provare il contrario di quanto giurato.
Non solo, ma il vincolo permane anche nell’ipotesi in cui il giuramento venisse
riconosciuto falso. Poiché in tale ipotesi l’art. 2738 c.c. esclude l’ipotesi della
revocazione della sentenza ammettendo esclusivamente il rimedio risarcitorio (purché
sia intervenuta una sentenza penale che abbia accertato la falsità del giuramento).
La preclusione della confessione e del giuramento nel giudizio amministrativo è
motivata sulla base dei tradizionali principi in tema di indisponibilità dell’interesse
pubblico e di non assoggettabilità del libero convincimento del giudice al vincolo
derivante dalle prove legali.
84
1.3 I limiti dell’istruzione probatoria nel giudizio di legittimità: la prova
testimoniale.
Per la giurisdizione di legittimità valgono i soli mezzi istruttori indicati dall’art.
44, comma 1 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 : “Se la sezione, a cui è stato rimesso il
ricorso riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati
nell’atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione con i documenti, può
richiedere all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti: ovvero
ordinare all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni, autorizzando le
parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti, ovvero disporre
consulenza tecnica.”
Da una prima lettura della disposizione citata è dato desumere che ancora oggi, e
malgrado il rilevante intervento novellatore del 2000, la fase istruttoria nel processo
amministrativo sia concentrata sulla prova documentale.
Resta invece il problema della prova in ordine a quei fatti o circostanze che non
possono essere provate con l’utilizzo dei tradizionali strumenti istruttori previsti nel
giudizio di legittimità (integrazioni documentali e chiarimenti da parte della p.a.) e per i
quali si renderebbe necessario il ricorso alle prove c.d costituende (giuramento,
confessione e testimonianza).
Un discorso a parte meritano le c.d. prove critiche o indiziarie o per presunzioni
discendenti dalla dimostrazione di fatti secondari.149
Malgrado l’assenza di un chiaro richiamo alle norme civilistiche, l’ammissibilità
di tale tipo di prove nel processo amministrativo deve ritenersi pacifica.
Il ricorso alla prova indiretta sembrerebbe anzi naturale in tutte le ipotesi in cui il
ricorrente si trovi di fronte a poteri discrezionali della p.a. e debba provare il fatto
principale costituito dall’inadempimento del dovere funzionale di provvedere
favorevolmente a seguito di una legittima e ragionevole applicazione dei principi posti
dall’ordinamento sull’esercizio di tali poteri.
E’ quanto avviene d’altra parte nel giudizio di annullamento tutte le volte in cui
si faccia valere il vizio dell’eccesso di potere, in questo caso saranno le prove
149
Per tutti Proto Pisani, Appunti sulle prove civili, cit., col. 53, che ricorda come “la c.d. prova critica o
indiziaria o per presunzioni di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. si ha allorché la conoscenza del fatto principiale
ignoto è desunta da uno o più fatti secondari (fonti di presunzione) in base ad un ragionamento logico
deduttivo ulteriore rispetto a quello sulla cui base è stata acquisita la conoscenza del fatto secondario”.
85
documentali precostituite (nel procedimento) ad integrare i fatti secondari dai quali far
discendere per via di un ragionamento critico-indiziario, la prova dell’esistenza o meno
del fatto principale ed il relativo convincimento del giudice.
Delle c.d. prove legali e del limite alla loro assunzione nel processo
amministrativo si è già detto in precedenza, in questa sede occorre dunque focalizzare
l’attenzione sulla prova testimoniale.
La testimonianza o prova testimoniale è quella narrazione dei fatti della causa al
giudice compiuta nel corso del processo (c.d. prova costituenda) e con determinate
forme, da soggetti che non sono parti nel processo stesso (ed anzi sono estranei agli
interessi in contesa). 150
L’attendibilità della prova è data proprio dal provenire le dichiarazioni da
soggetti terzi imparziali151, l’imparzialità del teste è ciò che vale a distinguere, sotto
diverso profilo, la testimonianza dalla confessione e dal giuramento.
A differenza della confessione e del giuramento il legislatore non attribuisce alla
testimonianza il valore di prova legale, lasciando al giudice la più ampia libertà di
apprezzamento della prova.
Non si pone pertanto alcun ostacolo all’ammissione del mezzo di prova nel
giudizio amministrativo sotto il profilo del rispetto del principio di libera
determinazione del giudice.
Tuttavia la giurisprudenza ha mostrato tradizionalmente un atteggiamento di
chiusura, e ciò, come si è visto, anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva nelle quali
per effetto del rinvio operato dall’art. 35 d.lgs. 80/98 ai mezzi istruttori previsti dal
codice di rito la piena operatività della prova testimoniale dovrebbe invece ritenersi
pacifica.
In realtà la giurisprudenza amministrativa si è mostrata restia ad ammettere la
prova testimoniale in tutte le controversie in cui si vertesse in
tema di interessi
legittimi, tanto in sede di giurisdizione esclusiva che in sede di legittimità.152
A sostegno di tale posizione si fa rilevare che l’art. 44 T.U. Cons. Stato, anche
nel testo novellato dalla L. 205/00, continua tacere circa la possibilità, ammessa dall’art.
35 D.lgs. 80/98 per la sola giurisdizione esclusiva del g.a., di utilizzare nel processo
amministrativo le prove esperibili nel processo civile.
150
Sulla prova testimoniale in generale, v. Andreoli, Prova testimoniale (dir. proc. Civ.) in Novissimo Dig.
It., XIV, Torino, 1967, p. 329 e ss. e del Taruffo, Prova testimonial (dir. proc. Civ.), in Enc. Del diritto,
XXXVII, Milano, 1988, p. 729 e ss. e Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, 2000.
151
Mandrioli, Diritto processuale civile, op. cit. 267.
152
Per tutte Cons. Stato, sez.IV, 10 febbraio 2000, n. 715, in Urb. E app., 2000, 1340, con nota di Caranta.
86
Sotto il profilo storico - sistematico si tende a valorizzare quanto affermato dalla
Corte costituzionale nella nota sentenza n. 251/89 con la quale la Consulta ha
confermato la legittimità del sistema di istruzione processuale vigente nella
giurisdizione generale di legittimità, ritenuto dalla Corte “sufficientemente articolato
per soddisfare le esigenze proprie dei giudizi di annullamento di atti amministrativi
impugnati per motivi di legittimità”.
In genere la ritrosia del g.a. ad ammettere nelle controversie vertenti in tema di
interessi legittimi la prova testimoniale trae fondamento dalla concezione tradizionale
del processo amministrativo imperniata sulla verifica estrinseca della legittimità del
provvedimento impugnato, verifica non necessitante, almeno di regola, di essere
supportata da fatti diversi da quelli acquisiti nel corso della procedura e risultanti dalla
produzione documentale.
Si afferma così che al risultato pratico cui mira l’assunzione della prova
testimoniale può pervenirsi nel giudizio amministrativo attraverso il ricorso allo
strumento, che da sempre rientra nella disponibilità del g.a., della richiesta di
chiarimenti alla pubblica amministrazione.153
Un ulteriore argomento in favore della pretesa inutilità della prova testimoniale
nel processo amministrativo è stato tratto dalla scarsa applicazione che dello strumento
probatorio è stata fatta nelle stesse materie di giurisdizione esclusiva per le quali è
espressamente prevista.
In senso favorevole all’ammissibilità del mezzo istruttorio anche nelle
controversie vertenti in tema di interessi legittimi sono state poste invece
argomentazioni di diverso tenore.154
Innanzitutto il più ampio diritto alla prova appare imposto dal rispetto dei
principi comunitari in tema di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale delle
posizioni soggettive fondate sul diritto comunitario e sollecitato dalla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo che in più occasioni ha giudicato lesivo dell’art. 6, par. CEDU
il fatto che sia stato negato il diritto alla prova testimoniale in tutte le ipotesi in cui la
153
In generale, sui contenuti di tale mezzo istruttorio, può operarsi un rinvio alle opere di Migliorini,
L’istruzione nel processo amministrativo di legittimità, Padova, 1977, p. 15 ss. e C. E. Gallo, La prova nel
processo amministrativo, op. cit., p. 145 e ss.; G. Corso, Istruttoria nel processo amministrativo (voce), op.
cit.
154
La tesi estensiva è stata recepita da una pronuncia del Tar Lazio
87
prova del fatto allegato non può essere fornita facendo ricorso ad altri mezzi
istruttori.155
Secondariamente, il principio del giusto processo consacrato dal nuovo art. 111
Cost. in uno con gli att. 24, 103 e 113 Cost. in tema di effettività della tutela
giurisdizionale nei confronti della p.a., osta ad una preclusione astratta che escluda in
senso assoluto l’esperibilità di prove in ipotesi necessarie.
In terzo luogo non appaiono dirimenti le argomentazioni svolte dal giudice
costituzionale nella citata decisione del 1989, fedeli ad una concezione non più attuale
del processo amministrativo, come è dato evincere dal prosieguo della motivazione
laddove si legge come sia “di norma nel dominio dell’amministrazione la possibilità di
fornire la prova di certi fatti, se, ai fini della decisione occorra verificare la veridicità dei
fatti posti a fondamento dell’atto e le conseguenze del mancato assolvimento di questo,
spettando al giudice…di trarre il proprio convincimento dal comportamento
dell’amministrazione che non sia stata in grado di dimostrare quanto affermato”.
E’ chiaro, infatti, che se un simile capovolgimento delle regole sull’onere della
prova poteva, forse, ancora giustificarsi nella logica del processo di mero annullamento
dell’atto impugnato, questo non avrebbe potuto in alcun modo ammettersi ove
riproposto con riferimento ai giudizi di accertamento e di condanna.
Opportunamente,
pertanto,
è
intervenuto
il
legislatore
ammettendo
espressamente la possibilità di utilizzare lo strumento probatorio in questione almeno
nelle materie di giurisdizione esclusiva nelle quali possono più di frequente instaurarsi
giudizi del genere predetto.
Né maggiormente fondata appare l’eccezione fondata sulla assimilazione tra
prova testimoniale e il mezzo istruttorio della richiesta di chiarimenti alla p.a.
Ciò per una duplice ragione.
Innanzitutto la richiesta di chiarimenti è strettamente ancorata ai documenti
prodotti in giudizio: essa viene fatta quando, nonostante l’avvenuto deposito, permane
un contrasto fra le rappresentazioni dei fatti prospettate dalle parti, che non è risolubile
allo stato degli atti.156
Secondariamente, e tale aspetto appare degno di maggior rilievo, la richiesta di
chiarimenti a differenza della testimonianza è rivolta ad un soggetto, la p.a., che non è
terzo rispetto alle parti in causa.
155
Corte eur. Dir. uomo, sent. Dombo Beheer B. V. – Paesi Bassi, 27 novembre 1993, n. 74, in Giur. It.,
1996, I, 1, p. 153 e ss, con nota di Tonolli, Il legale rappresentante di enti.
156
In questo senso G. Corso, Istruttoria, op. cit.
88
Di qui l’erroneità delle ricostruzioni che tendono ad assimilare la richiesta di
chiarimenti a quel particolare mezzo istruttorio proprio del processo costituito dalla
richiesta di informazioni alla p.a. (art. 213 c.p.c.): in questo caso infatti,
l’amministrazione è terza rispetto alle parti, a differenza del processo amministrativo in
cui, di regola, è parte resistente.
Ne discende la diversa efficacia probatoria dei due strumenti: proprio perché i
chiarimenti provengono da una delle parti in causa che tendenzialmente tenderà a
formularli in modo a sé vantaggioso, minore sarà l’attendibilità, e dunque la forza
probatoria, di questi ultimi rispetto alle dichiarazioni rese in sede testimoniale.
Non sembra pertanto che, anche sotto il profilo sistematico, osti alcuna
peculiarità dell’ordinamento processuale amministrativo alla definitiva introduzione
della prova testimoniale nell’ordinamento processuale amministrativo, anche nei giudizi
di legittimità.
Per
contro le limitazioni all’assunzione del mezzo di prova testimoniale
potranno ricavarsi, “per quanto è possibile” (così recita l’art. 29 del regolamento di
procedura innanzi al Consiglio di Stato) dai principi e dalle regole contenute nel codice
di rito.157
Tra i principi e le regole che disciplinano l’assunzione della prova testimoniale
nel processo civile vengono in rilievo in particolare le disposizioni che prevedono i c.d.
limiti oggettivi e soggettivi 158 della prova testimoniale.
La disciplina dei limiti oggettivi alla prova testimoniale è invece ricavabile dal
diritto sostanziale e, segnatamente dagli artt. 2721 e ss. c.c. che escludono il ricorso alla
prova testimoniale per i contratti e, con alcune eccezioni espressamente previste dal
legislatore, i patti aggiunti o contrari al contenuto di documenti.
si profili.
I limiti soggettivi alla prova testimoniale sono invece ricavabili essenzialmente
dagli artt. 246 e 249 c.p.c. i quali sanciscono, rispettivamente le ipotesi di incapacità di
testimoniare e i casi in cui il testimone ha facoltà di astenersi dal testimoniare
157
Com’è noto, l’art. 29 del regolamento di procedura innanzi al Consiglio di stato, rinvia quanto alle
modalità di assunzione dei mezzi di prova (ivi compresa la prova testimoniale espressamente prevista
solo per il giudizio di merito), alle disposizioni contenute nel codice di rito.
158
In generale sui limiti soggettivi cfr. L. Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, op. cit., 233
89
(disposizione quest’ultima che rinvia per l’individuazione concreta dei casi di
astensione agli artt. 200-202 c.p.p.).159
Particolarmente discussa in dottrina160 è la possibilità del pubblico dipendente di
astenersi dal dovere di testimoniare facendo valere il segreto di ufficio sui fatti sui quali
è chiamato a deporre.
In linea di principio l’esistenza di un segreto d‘ufficio rientra in una delle ipotesi
nelle quali l’art. 202 c.p.p. richiamato dall’art. 249 c.p.c. prevede l’obbligo di
astensione. Tuttavia la questione va rivista alla luce della novella dell’art. 15 D.P.R. n.
3/1957 attuata dall’art. 28 L. 241/90, secondo cui l’impiegato continua ad essere tenuto
al segreto d’ufficio circa le informazioni e le notizie di cui sia venuto a conoscenza a
causa delle sue funzioni, “al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme
sul diritto d’accesso”.
A seguito della citata riforma - che a ben vedere è riflesso di un più ampio
capovolgimento del rapporto tra trasparenza e riservatezza nell’attività amministrativa può quindi ritenersi che il pubblico impiegato chiamato testimoniare nel processo
amministrativo non possa più invocare alcuna facoltà o alcun obbligo di astensione nei
casi in cui trova applicazione il diritto di acceso.
L’astensione resta invece doverosa nelle ipotesi in cui la notizia o l’informazione
riguarda il contenuto di un documento che sia sottratto al diritto di accesso 161.
Parte della dottrina ha ravvisato nella possibilità di deferire al responsabile del
procedimento la prova testimoniale un importante strumento per consentire l’emersione
in giudizio di tutti i motivi di diritto che hanno condotto alla negazione della pretesa
sostanziale avanzata dal ricorrente.162
159
Accanto a tali fattispecie in verità il codice contemplava un’altra categoria di limitazioni per i soggetti cui
era fatto divieto di testimoniare in ragione dei particolari vincoli di parentela o di affiliazione che lega il
testimone rispetto a taluna delle parti del giudizio. La previsione, contenuta nell’art. 247 c.p.c. è stat
dichiarata costituzionalmente illegittima perché ritenuta contrastante con il diritto alla difesa giurisdizionale
di cui all’art. 24 Cost.
160
B. Valensise, Brevi osservazioni nel sistema delle prove nel “nuovo” processo amministrativo e sul
rapporto tra prova testimoniale ed il segreto d’ufficio dei dipendenti pubblici, in Dir. proc. Amm., 2001, 1008
ss.
161
In questo senso G. Corso, Istruttoria, op. cit.
162
Cfr. A Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, Padova 2000, p. 52-53.
secondo l’A. l’escussione in qualità di testimone del responsabile del procedimento potrebbe consentire al
giudice di operare “un controllo effettivo e sostanziale dei motivi per i quali un provvedimento è stato
adottato … non limitato a quanto di essi viene esposto nella motivazione dell’atto impugnato”. Nello stesso
senso pure M. Sica, Prova testimoniale e processo amministrativo, cit., p. 908, che aderisce alla tesi testé
esposta ritenendo che la testimonianza del responsabile del procedimento “dovrebbe essere di regola
insostituibile essendo la persona che più di ogni altra conosce i fatti”.
90
La tesi, per quanto suggestiva, non manca di destare perplessità: appare quanto
meno dubbio che il responsabile del procedimento e il dipendente pubblico in genere
possano considerarsi “terzi” rispetto agli interessi in contesa.
Assume rilievo sul punto il costante orientamento della giurisprudenza civile che
in tema di rappresentanza tende a negare la legittimazione a deporre come testimone al
rappresentante, sia pure legale, organico o volontario.163
163
Cfr. Cass. 17 luglio 1998, n. 7028; Trib. Bologna 18 ottobre 1974, in Giur. It., 1976, I, 2, 300; Cass. 19
aprile 1980, n. 2580; in dottrina v. A Ciappi, in riv. dir. proc., 1988, n.273, a commento critico di Pret.
Bologna 24 aprile 1985, che si era pronunciato in senso contrario, con riguardo, tuttavia all’ipotesi più
specifica della rappresentanza nel processo del lavoro ai sensi dell’art. 420, comma 2 c.p.c.
91
1.4 L’accesso al fatto e la consulenza tecnica d’ufficio: rapporti con il sindacato
sulla spettanza.
Come si è detto la L. 205/00 ha generalizzato l’applicazione della consulenza
tecnica d’ufficio, dapprima prevista per le sole controversie rientranti nella giurisdizione
esclusiva del g.a., quale strumento indispensabile per sindacare la c.d. discrezionalità
tecnica.
In ordine ai limiti entro i quali l’autorità giudiziaria può sindacare le valutazioni
tecniche della p.a. si registrano due orientamenti divergenti che pongono l’alternativa
tra un tipo di controllo di tipo “estrinseco” e uno di tipo “intrinseco”.
Secondo il primo indirizzo la discrezionalità tecnica attiene al merito amministrativo
sicchè le scelte tecniche dell’amministrazione possono essere sindacate solo sotto il
profilo estrinseco e formale dell’iter logico seguito dall’amministrazione e, quindi, in
definitiva, in presenza di elementi sintomatici di un esercizio scorretto del potere164.
Secondo un più evoluto orientamento invece la discrezionalità tecnica non riguarda il
merito dell’azione amministrativa in quanto non implica alcuna ponderazione
comparativa dell’interesse pubblico primario con gli interessi secondari165.
Per tale indirizzo pertanto consacrato da una nota decisione del Consiglio di Stato del
2001, gli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione sarebbero sindacabili non solo
sotto il profilo estrinseco e formale, anche sotto il, profilo intrinseco, attraverso, cioè, la
verifica diretta della correttezza del criteri otecnico utilizzato e del procedimento
applicativo.
164
Cfr. F. BENVENUTI, Introduzione al tema, in V. PARISIO (a cura di) Potere discrezionale e controllo giudiziario,
Milano, 1998, 3 ss.; F.G. SCOCA, Sul trattamento giurisprudenziale della discrezionalità, ibidem, 107; F. LEDDA,
Potere, tecnica e sindacato giudiziario, in Riv. proc. amm., 1983, 371 ss; R. VILLATA, Considerazioni in tema di
istruttoria, processo e procedimento, in Dir. Proc. Amm., 1995, 232; A.CARIOLA, Il giudice amministrativo e la prova:
una provocazione a tesi su processo e politica, in Dir. Proc. Amm., 1999, 30 ss.; ID., Discrezionalità tecnica ed
imparzialità, in Dir. amm., 1997, 486 ss.; V. CERULLI IRELLI, Note in tema di discrezionalità amministrativa e
sindacato di legittimità, in Dir. Proc. Amm., 1984, 463 ss.; A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al
giudice amministrativo, vol. II, Padova, 2001, 411. In giurisprudenza cfr., C. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in
Dir. Proc. Amm., 2000, 182, con nota di M. DEL SIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni
tecniche, cit.; P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica e situazioni giuridiche soggettive, in Dir. proc. amm., 2000, 212; C.
Stato, sez. IV, ord. 17 aprile 2000, n. 2292, in Foro amm., 2000, 1240; C. Stato, sez. IV, 22 giugno 2000, n. 3544; C.
Stato, sez. IV, 26 giugno 2000, n. 3600; C. Stato, sez. V, 5 marzo 2001, n. 1247, in Urb. e app., 2001, 866, con nota di
M. PROTTO, La discrezionalità tecnica sotto le lente del G.A. Tra i giudici di primo grado cfr. T.A.R. Lazio, sez. I-ter, 5
dicembre 2000, n. 11068, in Urb. e app., 2001, 195; T.A.R. Piemonte, sez. II, 17 novembre 2000, n. 1173, ibidem,
2001, 196; T.A.R. Lombardia, sez. III, 11 dicembre 2000, n. 7702, ibidem, 2001, 199; T.R.G.A. Bolzano, 7 dicembre
2000, n. 335, ibidem, 2001,197.
165
Cfr. C. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, cit.
92
Ammesso il sindacato di tipo intrinseco sulla discrezionalità la questione interpretativa
si è spostata, sull’intensità di tale sindacato: l’alternativa si è posta, com’è noto, tra un
sindacato di tipo “forte” e un sindacato di tipo “debole”166.
Il primo consente al giudice di sovrapporre la valutazione tecnica sviluppata nel
processo a quella effettuata dall’Amministrazione, anche nei casi in cui la scelta e
condizionata da obiettivi margini di opinabilità.
Il secondo, invece, conduce a censurare le determinazioni amministrative che, alla
luce di un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica, appaiono sicuramente
inattendibili (la c.d. insostenibilità evidente all’esperto): pertanto, ove la consulenza
tecnica disposta dal giudice giunga a conclusioni diverse rispetto alla valutazione della
P.A., ma non ne evidenzi l’erroneità, la determinazione amministrativa non potrà essere
censurata.
La giurisprudenza amministrativa ha prevalentemente sposato una terza soluzione,s
e si vuole intermedia tra le due precedentemente enunciate, secondo la quale il sindacato
giurisdizionale sulle scelte tecniche dell’amministrazione è un controllo “intrinseco ma
non sostitutivo”167, ossia tale da consentire al giudice di censurare la correttezza dell’iter
logico -giuridico seguito dall’amministrazione senza però sovrapporre la sua valutazione
tecnica a quella amministrativa, ma limitandosi a rinviare la decisione alla
amministrazione la quale provvederà tenendo conto delle direttive contenute nella
sentenza168.
Il consulente tecnico pertanto anche ove si acceda alla tesoi el sindacato intrinseco e
sostitutivo sostituisce il proprio apprezzamento a quello effettuato dall’amministrazione
ma non consente di sostituire l’amministrazione nel compimento delle scelte
discrezionali.
Il c.t.u. accerta i fatti (eventualmente sostituendo la valutazione giudiziale a quella
amministrativa, ma non svolge in sede giudiziale le valutazioni discrezionali che restano
in ogni caso riservate all’amministrazione.
Si pensi ad esempio alla controversia vertente in ordine alla valutazione relativa
all’esercizio di un diritto di prelazione legale dello stato su un determinato bene ritenuto
di valore artisti stico e culturale.
166
Cfr. F. Cintioli, Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale, cit. 924 al quale si rinvia per
l’esame della giurisprudenza.
167
Cons. Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199
168
Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926, in Diritto e formazione, 2004, p. 997, con nota di D. De Pretis, Antitrust,
valutazioni tecniche e controllo giurisdizionale.
93
La valutazione effettuata dal c.t.u. in ordine al valore artistico del bene oggetto
della
controversia
potrà
eventualmente
sostituirsi
a
quella
effettuata
dall’amministrazione, ma in ogni caso una volta accertato il reale valore del bene, sarà
quest’ultima dover effettuare la scelta in ordine all’esercizio o meno del diritto di
prelazione.
94
2. Giudizio sulla spettanza e onere della prova.
Le considerazioni svolte in ordine al ruolo che come si è visto viene sempre più
assunto dal g.a. nell’ambito dell’istruzione probatoria, non possono tuttavia considerarsi
esaurite solo con i rilievi, testé svolti, sulla necessità che questi possa servirsi del più
ampio strumentario necessario valutare la fondatezza o meno della pretesa sostanziale
fatta valere in giudizio.
Occorre altresì stabilire su chi incomba l’onere, o se si vuole, il rischio, di fornire al
giudice, dotato ormai di adeguati poteri istruttori, la suddetta completa rappresentazione
dei fatti.
Le questioni che si pongono all’interprete sul punto sono essenzialmente due.
In primo luogo occorre verificare fino a che punto le tradizionali posizioni sul
“metodo acquisitorio” nel processo amministrativo possano correttamente mantenersi
anche in relazione alla nuova logica della spettanza.
Secondariamente, ma in vero la questione è strettamente connessa alla prima, ci si
deve interrogare in ordine al contenuto e ai limiti dell’onere probatorio nel giudizio
amministrativo.
Com’è noto il criterio della distribuzione dell’onere probatorio, consacrato dall’art.
2967 c.c., subisce nel processo amministrativo un’attenuazione incombendo sul
ricorrente non un onere della prova, quanto piuttosto un “principio di prova”, che viene
integrato mediante l’esercizio di poteri istruttori officiosi del giudice.
Questo più ridotto carico probatorio trova giustificazione nel rapporto giuridico
sottostante: nell’ottica di un processo essenzialmente impugnatorio incentrato sulla
verifica della legittimità di un atto anche le fonti di prova saranno costituite, di regola,
da documenti.
Si comprende allora la ragione della deroga alla regola generale relativa al riparto
dell’onere della prova.
Poiché gli elementi di
prova
sono
generalmente
nella
disponibilità
dell’amministrazione, un onere della prova che gravasse interamente sul ricorrente
sarebbe iniquo.169
In questi casi la giurisprudenza ritiene sufficiente che il ricorrente fornisca un
“principio di prova”170, ossia che egli si limiti ad allegare il fatto principale posto a
169
G. Corso, Istruttoria nel processo amministrativo (voce), in Enc. Del dir. 2003
95
fondamento della pretesa, sulla base del quale il giudice facendo uso dei suoi poteri
istruttori potrà raggiungere la prova piena.
La deroga al principio generale espresso dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. secondo il
quale spetta a chi agisce in giudizio di indicare e provare specificamente i fatti posti a
fondamento delle pretese avanzata, trova dunque fondamento e giustificazione nella
“asimmetria informativa” che contraddistingue il rapporto tra amministrazione e
cittadino.
Ove tale asimmetria non ricorra come nelle ipotesi in cui si facciano valere diritti
soggettivi in sede di giurisdizione esclusiva vengono meno anche le ragioni della
deroga.
Così tutte le volte in cui il giudizio sia rivolto alla soddisfazione dell’interesse
sostanziale del ricorrente, la regola di riparto dell’onere di cui all’att. 2697 c.c. si
riespanderà in tutto il suo vigore.
Con la conseguenza che il ricorrente sarà gravato dell’onere di fornire piena prova
dei fatti posti a fondamento della pretesa sostanziale avanzata nei confronti
dell’amministrazione, laddove quest’ultima sarà gravata dell’onere uguale e contrario di
provare l’inefficacia di tali fatti, provare di provare i fatti estintivi o modificativi della
posizione fatta valere.
Si pensi all’azione risarcitoria esercitabile ex art. 7, comma 3, l: 1034/71. In questo
caso il ricorrente dovrà necessariamente allegare e dimostrare in giudizio l’esistenza di
tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa risarcitoria: la lesione di un situazione
giuridica soggettiva protetta sul piano dell’ordinamento generale, il rapporto di causalità
con un comportamento illegale posto in essere da una pubblica amministrazione,
nonché, l’elemento soggettivo da intendersi, secondo la ricostruzione effettuata dalla
nota decisione 500/99, come il comportamento imputabile all’amministrazione idoneo a
concretare la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione che si pongono quale limite esterno della discrezionalità.
La soluzione prospettata non appare contrastante peraltro con le conclusioni cui è
giunta la dottrina processualcivilista in relazione all’ambito di applicazione del
principio dispositivo nel giudizio civile.
170
L’espressione è riconducibile a F. Benvenuti, L’onere del principio di prova nel processo amministrativo,
in Giur. Compl. Cass. Civ., 1952, 776
96
Si è osservato171 sul punto che la disposizione di cui all’art. 2697 c.c. costituisce una
“norma incompleta” il cui contenuto concreto va ricostruito in relazione alla fattispecie
sostanziale fatta valere dall’attore.
In coerenza con tale impostazione può ritenersi dunque che la concreta ripartizione
dell’onere della prova nel processo in genere, e nel processo amministrativo in
particolare vada strettamente collegata alla fattispecie di volta in volta considerata.
Il metodo acquisitivo, secondo i principi, troverà applicazione pertanto laddove il
ricorrente abbia allegato fatti, principali o secondari, ma non abbia la possibilità di
provarli per la sua posizione di disparità sostanziale con l’amministrazione (ad. es.
documenti detenuti dall’amministrazione).
Diversamente nelle ipotesi in cui la prova in ordine alla fondatezza della pretesa
sostanziale vantata in giudizio sia costituita da fatti che rientrano nella piena
disponibilità del ricorrente, in tal caso questi avrà l’onere di provarli, senza che
l’inadempimento di tale onere possa essere in alcun modo supplito dall’esercizio dei
poteri istruttori del giudice.
La soluzione proposta finisce per produrre effetti, com’è evidente, anche sui limiti
oggettivi del giudicato amministrativo. 172
Se infatti si ammette che l’amministrazione in giudizio sia gravata dell’onere di
dimostrare, in via di eccezione, i fatti ostativi all’accoglimento della pretesa sostanziale
fatta valere dal ricorrente, dovrà anche ammettersi che dal giudicato amministrativo
discenda un limite per l’amministrazione di far valere le proprie ragioni fuori dal
processo e segnatamente in sede di esecuzione del giudicato.
La questione verrà approfondita nell’ultima parte della presente indagine allorchè
verranno presi in esame i profili afferenti il giudicato.
171
A. Proto Pisani, Lezioni, di diritto processuale civile, III, ed., Napoli, 1999, 471.
Uno dei punti cruciali nel raffronto tra processo civile e amministrativo è costituita dal diversa
ricostruzione nei due processi dei limiti oggettivi del giudicato, ritenendo l’impostazione tradizionale che la
regola del processo civile per la quale il giudicato compre i vizi dedotti e quelli solo deducibili non operi con
riguardo al processo amministrativo. Per una efficace sintesi delle posizioni della dottrina sul punto cfr. M.
Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989; in senso favorevole alla piena applicazione del
principio al processo amministrativo cfr. A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, op. cit.
581-582.
172
97
3. Sindacato sulla pretesa sostanziale e tutela dei terzi: l’intervento “jussu judicis”.
Una volta ammesso che il giudice amministrativo possa accedere pienamente tanto
al fatto, quanto ai motivi di diritto sottesi all’emanazione dell’atto impugnato, si pone
un ulteriore e grave problema ricostruttivo con riferimento alla necessità, che di fronte
alla maggiore ampiezza ed estensione del sindacato giudiziale, si pervenga ad
un’analoga evoluzione delle forme di tutela dei controinteressati rispetto agli effetti del
provvedimento la cui emanazione si assume come dovuta e viene pretesa in giudizio.173
Secondo l’impostazione tradizionale i controinteressati nel giudizio amministrativo
sono quei soggetti che traggono vantaggio dall’atto che il ricorrente afferma invece
produrre una lesione nella propria sfera giuridica174.
Nell’ottica tradizionale pertanto rivestono la qualità di controinteressati e, quindi,
sono legittimati passivi, i titolari di un interesse analogo e contrario a quello che
legittima la proposizione del ricorso giurisdizionale purchè, in ogni caso, siano
individuati o, comunque, facilmente individuabili dal provvedimento impugnato.
I terzi controinteressati nello schema processuale della vocatio iudicis sono parti
necessarie del processo alle quali pertanto il ricorso deve essere notificato ai fini della
sua ammissibilità.
La giurisprudenza costante ha però, mitigando il rigore dell’art. 36 T. U. 1054 del
1924, consentendo che nel termine di decadenza il ricorso possa essere notificato ad uno
solo dei cntrointeressati, salvo l’integrazione successiva nei confronti di tutti gli altri
(arg. Ex art. 15, reg. proc. N. 642 del 1907).
Sempre
secondo
l’impostazione
tradizionale,
inoltre,
non
vi
sarebbero
controinteressati in senso proprio nei ricorsi contro gli atti di diniego e nei ricorsi contro
il silenzio dell’amministrazione.175
L’assunto si fonda sulla considerazione secondo la quale il provvedimento di
diniego (ovvero il mero silenzio) non attribuisce alcuna posizione favorevole, e, anzi
173
Sul punto si veda in particolare Corletto, La tutela dell’interesse al provvedimento, in Dir. proc. Amm.,
2001, p. 932 e ss. e A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione, vol. II, cit., p. 31.
174
Per tutti cfr. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, op. cit., 617.
175
Cfr. Ad. Plen. 28 luglio 1956, n. 8, in Cons. Stato, 1956, I, 853.
98
non innova in nulla la situazione esistente, ma si limita, semmai, ad evitare un
pregiudizio a terzi.176
A tutti coloro che vantino un interesse sostanziale alla controversia pur non
rivestendo la qualità di controinteressato in senso proprio, la giurisprudenza riconosce
una tutela che si estrinseca nella possibilità di proporre intervento volontario ad
opponendum177 ovvero di proporre appello avverso la decisione di primo grado, ferma
restando la possibilità di impugnare il provvedimento che l’amministrazione abbia
adottato in esecuzione del giudicato.
In ogni caso la posizione processuale del terzo titolare di interessi sostanziali
coinvolti nella controversia appare danneggiata.
Nel primo caso, il soggetto interveniente o ricorrente in appello viene a perdere
inevitabilmente un grado di giudizio, risultando soggetto all’efficacia della decisione di
secondo grado allorché questa sia passata in giudicato178.
Nel secondo caso, invero, è del tutto evidente che altra è la situazione di colui che
ottiene la possibilità di partecipare alla formazione della decisione giurisdizionale ed
altra (e meno favorevole) è invece quella in cui si trova chi deve sostenere l’illegittimità
di un provvedimento che la pubblica amministrazione ha emanato in attuazione del
giudicato.179
Al fine di garantire una più adeguata tutela giurisdizionale ai terzi, in coerenza con i
principi costituzionali, si impone pertanto una rimeditazione
della nozione di
controinteressato nel processo amministrativo.180
L’individuazione delle parti del giudizio dovrà avvenire pertanto non più (o meglio:
non solo) in relazione all’atto impugnato e alla relativa questione di legittimità dedotta,
quanto piuttosto, in relazione all’assetto sostanziale degli interessi pubblici e privati
oggetto della controversia.
176
Sul tema v. D. Corletto, La tutela dell’interesse a provvedimento e i terzi, op. cit. 932; A. Travi,
L’opposizione di terzo nel processo amministrativo, in foro it., 1997, III, 25 e ss; M. Tiberii, La tutela del
terzo al bivio tra il rimedio dell’appello e/o dell’opposizione: una questione (non solo) di competenza, in Dir.
proc. Amm., 1998, 495 ss.
177
Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 8 maggio 1996, n. 2, e cons. Stato, Ad. PLena, 24 luglio 1997, n. 15.
178
Conseguenza questa la cui particolare gravità è stata sottolineata in dottrina, tra gli altri, da E. Cannada
Bartoli, Vicende dell’opposizione di terzo, in Giur. It. 1998, III, col. 1955; da G. Olivieri, L’opposizione di
terzo nel processo amministrativo. Oggetto ed effetti, in Dir. proc. Amm., 1997, p. 40 e ss.
179
In termini D. Corletto, Opposizione di trzo, cit., p. 570.
180
Così F. Merusi, Il contraddittorio nel processo amministrativo, in dir. proc., amm, 1985, cit. p.10, secondo
il quale “una rimeditazione sull’applicazione del principio del contraddittorio si rende … non più a lungo
eludibile, perché prima o poi dovranno trarsi le conseguenze dal fatto che la nostra, come altre Costituzionali,
ha fatto del principio del contraddittorio la magna charta di ogni processo e perciò anche del processo
amministrativo”.
99
Ciò in attuazione del principio costituzionale dell’audiatur et altera pars nei
confronti di tutti di soggetti portatori di interessi in potenziale conflitto con quello fatto
valere con il ricorso giurisdizionale181.
Conseguentemente, dovranno ritenersi a tutti gli effetti parti legittime e
necessarie tutti coloro che, pur non essendo agevolmente individuabili dall’atto
impugnato, subirebbero una lesione diretta in conseguenza degli effetti prodotti da un
eventuale sentenza accoglimento del ricorso (c.d. controinteressati occulti), ovvero
coloro che risultino titolari di una posizione sostanziale di interesse qualificato alla sua
conservazione, o comunque a tutti coloro che pur non rivestendo la qualifica di
controinteressato al momento dell’impugnazione, siano divenuti interessati a seguito
degli sviluppi del procedimento amministrativo avvenuti durante la pendenza del
processo (c.d. controinteressati successivi).182
In assenza di indicazioni normative, resta da chiarire con quali modalità possa
pervenirsi a tale risultato.
Le soluzioni prospettabile sono essenzialmente due: la prima è quella di imporre un
più ampio onere probatorio in capo al ricorrente, la seconda consiste nel potenziamento
dei poteri officiosi di chiamata in causa del terzo ex art. 107 c.p.c.
Entrambe le strade appaiono percorribili.
In considerazione della reale estensione della lite, infatti, ben potrà dirsi che un
onere di notificazione del ricorso, a pena della sua inammissibilità, debba senz’altro
riconoscersi in capo al ricorrente almeno in tutti quei casi in cui ci si trovi in presenza di
un conflitto di interessi che sia, secondo la regola generale, agevolmente individuabile
dal tenore dell’atto impugnato, ovvero oggettivamente risultante da una situazione
sostanziale nella quale la pretesa appaia fin dall’inizio contrapposta ad una contro
pretesa altrui (si pensi al ricorso avverso gli atti negativi ovvero contro gli atti di
diniego).
181
In argomento, può rinviarsi per tutti, al classico scritto di F. Benvenuti, Contraddittorio (dir. amm.), voce
dell’Enc. Dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 741, ove viene affrontato “il problema della estensione del
contraddittorio” alla luce “sia della speciale natura che della speciale struttura del processo amministrativo”.
Ampi svolgimenti sul punto sono poi presenti negli studi monografici di L. Migliorini, IL contraddittorio nel
processo amministrativo, Rimini, 1984, p. 71 ss; F. Pugliese, Nozione di contro interessato e modelli di
processo amministrativo, Napoli, 1989, p. 161; F. Merusi, Il contraddittorio nel processo amministrativo, cit.
p. 10.
182
La giurisprudenza amministrativa prevalente ritiene, invece, che l’esistenza o meno di contro interessati
vada verificata al momento dell’introduzione del giudizio e non costituisce onere per vil ricorrente quello di
seguire le ulteriori vicende del procedimento amministrativo: così tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 24 maggio
1996, n. 592, in Foro amm. 1996, p. 1553.
100
Al di fuori di queste più evidenti ipotesi tuttavia, non può ritenersi possibile la
precostituzione di un più ampio onere di ricerca di potenziali contro interessati da
imporre in capo al ricorrente a pena di inammissibilità.
Infatti l’estensione dell’obbligo di notifica oltre i limiti suddetti finirebbe
inevitabilmente con il privare, di fatto, il ricorrente del proprio diritto alla difesa
giurisdizionale. 183
Né potrebbe costringersi il ricorrente ad operare valutazioni soggettive dell’interesse
altrui, che nel dubbio, non avrebbero altro effetto che quello di moltiplicare
notificazioni in modo tanto ampio quanto vago ed in definitiva, nella maggior parte dei
casi, del tutto inutile.
Si pensi a titolo esemplificativo al ricorso avverso il diniego di permesso di
costruire, in questo caso sarebbe ragionevole individuare a priori e in ogni caso il vicino
come contro interessato?
Certo ogni vicino sarebbe legittimato ad impugnare il permesso una volta che questo
sia stato concesso in esecuzione del giudicato, ma tale legittimazione resta legata ad una
valutazione soggettiva del proprio interesse, non ancorato di per sé a dati oggettivi.
Analoghe riflessioni potrebbero estendersi a tutte le ipotesi di ricorso avverso
provvedimenti di diniego.
E’ pertanto alla seconda alternativa sopra prospettata, ossia al ruolo e ai poteri
officiosi del giudice ex art. 107 c.p.c. – da intendersi come norma generale e di
principio in materia184 – che va affidato il compito di soddisfare l’esigenza, del tutto
condivisibile, di consentire ai soggetti portatori di interessi di far sentire la loro voce già
in sede di giudizio.
Com’è noto la giurisprudenza tradizionale ha escluso che nel processo
amministrativo possano trovare ingresso le figure di intervento coatto previste dal
codice di rito e segnatamente dell’intervento su istanza di parte e su ordine del giudice,
di cui, rispettivamente agli artt. 106 e 107 c.p.c.185
183
Osserva esattamente E. Sticchi Damiani, Le parti necessarie nel processo amministrativo, Milano, 1988, p.
199 che se occorre certamente “soddisfare l’esigenza costituzionale della pienezza del contraddittorio, è
necessario consentire altresì di salvaguardare in concreto il diritto, altrettanto costituzionale, all’accesso alla
tutela giurisdizionale, che pure deve essere tenuto presente dalla legge processuale amministrativa e che
verrebbe di fatto vanificato ipotizzando a carico del ricorrente l’onere (gravosissimo, se non diabolicum) di
provvedere egli alla chiamata in causa di tutti gli
184
Sul punto E. Sticchi Damiani, Le parti necessarie nel processo amministrativo, cit., p. 195, secondo cui “lo
strumento della chiamata iussu iudicis dei contro interessati … rientra nelle normali tecniche che qualsiasi
giudice, quello ordinario come quello amministrativo, ha a disposizione per giungere a deliberare con piena
cognizione sull’oggetto della controversia”.
185
Cons. Stato, sez. V, 29 marzo 1963, n. 159.
101
Le ragioni poste a fondamento dell’orientamento più restrittivo sono rinvenibili
essenzialmente nella pretesa inutilità di tali strumenti processuali nel giudizio
amministrativo incentrato sulla tutela demolitoria avverso un atto amministrativo e nella
pretesa inconciliabilità dell’intervento coatto con
le caratteristiche strutturali del
processo impugnatorio.
In questo senso rileverebbe l’assenza tra le norme che regolano il processo
amministrativo di un espresso richiamo alla disciplina dell’intervento prevista dal
codice di rito (com’è noto l’art. 37 del reg. di proc. Del 1907 prevede solo l’intervento
volontario nel processo amministrativo).
Né potrebbe essere ricondotto all’intervento coatto, l’ordine del giudice di
integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i cotrointeressati, dato che questi
non sono terzi (come invece gli intervenienti), bensì contraddittori necessari.
A favore della praticabilità di tale rimedio sembra invece orientata una parte della
giurisprudenza 186.
Secondo questo indirizzo, il ricorso alla chiamata in causa del terzo ex art. 107
c.p.c., norma quest’ultima non derogata da norme speciali, deve ritenersi consentito
tutte le volte in cui ciò risponda ad un’esigenza di giustizia sostanziale, ad una completa
soddisfazione del principio dell’integrità del contraddittorio e di un’economia dei
giudizi.
Nell’ottica di un processo orientato a sindacare la fondatezza (o l’infondatezza)
della pretesa sostanziale avanzata dal ricorrente l’intervento in giudizio su istanza di
parte o su ordine del giudice trova un ulteriore ragione giustificativa nell’esigenza di
tutela dello stesso ricorrente, consentendogli di “vincolare” il terzo al giudicato per lui
eventualmente favorevole, impedendogli iniziative successive quali l’impugnazione
dell’atto amministrativo emanato dalla p.a. in esecuzione del giudicato o l’opposizione
di terzo contro la sentenza.
Si pone a questo punto l’ulteriore problema di individuare i termini e le modalità
con i quali le parti debbano introdurre un’eventuale chiamata in giudizio del terzo.
Per l’intervento jussu juducis non vi sono difficoltà a ritenere che il g.a. possa
disporlo in qualunque momento del giudizio, salvo ad interrogarsi sulla sorte del
processo in ipotesi in caso di mancata ottemperanza delle parti al suo ordine.
Più problematica appare l’evenienza di una chiamata ad istanza di parte.
186
Cons. stato, sez. IV, 11 febbraio 1998, n. 258; Tar Marche, 20 luglio 1976, n. 172 con nota adesiva di A.
Romano, L’intervento “iussu iudicis” nel giudizio amministrativo, in Giur. Merito, 1977, III, 940 ss.
102
Come è stato osservato 187, esigenze di celere, ordinato e razionale svolgimento
del processo impongono che essa sia proposta entro un termine perentorio nelle prime
battute del processo (così come avviene nel processo civile) e che sia autorizzata dal
giudice previa valutazione, anche nel contraddittorio delle parti, della sussistenza delle
condizioni per lo svolgimento del simultaneus processus.
Potrebbe quindi individuarsi nel ricorso incidentale lo strumento di introduzione
della richiesta al giudice di chiamata del terzo, da realizzarsi – dopo l’autorizzazione del
giudice – attraverso la notifica al terzo di apposito ricorso.
Comune alla chiamata ad istanza di parte e jussu judicis è, infine, la
problematica relativa all’individuazione dell’organo – collegio o Presidente (o suo
delegato) abilitato ad adottare l’autorizzazione /ordine per effettuate la chiamata del
terzo.
Entrambe le soluzioni sono state prospettate come possibili.
In favore della competenza collegiale muovono essenzialmente esigenze di
garanzia connesse alla delicatezza delle valutazioni da compiersi, in favore della
competenza monocratica, viceversa, l’esigenza di garantire la concentrazione del
processo, sia in fase di decisione sull’istanza di chiamata del terzo, che in fase di
svolgimento dell’istruttoria.188
187
S. Veneziano, Ampliamento dell’oggetto del giudizio risarcitorio,: domanda riconvenzionale e chiamata in
giudizio del terzo, op. cit.
188
S. Veneziano, op. ult. cit.
103
Cap. IV
La fase decisoria ed il soddisfacimento dell’interesse sostanziale.
1. Aspetti generali della questione: le azioni proponibili innanzi al giudice
amministrativo e le pronunce adottabili
La tutela giurisdizionale amministrativa si è presentata per quasi un secolo come
“ineluttabilmente costitutiva”189, in quanto diretta esclusivamente all’annullamento del
provvedimento amministrativo lesivo.190
Tale rappresentazione del sistema di giustizia amministrativa ha influito, come si è
già in parte avuto modo di rilevare, sulla stessa rappresentazione del processo
amministrativo, sulle domande esperibili e sui tipi di sentenze adottabili.
Coerentemente con la rappresentazione impugnatoria del processo amministrativo
per lungo tempo si è ritenuto che l’unica azione in esso esperibile fosse l’azione diretta
alla caducazione del provvedimento impugnato.
La tesi si fondava su una lettura particolarmente restrittiva dell’art. 45 T.U. del 1924
nella parte in cui prevede che nel caso di accoglimento del ricorso la IV sezione
“annulla l’atto o il provvedimento, salvo gli ulteriori provvedimenti
dell’autorità
amministrativa” e dell’art. 88 del reg. di proc. secondo il quale “l’esecuzione delle
decisione si fa in via amministrativa, eccetto che per la pare relativa alle spese”.
Dal combinato delle due disposizioni la dottrina e la giurisprudenza tradizionali
hanno tratto il corollario nella necessaria natura costitutiva della pronuncia di
accoglimento.
Si è già accennato peraltro di come tale ricostruzione risultasse fortemente
deficiataria sotto il profilo della tutela degli interessi sostanziali fatti valere in giudizio.
189
L’espressione è di A. Albini, Le sentenze dichiarative nei confronti della pubblica amministrazione,
Milano, 1953, 6.
190
In termini G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. II, op. cit., il quale sottolinea come la
decisione del giudice amministrativo che accoglie il ricorso “ha sempre carattere costitutivo, in quanto
distrugge o modifica la situazione creata con l’atto amministrativo impugnato. Del tutto escluse sono le
decisioni di condanna: il richiamato art. 45 non contempla provvedimenti, con cui le Sezioni giurisdionali
possano imporre all’amministrazione un obbligo di fare o di dare”; E. Giucciardi, La giustizia
amministrativa, op. cit.m, 218 secondo il quale “In ogni caso, è escluso che le decisioni del giudice
amministrativo possano contenere pronunce di condanna, salvo quella meramente accessoria relativa alle
spese di giudizio”, si veda, inoltre, F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960 (ristampa), p.
738.
104
Se infatti un siffatto sistema di tutela poteva ritenersi confacente alla tutela dei
“meri” interessi oppositivi, risultava del tutto inadatto a tutelare interessi di tipo
pretensivo.
Basti pensare ai limiti della tutela giurisdizionale avverso il silenzio della p.a.,
contratta per decenni, in assenza di un’apposita azione di adempimento, nelle forme
della tutela d’annullamento.
La posizione assunta dalla dottrina e dalla giurisprudenza tradizionali
apparivano pertanto difficilmente conciliabili con il principio di strumentalità delle
norme processuali rispetto alla tutela delle posizioni sostanziali evincibile dall’art. 24
cost. nella parte in cui afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi”.
Al fine di attenuare l’evidente contrasto con le norme costituzionali il legislatore
è intervenuto con interventi rapsodici sia in sede di giurisdizione escluiva attraverso
l’estensione dei mezzi di tutela sommaria del processo civile di cui agi artt. 633 ss.
c.p.c. e 186 bis e ter c.p.c., sia in sede di giurisdoone di legittimità
con la
generalizzazione dell’azione di condanna al risarcimento del danno.
Un’importante novella peraltro ha interessato la tutela avverso il silenzio della p.a. oggi
estesa dalla L: 15/05 di riforma dell’art. 2 L. 241/90 a sindacare “la fondatezza della
pretesa” sostanziale fatta valere dal ricorrente
I recenti interventi hanno considerevolmente ampliato le possibilità di tutela nei
confronti della pubblica amministrazione,
superando
lo schema rigidamente
impugnatorio che fino ad ora, almeno nella lettera delle disposizioni normative, aveva
caratterizzato il processo amministrativo di legittimità.
Resta da verificare tuttavia quale sia la reale portata applicativa della nuova
disciplina e soprattutto se e in che termini possa ritenersi trasposta al processo
amministrativo la classica tripartizione processualcivilistica tra sentenze di mero
accertamento, costitutive e di condanna.
Verificato ciò occorrerà poi accertare in che misura il processo amministrativo,
pensato in relazione alla tutela costitutiva, resista a tale estensione.
Come si legano, infine, gli aspetti processuali agli aspetti sostanziali connessi
all’esercizio del potere.
105
2. Le azioni di accertamento.
All’interno dell’azione di cognizione la dottrina processualcivilistica è solita
distinguere da sempre tra azioni i mero accertamento (che introduce un processo di
cognizione destinato a chiudersi con una sentenza di mero accertamento), azione di
condanna (che introduce un processo di cognizione destinato a chiudersi con una
sentenza di condanna) e azione costitutiva (che introduce un processo destinato a
chiudersi con una sentenza costitutiva) 191.
L’azione di accertamento si differenzia in particolare dalle azioni costitutive e di
condanna per il modo particolare in cui si presenta l’interesse ad agire, in quanto
determinato non dalla affermazione della violazione, ma dalla affermazione della
contestazione che deve assumere un sufficiente grado di consistenza e di serietà.
Nel giudizio di accertamento, dunque, l’attore “non vanta alcun diritto subbiettivo
verso l’avversario se non lo stesso diritto di azione, coordinato a un interesse
d’accertamento”192.
Come si è accennato la l. 205/00 ha ampliato considerevolmente le possibilità di
tutela nei confronti della pubblica a amministrazione lasciando tuttavia irrisolto uno dei
nodi più problematici costituito dal processo di accertamento che invece costituiva uno
dei punti più qualificanti dell’ultimo tentativo di riforma organica della giustizia
amministrativa193.
Il tema del giudizio di accertamento nel processo amministrativo coinvolge due ordini
di problemi.
Da una parte, infatti, le carenze del giudizio di annullamento degli atti negativi e del
giudizi contro il silenzio della pa. hanno indotto parte della dottrina a indicare nel
191
Mandrioli, Manuale di diritto processuale civile, op. cit., 60.
G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti (1903), in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1993,
16.
192
193
Il disegno di legge delega n. 788, approvato alla Camera il 12 ottobre del 1989,
prevedeva che, al fine di realizzare «l'attuazione integrale, coordinata e coerente, dei
principi costituzionali in ordine alla tutela del cittadino, singolo o associato, nei
confronti della pubblica amministrazione», fosse «assicurato un completo sistema di
strumenti idonei a consentire l'effettiva tutela degli interessi legittimi e, nelle materie di
giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi». Avrebbe quindi dovuto essere regolato
«organicamente il sistema delle pronunce sul ricorso in relazione al loro contenuto, rispettivamente, di
accertamento,
costitutive
di
condanna».
In questo quadro, si prevedeva di «disciplinare autonomamente il processo di accertamento prescrivendo:
1) che la declaratoria relativa sia idonea a soddisfare l'interesse fatto valere dal ricorrente; 2) che la
pronuncia del giudice contenga, ove occorra, l'affermazione degli obblighi della pubblica
amministrazione» (art. 1, comma 3, lett. e). Come è stato sottolineato, la disposizione avrebbe consentito
l'introduzione nel processo amministrativo di legittimità di un'azione di mero accertamento in senso
proprio.
106
processo di accertamento l’unica forma idonea a garantire l’effettività della tutela degli
interessi legittimi pretensivi.
Dall’altra, e più a monte, si è posta la questione se l’interesse legittimo possa oppure no
essere oggetto, come il diritto soggettivo, di accertamento giudiziale in relazione al
carattere impugnatorio del processo di legittimità194.
Sotto quest’ultimo profilo, ci si chiede
se il giudizio amministrativo su interessi
legittimi resti connesso al paradigma dell’impugnazione del provvedimento ai fini della
mera verifica della sua conformità a legge, con salvezza del riesercizio del potere,
ovvero se il giudice amministrativo, sia, almeno in taluni casi (silenzio) legittimato o
tenuto alla verifica della spettanza del bene della vita e quindi allo scrutinio della
fondatezza della pretesa sostanziale.
194
Su tali questioni si veda in genere G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità
del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/1992, 486 e ss; Pugliese, Note minime in tema di
accertamento e di difetti della decisione amministrativa di accoglimento del ricorso, in Dir. Proc. amm., n.
4/93, p. 645 e ss; B. Tonoletti, Mero accertamento e processo amministrativo: analisi di casi concreti, in Dir.
proc. amm., n. 3/2002, p. 593 e ss.
107
2.1. L’accertamento del diritto controverso nelle materie di giurisdizione
esclusiva.
A quest’ultimo interrogativo, ossia alla possibilità di estendere il giudizio di
accertamento a tutela di posizioni di interesse negativo la giurisprudenza consolidata ha
dato risposta negativa: “ l'azione di mero accertamento nel processo amministrativo è
ammessa negli stessi limiti in cui è ammessa nel processo civile, quando si agisce per la
tutela di diritti soggettivi, ancorché non patrimoniali, mentre non è in via generale
consentita in materia di tutela degli interessi legittimi, la quale si realizza
esclusivamente mediante l'annullamento di un provvedimento o mediante pronunce
dichiarative dell'illegittimità di un silenzio assimilabile a un provvedimento”195.
La giurisprudenza distingue, dunque, i diritti soggettivi dagli interessi legittimi,
ritenendo che soltanto i primi siano tutelabili (anche) mediante azioni di mero
accertamento.
Inizialmente dunque l’azione di accertamento era riconosciuta nelle sole
controversie (per lo più relative alla materia del pubblico impiego) rientranti nella
giurisdizione esclusiva e si contro verteva soltanto i diritti soggettivi.
Deve rivelarsi peraltro che le sentenze più risalenti si sono pronunciate per la
inammissibilità di azioni di accertamento in senso proprio, ossia tendenti ad ottenere
una decisione satisfattiva di un mero bisogno di certezza giuridica del ricorrente,
dinanzi al g.a. seppure in sede di giurisdizione esclusiva su diritti.
Viene in rilievo in particolare la sentenza dell’Ad. Plen. n. 17 del 1953,
considerata la pronuncia “capostipite”, con la quale il consiglio di Stato ha ritenuto
inammissibile la domanda di alcuni impiegati di una Cassa mutua soppressa, volta al
riconoscimento del loro trasferimento ex lege alle dipendenze dell'INAM196.
Gli impegati erano stati indotti ad agire dalla notizia dell'imminente
proclamazione di un concorso interno da parte dell'INAM, dal quale temevano di
rimanere esclusi perché gli organi competenti non avevano ancora portato a termine le
operazioni necessarie per l'attuazione della legge di soppressione della Cassa e per
l'inquadramento
del
personale
nei
ruoli
dell'INAM.
195
Cons. St., sez. VI, 15 maggio 1984, n. 261, in Giur. it., 1985, III, 1, 102. Più di recente, la posizione è
stata ribadita da Id., sez. V, 11 ottobre 1999, n. 1343, in Urb. e app., 1999, 1348, secondo la quale «anche
nelle materie di giurisdizione esclusiva non sono ammesse azioni di accertamento a tutela di una posizione
avente la consistenza di interesse legittimo».
196
Cons. St., Ad. plen., 26 ottobre 1953, n. 17, in Cons. St., 1953, I, 865.
108
Il Consiglio di Stato ha rilevato che i ricorrenti, «volendo soltanto porre fine
all'incertezza della loro posizione giuridica per potersene avvalere al momento
opportuno, esperiscono in questa sede un'azione di mero accertamento, di quella specie
che è detta "di accertamento preventivo", in vista della possibilità di partecipare ai
concorsi interni che l'INAM bandirà prossimamente». L'azione è stata giudicata
inammissibile, perché «dinanzi al Consiglio di Stato non sono proponibili azioni di
mero accertamento preventivo».
Nell’ottica tradizionale infatti la tutela che il giudizio amministrativo deve
offrire al ricorrente deve pur sempre considerarsi di tipo costitutivo, ossia connessa ad
un provvedimento amministrativo, attraverso la sua demolizione, ovvero attraverso
l’accertamento del diritto alla sua adozione.
Non sarebbe proponibile invece un’azione diretta ad una semplice declaratoria,
un mero accertamento di uno status nella sua interezza.
Tale posizione giurisprudenziale rimasta dominante per tutti gli anni settanta, è
stata superata per effetto di alcune affermazioni di principio contenute in un’altra
sentenza chiave della vicenda dell’accertamento nel processo amministrativo costituita
dlal pronuncia n. 25 dell’Ad. Plenaria, che ha generalizzato la tutela dichiarativa dei
diritti nel pubblico impiego, estendendo ai diritti non patrimoniali la figura dell’atto
paritetico197.
Sulla scorta di tali considerazioni la giurisprudenza successiva ha ammesso che
“allorché si chieda la tutela di diritti soggettivi, anche non patrimoniali, l'azione di mero
accertamento è ammessa nel processo amministrativo negli stessi limiti in cui essa
sarebbe ammissibile in un processo civile, avente ad oggetto situazioni soggettive
similari, e cioè quando sussista un interesse ad eliminare una situazione di incertezza”
198
.
Anche dopo il riconoscimento della loro ammissibilità, azioni di mero
accertamento
nella
giurisdizione
esclusiva
si
sono
presentate
raramente.
I pochi casi in cui il giudice amministrativo è stato chiamato a pronunciarsi su domande
di mero accertamento in senso proprio, hanno, però, offerto l'occasione di precisare in
che senso tale azione è soggetta alle stesse condizioni che vigono per essa nel processo
civile: precisazioni importanti, perché l'azione di mero accertamento neppure nel
197
Cons. St., Ad. plen., 26 ottobre 1979, n. 25, in Riv. amm., 1979, 881. Si veda, in proposito, Quartulli, Atti
autoritativi e atti paritetici: validità di una distinzione, in Studi per il 150º del Consiglio di Stato, III, Roma,
1981, 1517
198
Per tutte Cons. St., sez. VI, 15 maggio 1984, n. 261.
109
processo civile gode di un espresso riconoscimento legislativo, essendo configurata
come strumento di tutela di carattere generale dalla giurisprudenza, la quale ne ha
fissato, con orientamenti non sempre univoci, le condizioni di ammissibilità199.
È naturale, quindi, che il giudice amministrativo si sia rivolto, per stabilire quali
siano i presupposti dell'azione di mero accertamento, all'elaborazione compiuta dalla
giurisprudenza civile.
E’ stato così affermato che anche nel processo amministrativo, in primo luogo,
l'interesse ad agire in mero accertamento deve fondarsi su di uno stato di incertezza
derivante da una pretesa contestata: «non è, infatti, possibile la proposizione di
un'azione di accertamento diretta alla dichiarazione di uno stato di fatto o di diritto
pacifico e mai contestato. Anche in questo caso occorre pertanto che l'attore sia titolare
di una situazione contestata e che a tale situazione possa porre rimedio solo con la
certezza
che
deriva
dalla
pronuncia
del
giudice»200.
In secondo luogo, sempre riferendosi agli indirizzi della giurisprudenza civile, il giudice
amministrativo ha ritenuto che la dichiarazione dell'esistenza o inesistenza di un diritto
deve essere «richiesta al giudice non già in via meramente astratta o addirittura
ipotetica, bensì con riferimento a circostanze e fatti concreti e attuali», al fine di «evitare
che il ricorso al giudice si traduca in una mera richiesta di consulenza sul principio di
diritto” 201.
199
La giurisprudenza civile ritiene che l'azione di mero accertamento debba avere ad oggetto «un diritto che
sia già sorto e che possa in astratto competere all'attore, sempre che sussista un pregiudizio attuale, e non
meramente potenziale, che non possa essere eliminato senza una pronuncia giudiziale» (ad es., Cass., s.u., 15
gennaio 1996, n. 264, in Giust. civ., 1996, I, 2324). Per alcuni esempi di ritenuta sussistenza di un
pregiudizio attuale derivante da uno stato di oggettiva incertezza, si vedano Cass., 28 giugno 1997, n. 5819,
in Foro it., 1998, I, 902, con nota Fabiani (accertamento della validità di un accordo transattivo tra lavoratore
e datore di lavoro richiesto da quest'ultimo); Id., 26 maggio 1993, n. 5889, ivi, 1994, I, 507, con nota di
Pagni, Licenziamento, poteri privati e interesse ad agire in mero accertamento (accertamento promosso dal
datore di lavoro della sussistenza di una giusta causa di licenziamento del lavoratore); Id., 14 maggio 1983, n.
3338, ivi, 1983, I, 3039 (accertamento promosso dal lavoratore del proprio diritto alla tutela assicurativa
contro le malattie professionali). In argomento, Lanfranchi, L'interesse del datore di lavoro ad agire in mero
accertamento, in Riv. giur. lav., 1975, II, 483; Merlin, Mero accertamento di una questione preliminare?, ivi,
1985, 193; Sassani, Mero accertamento del rapporto di lavoro, interesse ad agire e art. 34 c.p.c., in Giust.
civ., 1984, I, 626; Id., L'azione di accertamento del datore di lavoro "dissenziente" nel procedimento di
avviamento obbligatorio, in Riv. dir. proc., 1989, 1148.
200
T.A.R. Lazio, sez. III, 12 aprile 1985, n. 385, in Trib. amm. reg., 1985, I, 1639. Questa posizione
corrisponde all'indirizzo consolidato nella giurisprudenza civile, secondo cui l'interesse ad agire in mero
accertamento «presuppone uno stato d'incertezza oggettiva - cioè dipendente da un fatto esteriore o da un atto
e non da considerazioni meramente soggettive - sull'esistenza di un rapporto giuridico tale da arrecare
all'interessato, ove questi non proponga l'accertamento giudiziale sulla concreta volontà della legge, un
pregiudizio concreto e attuale» (fra le tante, Cass. 8 marzo 1999, n. 1981, in Giust. civ. Mass., 1999, 521; Id.,
21 giugno 1993, n. 6859, in Foro it., Rep. 1993, voce Proprietà (azioni a difesa), n. 2; Id., 29 novembre 1991,
n. 12818, ivi, 1991, voce Procedimento civile, n. 104; Id., 19 aprile 1991, n. 4208, ibid., voce Previdenza
sociale, n. 1005.
201
Cons. St., sez. IV, 8 ottobre 1987, n. 576, in Cons. St., 1987, I, 1343. Anche questa posizione corrisponde
all'indirizzo consolidato nella giurisprudenza civile, secondo cui «deve escludersi l'interesse ad agire in mero
110
In concreto, sono state ritenute inammissibili l'azione di mero accertamento della
natura pubblicistica di un rapporto di lavoro con un ente pubblico, in mancanza di
contestazione da parte del datore di lavoro o comunque di qualsiasi elemento che
rendesse dubbia la posizione dei ricorrenti in seno all'ente, e l'azione di mero
accertamento del diritto ad ottenere maggiorazioni di compenso per lavoro prestato in
turni pomeridiani e notturni, proposta in via puramente astratta, senza allegazione degli
elementi di fatto da cui dovrebbe essere concretamente sorto il diritto202.
E’ stata, invece, considerata ammissibile la domanda di mero accertamento del
diritto alla corresponsione della retribuzione corrispondente all'esercizio di mansioni
superiori, proposta da un aiuto ospedaliero incaricato di svolgere in via vicaria le
funzioni di primario203.
Quando il primario era stato collocato a riposo, il sostituto aveva proposto
ricorso al giudice amministrativo, che era stato respinto dal T.A.R. perché il periodo
trascorso tra il verificarsi della vacanza del posto di primario e la notificazione del
ricorso era inferiore ai sessanta giorni nel limite dei quali l'art. 29 del d.P.R. n. 761 del
1979 dispone che l'esercizio di mansioni superiori non dà diritto a retribuzione
aggiuntiva.
Il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza, ritenendo che la circostanza
rilevata dal T.A.R influisse sul merito del ricorso, ma non potesse valere a “delimitare
l'oggetto del giudizio, poiché, trattandosi di una situazione giuridica di durata, la
pronunzia di accertamento deve esprimersi... sugli effetti che ne derivano finché restino
immutati gli elementi essenziali esistenti alla data della proposizione del ricorso”.
In altri termini, la decisione ha riconosciuto che la domanda era rivolta non
contro una lesione attuale del diritto patrimoniale del ricorrente, bensì contro
l'incertezza circa la spettanza di tale diritto in futuro, determinata dalla contestazione
dell'amministrazione.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, «è principio ampiamente acquisito che
l'azione di accertamento possa essere proposta anche per rimuovere una situazione
oggettiva di incertezza in ordine ad un diritto, incertezza sussistente nella specie, posto
accertamento ove il giudizio sia rivolto alla soluzione di una questione di diritto in vista di situazioni future
ed ipotetiche» (in tal senso, da ultimo, Cass., s.u., 15 gennaio 1996, n. 264, in Giust. civ., 1996, I, 2324; Id.,
21 novembre 1995, n. 10017, in Inf. prev., 1995, 1314; Id., 24 giugno 1995, n. 7196, in Foro it., Rep. 1995,
voce Procedimento civile, n. 157).
202
Rispettivamente T.A.R. Lazio, sez. III, 12 aprile 1985, n. 385 cit. e Cons. St., sez. IV, 8 ottobre 1987, n.
576.
203
Cons. St., sez. V, 18 maggio 1998, n. 611, in Foro amm., 1998, 1416, con nota di S. Russo.
111
che l'amministrazione, nel pronunziarsi sulla diffida notificata dal ricorrente, aveva
negato la spettanza del trattamento retributivo superiore».
Per quanto numericamente scarse, le pronunce esaminate dimostrano come i n
giurisprudenza sia acquisita l’ammissibilità di azioni di mero accertamento nelle
controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
Deve rilevarsi peraltro come l’azione di accertamento, per quanto nelle
affermazioni di principio abbia trovato riconoscimento di carattere generale, almeno
nelle controversie vertenti in materia di diritti soggettivi, sia stata di fatto ritenuta
ammissibile quasi esclusivamente nelle controversie in materia di pubblico impiego.
Fuori dalla materia del pubblico impiego, l’azione di accertamento ha trovato
rare applicazioni nelle controversie vertenti in materia di diritti soggettivi di carattere
petitorio e possessorio, e in genere, dirette a rimuovere una situazione di incertezza
relativa a rapporti paritari tra p.a. e cittadino.
In altre materie i tentativi dei tribunali di primo grado di dar voce a forme di
tutela di mero accertamento sono state sovente bloccati dal Giudice di seconda istanza
con argomenti che richiamano significativamente l’impostazione dell’Ad. Plen. del
1957, imperniata sul giudizio impugnatorio come paradiga del processo amministrativo.
112
2.2 . Azione di accertamento e interesse legittimo.
La ragione tradizionalmente addotta per giustificare la differenziazione tra diritti
e interessi in ordine all’esperibilità dell’azione di accertamento è di ordine non
sostanziale, ma processuale, in quanto si basa sull'asserita tipicità delle azioni esperibili
nel processo amministrativo. Si afferma, infatti, che «l'attuale giurisdizione di
legittimità è giurisdizione di annullamento degli atti amministrativi, e non anche
giurisdizione di mero accertamento della legittimità di questi ultimi, per cui nel vigente
sistema processuale amministrativo non è ammissibile un giudizio che tenda solo
all'accertamento dell'illegittimità degli atti, svincolato dall’annullamento degli stessi204.
Questa posizione si inserisce nel contesto di un quadro teorico che fu elaborato
dalla dottrina nel corso degli anni cinquanta, ma che in seguito è stato oggetto di un
progressivo ripensamento fino ad essere completamente abbandonato in tempi più
recenti205.
A partire già dagli anni sessanta, infatti, i percorsi della dottrina si sono sempre
più divaricati da quelli seguiti dalla giurisprudenza206.
204
Cons. St., sez. IV, 15 settembre 1998, n. 1155, in Cons. St., 1998, I, 1267.
Le origini della posizione giurisprudenziale in esame si collocano nella prima metà degli anni cinquanta. È
quindi significativa la concordanza temporale con le posizioni teoriche cui ci si riferisce nel testo. Si deve
ricordare, in primo luogo, la netta riaffermazione del carattere necessariamente impugnatorio del processo
amministrativo di legittimità fatta da Casetta, Osservazioni sull'ammissibilità di decisioni di mero
accertamento da parte del giudice amministrativo, in Rass. dir. pubbl., 1952, 146 ss., a fronte delle aperture di
Guicciardi, Sentenze dichiarative del giudice amministrativo?, in Giur. it., 1951, III, 121 (ora in Studi di
giustizia amministrativa, Torino, 1967, 346 ss.). In secondo luogo, risale a quegli anni una delle più rigorose
teorizzazioni del giudizio amministrativo come processo di impugnazione di atti amministrativi invalidi,
avente ad oggetto non l'interesse legittimo (come invece il diritto soggettivo è l'oggetto della giurisdizione
civile), ma «un rapporto giuridico potestativo che trae origine da una concreta volontà di legge avente per
contenuto l'annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, subordinatamente alla volontà del
soggetto dell'interesse individuale da esso leso» ( Garbagnati, La giurisdizione amministrativa. Concetto ed
oggetto, Milano, 1950, spec. 12 ss., 28 ss., 39 ss., 58 ss., 66 ss.). La tesi di Garbagnati tendeva ad affermare
una incommensurabilità tra diritto soggettivo e interesse legittimo ( op. cit., 95, ove si sostiene che «non è
esatto configurare l'interesse legittimo come una situazione giuridica subiettiva, come una posizione giuridica
di vantaggio, distinta bensì dal diritto soggettivo, ma da collocarsi sul medesimo piano di esso», perché esso
«è un puro elemento teleologico rispetto al potere giuridico di provocare l'annullamento dell'atto
amministrativo invalido») che pochi anni dopo avrebbe trovato un inquadramento più generale ad opera di
Allorio, L'ordinamento giuridico nel prisma dell'accertamento giudiziale (1955), ora in Id., Problemi di
diritto, I, Milano, 1957, 3 ss., spec. 81 ss.
206
Il momento in cui l'impostazione dottrinale ha cominciato a differenziarsi nettamente da quella
giurisprudenziale è rappresentato dall'opera di Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, op. cit. II,
il quale pur non condividendo le posizioni che ammettono nel processo civile un'azione generale di mero
accertamento (p. 107 ss.), ha fissato una premessa essenziale per il successivo sviluppo della riflessione in
argomento sottolineando come le norme che fissano i presupposti di fatto del provvedimento non siano
dettate «nell'esclusiva considerazione dell'interesse pubblico», ma costituiscano anche una diretta garanzia
sostanziale degli interessi privati coinvolti nell'azione amministrativa ( op. cit., I, 183 ss.; II, 1 ss., 14 ss.) e,
su questa base, individuando nella sentenza del giudice amministrativo un contenuto di accertamento della
pretesa sostanziale del ricorrente ( op. cit., II, 225 ss.).
205
113
Mentre questa rimaneva ancorata all'idea della tipicità delle azioni ammissibili
nella giurisdizione di legittimità, la dottrina accentuava il carattere sostanziale
dell'interesse legittimo, avvicinandosi sempre più all'ordine di idee opposto, secondo il
quale le situazioni soggettive riconosciute dal diritto materiale devono necessariamente
trovare sul piano processuale una protezione adeguata alla natura della lesione
concretamente sofferta.
L’azione generale di mero accertamento, infatti, non è prevista neppure per i
diritti soggettivi e, tuttavia, dottrina e giurisprudenza la ammettono sulla sola base
dell'interesse ad agire determinato dalla contestazione o dal vanto altrui del diritto.
La dottrina tende, quindi, oggi a considerare secondaria la mancata previsione
normativa dell'azione di mero accertamento, ritenendo che il problema sia quello,
essenzialmente pratico, di individuare le ipotesi in cui l'interesse legittimo possa e debba
essere tutelato solo mediante l'accertamento della situazione giuridica esistente207.
A ciò si aggiunga che l’intero impianto sul quale si fondava la ricostruzione dei
limiti applicativi del giudizio di accertamento nel processo amministrativo, sembra
essere stato scardinato dalla recente decisione della Corte cost. 204/04.
La Corte ha infatti affermato che nelle ipotesi in cui la p.a. agisce in assenza di
potestà pubblicistiche la cognizione della controversia sarà sempre devoluta alla
giurisdizione del g.o.
Alla luce della ricostruzione del riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a. effettuato
dalla Consulta, non vi sarebbe spazio per l’esercizio dell’azione di accertamento nel
processo amministrativo, atteso che le fattispecie in cui tradizionalmente la
giurisprudenza ha ritenuto esperibile l’azione di accertamento (ossia i rapporti paritetici)
sono oggi ricondotte alla cognizione del g.o.
Tuttavia, in mancanza di un'espressa previsione normativa, la giurisprudenza
continua a mantenere nei confronti della tutela di mero accertamento la posizione
generalmente preclusiva sopra ricordata.
In realtà è bene distinguere due ipotesi.
207
In tal senso, E. Ferrari, Decisione, cit., 548, secondo il quale «alla decisione giurisdizionale
amministrativa non risulta essere oggi precluso nessuno dei contenuti e degli effetti che conosciamo per le
sentenze del giudice ordinario e sulla base dei quali è stata elaborata la nota tripartizione dei tipi di sentenza.
Ciò deriva fondamentalmente dal fatto che il risultato del giudizio amministrativo è un accertamento proprio
perché tale giudice applica la norma al fatto ed enuncia la regola di diritto nel caso concreto... In linea di
principio risultano quindi possibili innanzitutto le sentenze di accertamento» e, dal momento che le
preclusioni teoriche appaiono ormai superate, «il problema è... fondamentalmente di ordine praticoapplicativo; si tratta di individuare le ipotesi concrete nelle quali l'interesse del ricorrente si svolge
essenzialmente all'acclaramento della situazione esistente».
114
La domanda può essere diretta ad ottenere un puro accertamento della posizione
soggettiva, ovvero essere connessa ad un’azione di impugnazione.
Nel primo caso si pensi ad es. al caso in cui il ricorrente lamenti che una
determinata area, che secondo l’amministrazione appartiene al demanio, è invece
proprietà privata.
In questa ipotesi la giurisprudenza ammette pressoché pacificamente
l’esperibilità
dell’azione
di
accertamento
a
fronte
del
“comportamento”
dell’amministrazione.
Così come ammette pacificamente l’azione di mero accertamento quante volte
non sia praticabile la tutela demolitoria: si peni alle ipotesi di silenzio rifiuto
dell’amministrazione ovvero di accertamento della nullità di un atto amministrativo
nelle ipotesi in cui venga in rilievo una posizione di interesse legittimo.
Nel secondo caso invece il quadro si presenta più complesso: riprendendo
l’esempio anzidetto, può immaginarsi che il ricorrente agisca in giudizio per
l’accertamento della proprietà privata dell’area e contestualmente proponga azione
annullamento del vincolo di in edificabilità che insiste sull’area medesima.
A fronte di un atto illegittimo, la giurisprudenza maggioritaria ritiene infatti
tutt’oggi che l’unica tutela accordabile sia la tutela costitutiva con esclusione della
tutela dichiarativa. 208
L’orientamento si fonda sull’assunto che a differenza dei giudizi aventi ad
oggetto un diritto soggettivo - nei quali l’accertamento potrà sfociare in un momento di
giudicato autonomo ed indipendente - nei giudizi nei quali la causa petendi è fornita
esclusivamente da un interesse legittimo la fase di accertamento avrà un valore
endoprocessuale e sarà assorbita dalla pronuncia costitutiva sul provvedimento
impugnato.
Ciò alla stregua della tradizionale regola processuale secondo la quale qualsiasi
tipo di pronuncia è preceduta necessariamente da un’attività di accertamento.
La giurisprudenza amministrativa peraltro pur restando fedele a tale assunto, ha
raggiunto talvolta nella sostanza effetti analoghi a quelli prodotti dalle sentenze
dichiarative.
Tale evenienza si è verificata sostanzialmente in tre ipotesi: a) pronunce di
inammissibilità del ricorso motivate dalla mancanza di ogni effetto lesivo per il
ricorrente derivante dall’atto impugnato; b) pronunzie di difetto di giurisdizione del
208
Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 1978, n. 475 e Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 1984, n. 261.
115
giudice amministrativo, motivate dalla carenza in radice del potere di emanare atti del
genere di quello impugnato; c) pronunce di cessazione della materia del contendere
dichiarative della “satisfattività” del comportamento dell’amministrazione dell’interesse
di cui si chiede tutela209.
La serie di casi più rilevante è quella indicata sub a), ossia l’ipotesi delle
pronunce di inammissibilità del ricorso sull’assunto dell’inesistenza o dell’inefficacia
dell’atto impugnato.
Tali sentenze sono, per comune opinione, sentenze non meramente processuali
in quanto supportate da un’indagine sostanziale, ossia da un accertamento circa il vizio
radicale che inficia l’atto210.
Si tratta pertanto di sentenze di rito con contenuto di accertamento, idonee a
passare in giudicato per la parte di accertamento e, quindi, a porre le basi di un
eventuale giudizio di ottemperanza in caso di comportamenti ed atti posti in essere in
violazione o elusione di tale statuizione.
Dunque si tratta di pronunce solo apparentemente e formalmente sfavorevoli al
ricorrente, mentre nella sostanza contengono riconoscimenti a lui favorevoli in ordine
alla spettanza dell’interesse fatto valere.
Solo che l’affermazione in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale è fatta valere
in modo obliquo o incidentale, ovvero quale presupposto della decisione di
inammissibilità, il che rende di fato difficile determinare in quale modo la statuizione
possa essere fatta valere (se mai in sede di ottemperanza) contro l’amministrazione.
In linea di principio invece la giurisprudenza resta tutt’oggi contraria ad ammettere la
possibilità di una pronuncia “dichiarativa in via principale” dell’inefficacia dell’atto 211,
pur ammettendo, non senza qualche contraddizione, che la decisione di inammissibilità
del ricorso per inefficacia dell’atto, possa essere appellata dall’amministrazione,
ancorché da un punto di vista formale tale decisione le sarebbe favorevole.
Per evitare l’apparente antinomia la giurisprudenza è giunta ad affermare che in casi del
genere la sentenza di primo grado contiene un giudizio sull’efficacia dell’atto
impugnato, onde la sentenza appare idonea a fare stato, qualora passi in giudicato, non
209
Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 dicembre 1977, n. 1129, e Cons. stato, sez. IV, 10 novembre 1981, n.866. Sul
punto, Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, op. cit., p. 498 e G. Vacirca, Sentenze in
rito e cosa giudicata, in Foro amm.. 1982, I, 390.
210
Per tutti, Caianiello, Manuale, op. ult. cit., p. 500.
211
Tar Toscana, 24 ottobre 1974, n. 108 e 13 febbraio 1976, n. 88; Tar Sardegna, 19 gennaio 1978, n. 68;
Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 1978, n. 475.
116
solo riguardo all’inammissibilità del ricorso, ma , altresì, riguardo alla causa di tale
inammissibilità, ovvero riguardo all’inefficacia dell’atto.
Ma se così è allora deve anche ritenersi, quale logico corollario, che l’eventuale
giudicato formatosi sulla efficacia dell’atto, potrebbe esser opposto in qualunque tempo
nei confronti dell’amministrazione che, in prosieguo, intendesse invece dare esecuzione
all’atto dichiarato inefficace, ovvero assumere l’atto come presupposto di ulteriori
comportamenti.
Com’è evidente, la giurisprudenza in questo modo finisce attraverso l’utilizzo atipico di
uno strumento processuale (id est la sentenza processuale di inammissibilità), con il
riconoscere la possibilità di sentenze di accertamento mero.
Tuttavia se può condividersi il fine al quale il suddetto orientamento perviene non
altrettanto condivisibile appare il mezzo con il quale esso opera.
Se si ammette infatti che il giudice amministrativo possa emanare sentenze con valore
dichiarativo, dovrebbe ritenersi l’esistenza di un correlativo diritto di azione, essendo
indiscutibile che il potere del giudice sussiste in quanto ad esso sia correlata un’azione
corrispondente.
Secondariamente l’orientamento riferito appare difficilmente conciliabile, sul piano
sistematico, la possibilità concessa dall’art. 7 L. 205 del 2000 al g.a. di accordare la
tutela risarcitoria degli interessi nelle controversie rientranti nella giurisdizione generale
di legittimità.
La tutela risarcitoria degli interessi, e in specie come si vedrà degli interessi
pretensivi postula l’accertamento della lesione del bene della vita oltre e
indipendentemente dalla verifica dell’illegittimità della statuizione amministrativa
(eventualmente) oggetto di impugnativa.
In terzo luogo non appare corretta la ricostruzione del rapporto tra tutela di
accertamento e tutela costitutiva con riguardo all’interesse fatto valere in giudizio.
Chi propone in giudizio una domanda di accertamento, accompagnata o meno
dalla richiesta di eliminazione della previa decisone amministrativa, fa valere in
giudizio un interesse neanche mediatamente filtrato da un atto amministrativo.
Ciò che si chiede in giudizio è che il giudice accerti la spettanza di un bene della
vita a prescindere dalla valutazione che di tale interesse l’amministrazione abbia fatto
nell’esercizio del potere.
Il petitum nei giudizi di accertamento è costituito dall’accertamento del rapporto
controverso con in più, eventualmente, la rimozione di un atto.
117
Dunque la situazione è opposta a quella prospetta dalla giurisprudenza
l’accertamento dell’illegittimità e l’eliminazione della previa decisione sono capi di
domanda e di sentenza puramente strumentali rispetto all’accertamento del rapporto212.
Se così è però dovrebbe pure ammettersi l’esperibilità dell’azione di
accertamento sia soggetta in ogni caso al termine di prescrizione del diritto e non al
termine di decadenza.
L’accoglimento del ricorso in senso favorevole al ricorrente dovrebbe
comportare in quest’ottica l’inefficacia dell’atto amministrativo la cui illegittimità sia
stata dichiarata incidenter dal giudice amministrativo.
Deve rivelarsi tuttavia che la giurisprudenza amministrativa è ben lontana
dall’abbracciare una soluzione siffatta restando fedele al dogma dell’inammissibilità di
azioni di mero accertamento “dirette ad appurare, al di fuori del vincolo impugnatorio,
ed in elusione dei brevi termini di decadenza, l’asserita invalidità od inefficacia di atti
amministrativi non ritualmente censurati”213.
212
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit. 258.
Cons. St., sez. V, 15 giugno 1998, n. 834, in Giur. it., 1998, 2412. Sulla rilevanza del termine di
decadenza dell'azione cfr. ora anche Cons. St., a.p., 30 marzo 2000, n. 1/ord., in Giorn. dir. amm., 2000, 556,
con nota di Travi, La giurisdizione amministrativa al bivio, e in Foro it., 2000, III, 365, con nota di Fracchia,
Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico e specialità del diritto amministrativo.
213
118
2.3 La decisione sul silenzio.
Il rito avverso il silenzio della p.a. è da tempo al centro di un vivace dibattito
dottrinario e giurisprudenziale che ha ad oggetto l’individuazione dell’ambito dei poteri
cognitori e decisori del giudice, l’oggetto del giudizio, la natura e la funzione del
commissario nella fase di ottemperanza
Alla base del confronto si sono poste le concezioni discordanti di chi muovendo da
una logica impugnatoria tende a relegare il sindacato giurisdizionale sul silenzio al mero
controllo estrinseco e chi al contrario, muovendo dalla constatazione della sostanziale
inutilità per il ricorrente di una pronuncia che si arresti alla declaratoria del mero obbligo
di adempiere, muove da una concezione estensiva dell’oggetto del giudizio sul silenzio che
pertanto, secondo tale opinione, andrebbe esteso alla cognizione dell’intero rapporto
intercorrente tra le parti.
Tale contrasto interpretativo ha sollecito il legislatore ad intervenire dapprima con
l’introduzione di un rito speciale avverso il silenzio caratterizzato come si vedrà da una
particolare celerità e speditezza sia in prime che in seconde cure, secondariamente ad
intervenire sulla disciplina generale del procedimento amministrativo attraverso un duplice
intervento riformatore avviato dapprima con le leggi n. 15 e 80 del 2005.
La prima riforma con l’introduzione di un rito speciale avverso il silenzio della p.a
non ha affrontato direttamente nessuna della questioni indicate, anche se ha prodotto
l’effetto di riaprire un dibattito che sembrava sopito in ordine ai limiti del sindacato
giurisdizionale in riferimento alla pretesa sostanziale vantata dal ricorrente.
Questione poi quest’ultima risolta dal noto affondo dell’Adunanza plenaria n. 1 del
2002 che come si vedrà nel prosieguo ha confermato l’orientamento più restrittivo.
Come si accennava il legislatore è tornato nuovamente ad occuparsi della tematica
afferente il silenzio della P.A. ed in specie della tutela giurisdizionale delle posizioni
giuridiche lese dal comportamento omissivo dell’amministrazione, attraverso un duplice
intervento riformatore che ha inopinatamente investito anziché la legge processuale, come
sarebbe stato naturale attendersi, il testo della legge generale sul procedimento.
Più in dettaglio con l’art. 2 della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (“Modifiche ed
integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione
amministrativa”) il legislatore ha aggiunto all’art. 2 L. 241/90 il comma 4 bis secondo cui
“Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 21
bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, può essere proposto
119
anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fin tanto che perdura
l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi
2 o 3. E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne
ricorrano i presupposti”.
L’art. 2 L. 241/90 è stato oggetto ad appena tre mesi di distanza dalla precedente
novella di un nuovo intervento legislativo attuato con
la legge 14 maggio 2005 n. 80
(“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante
disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di attuazione per lo sviluppo economico, sociale
e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia
di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali”.
Di particolare pregnanza per i riflessi che la disposizione è destinata ad esercitare
sulla disciplina processuale appare la previsione di cui al comma 5 della citata
disposizione, che così dispone: “Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai
commi 2 o 3 il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 21 bis
della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida
all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non
oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice
amministrativo può conoscere della fondatezza
dell’istanza. E’ fatta salva la
riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”.
La novella, attraverso l’introduzione di un rimedio giurisdizionale avverso il
silenzio assimilabile per certi versi all’”azione di adempimento” vigente nel diritto tedesco,
sembra così aver consacrato a livello normativo la tendenza mostrata dalla dottrina
prevalente214 e da una giurisprudenza minoritaria ormai da diversi decenni verso la
configurazione del giudizio amministrativo sul silenzio come “giudizio sul rapporto”, con
le conseguenze che tale evoluzione comporta in ordine all’ampiezza dei poteri cognitori e
decisori del giudice e del connesso grado di tutela spettante al ricorrente215.
214
Per tutti G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, Milano, 1980.
Per una panoramica sulle principali questioni connese alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio si veda
per tutti, CORRADINO, Termini, efficacia dei provvedimenti e silenzio dell’amministrazione nelle
“riforme” della legge n. 241/1990, in www. giustamm.it, nonché da ultimo Chieppa-Lo Pilato, … 2007.
215
120
a)
l’ambito di applicazione del rito avverso il silenzio: in particolare la tutela dei
diritti soggettivi.
Secondo un tradizionale orientamento giurisprudenziale il particolare rimedio
avverso il silenzio della p.a. introdotto dall’art. 2 L. 205/00 è esperibile esclusivamente
allorché venga in rilievo il mancato esercizio di poteri discrezionali a fronte del quale la
posizione del ricorrente va qualificata in termini di interesse legittimo.
La questione è stata affrontata sotto un duplice aspetto: l’uno volto a verificare
l’attitudine della novella apportata con la L.205/00, che com’è noto ha introdotto un rito
speciale contro il silenzio dell’amministrazione, ad innovare il riparto di giurisdizione
tra giudice ordinario e giudice amministrativo, creando una nuova ipotesi di
giurisdizione esclusiva in materia di silenzio; l’altro volto a verificare se - ferma
restando l’esperibilità del rimedio speciale contro il silenzio esclusivamente nelle
ipotesi in cui il giudice sia fornito di giurisdizione in merito alla pretesa rimasta inevasa
- il rimedio sia azionabile a tutela di diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Sotto il primo profilo, secondo un orientamento giurisprudenziale rimasto
minoritario 216, l’introduzione del rito speciale ex art. 21 bis L.Tar avrebbe contribuito
a creare una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che
verrebbe a configurarsi come il “giudice del silenzio dell’amministrazione”dinanzi al
quale pertanto sarebbero tutelabili con il nuovo rito tanto situazioni di interesse
quanto di diritto soggettivo puro.
La tesi, che muove essenzialmente da argomentazioni di carattere letterale (l’art.
21 bis L. Tar nel prevedere lo speciale rimedio processuale avverso il silenzio non
distingue tra posizioni soggettive di interesse e di diritto) oltre che di carattere
sistematico ( in considerazione della valenza generale dei principi di cui agli artt. 3,
24 e 97 Cost.), è stata contrastata da un diverso orientamento giurisprudenziale
affermatosi come maggioritario, alla cui stregua, in assenza di una chiara previsione
normativa, la disciplina in esame andrebbe considerata come assolutamente neutra
sotto il profilo della giurisdizione esaurendo la propria portata sul piano
squisitamente processuale.
216
I termini del dibattito sono efficacemente riportati da Tar Campania, Napoli, sez. II, 16 dicembre 2000, in
I Tar, 2001, 653.
121
In definitiva secondo l’indirizzo prevalente, la procedura speciale contro il
silenzio sarebbe idonea a tutelare esclusivamente le posizioni giuridiche rientranti
nella giurisdizione (esclusiva o generale di legittimità) del giudice amministrativo.
Sotto il secondo profilo ci si è chiesto se, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva
il rito avverso il silenzio sia esperibile a tutela di posizioni di diritto soggettivo puro.
Al riguardo, malgrado non siano mancate pronunce di segno opposto217,
l’orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario tende ad escludere
l’esperibilità del rimedio speciale avverso il silenzio a tutela di diritti soggettivi
attratti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in ragione della
sostanziale irrilevanza della procedura del silenzio a fronte di controversie aventi ad
oggetto l’accertamento di diritti soggettivi.
In questo senso si è chiarito che la procedura del silenzio – rifiuto è stata la
soluzione giurisprudenziale che, attraverso l’assimilazione dell’inerzia ad un
provvedimento espresso di diniego, ha consentito, nell’ottica di un processo di natura
essenzialmente impugnatoria, la giustiziabilità di interessi lesi dal mancato esercizio
di poteri discrezionali218.
Tutte le volte in cui invece il ricorrente sia titolare di un diritto soggettivo, e
quindi faccia valere un interesse non correlato all’esercizio di un potere, la procedura
del silenzio appare del tutto inutile, potendo egli ottenere tutela in via immediata e
diretta attraverso l’esercizio di un’azione di accertamento della pretesa sostanziale
senza bisogno dell’intermediazione di un provvedimento o di un suo surrogato dato
dal silenzio 219.
Si perviene così a ritenere che l’art. 21 bis abbia inteso introdurre per
l’impugnazione del silenzio una procedura speciale con un rito connotato dalle
caratteristiche della celerità e della semplificazione, senza pretesa di modificare i
contenuti sostanziali del rimedio, che rimangono pertanto, quelli elaborati in
217
In tal senso in tema di retrocessione di un bene espropriato e non utilizzato si vedano Tar Campania sez.
I, 15 maggio 2001, n.2102, in I Tar, 2001, 2423; Tar Sicilia, sez. I, 17 aprile 2001, n. 568, in I Tar, 2580 e
Tar Lazio, sez. I, 6 maggio 2003, n. 3921 in www.giustiazia-amministrativa.it.
218
In termini Cons. Stato VI sez., n.375 del 1996, in Cons. Stato, 1996, I, 465, nonché Cons. stato, sez. V, 10
febbraio 2004, n.497 in tema di inadempimento di un contratto preliminare di trasferimento di un terreno di
proprietà comunale; Tar Puglia, sez. II, 14 febbraio 2005, n. 1358; Tar. Lazio, sez.II, 28 gennaio 2003, n.
506, in tema di inadempimento di una compravendita di azienda comunale; Tar Lazio, sez. II ter, 28 febbraio
2001, relativa al silenzio mantenuto dall’amministrazione in ordine a pretese patrimoniali di pubblici
dipendenti sottoposti a regime pubblicistico, tutte in www.lexitalia.it e da ultimo si veda Tar Puglia, Lecce,
sez. II, 14 marzo 2005, n. 1358, in www.giuustamm.it in ordine al mancato adempimento dell’obbligo,
statuito contrattualmente tra le parti, di revisione del corrispettivo dovuto per la gestione di un servizio
pubblico locale.
219
In questo senso, tra gli altri, F. CARINGELLA, Corso di diritto processuale amministrativo, 2005, p.257.
122
precedenza dalla giurisprudenza220 e che non consentono, in via teorica, di
estenderne l’applicazione a tutela di posizioni di diritto alle quali non corrisponda
l’esercizio di poteri amministrativi in senso stretto.
Indicazioni in questo senso pare possano trarsi anche dal recente arresto della
giurisprudenza costituzionale221, che, sia pure con riferimento al riparto di
giurisdizione, ha ritenuto insufficiente un “generico coinvolgimento” di un pubblico
interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta alla giurisdizione del
giudice amministrativo, occorrendo piuttosto che l’amministrazione sia coinvolta in
veste d’autorità, ossia in forza di provvedimenti che siano espressione di un potere
discrezionale che, solo, giustifica la “specialità” della giurisdizione.
Né può ritenersi che i termini della questione siano mutati a seguito dell’intervento
della citata novella del 2005.
Secondo un indirizzo rimasto minoritario 222 l’art. 2, comma 5, L. 241/90 così come
novellato dalla L. 15/05 - nella parte in cui prevede che in tema di ricorso avverso il
silenzio il giudice possa conoscere della “fondatezza dell’istanza” – avrebbe
introdotto una nuova ipotesi di giurisdizione amministrativa estesa al merito, facendo
così venir meno l’ostacolo frapposto dalla giurisprudenza tradizionale all’esperibilità
del rito speciale avverso il silenzio in materia di diritti soggettivi.
Tale orientamento non appare però condivisibile, non comprendendosi perché il
preteso ampliamento dello spettro dei poteri decisori alla fondatezza della pretesa
sostanziale del ricorrente anche a fronte del mancato esercizio di poteri discrezionali
dell’amministrazione, debba far pervenire a conclusioni differenti rispetto a quelle
cui era pervenuto l’orientamento tradizionale volto ad escludere l’esperibilità del rito
speciale avverso il silenzio a tutela di diritti soggettivi.
Ben altre considerazioni devono indurre, piuttosto, a non abbandonare il
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale non può farsi ricorso al
rito speciale di cui all’art. 21 bis L. Tar a tutela di situazioni soggettive aventi
220
Sull’inammissibilità del rito speciale contra silentium a tutela di richieste aventi contenuto meramente
patrimoniale cfr., Cons. Stato sez.VI, 2 settembre 2003, n.4877, in www.giustamm.it, nella quale si afferma
l’incompatibilità del rito speciale con le controversie “che solo apparentemente hanno ad oggetto una
situazione di inerzia, come i casi dei giudizi incentrati sull’accertamento di pretese patrimoniali costitutive di
diritti soggettivi di credito attribuiti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; in tali ipotesi non
occorre l’attivazione della procedura del silenzio ed i ricorsi sono soggetti al termine di prescrizione”. Nello
stesso senso Cons. St., sez.VI, 23 settembre 2002, n. 4820 in Cons. Stato 2002, I, 1950 e da ultimo Cons.
Stato sez. V, 10 febbraio 2004, n.497, in Cons. Stato, 2004, I, 299.
221
Corte cost. 6 luglio 2004, n.204 e 13-28 luglio 2004, n.281.
222
C. G. A. reg. Sic., 4 novembre 2005 n. 726.
123
consistenza di diritto, considerazioni da ricondursi essenzialmente a due ordini di
ragioni.
Sotto un primo profilo, ove si concordi nel ritenere che il processo amministrativo
su diritti soggettivi ha natura di processo di accertamento o di condanna, deve pure
ammettersi che in esso debbano trovare applicazione le regole proprie del processo
civile ivi comprese quelle relative al riparto dell’onere probatorio tra le parti.
Deve conseguentemente ammettersi che nel giudizio relativo a diritti soggettivi
attratti nella giurisdizione esclusiva del g.a., essendo nella piena disponibilità del
ricorrente la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa e conseguentemente
venendo meno quella peculiare “asimmetria informativa” che tradizionalmente ha
giustificato il temperamento dell’onere probatorio nel processo amministrativo223, si
riespande la regola processualcivilistica, desumibile dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.,
secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare specificamente i
fatti posti a fondamento delle proprie pretese224.
Il ricorrente che vanti una situazione avente consistenza di diritto soggettivo deve
fornire non già un “principio di prova”225, ma alla stregua della regola civilistica, la
piena prova dei fatti costitutivi del diritto azionato, senza che tale prova possa essere
spostata in capo all’amministrazione resistente attraverso il ricorso alla procedura del
silenzio.
può rilevarsi come il particolare rito del silenzio previsto dall’art. 21 bis L. Tar, sia
stato concepito quale rimedio atto a sopperire all’inerzia dell’amministrazione in
vista di un suo intervento esterno al processo; in tal senso anche per il tradizionale
orientamento giurisprudenziale che limitava l’oggetto del processo all’illegittimità
del silenzio, il giudizio non poteva connotarsi in ogni caso come giudizio di puro
accertamento, non limitandosi il ricorrente a chiedere che fosse dichiarata l’esistenza
223
In tal senso si parla tradizionalmente di ”sistema dispositivo con metodo acquisitivo” secondo la nota
formula di F. BENVENUTI, Giustizia amministrativa, in Enc. Del dir., XIX, Milano, 1970, 601 e ss.; id.
L’istruttoria nel processo amministrativo, Padova, 1953, 348.
224
Sul fondamento dell’onere della prova nel processo civile e sulle implicazioni con il dovere decisorio del
giudice v. in particolare C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, p_________ e G.
VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, p.58 ss; sul principio dell’onere della prova
nel processo amministrativo, v. in particolare F. BENVENUTI, Istruzione del processo amministrativo, in
Enc. Dir., XXIII, p.204, G. VIRGA, Attività istruttoria primaria e processo amministrativo, Milano, 1991 e
A. CARIOLA, Il giudice amministrativo e la prova, in Dir. proc. amm., 1999, p.1.
225
Sull’obbligo del ricorrente di fornire un “principio di prova” per tutte, v. Cons. Stato, V, 1 ottobre, 1999,
n. 1233, in Cons. Stato, 1999, I, 1592.
124
di un suo diritto, ma, piuttosto, che venisse accertato l’obbligo dell’amministrazione
di provvedere.
Viceversa il ricorrente che agisca per la tutela di un diritto soggettivo pretende dal
Giudice una tutela che è interna al processo, essendo data dal processo medesimo,
rispetto al quale l’attività amministrativa successiva (o la successiva attività del
commissario ad acta) si connota quale attività di mero adempimento.
In altri termini l’indagine sul preteso inadempimento dell’amministrazione nel
particolare meccanismo descritto dall’art. 21 bis L. Tar appare funzionale
all’emanazione dell’ordine del giudice all’amministrazione “di provvedere”226,
laddove nel giudizio di accertamento del diritto, il ricorrente “non vanta alcun diritto
subbiettivo verso l’avversario se non lo stesso diritto di azione, coordinato a un
interesse d’accertamento”227. Dunque non una prestazione che si pretende dal
convenuto, ma l’accertamento della spettanza del bene cui inerisce la pretesa rimasta
inevasa.
D’altronde non si comprenderebbe quale utilità potrebbe sortire per il ricorrente
l’esperimento del rito contro il silenzio, a fronte della ben più pregnante tutela
monitoria attuata attraverso l’adozione di provvedimenti (il decreto di ingiunzione
l’ordinanza provvisoriamente esecutiva) costituenti titolo esecutivo.228
Com’è noto, infatti, l’art. 8 L.205/00 ha esteso espressamente l’applicabilità dei
mezzi di tutela sommaria del processo civile di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. (
procedimento d’ingiunzione) e 186 bis e ter (ordinanze provvisoriamente
esecutive)229 a tutela di “controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale”.
226
In questo senso F. G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo
trattamento processuale, in Dir. proc. amm. 2002, 2, 239 e ss il quale precisa che nel rito speciale avverso il
silenzio di cui all’art. 21 bis L. Tar, l’inadempimento della p.a. rileva nel momento giudiziale
dell’accertamento della sussistenza del dovere di provvedere, ma non consente un intervento diretto del
giudice nell’attività propriamente definibile di adempimento, essendo quest’ultimo rimesso alla stessa
amministrazione , e nell’ipotesi in cui quest’ultima rimanga ancora inadempiente, ad un commissario
chiamato ad adottare il provvedimento negletto, in via sostitutiva.
227
G. CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti (1903), in Saggi dir. proc. civ., Milano, 1993, 20 e ss.
228
Si noti peraltro come mentre nel processo civile si distingue tra ordinanze esecutive ex lege di cui all’art.
186 bis e ordinanze dichiarate provvisoriamente esecutive ex art. 186 ter, c.2 “ove ricorrano i presupposti di
cui all’art. 642, nonché ove la controparte non sia rimasta contumace, quelli di cui all’art. 648, primo
comma”, l’ordinanza provvisionale nel processo amministrativo ai sensi dell’art. 8, c.2, è sempre esecutiva ex
lege, sia quando emessa ai sensi dell’art. 186 bis, sia quando pronunciata ai sensi dell’art. 186 ter c.p.c., pur
in mancanza dei presupposti di cui agli artt. 642 e 648 c.p.c..
229
Per una disamina degli istituti processualcivilistici cfr. C. MANDRIOLI, Le nuove ordinanze “di
pagamento” e “ingiunzione”, in Riv. dir. proc. , 1991, 644 e ss.
125
Sotto altro profilo, il legislatore del 2000 è intervenuto, innovandolo, sull’art. 21
L. Tar prevedendo espressamente la possibilità per il giudice amministrativo di
adottare un’ordinanza cautelare che abbia ad oggetto “l’ingiunzione a pagare una
somma” e introducendo così uno strumento cautelare destinato a garantire, sebbene
nei limiti segnati dalla sussistenza dei presupposti della tutela cautelare, l’effettività
della tutela delle situazioni patrimoniali anche fuori dagli stretti limiti della tutela
giurisdizionale esclusiva su diritti.
In ragione di un siffatto quadro normativo volto ad apprestare i rimedi propri
della tutela monitoria del giudizio civile, deve allora escludersi prima ancora che
l’ammissibilità, l’utilità dell’esperimento del rito speciale del silenzio avverso
l’inerzia dell’amministrazione debitrice, in coerenza con la natura residuale del
rimedio processuale in questione, come riconosciuta dalla giurisprudenza
tradizionale.
126
b)
Natura della pronuncia: verso l’azione di adempimento?
Particolarmente discussa è stata da sempre la questione relativa alla natura giuridica
della pronuncia sul silenzio della pubblica amministrazione.
Secondo una prima lettura la pronuncia sul silenzio avrebbe natura di mero
accertamento dell’obbligo giuridico di adempiere perché, non essendo impugnato alcun
provvedimento, mancherebbe necessariamente l’effetto costitutivo dell’annullamento230.
In senso opposto si è ritenuto che la pronuncia in questione abbia natura di sentenza
di condanna all’emanazione di un determinato provvedimento con un meccanismo che
per certi versi ricalca la l’azione di adempimento coattivo dell’obbligo di concludere un
contratto di cui all’art. 2932 c.c.
In realtà la possibilità per il giudice amministrativo di sindacare la fondatezza della
pretesa (introdotta dalla legge n. 15 del 2005) induce a ritenere che la sentenza con la
quale il giudice amministrativo decide sul silenzio della p.a. abbia natura mista di
accertamento e di condanna, e più in particolare di “accertamento costitutivo”231,
assimilabile per certi versi all’azione di adempimento prevista dall’ordinamento
tedesco.
Ciò in quanto la pronuncia sul silenzio non si limita ad accertare l’illegittimità del
silenzio e il conseguente obbligo di provvedere, ma stabilisce anche (si vedrà in quali
casi e a quali condizioni) il modo con il quale l’amministrazione deve provvedere.
In questo senso si dice che esse sono costitutive anche del presupposto per
l’esperimento del giudizio di ottemperanza, produttive perciò di un effetto ulteriore
rispetto al semplice accertamento dell’obbligo di adempiere.
Come rilevato dalla dottrina232 il vero problema che su questo argomento si pone non
è, però, certamente quello classificatorio (perché su questo terreno anche se è utile
adoperare le formule maggiormente seguite dalla dottrina, ove non siano dimostrabili
fondate ragioni per discostarsene, le terminologie non sono né assiomatiche né
indiscutibili, purché ci si intenda sui concetti), bensì quello di stabilire quale possa
essere i contenuto dell’obbligo scaturente da quel tipo di decisioni, problema questo che
230
Saitta, ricorsi contro il silenzio della pubblica amministrazione: quale silenzio?, in Giust. Amm. 2001, n. 7/8 secondo
il quale il ricorrente in prima battuta non può ottenere altro dalla pronuncia sul silenzio che la dichiarazione dell’obbligo
di provvedere, e, una volta ottenuto dall’amministrazione, eventualmente a seguito di un ulteriore ricorso allo stesso
giudice per la nomina di un commissario ad acta, l’atteso provvedimento dovrà impugnare quest’ultimo con autonomo
ricorso, libera rimanendo l’amministrazione ingiunta di accogliere o respingere la domanda. In giurisprudenza cfr.
Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2002, n. 230, in Giustamm, 2002, n. 1 nonché id. Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1.
231
V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, op. Cit., 534.
232
V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, op. cit., 534.
127
presuppone la soluzione dell’altro ,che riguarda appunto l’individuazione dell’oggetto
del giudizio attraverso il quale si perviene nella sentenza alla dichiarazione dell’obbligo.
128
c)
Segue: i limiti della statuizione sul silenzio.
Ed è appunto all’ulteriore problema di stabilire quale possa il contenuto della
pronuncia e più in generale l’oggetto della del giudizio avverso il silenzio che bisogna
volgere a questo punto l’attenzione.
Analizzeremo, innanzitutto, i principali orientamenti esistenti prima della
emanazione della legge n. 80 del 2005.
Secondo un primo orientamento233, il giudice non doveva limitarsi a condannare
l’amministrazione a provvedere ma poteva indagare anche la fondatezza della pretesa
sostanziale del ricorrente, ovvero, la spettanza o meno del bene della vita richiesto dal
privato 234. In questa ottica, la motivazione della sentenza doveva contenere le direttive e
le istruzioni relative al modo in cui la pubblica amministrazione avrebbe dovuto
adempiere il dovere rimasto inosservato. Ciò vale, però, soltanto in presenza di poteri
vincolati e non anche di poteri discrezionali, che mal tollererebbero una indebita
ingerenza da parte dell’autorità giudiziaria nella sfera propriamente riservata alle scelte
amministrative235.
Questa soluzione era imposta, nella prospettiva dei suoi sostenitori, dalla necessità di
rispettare:
a) il principio di economia processuale, in quanto, in presenza di una attività
vincolata, evitava il rischio che l’amministrazione non attribuisse al privato quel bene
della
vita
cui
aspirava,
costringendolo
a ricorrere
nuovamente
all’autorità
giurisdizionale;
233
Questa tesi era sostenuta dalla dottrina dominante: E. FOLLIERI, Silenzio della p.a. e tutela degli
interessi diretti all’acquisizione di un vantaggio (c.d. interessi pretensivi), in Foro amm., 1987, 2195;
G. SALA, Oggetto del giudizio e silenzio dell’amministrazione, in Dir. proc. amm., 1984, 147 ss.; G.
GRECO, Silenzio della Pubblica amministrazione e oggetto del giudizio amministrativo, in Giur. it.,
1983, III, 137 ss.; P. STELLA RICHTER, L’aspettativa del provvedimento, in Riv. trim. dir. pubb., 1981,
1; F. G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 26 ss.
234
G. GRECO, L’articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, cit., 10, osserva come il giudice
debba valutare la fondatezza della pretesa azionata a meno che non sia il ricorrente stesso a limitare la
propria domanda al mero obbligo di pronuncia. Lo stesso autore, inoltre, assume che, dovendo il
giudice entrare nel merito della domanda proposta, il ricorso contro il silenzio debba essere notificato
ai controinteressati. Notifica che non sarebbe stata necessaria qualora oggetto del giudizio fosse stato
soltanto il mero obbligo di pronuncia.
235
Si segnala, però, che in alcune decisioni sembra che l’affermazione relativa alla possibilità che
il giudice valutasse la fondatezza della pretesa azionata avesse portata di carattere generale e quindi
valesse non solo in presenza di una attività vincolata ma anche in presenza di un attività discrezionale
(cfr. Consiglio giust. amm. Sic., 25 maggio 2000, n. 264, in Ragiusam, 2000, 61 ss.).
129
b) il principio di effettività della tutela, atteso che una sentenza per essere realmente
satisfattiva non può limitarsi ad un mero e generico obbligo di condanna ad adempiere
ma deve valutare nel merito la fondatezza della pretesa azionata.
Inoltre, sul piano sistematico, questa ricostruzione si poneva in linea con le
trasformazioni in atto del processo amministrativo che sta sempre più diventando un
processo sul rapporto sostanziale piuttosto che sull’atto236.
Infine, sul piano letterale, la tesi in esame rinveniva validi supporti nell’impiego da
parte del legislatore di espressioni quali: a) «in caso di totale o parziale accoglimento
del ricorso», che non avrebbe avuto senso qualora il giudice avesse dovuto limitarsi a
condannare la p.a. ad adempiere, in quanto in questo caso il ricorso è suscettibile di una
secca pronuncia di accoglimento o di rigetto; b) la previsione di strumenti istruttori, che
non avrebbe significato in mancanza di un obbligo del giudice di valutare il contenuto
della domanda formulata.
Un diverso orientamento riteneva, invece, che l’ambito della cognizione giudiziale
fosse limitato all’accertamento dei presupposti della fattispecie del silenzio e dunque la
motivazione della sentenza doveva limitarsi alla constatazione: della legittimazione del
ricorrente ad agire in giudizio; del dovere della p.a. di provvedere; della competenza
dell’organo amministrativo adito; del rispetto del procedimento di diffida (nel periodo
in cui la stessa era ritenuta necessaria). In quest’ottica, era preclusa al giudice
amministrativo l’indagine sulla spettanza del bene della vita oggetto dell’istanza, pena il
rischio di un’indebita ingerenza nella sfera di competenza della pubblica
amministrazione237.
Questa tesi è stata fatta propria dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9
gennaio 2002, n. 1 che, riprendendo parte degli argomenti già utilizzati dalla dottrina e
236
Un orientamento minoritario sosteneva che il giudice potesse entrare nel merito soltanto in
presenza di ricorsi per i quali risultava ictu oculi la fondatezza o infondatezza della pretesa sostanziale
sottostante (A. TRAVI, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, cit., 227).
237
Corollario di questa tesi è la inammissibilità della «proposizione di motivi aggiunti contro il
provvedimento esplicito sopravvenuto, in quanto la cognizione dei detti motivi sposterebbe il giudizio
sul piano del merito della pretesa, in assenza delle forme e dei tempi del rito ordinario» (Tar Lazio
Roma, II, 23 settembre 2005, n. 7358, in Com. it., 2005, 90; come diremo oltre nel testo questa tesi è
stata riproposta anche dopo la riforma del 2005). Il Consiglio di Stato ha condiviso questa asserzione,
sottolineando come la disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 205 del 2000 «disciplina una
particolare procedura destinata ad acquisire la pronuncia dell'Amministrazione, alla quale è estraneo
un qualunque contenuto impugnatorio, in quanto, mancando il provvedimento, non si è ancora
prodotta una vera e propria lesione di posizioni soggettive. Appare quindi non consentito l'innesto
all'interno di tale procedura, che ha carattere camerale particolarmente accellerato (decisione entro
trenta giorni dal termine per il deposito del ricorso), del rito destinato all'annullamento del
provvedimento, che è circondato da più ampie garanzie» (Cons. Stato, V, 11 gennaio 2002, n. 144, in
Foro amm-Cds, 2002, 94).
130
della giurisprudenza, ha fondato il proprio convincimento sulla base di elementi
letterali, sistematici e di ragionevolezza.
Sul piano letterale, si è fatto leva sulla circostanza che 21-bis: 1) identifica l’oggetto
del ricorso nel «silenzio» senza far alcun riferimento alla pretesa sostanziale; 2) si
utilizza l’espressione “resti inadempiente”, il che lascerebbe intendere che
l’inadempimento dell’amministrazione non ha contenuto diverso prima della sentenza,
quando è condizione per l’accoglimento del ricorso avverso il silenzio e dopo la
sentenza quando è condizione perché provveda il commissario; 3) ancora la seguente
terminologia «ordina di provvedere» «un commissario che provveda» e che ponga una
attività diretta «all’emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva» ovvero
che debba accertare se «l’amministrazione abbia provveduto», sono tutti elementi che
attesterebbe che l’ordine del giudice si ferma, appunto, alla mera condanna di
provvedere; 4) l’indeterminatezza del contenuto dell’eventuale provvedimento positivo
o negativo; 5) la brevità dei termini e snellezza delle formalità, la cui configurazione è
congrua se il giudizio si incentra sul “silenzio”, non anche se il giudice debba estendere
la propria cognizione anche a profili afferenti al “merito” della pretesa azionata. La
dottrina che segue questo orientamento aggiunge che la previsione di un giudizio che si
conclude con una «sentenza succintamente motivata» sarebbe incompatibile con
complessi accertamenti di fatto e di diritto sulla situazione dedotta in giudizio238.
Sul piano sistematico, la scelta operata da legislatore si allinea al principio generale
che assegna la cura dell’interesse pubblico all’amministrazione e al giudice
amministrativo, nelle aree in cui l’amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il
solo controllo sull’esercizio della potestà.
Sul piano della ragionevolezza, sarebbe irrazionale se il privato potesse ottenere
l’accertamento immediato della fondatezza della propria pretesa sostanziale, mentre
nella medesima situazione, se l’amministrazione avesse adottato un provvedimento
esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale sarebbe stata soggetta alle forme ed ai
limiti, oltre che ai tempi, del giudizio ordinario 239.
238
Si veda sul punto N. SAITTA, Ancora sul silenzio della p.a.: se ne sparla troppo, in
www.giustamm., 2005.
239
Osserva sul punto criticamente autorevole dottrina (A. TRAVI, Giudizio sul silenzio e nuovo
processo amministrativo, cit., 231) come «le considerazioni dell’adunanza plenaria appaiono ultronee,
perché il giudizio sul silenzio, nella disciplina delineata dall’art. 21-bis (…), non può essere
confrontato in questo modo con il giudizio su un provvedimento negativo. La pronuncia del giudice
che ordina all’amministrazione di provvedere non corrisponde alla sentenza di annullamento del
provvedimento negativo: la sentenza di annullamento esaurisce il giudizio di cognizione, mentre
l’ordine di provvedere conclude solo la prima fase del giudizio sul silenzio. Inoltre, l’art. 21-bis
prevede un processo realmente speciale (e non, semplicemente, accelerato), che attua, come risultato
131
Il Consiglio di Stato ha cura, inoltre, di precisare che la soluzione interpretativa
prescelta non incide sul principio della effettività della tutela che, come detto, è stato
posta a fondamento della tesi contraria. Occorre, infatti, secondo i giudici di palazzo
Spada, valutare gli effetti del giudizio sul rito così interpretato avendo riguardo al
risultato conseguibile al compimento delle due fasi e cioè tenendo conto sia
dell’abbreviazione dei termini sia della possibilità di ottenere la nomina del
commissario ad acta nel corso dello stesso giudizio, senza necessità di promuovere un
giudizio di ottemperanza240 241.
Sulla questione in esame è intervenuto il legislatore che, con la legge n. 80 del 2005,
ha introdotto il comma 5° nell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, secondo cui «il giudice
amministrativo può conoscere della fondatezza della domanda».
La necessità di una siffatta espressa previsione è derivata proprio dall’esigenza di
evitare il protrarsi delle illustrate incertezze interpretative, superando l’orientamento
restrittivo fatto proprio dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato242.
Nonostante l’intervento del legislatore, rimangono alcuni dubbi interpretativi243
lasciati sul tappeto da una formulazione normativa alquanto generica.
Innanzitutto appare dubbio lo stesso inquadramento della decisone sul silenzio della
p.a. essendo dubbio se essa vada ascritta al novero delle c.d. sentenze di accertamento
costitutivo 244, ovvero tra le sentenze di condanna245.
tipico, la sostituzione di un’amministrazione rimasta inadempiente al suo dovere di provvedere; una
logica diversa è alla base dell’impugnazione di un provvedimento negativo. I due giudizi
corrispondono a modelli differenti e dunque non paiono confrontabili».
240
A. TRAVI, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, cit., 230, sottolinea come
«l’esigenza di giustizia del cittadino è soddisfatta dalla nuova disciplina che assicura sì una pronuncia
sulla pretesa sostanziale, ma riserva tale pronuncia non al giudice bensì al commissario»
241
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, escluso la possibilità si seguire la tesi intermedia (v. nota 44)
che ammetteva il giudizio sulla fondatezza soltanto in presenza di domande palesemente fondate o
infondate, rilevando come si tratti di un criterio empirico che non può più essere seguito dopo l’entrata
in vigore della nuova disciplina, la quale non autorizza ad effettuare simili distinzioni.
242
La circostanza che con la nuova legge è certamente sindacabile la pretesa sostanziale fatta vale,
ha fatto dire a parte della giurisprudenza che il «il rito camerale sia applicabile anche nelle ipotesi di
silenzio c.d. significativo e non soltanto in quelle di c.d. silenzio-inadempimento» (Tar Lombardia
Milano, II, 21 marzo 2006, n. 642; contra Tar Piemonte Torino, I, 8 marzo 2006, n. 1173, in Foro
amm-Tar, 2006, 431). In realtà, la novità legislatore non è di per sé idonea ad estendere l’ambito di
applicazione del rito camerale attesa la strutturale differenza tra silenzio inadempimento e silenzio
significativo: soltanto quest’ultimo è equiparato, sia pure attraverso una fictio iuris, ad un
provvedimento amministrativo di segno positivo o negativo (v. Consiglio di Stato, Commissione
speciale, parere n. 1242/2000 del 17 gennaio 200, in www.lexfor.it, 2000; in dottrina v. V. PARISIO,
voce Silenzio della pubblica amministrazione, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto
pubblico, vol. V, Milano, 2006, 5554-555).
243
Per una disamina delle opposte tesi v. A. CARIOLA, Riflessioni sul silenzio della p.a.: profili
sostanziali e processuali, cit.
244
In tal senso V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, op. cit., p. 534.
132
Le prime obbligano l’amministrazione a dare attuazione alle statuizioni da esse stesse
derivanti oltre ad essere costitutive anche del presupposto per l’esperimento del giudizio
di ottemperanza, le seconde, obbligano in determinate circostanze e al ricorrere di certe
condizioni, l’amministrazione ed adottare l’atto da assumere, senza necessariamente
passare per la nomina di un commissario e dunque per la fase di ottemperanza.
Il vero problema che si pone non è, certamente, quello classificatorio, in quanto le
terminologie adoperate non sono di per sé né assiomatiche, né indiscutibili, purché ci si
intenda sui concetti, bensì quello di stabilire quale possa essere il contenuto dell’obbligo
scaturente da quel tipo di decisioni.
I principali profili di incertezza attengono dunque all’estensione dei poteri cognitori e
decisori del giudice amministrativo nel ricorso avverso l’inerzia, tematica quest’ultima
che involge più a monte il rapporto tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e quella
amministrativa.
Nonostante il legislatore sia intervenuto a chiarire che il sindacato sull’inerzia
dell’amministrazione abbia ad oggetto l’accertamento della fondatezza della pretesa
sostanziale avanzata dal ricorrente, rimangono alcuni dubbi interpretativi246 lasciati sul
tappeto da una formulazione normativa alquanto generica.
Secondo una prima tesi l’art. 2, comma 5, L. 24/90, così come modificato dalla L.
15/2005, avrebbe introdotto una ipotesi di giurisdizione di merito 247, con la possibilità
del giudice di valutare la fondatezza della pretesa azionata anche in presenza di una
attività discrezionale della pubblica amministrazione.
Questa affermazione si fonda essenzialmente sulla circostanza che l’art. 2 della legge
n. 241 del 1990, così come mod. dalla legge n. 80 del 2005, «è volto a rendere
eccezionale l’ipotesi di inerzia dell’amministrazione, sicchè si giustifica l’intromissione
del giudice anche in ambiti di discrezionalità, non limitando la norma ricordata alle sole
ipotesi di atti vincolati la possibilità di pregnante sindacato sulla fondatezza dell’istanza,
vale a dire sulla definizione del rapporto sottostante, senza alcuna intermediazione
dell’atto amministrativo tra la posizione vantata e l’atto richiesto»248
245
E’ la posizione di G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. cit., p. 58 ss; M. Clarich,
L’azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive ed
orientamenti giurisprudenziali, in Dir. roc. Amm, 1985, p. 66 ss.
246
Per una disamina delle opposte tesi v. A. CARIOLA, Riflessioni sul silenzio della p.a.: profili
sostanziali e processuali, cit.
247
In questo senso si è espresso il Consiglio di giust. amm. sic., 4 novembre 2005, n. 726, in
www.giustamm., 2005.
248
Tar Veneto Venezia, III, 16 dicembre 2005 , n. 4304, in Foro amm.-Tar, 2005, 12 3857.
133
La tesi tutt’oggi maggioritaria, muovendo dalla premessa secondo cui una siffatta
possibilità avrebbe richiesto un esplicita presa di posizione del legislatore, ritiene che il
giudice possa valutare il contenuto sostanziale della domanda formulata soltanto in
presenza di un attività vincolata249.
Questa
ricostruzione
sembra
trovare
ampio
riscontro
nell’ambito
della
giurisprudenza amministrativa: «Nell'impianto normativo in materia di silenzio
conseguente l. 14 maggio 2005 n. 80, il rito speciale di cui all'art. 21-bis, l. 6 dicembre
1971 n. 1034, non è più rivolto al solo fine di verificare l'esistenza dell'obbligo a
provvedere ed il correlativo inadempimento, mentre al contrario, e sempre che il
ricorrente lo richieda, il giudice è chiamato ad una duplice valutazione: la prima, volta a
indagare sull'esistenza dell'obbligo a provvedere ed al suo eventuale inadempimento, la
seconda - processualmente dipendente e collegata alla prima, ma concettualmente
distinta da essa - volta ad accertare la fondatezza dell'istanza; tuttavia, quest'ultima
valutazione si atteggia diversamente a seconda che l'inerzia riguardi attività di tipo
vincolato ovvero esercizio di potestà discrezionale, perché, nel primo caso, non
sussistono preclusioni al giudice di valutare anche la fondatezza sostanziale della
pretesa, mentre, nel secondo caso, il giudice può affermare l'obbligo della p.a. di
provvedere, ma non ha né il potere né gli strumenti per penetrare nella fondatezza della
richiesta avanzata dall'istante, in quanto la potestà “discrezionale” implica complesse
considerazioni di convenienza, opportunità, organizzazione e simili (come anche
l'acquisizione di valutazioni tecniche o specialistiche o l'attivazione di sub procedimenti
aventi a oggetto attività di altre amministrazioni e così via) i cui esiti si pongono quali
elementi costitutivi della pretesa che si vorrebbe far valere e la cui assenza implica la
mancanza di attualità dell'interesse al ricorso proprio su quel punto. In altri termini, se il
potere non è stato esercitato affatto o è stato esercitato in misura incompleta, non si
costituisce una situazione suscettibile di essere valutata dal giudice, in quanto i
presupposti di fatto e di diritto che incardinano giuridicamente la pretesa del soggetto
non sono definiti direttamente dalla legge - che il giudice è tenuto ad applicare - ma
richiedono una mediazione della potestà pubblica.
A fondamento di tale soluzione si pone il doveroso rispetto del limite che deriva alla
giurisdizione amministrativa dalla riserva di amministrazione e dal principio di
separazione dei poteri, i quali impediscono al giudice di supplire ad un'amministrazione
249
In questo senso cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2008, n. 1873 nonché Cons. Stato, sez. IV, 10 ottobre
2007, n. 5310, entrambe in www.lexitalia.it.
134
inerte, circostanza da ritenersi impraticabile anche con riguardo alla natura del giudizio
sul silenzio che esula dal novero della cognizione di merito»250.
A ben vedere entrambe le soluzioni prospettate dalla giurisprudenza non appaiono del
tutto convincenti.
La prima, ovvero la soluzione che prospetta la creazione di una nuova ipotesi di
giurisdizione di merito, contrasta contro il principio desumibile dall’art. 27 T.U. Cons.
Stato secondo cui la giurisdizione di merito, nel nostro ordinamento processuale,
costituisce una ipotesi “eccezionale” che in quanto tale può essere ammessa soltanto in
presenza di una espressa presa di previsione normativa251.
La seconda soluzione, ovvero quella che pretenderebbe di limitare il sindacato sulla
fondatezza della pretesa sostanziale, non appare del tutto soddisfacente innanzitutto
sotto il profilo del principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24
Cost.
Secondariamente, essa appare stravolgere la struttura del processo, svuotando per un
verso la fase di cognizione e per un altro ampliando oltremodo la fase dell’esecuzione.
250
Tar Sicilia Palermo, sez. II, 07 febbraio 2006 , n. 332, in Foro amm.- Tar, 2006, 750, in cui si
legge, inoltre, che quanto esposto nel teso «Si ricava anche dalla lettera del menzionato art. 2, comma
5, L. 241/1990, secondo la quale il giudice "può" conoscere della fondatezza dell'istanza. La norma è
da intendersi nel senso che non può sorgere alcuna pretesa di valutazione della fondatezza dell'istanza
se, per essa, è necessario acquisire gli elementi istruttori demandati ad un procedimento che o non si è
mai svolto o si è svolto in modo incompleto senza giungere alla sua naturale conclusione con
l'emanazione del provvedimento. In questi casi, si ripete, il ricorrente non potrà ottenere una
pronuncia sulla fondatezza della propria istanza perché il sorgere della situazione soggettiva che si
vuole conseguire è, strutturalmente, condizionata alla formazione di atti e provvedimenti non ancora
esistenti o all'effettuazione di valutazioni discrezionali non ancora compiute. Né, in senso contrario,
potrebbe essere di ausilio la possibilità di indagine istruttoria oggi offerta al giudice dalla legge,
perché la consulenza tecnica non consente altro che di ripercorrere le valutazioni tecniche già
compiute dall'amministrazione ed acquisire nuove e maggiori conoscenze degli elementi di fatto. Essa
invece manca dell'attitudine ad integrare quegli elementi dell'azione la cui assenza ne preclude
l'esercizio»; v anche Tar Campania Napoli, IV, 27 marzo 2006, n. 3200, in Foro amm.-Tar, 2006,
1070; Tar Lazio, II ter, 20 gennaio 2006, in T.A.R. 2006, 64.
Altra parte della giurisprudenza – facendo leva sulla circostanza che il nuovo art. 2, comma 5,
della legge n. 241 del 1990, prevede un “potere” e non un “obbligo” in capo all’amministrazione,
come risulterebbe dal tenore letterale della disposizione stessa («può conoscere della fondatezza
dell’istanza») – ritiene che «tale potere non è ragionevolmente esercitatile nei casi che presentino
profili di complessità tale da risultare incompatibili con le caratteristiche di celerità del giudizio
camerale sul silenzio» (Tar Lazio Roma, III, 4 aprile 2006, n. 2632, in Foro amm.-Tar, 2006, 1377).
251
R. GIOVAGNOLI, Il ricorso avverso il silenzio della pubblica amministrazione nelle recenti
evoluzioni legislative e giurisprudenziale, in R. CHIEPPA (a cura di), Temi di diritto amministrativo,
Milano, 2006, 376. L’Autore pone, inoltre, in evidenza come consentendo siffatto sindacato si
«finirebbe per ammettere una giurisdizione di merito del tutta anomala per la particolare intensità del
sindacato consentito all’autorità giudiziaria. A differenza delle altre ipotesi di giurisdizione di merito
nelle quali c’è già una determinazione amministrativa che il giudice è chiamato a verificare anche
sotto il profilo dell’opportunità, nel ricorso contro il silenzio non c’è alcun provvedimento e quindi il
g.a. interviene su un terreno ancora vergine, agendo direttamente come amministratore e dettando per
la prima volta la disciplina di un concreto rapporto di diritto pubblico».
135
Secondo la criticata ricostruzione infatti il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare
l’illegittimità del silenzio dell’amministrazione, laddove, in caso di persistente inerzia
della stessa anche nel corso del giudizio, il commissario ad acta verrebbe investito del
potere di decidere sostanzialmente la questione adottando “in sostituzione”
dell’amministrazione inerte il provvedimento richiesto.
In coerenza con le argomentazioni svolte nei paragrafi precedenti potrebbe sostenersi
invece che anche per il giudizio avverso il silenzio della p.a. debbano trovare
applicazione i principi processualcivilisti in ordine al riparto dell’onere della prova tra
le parti contendenti.
Ne consegue che mentre il ricorrente dovrebbe porre a fondamento della propria
domanda tutti i motivi di diritto e le ragioni di fatto idonei a comprovare la fondatezza
della sua pretesa, l’amministrazione sarebbe gravata dell’onere di eccepire in giudizio
tutte le ragioni di fatto e di diritto che si frappongono alla accoglimento della suddetta
istanza.
La pronuncia sul silenzio avrebbe però in tal modo il pregio di chiarire la posizione
dell’amministrazione sull’istanza, impedendole di reiterare in successivi provvedimenti
il diniego sulla base di motivi diversi da quelli enunciati nel corso del giudizio.
La soluzione prospettata rinvia peraltro all’ulteriore questione relativa alla possibilità o
meno di impugnare mediante “motivi aggiungi”252 l’eventuale provvedimento
sopravvenuto nel corso del rito sul silenzio, con conseguente conversione del rito
speciale in ricorso volto ad introdurre un giudizio ordinario di legittimità.
Parte della giurisprudenza amministrativa ritiene che ciò non sia ammissibile, anche
dopo la riforma del 2005, «in quanto comunque il rito speciale ex art. 21-bis (…), in
ragione della relativa semplicità degli accertamenti di fatto e di diritto, non consente,
per la sua peculiarità, la trasformazione in giudizio ordinario, anche per non favorire
l’elusione dei tempi ordinari di trattazione delle controversie»253.
E’ preferibile, tuttavia, aderire all’opposto orientamento secondo cui lo strumento dei
motivi aggiunti è applicabile anche al rito speciale concernente le controversie in
materia di silenzio della p.a.
252
Si ricorda che l’art. 21 legge Tar, nel testo modificato dalla legge n. 205 del 2000, dispone che i
provvedimenti adottati in pendenza del ricorso fra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso
stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti.
253
Tar Lombardia Milano, II, 8 maggio 2006, n. 1144, in Foro amm-Tar, 2006, 1589; questa tesi,
sia pure per motivi diversi, era sostenuta anche prima della riforma del 2005 (v. nota 43).
136
Può convenirsi infatti con chi254 afferma che non sempre alla celerità del rito
corrisponde la semplicità del giudizio il che nel rito avverso il silenzio è testimoniato
dalla previsione di “adempimenti istruttori” sintomatici della possibilità per il giudice di
accedere funditus alla cognizione della controversia.
D’altronde l’ordinamento contempla altri esempi di riti accelerati che non si fermano
al mero riscontro esterno della legittimità dell’operato della p.a. si pensi sul punto al
rito in materia di accesso ovvero ai riti speciali di cui all’art. 23 bis L. Tar.
Può concludersi pertanto nel senso che ove in pendenza del ricorso sul silenzio
rifiuto, sopravvenga il provvedimento amministrativo espresso, questo possa essere
impugnato mediante motivi aggiunti, il che determina la conversione del rito, sempre
che risultino rispettati i termini e le modalità stabilite per il rito ordinario255
Altra questione posta dalla norma è se il giudice abbia sempre l’obbligo di
pronunciarsi nel “merito” anche nel caso in cui il privato richieda l’emanazione di una
mera pronuncia di condanna ad adempiere. Il principio generale della domanda non può
che indurre a ritenere che in questo caso il giudice non possa andare al di là di quanto
richiesto dal ricorrente.256
254
R. Giovagnoli, I silenzi della pubblica amministrazione dopo la legge, n. 80 del 2005, Milano, 2005, p.
145.
255
Cons. Stato, V, 10 aprile 2002, n. 1974, in Dir. proc. amm. 2002, 1005.
256
In senso contrario R. GIOVAGNOLI , Il tempo dell’azione amministrativa, in F. CARINGELLA- D.
DE CAROLIS- G. DE MARZO (a cura di), Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi n.
15/2005 e n. 80/2005, tomo I, Milano, 2005, 209 secondo i quali anche nel caso in cui la parte si limiti
a richiedere la generica condanna all’adempimento il giudice debba dichiarare il ricorso inammissibile
per difetto di interesse qualora appuri la infondatezza della pretesa azionata: il privato, infatti, non
avrebbe alcun interesse ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione a provvedere su una
istanza infondata .
137
d)
Decisione sul silenzio e istruttoria processuale: una possibile lettura evolutiva.
Sotto un diverso profilo v’è da chiedersi, se il giudice amministrativo possa giudicare
della fondatezza della pretesa solo in presenza di un fattispecie semplice che non
richieda l’adempimento di incombenti istruttori, ovvero se possa sostituirsi alla
amministrazione nello svolgimento dell’attività istruttoria che questa abbia omesso di
compiere.
Per chiarire al meglio tale aspetto è bene richiamare in sintesi la disciplina dell’azione
di adempimento accolta dall’ordinamento tedesco, modello al quale con ogni probabilità
si è ispirato il nostro legislatore nel prevedere che il giudice nel sindacare il silenzio
della p.a. può valutare la fondatezza della pretesa sostanziale.
I par. 42 e 43 del Verwatungsgerichtsordnung annoverano l’azione di adempimento tra
le
azioni
ammissibili
innanzi
al
g.a.
accanto
all’azione
di
annullamento
(Aufhebungsklage) e all’azione di accertamento (Feststellungsklage)257.
A differenza del nostro ordinamento l’azione di adempimento nell’ordinamento tedesco
consente al giudice di condannare l’amministrazione all’emanazione di un atto
amministrativo sia nel caso di silenzio che di rifiuto espresso, sempre che il ricorrente
vanti una pretesa giuridicamente qualificata al provvedimento.
Ove l’azione di adempimento risulti fondata, la decisione può avere, a seconda dei casi,
due possibili sbocchi.
Se il giudice reputa la causa “matura per la decisione”, può dichiarare l’obbligo
dell’amministrazione di porre in essere l’attività richiesta, altrimenti si limita a
dichiarare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere nei confronti dell’attore,
attenendosi al principio giuridico enunciato dal giudice, senza predeterminare il
contenuto del provvedimento.
A questo punto occorre focalizzare l’attenzione sull’espressione “maturità per la
decisione” (Spruchreife) utilizzato dal legislatore tedesco l § 113, comma 5 in relazione
alle sentenze di adempimento che rappresenta un elemento fondamentale per la
257
Sul punto, C. Fraenkel-Haeberle, Giurisdizione sul silenzio e discrezionalità amministrativa(GermaniaAustria-Italia), in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università di Trento, 2004, 67 e ss.; M.
Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm,
n.3/2005, p. 559; id., L’azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee
ricostruttive e orientamenti giurisprudenziali, in dir. proc. amm. 1985, p. 66 ss.; D; G. Greco, L’accertamento
autonomo del rapporto, cit., p. 58;
A Masucci, la legge tedesca sul processo amministrativo, Milano, 1991, p. 23 ss; L. Tarantino, L’azione di
condanna nel processso amministrativo, cit. 28.
138
modulazione della pronuncia giudiziale e allo stesso tempo costituisce il principale
momento di divaricazione tra l’ordinamento italiano e quello tedesco.
Com’è stato ampiamente chiarito258 l’espressione “Spruchereife”
139
ristretta alle sole ipotesi di manifesta fondatezza o infondatezza della pretesa
sostanziale»260.
Ne consegue ancora che “ non può sorgere alcuna pretesa di valutazione della
fondatezza della pretesa se, per essa, è necessario acquisire gli elementi istruttori
demandati ad un procedimento che o non si è mai svolto o si è svolto in modo
incompleto senza giungere alla sua naturale conclusione con l’emanazione del
provvedimento”261.
La tesi si fonda sull’assunto che nelle ipotesi anzidette, ove l’amministrazione abbia
omesso oltre che di adottare il provvedimento finale anche di svolgere l’attività
istruttoria, il g.a. non possa sostituirsi all’amministrazione nel compiere detta attività se
non violando il principio di separazione tra poteri dello stato.
A ben vedere il principio della separazione dei poteri entra in gioco solo nel caso in
cui l’istruttoria coinvolga l’esercizio di poteri discrezionali, nell’ipotesi invece in cui la
fattispecie presenti aspetti di valutazione tecnica sebbene complessi, non si vede quale
sia l’ostacolo ad ammettere che l’attività istruttoria, omessa dall’amministrazione in
sede procedimentale, possa e debba essere espletata, ove richiesto, in sede processuale.
D’altra parte vi sono ragioni d’ordine logico e sistematico che sembrano confortare
tale assunto.
Sotto il profilo logico può rilevarsi che l’amministrazione che abbia omesso di
provvedere su un’istanza con ogni probabilità ha anche omesso di svolgere qualsivoglia
attività istruttoria, con la conseguenza che voler limitare l’applicazione dell’art. 2 L.
241/90 nella parte in cui prevede il sindacato sulla fondatezza della pretesa solo
nell’ipotesi in cui la causa sia matura per la decisione sotto il profilo procedimentale,
sembra privare di fatto di ogni utilità la disposizione.
Sotto il profilo sistematico negare al g.a. il potere –dovere di pronunciarsi sulla
fondatezza della pretesa nel caso in cui la fattispecie necessiti dello svolgimento di
attività istruttoria significherebbe stravolgere la struttura del processo fondata sulla
distinzione tra la fase di cognizione e di decisione.
260
Tar Lazio, II bis, 11 gennaio 2006, n. 233, in Foro amm-Tar, 2006, 121; Tar Lazio Roma, II, 23
maggio 2006, n. 3778, in Foro amm.-Tar, 2006, 1706, il quale comunque esclude che l’indagine sulla
fondatezza della pretesa sia possibile «nell’ipotesi di provvedimenti altamente discrezionali»; in
dottrina v. A. CARIOLA, Riflessioni sul silenzio della p.a.: profili sostanziali e processuali, cit.
261
Tar Lazio, Roma, sez. II Tra, 11 ottobre 2007, n. 9948; negli stessi termini v. Cons. Stato, V,
10 ottobre 2006, n. 6056 e VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in Foro amm.-Cds, 2006, 3 918.
140
E’ vero che nel rito ex art. 21 bis la fase dell’esecuzione è per così dire interna a
quella della cognizione, ma è pur vero che dal punto di vista teorico le due fasi del
giudizio devono essere tenute distinte.
Se viceversa in presenza di attività complessa il g.a. dovesse limitarsi a dichiarare
l’obbligo di provvedere senza vincolare in alcun modo la successiva attività
amministrativa, la successiva fase dell’esecuzione verrebbe a perdere il suo proprium
costituito dalla esecuzione coattiva della decisione emessa in fase di cognizione.
Per ricondurre ad ordine la materia occorre invece riconoscere che il giudice
amministrativo adito in tema di silenzio della p.a. possa sempre pervenire alla decisione
sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente tanto nel caso in cui la
fattispecie si presenti di semplice soluzione, quanto nelle ipotesi in cui comporti
l’espletazione di attività istruttoria.
141
e)
Natura e ruolo del commissario ad acta: in particolare il regime di impugnativa
degli atti.
Le diverse prospettazioni formulate in relazione alla esatta individuazione
dell’oggetto del processo, che mantengono la loro problematicità anche dopo la riforma
del 2005, condizionano inevitabilmente il giudizio relativo alla natura del commissario
ad acta.
Fino almeno alla metà degli anni settanta il potere del giudice amministrativo di
nominare commissari incaricati di porre in essere, in luogo dell’autorità competente, le
attività necessarie per l’esecuzione della sentenza veniva ammesso richiamando non
tanto le norme che prevedono i poteri decisori riconosciuti in sede di giurisdizione
estesa al merito, quanto, piuttosto, nella logica propria della figura del c.d. controllo
sostitutivo, nell’adozione degli atti amministrativi obbligatori per legge262.
Dunque più nel quadro delle misure c.d. compulsorie o sollecitatorie dell’esercizio
delle ordinarie competenze amministrative che non in quello delle misure giudiziali di
tipo surrogatorio dell’attività dovuta per effetto del,a pronuncia.
Com’è noto l’evoluzione giurisprudenziale successiva, ha abbandonato l’idea di un
commissario come organo (straordinario) dell’amministrazione ha fatto emergere la
figura attuale del commissario giudiziale posto alle dirette dipendenze del giudice
amministrativo.
Figlia della giurisprudenza pretoria in tema di giudizi di ottemperanza, tale figura
può dirsi avere ottenuto nel nostro ordinamento processuale riconoscimento e
legittimazione solo con la decisione della Corte Costituzionale, n. 75 del 12 maggio
1977263, nella quale venne chiaramente affermato che “il giudice amministrativo, sia che
sostituisca
la
propria
decisione
all’omesso
provvedimento
della
pubblica
amministrazione … sia che ingiunga all’amministrazione medesima di provvedere essa
stessa entro un termine all’uopo prefissatole, sia infine che disponga la nomina di un
commissario per l’ipotesi che il termine abbia a decorrere infruttuosamente , esplica
262
In termini V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 197, p. 175. Sulla nozione di
“controllo sostitutivo” v. U. Borsi, Intorno al c.d. controllo sostitutivo, in Studi senesi, 1916, vol. XXXII, al
quale si deve il rilievo della necessità di distinguere nell’ambito di questo “ibrido concetto” ciò che attiene al
controllo, che propriamente si risolve in un giudizio, in un accertamento della regolarità o meno dell’attività e
del suo svolgimento, da ciò che attiene alla “sostituzione”, che di per sé riguarda le conseguenze giuridiche
ed effettuali ricollegabili all’esito del controllo, e che non ammettono altro inquadramento teorico che in
termini di amministrazione attiva.
263
Riportata in Giur. Cost., 1977, I, p. 665.
142
sempre attività di carattere giurisdizionale, … non si surroga all’organo di controllo,
ma pone in essere un’attività qualitativamente diversa da quella che quest’ultimo
avrebbe istituzionalmente il potere-dovere di esplicare nell’ipotesi di omissione di atti
obbligatori per legge. A sua volta l’attività del commissario, pur essendo praticamente
la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione, ne differisce
tuttavia giuridicamente, in quanto si fonda sull’ordine contenuto nella decisione del
giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”.
A questo primo tentativo di una diversa ricostruzione concettuale della figura diede
poi immediatamente seguito l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato la quale, nella
decisone n. 23 del 14 luglio 1978, affermò ulteriormente che “il commissario non è un
organo, sia pure straordinario, di amministrazione attiva, né un organo di controllo; esso
è invece solo un organo del giudice dell’ottemperanza, sia che questi lo scelga
direttamente, sia che la scelta passi attraverso l’interposizione di un organo
amministrativo incaricato di procedere alla nomina”264.
La nuova qualificazione concettuale del commissario ad acta ha consentito così di
“aggirare” gli ostacoli materiali che, ora come allora, si oppongono alla possibilità di
diretta surrogazione giudiziale nell’esercizio delle competenze dell’amministrazione
inadempiente, attraendo all’interno dell’orbita del potere giudiziario il funzionario
nominato per il compimento delle attività necessarie per l’esecuzione del giudicato.
Il giudice amministrativo pare così aver trovato la via per poter completare anche e
soprattutto con riferimento al problema della tutela giurisdizionale degli interessi
legittimi c.d. pretensivi, quel percorso evolutivo cui si accennava sin dalle prime pagine
del nostro studio, grazie al quale risulta possibile rendere effettiva la portata “oltre
l’annullamento” della decisione giurisdizionale amministrativa passata in giudicato265.
Un percorso che, com’è stato osservato in dottrina, ha consentito in definitiva
“quanto meno di relativizzare, se non senz’altro di rovesciare”266, la tradizionale
affermazione secondo cui il giudice amministrativo non risulta titolare istituzionalmente
di poteri di condanna e di sostituzione delle proprie determinazioni a quelle
illegittimamente prese (o omesse) dall’amministrazione.
L’aver ricostruito la figura del commissario ad acta come organo ausiliario del
giudice anziché dell’amministrazione resistente in giudizio, ha influito com’è evidente
264
Cons. Stato, ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23.
Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 1995, n. 152, in Foro amm., 1995, p. 570; cons. Stto, sez. VI 30 gennaio
1991, n. 52, in Rass. Cons. Stato, 1991, I, p. 120.
266
Così B. Sassani, Dal controllo del potre all’attauzione del rapporto, cit. p. 120.
265
143
altresì sul sistema di tutela avverso gli atti del commissario ritenuti pacificamente
impugnabili innanzi allo stesso giudice dell’ottemperanza267.
Nel periodo in cui, in assenza di alcuna previsione normativa, era prevalente
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice adito ex art. 21-bis doveva
limitarsi a condannare l’amministrazione a provvedere senza potere valutare la
fondatezza della
coerentemente
pretesa sostanziale
doveva
essere
fatta
valere,
qualificato
il commissario
quale
organo
nominato
straordinario
dell’amministrazione piuttosto che semplice organo ausiliario del giudice268. Ciò in
quanto, in presenza di una mera declaratoria di condanna della p.a. di provvedere e in
mancanza, pertanto, di alcun vincolo giudiziale posto al successivo esercizio del potere
amministrativo, il commissario poteva agire con la massima libertà di azione. Gli atti
posti in essere da quest’ultimo non potevano, dunque, essere considerati “meri atti” di
esecuzione di una decisione giudiziale ma veri e propri atti amministrativi emanati in
sostituzione
dell’amministrazione
rimasta
inadempiente.
La
loro
eventuale
contestazione da parte dei privati avrebbe, pertanto, dovuto svolgersi non innanzi allo
stesso giudice dell’ottemperanza bensì in sede di giurisdizione generale di legittimità.
La riforma del 2005 ha chiarito che l’autorità giudiziaria può spingersi sino a
valutare la fondatezza della pretesa azionata dal privato, ciò però, secondo
l’interpretazione prevalente, soltanto in presenza di una attività vincolata.
Tale soluzione però non appare conciliabile con l’affermata natura giurisdizionale
del commissario ad acta il quale tornerebbe ad essere “organo amministrativo” ove si
ritenga che in presenza di una attività discrezionale della p.a. il giudice non possa che
limitarsi ad emanare una sentenza dichiarativa dell’obbligo di provvedere.
In tal caso infatti il commissario non avrebbe la funzione di attuare una precedente
statuizione giurisdizionale, limitandosi questa a stabilire il solo obbligo di provvedere,
bensì verrebbe a provvedere in ordine all’istanza in assenza di specifiche indicazioni o
direttive giudiziali.
Il legislatore, all’art. 21-bis, 3° comma, si è preoccupato, inoltre, di disciplinare il
profilo, alquanto dibattuto in passato, se il commissario conservi o meno la propria
legittimazione all’esercizio del potere nel caso in cui, successivamente alla propria
nomina, la p.a. abbia adottato un provvedimento. Tale fattispecie è configurabile, in
267
Sulle novità della riforma del 2005 in ordine al regime delle nullità degli atti adottati in
violazione o elusione del giudicato v. cap. 14.
268
N. SAITTA, Ricorsi contro il silenzio della p.a.: quale silenzio? , in www.giustamm.it, 2001.
144
considerazione della natura ordinatoria del termine procedimentale che non esaurisce il
potere di provvedere.
La norma in esame prevede che, all’atto dell’insediamento, il commissario è tenuto
preliminarmente ad accertare se la pubblica amministrazione abbia nel frattempo
provveduto.
Tuttavia, data l’incerta portata della norma, residuano dubbi circa il suo reale
significato: secondo una prima tesi, l’avvenuto esercizio del potere amministrativo
anteriormente all’insediamento del commissario farebbe venir meno la ragion d’essere
della sua nomina, essendo stato conseguito il risultato cui era finalizzato il ricorso
giurisdizionale.
In base ad una diversa ipotesi interpretativa269, al contrario, la norma introdurrebbe
un obbligo di coordinamento dell’attività del commissario con il sopravvenuto esercizio
del potere amministrativo, senza con ciò determinare una regressione del giudizio allo
stadio iniziale, come se l’amministrazione avesse provveduto ab origine. Secondo
questa tesi il commissario può indagare anche il contenuto del provvedimento tardivo
per verificare se la pubblica amministrazione abbia tenuto conto delle indicazioni
fornite dal giudice nella sentenza a conclusione della prima fase del giudizio 270.
269
270
B. SASSANI, Il regime del silenzio e l’esecuzione della sentenza, cit., 409.
N. PAOLANTONIO, Il rito del silenzio nel processo amministrativo, cit., 148.
145
2.4 L’“ordine” di esibizione di esibizione nel diritto di accesso.
Com’è noto l’art. 25, della legge 7 agosto 1990, n. 241 prevede un rito speciale
accelerato «contro le determinazioni amministrative concernenti l'accesso», .
L’accelerazione rispetto alle forme e ai tempi del processo ordinario è data dalla
prevsione di terìmpi rapidi (30 giorni a fronte dei consueti 60) per la proposizione del
ricorso, nonché nella previsione di un termine ultimo (30 giorni dalla scadenza del
termine per il deposito del ricorso) per la conclusione del processo. Analoghi termini
sono previsti poi per la proposizione dell’appello e per la conclusione del relativo
processo.
Ma la novità di maggiore rilievo introdotta dalla L. 241/90 in tema di accesso,
attiene senz’altro alla previsione del potere in capo al giudice amministrativo di adottare
una sentenza di condanna nei confronti dell’amministrazione che abbia illegittimamente
negato l’accesso alla documentazione amministrativa.
In tal senso l’art. 25, ult. comma,
L. 241/90, prevede che il giudice
amministrativo “sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti
richiesti.”
Particolarmente controverso è l’oggetto del rito avverso le determinazioni
dell’amministrazione in materia di accesso.
La soluzione muta, com’è evidente, a seconda della ricostruzione cui si intenda
aderire in ordine alla natura giuridica del diritto di accesso: ove infatti si inquadri il
diritto di accesso tra i diritti soggettivi, la previsione di un potere di condanna nei
confronti della p.a. avrebbe carattere meramente ricognitivo, essendo espressamente
prevista dalla legge Tar la possibilità per il g.a. di adottare sentenze di condanna nelle
materie di giurisdizione esclusiva.
Diversamente invece ove si attribuisca natura di interesse legittimo al diritto di
accesso, in questo caso la previsione un potere di condanna dell’amministrazione
all’adozione di un comportamento specifico, costituirebbe un elemento di rottura dello
schema tradizionale del processo amministrativo incentrato sul modello impugnatorio.
Com’è noto sul punto la giurisprudenza si è assestata su due posizioni contrapposte. La
prima fatta propria dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria del consiglio di stato n.
146
16/99 e dalla Suprema Corte di Cassazione271, afferma che nonostante il dato testuale, la
posizione giuridica di chi chiede l’ostensione dei provvedimenti amministrativi vada
rettamente intesa come posizione di interesse legittimo suscettibile di soddisfazione solo in
seguito all’esercizio di una potestà valutativa discrezionale riservata all’amministrazione;
la seconda, viceversa, concordemente al dato letterale, propende per il riconoscimento in
capo al richiedente l’accesso di una posizione di diritto soggettivo272.
Il dibattito in ordine alla natura giuridica del diritto di accesso è tornato al centro di
rinnovata attenzione a seguito dell’entrata in vigore delle leggi 15 e 80 2005 che hanno
apportato significative modifiche alla disciplina generale sul procedimento in genere e
sull’accesso in particolare.
Per i fini che qui ci occupano assumono particolare rilevanza le modifiche apportate all’art.
22 c. 2 L. 241 nella parte in cui qualifica il diritto di accesso come principio generale
dell’attività amministrativa attinente ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117,
c.2, lett. m) Cost. e nella parte in cui all’art. 25, c. 5 ha qualificato espressamente la
giurisdizione amministrativa in materia di accesso come “esclusiva”.
La questione com’è noto è stata fatta oggetto delle recenti pronunce dell’Ad. Plenaria del
Consiglio di Stato, nn. 6 e 7 del 2006, con le quali il massimo consesso di giustizia
amministrativa chiamato a decisdere in ordine alla natura dewl tyermine previsto dall’art.
25 L. 241/90 per l’instaurazione del giudizio in materia di accesso ha ritenuto non utile ai
fini della identificazione della disciplina applicabile al giudizio avverso le determinazioni
concernenti l’accesso, prendere posizione in ordine alla natura della posizione soggettiva
coinvolta.
Il diritto di accesso, secondo la riferita posizione, più che fornire un utilità finale
all’istante, risulta caratterizzato per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di
natura procedimentale in quanto tali strumentali alla tutela dell’interesse finale.
271
Cfr. <<La pretesa di accesso (mediante esame ed estrazione di copie) ai documenti
amministrativi esistenti presso le amministrazioni statali (comprese le aziende autonome), gli enti
pubblici (compresi quelli locali) ed i concessionari di pubblici servizi, pur trovando diretto
fondamento nella legge (art. 22 ss. l. 7 agosto 1990 n. 241), è soggetta ad un apprezzamento da
parte della P.A. (che nelle ipotesi previste dall'art. 24 può, con provvedimento motivato, rifiutare,
differire o limitare l'esercizio dell'accesso) e costituisce perciò oggetto di una posizione soggettiva
avente consistenza di interesse legittimo e tutelabile esclusivamente davanti al T.A.R. con il
rimedio previsto dall'art. 25 della stessa legge>> Cass. civ., sez. un., 27/05/1994, n.5216, in Mass.
Giur. It., 1994.
272
La qualificazione in termini di diritto soggettivo è stata a più riprese ribadita i giurisprudenza: cfr. tra le
tante Cons. stato, sez. IV, 27 agosto 1998, n. 1137, in Foro amm., 1997, 1638, ove lo si qualifica come
autonomo diritto soggettivocall’informazione e se ne fa conseguire la devoluzione in see contenziosa alla
giurisdizione esclusiva del g.a.
147
Secondo il Consesso di giustizia amministrativa peraltro la natura strumentale dell’accesso
si riflette sul carattere strumentale dell’azione che deve essere idonea a garantire al tempo
stesso la tutela dell’interesse e la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni dei
controinteressati.
Ne consegue che nell’ambito di un giudizio a struttura impugantoria qual é quello descritto
dall’art. 25 L. 241/90, il termine per la proposizione del ricorso deve ritenersi previsto a
pena di decadenza. Dal riconoscimento del carattere decadenziale del termine per
l’impugnativa discende che la mancata impugnazione del diniego entro il predetto termine
non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del nuovo
provvedimento, dovendosi riconoscere piuttosto a quest’ultimo valore di mero atto
confermativo del precedente diniego come tale non legittimante all’impugnativa se non a
pena di un aggiramento del termine. In quest’ottica peraltro la reiterazione dell’istanza e
l’impugnativa autonoma dell’eventuale ulteriore provvedimento di diniego potrà avvenire
solo in presenza difatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell’originaria
istanza.
In senso critico si è messo in rilievo che la previsione di una pronuncia che ordini
all’amministrazione l’esibizione del documento non appare conciliabile con la pretesa
natura impugnatoria del giudizio avverso il diniego di accesso, ma al contrario sembra più
confacente alla ricostruzione di detto giudizio in termini di processo sul rapporto ossia di
un processo idoneo a sfociare in una statuizione sulla spettanza del bene della vita
controverso, senza rinviare ad una riedizione dell’esercizio del potere273.
Ed invero nel giudizio in materia di accesso infatti l'autorità giurisdizionale
sembra “disinteressarsi” del provvedimento di diniego, per procedere ad un
accertamento diretto della fondatezza della pretesa e della sussistenza dei presupposti
dell'accesso.
La qualificazione del giudizio in materia di accesso come giudizio sul rapporto
lascia irrisolte però alcune questioni interpretative.
Innanzitutto v’è da chiedersi infatti cosa accada nel caso in cui il ricorso venga
proposto da un soggetto diverso dal richiedente, il quale si dolga della determinazione
che accoglie la istanza di accesso. In tal caso, il giudice che accolga il ricorso non
potrebbe ordinare l'ostensione dell'atto. Dovrebbe ammettersi, in coerenza con la
premessa fatta in ordine alla natura del giudizio, che il giudice possa emettere in queste
ipotesi un “ordine di non esibizione”. Tale soluzione è però osteggiata dalla
273
Cons. stato sez. VI, 26 aprile 2005, n. 1896.
148
giurisprudenza prevalente la quale, fedele al principio della tipicità dei poteri
giurisdizionali, nega tale evenienza274.
Secondo la giurisprudenza prevalente il soggetto danneggiato dall’accoglimento
dell’istanza di accesso, potrebbe solo instaurare un normale giudizio di impugnazione
avverso la determinazione amministrativa, cui è collegato il consueto effetto
conformativo.
Il che vuol dire che il soggetto danneggiato dall’atto di accesso dovrà subire tutti i
limiti della tutela impugnatoria relativi ai tempi del processo, nonchè all’oggetto e agli
effetti del giudicato.
Diversamente
ove
si
ammetta
che
anche
il
soggetto
danneggiato
dall’accoglimento dell’istanza di accesso possa accedere al rito accelerato di cui all’art.
25 L. 241/90, in questo caso il giudizio da lui instaurato al pari di quello instaurato dal
soggetto titolare del diritto di accesso, avrà ad oggetto l’intero rapporto intercorrente
con l’amministrazione, con la conseguenza che la pronuncia del giudice non sarà
limitata alla mera declaratoria dell’illegittimità della statuizione sull’accesso e del
conseguente annullamento della stessa, ma potrà spingersi fino a censurare la
fondatezza della pretesa sostanziale vantata dalla parte.
Il giudice amministrativo potrebbe pertanto adottare una pronuncia di condanna
alla “non ostensione” dell’atto oggetto dell’istanza di accesso, specularmente alla
pronuncia con la quale, ai sensi dell’art. 25, ult. comma, L. 241/90, ordina l’ostensione
dello stesso.
Secondariamente, resta da chiarire se il ricorso avverso la determinazione in
materia di accesso vada comunque accolto con l’ordine di esibizione (o con l’ordine di
non esibizione, ove si ritenga di aderire alla tesi favorevole all’estensione del rito
speciale anche all’impugnativa dell’atto di accoglimento dell’istanza di accesso),
quando risulti insussistente la ragione posta a base del diniego, ovvero se – in sede
giurisdizionale – possa rilevare una diversa ragione ostativa non rilevata dall’atto.
Se si concorda con la ricostruzione del giudizio in materia di accesso come
processo sul rapporto la soluzione dovrebbe ritenersi obbligata. Non si comprende
infatti come possa il giudice emettere una sentenza di condanna nei confronti
dell’amministarzione ad un facere specifico qual’è quello all’ostensione (o alla non
ostensione) dell’atto richiesto senza prima avere accertato la fondatezza della pretesa
del ricorrente, ossia senza avere prima avere accertato l’esistenza di ulteriori ragioni,
274
Cf. M. Lipari, Il processo in materia di accesso (dopo la l. 15 del 2005), in www.giustamm.it.
149
che l’amministrazione avrà l’onere di eccepire in giudizio, diverse da quelle poste alla
base della motivazione del provvedimento eventualmente ostative all’accoglimento
dell’istanza.
Il che com’ è evidente presuppone risolta in senso positivo le questioni di
carattere generale relative alla possibilità per la p.a. di integrare la motivazione in corso
di giudizio, nonché di proporre eccezioni in senso proprio nel processo amministrativo.
Di entrambe le questioni si è trattato nel capitolo secondo al quale si fa rinvio.
150
2.5 L’accertamento “in negativo” della fondatezza della pretesa nel regime
dei vizi formali.
Ai sensi dell’art. 21 octies L. 241/90 così come novellata dalla L. 15/05, «non è
annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora per la natura vincolata del provvedimento,
sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato». Il comma continua poi con una seconda proposizione: «Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato».
Non sarebbe possibile, né utile in questa sede ripercorrere l’ampio dibattito che
ha preceduto e in parte seguito la modifica del regime dei vizi formali nel nostro
ordinamento275, pertanto verranno presi in esame solo gli aspetti specifici della
fattispecie che presentano punti di contatto con il tema della presente indagine.
Sotto un primo profilo viene in rilievo la questione relativa alla natura giuridica
della norma in questione, essendo discusso se essa abbia natura di regola di diritto
sostanziale processuale.
La questione non è priva di conseguenze sul piano degli effetti, si pensi solo alle
conseguenze che si fanno derivare sotto il profilo risarcitorio dalla qualifica dell’atto in
termini illegittimità.
275
I contributi prodotti recentemente sul tema in questione sono stati molto numerosi (tra i tanti): M.
Occhiena, Formalismo e sostanzialismo nella teoria dell'attività amministrativa, relazione tenuta al Convegno
di Studi Vizi formali e vizi sostanziali del provvedimento amministrativo, Copanello, 5-6 luglio 2002; F.
Fracchia, Vizi formali, semplificazione procedimentale e silenzio-assenso, relazione tenuta al Convegno di
Studi Vizi formali e vizi sostanziali del provvedimento amministrativo, Copanello, 5-6 luglio 2002; B.G.
Mattarella, Il provvedimento, in Tratt. dir. amm., a cura di S. Cassese, Milano, 2000, parte gen., vol. I, 705 e
ss.; R. Villata, L'atto amministrativo, in AA.VV., Diritto Amministrativo, Bologna, 2001, vol. II, 1427 ss.;
Scoca, Vizi formali, vizi sostanziali e procedimento amministrativo italiano, Relazione presentata al X
Convegno biennale di diritto amministrativo dell'AGATIF, Brescia, 23 ottobre 2003; Cerulli Irelli,
Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell'amministrazione, in Annuario 2002 dell'Associazione
Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Milano, 2003, 3 ss.; ivi G. Morbidelli, Invalidità e
irregolarità, 79 ss.; P.M. Vipiana Perpetua, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di
nullità ed irregolarità, Padova, 2003; F. Luciani, Il vizio formale nella teoria dell'invalidità amministrativa,
Torino, 2003; D.U. Galetta, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del
provvedimento, Milano, 2003; A. Police, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della
distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., 2003, 735 ss.; R. Proietti, Partecipazione e
accordi nel procedimento amministrativo, in D&G, supplem. al n. 03/2004; A. Romano Tassone, Vizi
formali e vizi procedurali, in www.giustamm.it.
151
In realtà, nel silenzio del legislatore che non qualifica come “legittimo” l’atto
affetto da vizi formali, deve ritenersi operante la regola ordinaria che qualifica come
illegittimo l’atto affetto da uno dei vizi di legittimità.
Può concordarsi nondimeno con chi ritiene che si tratti di una norma
“sostanziale con effetti processuali”276, che pur non incidendo sulla qualifica del
provvedimento in termini di illegittimità, incide sul profilo della sanzione.
Nel qualificare come non annullabile un provvedimento posto in violazione di
norme formali che non abbiano influito sulla sostanza della decisone, la norma
attribuisce al giudice il potere-dovere di verificare, ogniqualvolta venga dedotto un
vizio formale, se la pretesa del privato sia fondata o non sia, per avventura, palesemente
infondata, al punto da rendere inutile, eccessivo e persino dannoso il procedimento
giudiziale di annullamento.
Emerge pertanto un primo punto di contatto con l’oggetto della presente
indagine: la norma in questione testimonia il passaggio da un giudizio estrinseco e
parentetico sull’atto, ad un giudizio finale sula rapporto che definisce in modo
sostanziale e sopratutto definitivo la controversia.
La nuova disciplina dei vizi formali sembra espressione pertanto del principio
chiovendiano secondo cui quando il privato ha torto, ha interesse ad avere torto subito e
completamente, così, similmente, quando ha ragione ha diritto ad avere ragione subito e
completamente; in quest’ottica il privato che abbia sostanzialmente torto in relazione
all’agognato bene della vita preferisce una sconfitta immediata ad una vittoria
apparente, dal momento che all’annullamento dell’atto per vizi di forma o del
procedimento farebbe seguito, quasi certamente, un nuovo provvedimento, questa volta
anche formalmente legittimo,parimenti negativo nel suo contenuto dispositivo.
D’altra parte il diritto civile da sempre conosce la distinzione tra regole del
comportamento e regole dell’atto, ossia tra regole la cui violazione comporta una
qualificazione in termini di illiceità del comportamento complessivamente inteso e
regole la cui violazione comporta invece la sanzione della caducazione del’atto.
Appare evidente il parallelismo con le regole civilistiche in tema di
comportamento che non rilevano sotto il profilo della valididità del contratto (nullitàannullabilità), bensì sotto il profilo della responsabilità del contraente.
276
F. Caringella, L’art. 21 octies della legge 241: rivoluzione o restaurazione?, intervento al Convegno
“Giustizia amministrativa e sviluppo economico”, svoltosi a Lecce i l30 settembre – 1 ottobre 2005 presso il
Tribunale amministrativo regionale di Lecce, in www.giustizia-amminitrativa.it.
152
Si pensi alla violazione degli obblighi di buona fede nelle trattative (art. 1337
c.c) ovvero al caso del dolo incidente (art. 1440 c.c.), in entrambe le ipotesi la
violazione delle regole di comportamento nella fase prodromica alla stipula del
contratto non sono reputati tali da inficiare la validità del contratto.
Deve solo aggiungersi che in dette ipotesi la valutazione circa l’incidenza del
vizio nel rapporto sostanziale non è lasciata alla valutazione del giudice come nel caso
del 21 octies ma è effettuata in astratto dal legislatore.
La diversità tra le due discipline potrebbe trovare giustificazione, a ben vedere,
nel tradizionale ossequio che la tradizione civilistica ha sempre mostrato nei confronti
dell’autonomia privata e al “dogma” della volontà dei contraenti.
Il parallelo con il diritto civile, ove ritenuto plausibile, consente di superare un
altro nodo della disciplina dei vizi formali relativo alla tutela delle posizioni giuridiche
lese da un atto affetto da vizi formali, ossia il problema, al quale è possibile solo
accennare, ella risarcibilità di tali posizioni.
Come l’ordinamento civile infatti prevede che la violazione di
regole di
comportamento rilevi sotto il profilo della responsabilità dei contraenti ferma restando
la validità del contratto, non si vede quali ragioni legate alla “specificità” del rapporto
amministrativo impediscano di ritenere parimenti risarcibile al posizione soggettiva
danneggiata dalla violazione di regole di forma del procedimento.
Un secondo problema riguarda l’ambito di applicazione della disposizione,
essendo incerto cosa intende il legislatore quando, nella prima parte del secondo
comma, riferisce: “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello adottato”. La dottrina e la giurisprudenza pressoché unanimemente
concordano nel ritenere che l’inciso si riferisca agli atti vincolati.
Ma il problema è solo in apparenza risolto restando da chiarire se deve trattarsi di atti
per i quali ab origine non vi era alcuna alternativa di diritto, ovvero di atti che sebbene
inizialmente discrezionali risultino di fatto vincolati, essendosi data l’amministrazione
ad es. un vincolo ab origine inesistente.
Anche in questo caso non sembra vi siano ostacoli all’accoglimento della
interpretazione più estensiva della norma, essendo gli originari profili di discrezionalità
assorbiti dal comportamento dell’amministrazione. Si pensi ad una procedura di
aggiudicazione con il metodo dell’appalto concorso con offerta economicamente più
vantaggiosa nel quale la commissione abbia già esperito le sue valutazioni discrezionali
in ordine alle offerte. In sede di impugnatoria della graduatoria finale per vizi formali
153
(es. incompetenza) non vi sono ostacoli ad ammettere che il giudice possa spingersi fino
a sindacare l’incidenza del vizio di forma sul rapporto controverso.
Presenta profili di maggiore complessità il problema connesso alla violazione
della regola procedurale dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento. In
questo caso infatti è consentito al giudice di sindacare l’incidenza del vizio formale sul
rapporto sottostante anche in presenza di attività discrezionale.
Sarà l’amministrazione a dover provare in giudizio l’infondatezza della pretesa
sostanziale vantata dal ricorrente, provando che non vi erano alternative, di fatto o di
diritto, e che pertanto l’atto non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello
concretamente adottato.
Quanto ai vizi concretamente deducibili quali vizi formali, al fine di attribuire
alla disposizione una portata effettivamente innovativa occorre ritenere che essa
abbracci non solo i vizi conce tanto nere irregolarità formali, quali per esempio la
illeggibilità della sottoscrizione o il vizio della intestazione, ipotesi che già
nell’impostazione antecedente alla novella non erano ritenute invalidanti, ma a vizi
formali che anteriormente ala novella erano reputati invalidanti ossia a vizi di un certo
rilievo quali quelli relativi alla violazione delle regole sulla competenza o alla
motivazione dei provvedimenti.
Sulla questione della integrazione della motivazione in corso di giudizio si rinvia
alle considerazioni già svolte in precedenza in sede di ricostruzione dei limiti cognitivi
del giudice amministrativo.
Per
quanto
attiene
al
vizio
di
incompetenza
deve
dissentirsi
da
quell’orientamento che tende a ricomprenderla tra i vizi sostanziali sulla base della
semplice constatazione che la competenza è muta rispetto alla bontà della decisone.
Viceversa anche con riguardano al vizio di incompetenza sussistono esigenze di
tutela sostanziale del ricorrente del tutto simili a quelle sottese al regime dei vizi formali
di cui all’art. 21 octies: ossia principalmente l’esigenza di evitare vittorie inutili e di
definire in modo compiuto la vicenda contenziosa.
Quanto all’esito processuale del giudizio, nell’ipotesi in cui il giudice ritenga
che il vizio dedotto non abbia efficacia invalidante, le alternative prospettabili sono due.
Secondo una prima tesi il ricorso dovrebbe essere respinto sulla base della
circostanza che non è fondata la pretesa sostanziale vantata dal ricorrente; secondo altro
indirizzo, invece, dovrebbe essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse ad
agire ex art. 100 c.p.c.
154
Quest’ultima soluzione non appare però condivisibile, tra l’altro, per le
conseguenze cui condurrebbe sotto il profilo della tutela risarcitoria del ricorrente.
La nuova disciplina dei vizi formali segna una tappa fondamentale
nell’evoluzione del sistema di giustizia amministrativa, costituendo una chiara smentita
all’idea che il giudice amministrativo, sia un giudice dell’atto e non del rapporto.
Ma la norma è rilevante a ben guardarla per quello che non dice, rispetto a ciò
che dice.
Se infatti essa attribuisce al giudice il potere di verificare la fondatezza della
pretesa al fine di dare torto, ossia prima di pronunciare annullamenti che possono
rilevarsi inutili, allora la stessa non può non attribuire specularmente il potere dovere di
verificare la fondatezza della pretesa , quante volte gli sia richiesto, anche per dare
ragione.
Tale conclusione è resa necessaria da una parte del rispetto del principio della
domanda di cui all’art. 112 c.p.c. corollario del diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost.,
dall’altro dal principio della parità delle parti nel processo, espressione del più ampio
principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.
155
3. Le azioni costitutive.
Come tutte le azioni di cognizione anche l’azione costitutiva si caratterizza per un
contenuto minimo di accertamento del diritto che si fa valere, al quale si somma un quid
pluris rappresentato dal diritto potestativo alla modificazione giuridica.
La situazione è paragonabile a quanto accade nella condanna, ove pure,
l’accertamento del diritto non basta per attuare la tutela, ma costituisce la premessa
logica e giuridica per quell’ulteriore attività che è l’esecuzione forzata.
Ma la differenza essenziale che intercorre tra la sentenza di condanna e la sentenza
costitutiva sta in ciò, che mentre con la condanna il giudice non può che rimandare
l’attuazione effettiva del diritto ad un’attività tutelatrice ulteriore, da compiersi ad opera
dell’organo esecutivo, nel caso della sentenza costitutiva, l’ulteriore attuazione del
diritto accertato può compiersi subito e direttamente dal giudice, dal momento che per
attuarla non occorre operare nel mondo materiale, ma solo nel mondo degli effetti
giuridici277.
Nel tracciare la distinzione tra l’azione di condanna e l’azione costitutiva si coglie
dunque il proprium di quest’ultima azione e che consiste nell’idoneità della sentenza di
accoglimento a soddisfare immediatamente l’interesse giuridico fatto valere, senza
rinviare ad un’ulteriore attività (dell’organo esecutivo o del soggetto resistente o
convenuto).
La trasposizione in diritto amministrativo della categoria della sentenza costitutiva ha
trovato ostacolo in passato, nella particolare configurazione che di questa azione aveva
fornito la dottrina processualcivilistica meno recente.
Tale indirizzo tendeva infatti ad individuare l’oggetto della sentenza costitutiva nel
“diritto (potestativo n.d.a.) al mutamento giuridico”, con la conseguenza che “ciò che
passa in giudicato è dunque l’esistenza o l’inesistenza della volontà della legge che il
mutamento si produca, per la causa petendi fatta valere; e non già l’esistenza o
inesistenza del rapporto giuridico che si vuol mutare né di quello che si vuol
produrre”278.
Probabilmente a tale ricostruzione si è rifatta anche la dottrina amministrativistica nel
tentativo di ricostruire l’oggetto del processo amministrativo come diritto potestativo
277
278
In questo senso C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, op. cit. 70.
G. Chiovenda, Principii di diritto processuale amministrativo, op. cit., p. 195.
156
all’annullamento dell’atto279, ma a parte la difficile conciliabilità di detta ricostruzione
con i principi costituzionali in tema giustizia, è apparsa sempre evidente la difficoltà di
doppiare l’interesse legittimo con il diritto potestativo all’annullamento dell’atto
illegittimo280.
Tuttavia l’elaborazione dottrinaria più recente ha spezzato il nesso tra diritto
potestativo e tutela costitutiva o perché individua una tutela costitutiva che non attua
diritti potestativi, o perché contesta in radice la stessa categoria dei diritti potestativi,
quanto meno con riguardo ai poteri giudiziari di annullamento.
In quest’ottica la tutela costitutiva non attuerebbe un diritto preesistente
all’annullamento ad es. del contratto, ma attraverso il rilievo attribuito ai vizi del
consenso consentirebbe di garantire la libertà di contrarre la libera formazione e
manifestazione della volontà.
La concezione da ultimo riferita dell’azione costitutiva e della relativa sentenza
consente pertanto di “accorciare” le distanze tra processo civile e processo
amministrativo, ammettendo che anche nel processo amministrativo, al pari di quanto
avviene nel processo civile sui diritti, la tutela costitutiva non postula un diritto
soggettivo all’annullamento che, per così dire, doppi l’interesse legittimo, ma
semplicemente un interesse legittimo, rispetto al quale rappresenta una delle possibili
forme di tutela281.
279
In questo senso G. Garbagnati, La giurisdizione amministrativa, Milano, 1950, p.40 e M. Nigro, Giustizia
amministrativa, op. cit., p. 240.
280
In questo senso G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, op. cit., 921.
281
Giunge a tali conclusioni G. Corso, op. ult.cit., 921.
157
3.1 L’azione di annullamento.
L’azione di annullamento costituisce l’archetipo delle azioni esperibili dinanzi al
giudice amministrativo, la cui appartenenza al tipo delle azioni costitutive non appare
controversa né in dottrina, né in giurisprudenza.
Essa infatti tende, al pari dell’azione costitutiva sui diritti soggettivi,
all’eliminazione dell’atto viziato, apportando una modifica alla giuridica precedente.
A differenza che per gli atti di autonomia privata però il nostro sistema non
conosceva, almeno in origine, strumenti di reazione processuale diversi dall’azione
costitutiva di annullamento; l’illegittimità degli atti amministrativi (con il solo limite
degli atti inesistenti) poteva essere fatta valere solo con la domanda di annullamento, da
proporsi nel termine di decadenza.
Per ovviare a tale situazione la giurisprudenza aveva dato origine alla categoria
della c.d. nullità in concreto, categoria quest’ultima volta a ricomprendere le ipotesi più
gravi di difformità dell’atto dal paradigma normativo.
Oggi la categoria della nullità ha trovato espressa menzione normativa nell’art. 21
septies L. 241/90 (introdotto dalla L. 15/05) che in parallelo a quanto disposto dall’art.
1419 c.c. distingue le ipotesi di nullità strutturale, per carenza degli elementi essenziali
dell’atto, dalla nullità testuale nel caso in cui sia la stessa legge a qualificare la
violazione dal paradigma legale in termini di nullità.
Tra le ipotesi previste dall’art. 21 septies L. 241/90 non figura invece la c.d.
nullità virtuale per violazione di norme imperative, ciò in ragione della peculiarità data
dal fatto che nell’ordinamento amministrativo, com’è noto, la violazione di legge
produce sempre (salvo le ipotesi di cui si è detto) costituisce motivo di annullabilità
dell’atto che ne sia viziato.
Figurano invece il difetto assoluto di attribuzione (c.d. incompetenza assoluta) e la
violazione o elusione del giudicato.
La legge 15/05 nel tipizzare i casi in cui ricorre la nullità degli atti, omette di
indicare la disciplina compiuta sicché questa va mutuata da quella civilistica dettata per
gli atti negoziali: assenza di effetti, insanabilità, rilevabilità d’ufficio in qualunque
tempo, possibilità di conversione dell’atto.
L’introduzione di un’espressa disciplina della nullità anche nell’ordinamento
amministrativo ha così segnato il superamento in via definitiva del tradizionale
158
orientamento secondo il quale per gli atti amministrativi provvedimentali non sembra
potersi parlare di nullità come forma di invalidità distinta dalla annullabilità.
Se si prova però a spingere ancora in avanti il parallelo con l’ordinamento civile ci
si scorgono immediatamente i limiti di tale confronto.
La mancata previsione di un’azione di accertamento e di un’azione di condanna
accanto a quella di annullamento ha indotto infatti la giurisprudenza a forzare le maglie
della tutela costitutiva facendovi rientrare anche fattispecie per le quali la tutela di
annullamento si presentava del tutto inadeguata.
La questione è stata affrontata allorché si sono presi in esame i limiti del modello
impugnatorio in particolare allorché nel giudizio si facciano valere posizioni di interesse
pretensivo.
In queste ipotesi a ben vedere difetterebbe la caratteristica che ci è parso di
individuare come caratterizzante della pronuncia costitutiva di accoglimento, ossia
quella restaurare la situazione giuridica del ricorrente preesistente all’emanazione
dell’atto di per sé e senza che occorra la necessità di comportamenti successivi.
E’ vero che la sentenza costitutiva, determinando una situazione nuova rispetto
quella creata dal provvedimento o dal contratto, crea spesso obblighi di restituzione (si
pensi all’obbligo di restituire la prestazione ricevuta in esecuzione del contratto
annullato ovvero all’obbligo di restituire l’immobile occupato successivamente
all’annullamento del decreto di esproprio), ma in entrambe le ipotesi ciò non forma
oggetto di una condanna vera e propri, bensì costituisce un effetto che consegue alla
stessa rimozione del titolo in base al quale la cosa è stata trattenuta o acquisita.
Ciò non si verifica invece allorché il ricorrente agisca in giudizio avverso il
silenzio dell’amministrazione ovvero avverso un atto negativo, in entrambe le ipotesi
infatti la tutela dell’interesse sostanziale vantato dal ricorrente non discenderà di per sé
dalla sentenza che annulla l’atto impugnato, ma con l’attuazione di un comportamento
posto in essere dall’amministrazione successivamente alla sentenza.
E’ evidente che in casi del genere parlare di sentenze auto esecutive o evocare il
carattere satisfattivo della sentenza costitutiva costituirebbe davvero una mistificazione
della realtà.
L’annullamento dell’atto di diniego, come si dirà più ampiamente nel paragrafo
che segue, non soddisfa l’interesse sostanziale del ricorrente, ma pone solo le premesse
di una successiva attività amministrativa dalla quale soltanto il privato può sperare di
trarre il vantaggio sperato.
159
Questa probabilmente la ragione di fondo che, come si anticipava nelle prime
pagine di questo studio, ha indotto al giurisprudenza a ricercare altre modalità di tutela
per un verso ampliando (oltremodo) le maglie della tutela esecutiva, per altro verso
forzando i margini della tutela preventiva.
160
3.2 L’annullamento dell’atto negativo esplicito e la tutela dell’interesse pretensivo.
La peculiarità della tutela avverso gli atti negativi espliciti della pubblica
amministrazione è data dal fatto che in questo caso, a differenza del ricorso avverso il
silenzio, un provvedimento esplicito (di diniego) sussiste e sembrerebbe dunque
giustificare il ricorso alla tutela costitutivo-demolitoria quale rimedio tipicamente
previsto dal legislatore all’interno dell’ordinamento processuale amministrativo.
Com’è stato rilevato in dottrina però si tratterebbe di una “falsa apparenza”282: il
provvedimento di diniego non ha prodotto, in effetti, alcun nuovo assetto nei rapporti
giuridicamente rilevanti, non ha creato situazioni giuridiche nuove in capo al
richiedente o alla pubblica amministrazione.
La fattispecie dopo l’emanazione dell’atto di diniego è rimasta identica a quella
che era in precedenza; conseguentemente viene meno ogni ragione logica per
adombrare in questi casi una tutela costitutivo demolitoria, che com’è noto ha lo scopo
ultimo di ricondurre la situazione giuridica al tempo anteriore all’emanazione dell’atto.
In altri termini in presenza si un atto negativo espresso si pongono problemi di
tutela del tutto analoghi a quelli che ricorrono nelle ipotesi di “impugnazione” del
silenzio – rifiuto dell’amministrazione, anche in questa ipotesi qual che viene in rilievo
è solamente il fatto negativo della mancata produzione degli effetti giuridici richiesti
dall’amministrato nella domanda di provvedimento favorevole283; identica deve
282
Così A. Romano, Premessa al Commentario breve delle leggi di giustizia amministrativa, a cura di A.
Romano, Padova, 1992 (prima edizione), p. XXII-XXIII, il quale rileva appunto come “… a prima vista,
parrebbe che il modello classico del processo amministrativo come processo tipicamente di impugnazione
risultasse inapplicabile solo in una ipotesi: quando l’amministrazione, alla domanda del ricorrente, opponga
solo silenzio ed inerzia; mentre sembrerebbe che nella diversa ipotesi nella quale adotti una pronuncia
esplicita di diniego, in quanto la si considerasse riconducibile al concetto di provvedimento, la reazione
contro di essa potesse rientrare nello schema tradizionale del ricorso come una impugnazione. Ma si
tratterebbe di una falsa apparenza; e che lo sia, e in che senso debba essere fugata, viene suggerito da questa
osservazione: … anche quando il ricorso a tutela dell’interesse pretensivo, per la forma esplicita che
l’amministrazione abbia dato al suo diniego, ed a causa di vincoli di termine e di procedimento (ancora)
affermati dalla giurisprudenza pressoché unanime, debba pur sempre atteggiarsi come impugnazione di esso
inteso come provvedimento, in realtà è altra dalla questione della sua legittimità quella sostanziale che
introduce: è la questione della legittimità del mancato soddisfacimento della pretesa; considerata nella sua
vera consistenza: che è e rimane identica in entrambe le ipotesi prospettate; ossia a prescindere dal fatto che
un provvedimento negativo esplicito sia stato emanato oppure no”.
283
F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento favorevole, Torino, 1964, p. 7 e ss. il quale evidenzia come “Si
ritiene comunemente che il diniego d’un provvedimento favorevole, in quanto espressione di una volontà
puntuale, costituisca un atto giuridico vero e proprio… che in quanto lesivo di interessi individuali in varia
guisa tutelati dall’ordinamento, esso possa essere impugnato dal cittadino ed annullato dai competenti organi
amministrativi e giurisdizionali. … A ben considerare, però, … poiché l’atto giuridico, secondo la comune
concezione, è innanzitutto una fattispecie dinamica, cioè un fattore di modificazione della realtà giuridica
preesistente, per poter ricondurre a questa pur amplissima categoria la semplice espressione di una volontà
negativa, occorre individuare l’effetto o gli effetti giuridici in cui dovrebbe manifestarsi il valore dinamico
161
ritenersi la causa della lesione dell’interesse materiale, identico il motivo del ricorso
giurisdizionale ed identico il petitum ad esso sotteso, aggiungendosi nel caso del
diniego esplicito la richiesta di eliminazione dell’atto privo di rilevanza dinamica solo
per un ossequio al sistema impugnatorio vigente.
In realtà la dottrina attuale, ai fini dell’assimilazione tra il silenzio e gli atti
negativi espliciti, tende a differenziare le ipotesi di diniego a seconda di quale sia il
momento procedimentale nel quale interviene il rifiuto284.
Gli atti di rifiuto possono intervenire infatti in qualunque momento dell’esercizio
della funzione amministrativa; innanzitutto in limine del procedimento messo in moto
per l’emissione del provvedimento positivo, il quale potrà essere rifiutato perché per
l’istanza è stata proposta ad es. perchè fuori termine o in modo irrituale, in queste
ipotesi la dottrina suole parlare di rifiuto pregiudiziale; ovvero il diniego potrà scaturire
da una fase più avanzata dell’esercizio del potere amministrativo in tal caso viene in
rilievo il c.d. rifiuto preliminare; ovvero ancora può accadere che l’amministrazione
emetta il provvedimento negativo a seguito del completo svolgimento della funzione
amministrativa,- c.d. rifiuto in merito -, in esito a compiute valutazioni sulla
compatibilità o meno dell’assetto di interessi richiesto con la domanda di
provvedimento favorevole rispetto all’interesse pubblico demandato alla cura
dell’amministrazione procedente.
Secondo il ricordato indirizzo dottrinario nelle prime due ipotesi, ossia nel caso di
rifiuto pregiudiziale e preliminare i ricorrente verrebbe a trovarsi i n una posizione
simile a quella di colui che agisce avverso il silenzio dell’amministrazione, giacché in
questi casi in assenza di valutazioni compiute sulla fondatezza dell’istanza, l’atto di
diniego non presenterebbe profili di illegittimità concretamente rilevabili in sede
giurisdizionale, nella terza ipotesi invece si ritiene che il ricorrente si trovi in condizione
di poter dedurre in giudizio una vera e propria impugnazione della decisone
amministrativa negativa resa nel merito dell’istanza285.
In realtà anche nel caso in cui l’atto di rifiuto intervenga a seguito delude
completo svolgimento della funzione amministrativa, valgono a parere di chi scrive,
osservazioni analoghe a quelle relative al silenzio inadempimento: non possono essere
dedotti come vizi dell’atto quelle componenti o fasi dell’esercizio del potere che nel
della figura: fino a che questo valore non sia stato determinato con la dovuta precisione, non può
correttamente porsi alcun problema … di annullamento.”
284
In questo senso F. Ledda, op. ult. cit.. p. 150.
285
D. Vaiano, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, op. cit., 56.
162
caso di specie non si sono svolte. Il che non consente di determinare, in positivo, quale
avrebbe dovuto essere il corretto esercizio del potere in dette ulteriori fasi della funzione
amministrativa, e, dunque, precisare i termini dell’intero rapporto amministrativo286.
Anche in tal caso il singolo giudizio, pur avendo un oggetto più ampio rispetto al
giudizio sul mero rifiuto pregiudiziale o preliminare, non sarà idoneo a ricomprendere
l’intero rapporto sostanziale, sicché sarà necessaria la proposizione di una pluralità di
ricorsi, nel caso del reiterarsi dei provvedimenti negativi in fasi successive dello stesso
procedimento, al fine di accertare se la pretesa sostanziale avanzata dal ricorrente fosse
fondata o meno.
Il vero problema che accomuna la tutela avverso il silenzio a quella avverso l’atto
negativo espresso è allora quello di statuire in ordine al dovere incombente
sull’amministrazione di provvedere in conformità alla pretesa dell’interessato.
Le conseguenze cui si è ritenuto di pervenire in ordine all’assimilazione tra atti
negativi espressi e silenzio della p.a. non sono prive di effetti sotto il profilo della tutela
giuridica da assicurare al ricorrente.
Com’è noto la riforma operata con legge 15/05 ha arricchito la tutela avverso il
silenzio dell’amministrazione prevedendo all’art. 2 L. 24/90 che il giudice
amministrativo adito in sede di ricorso avverso il silenzio “può conoscere della
fondatezza dell’istanza”, indicando, si vedrà in che termini e con quali modalità,
all’amministrazione l’atto da assumere ed il suo contenuto, senza dover passare
necessariamente per la nomina di un commissario.
E’ evidente il miglioramento della posizione per il privato, che in passato doveva
passare per i tempi lunghi del processo ordinario per arrivare ad una sentenza che il più
delle volte si limitava a dichiarare l’obbligo di provvedere dell’autorità amministrativa.
Tuttavia a fronte della sicura portata positiva della riforma essa non manca di
destare perplessità sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra chi
ricorre avverso il silenzio inadempimento e chi invece avverso gli atti negativi espressi.
A fronte infatti di una analoga situazione sostanziale l’ordinamento appresta
rimedi giuridici così diversi: contro il silenzio il ricorrente può giovarsi di una tutela
rapida ed efficiente, laddove contro il provvedimento espresso il ricorrente è costretto a
subire le lungaggini e i limiti del giudizio ordinario.
L’alternativa sul punto è stringente: o deve ritenersi che il legislatore con le
recenti riforme del processo amministrativo attuate con le leggi 205 del 2000 e 15 del
286
G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. cit., 33.
163
2005, abbia inteso
generalizzare la tutela di adempimento nell’ordinamento
amministrativo, così ammettendo la possibilità per il g.a. di pronunciarsi sulla
fondatezza della pretesa tutte le volte in cui si agisca a tutela di un interesse pretensivo
(ancorché formalmente l’impugnativa sia rivolta ad un atto di contenuto negativo),
ovvero deve ritenersi che gli strumenti di tutela apprestati dal legislatore avverso il
silenzio della p.a. siano passibili di giudizio di incostituzionalità per violazione del
principio di uguaglianza.
Anticipando le conclusioni cui si perverrà allorché si tratterà più diffusamente
della tutela degli interessi pretensivi, può sin d’ora affermarsi che tale ultima
conclusione appare ineluttabile dal momento che la giurisprudenza amministrativa,
malgrado le citate riforme del processo amministrativo, persevera nell’escludere la che
il sindacato giurisdizionale possa estendersi sino alla verifica della fondatezza della
pretesa sostanziale vantata dal ricorrente, fuori dai casi in cui tale possibilità sia
espressamente consentita dal legislatore (ossia nelle ipotesi anzidette della tutela
risarcitoria, nonché della tutela avverso l’inerzia della p.a.).
164
3.3 La caducazione degli atti consequenziali.
Un ulteriore aspetto connesso alla tutela di annullamento riguarda l’esatta
individuazione degli effetti della pronuncia di annullamento dell’atto presupposto sugli atti
conseguenziali e connessi.
Quale esempio di tale situazione si può pensare all’annullamento del piano
regolatore generale che inficia i successivi titoli abilitativi all’attività edilizia rilasciati sulla
sua base, ovvero al rapporto intercorrente tra annullamento del bando di gara o di concorso
e gli atti della procedura.
Ciò che occorre chiarire , in dette ipotesi, è se la caducazione (in via giurisdizionale
o in via di autotutela) dell’atto presupposto travolga automaticamente gli atti successivi,
ovvero se per pervenire a tale risultato occorra la proposizione di un autonomo ricorso
giurisdizionale.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale occorre distinguere a tal
fine fra invalidità caducante e invalidità invalidante (o viziante).
Nel primo caso, che ricorre tutte le volte in cui l’atto annullato costituisca il presupposto
unico e necessario del provvedimento conseguenziale, l’annullamento dell’atto
presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto consequenziale, senza bisogno
che quest’ultimo sia autonomamente impugnato; nel secondo caso, che ricorre quando tra
l’atto annullato e quello conseguente non vi sia un rapporto univoco, nel senso che l’atto
annullato può essere il presupposto di diversi provvedimenti, il provvedimento successivo
deve essere impuganto o annulalto autonomamente.
La questione è più complessa quando il collegamento intercorra non tra
provvedimenti amministrativi, ma tra provvedimenti da una parte e atti di natura negoziale
dall’altra.L’ipotesi emblematica è costituita dal rapporto intercorrente tra gli atti di gara e
la stipula del successivo contratto di appalto.
Non si intende in questa sede ripercorrere le soluzioni prospettate dalla dottrina e
dalla giurisprudenza in ordine ai rapporti intercorrenti tra vizi dell’aggiudicazione e sorte
del contratto di appalto, soluzioni che com’è noto spaziano dalla declaratoria di nullità
assoluta (Cons. stato, V, 1218/2003; 6182/2001 e Cass. 193/2002) alla mera annullabilità
invocabile soltanto dall’amministrazione committente ex art. 1441 e 1442 c.c. (Cass.
165
11247/2002; 2842/1996; Cons. Stato, VI, n. 570/2002), e comprendono le tesi intermedie
che pervengono alla caducazione automatica (per il venir meno del squisito della
legittimazione a contrarre o di uno i presupposti di efficacia del contratto: Cons. stato V,
n.41/2007; IV, n. 6666/2003; VI, 2992/2003; Cass. 12629/2006) ovvero alla inefficacia
sopravvenuta del contratto (Cons. Stato V, 4295/2006; V, 6759/2005; 3463/2004;
6450/2004).
Appare utile tuttavia ricordare che secondo l’indirizzo prevalente l’annullamento in
sede giurisdizionale dell’aggiudicazione comporta la caducazione automatica, o secondo
altra accezione, l’inefficacia del contratto a valle e che compete al g.a., nell’ambito della
giurisdizione esclusiva sugli atti di gara, dichiarare l’avvenuta caducazione del contratto.
287
La tesi si fonda sull’assunto secondo il quale il corretto esperimento della fase di
evidenza pubblica che precede la conclusione del contratto di appalto costituisca rispetto a
quest’ultimo un presupposto o una “condizione legale” di efficacia del contratto. Con la
conseguenza che l’annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione per vizi del
procedimento, non può non comportare con effetto retroattivo la perdita di efficacia del
contratto288.
Le conclusioni non mutano, ai nostri fini, ove si ritenga di aderire alla tesi
dell’invalidità caducante, secondo la quale ’annullamento degli atti di gara comporterebbe,
in forza del rapporto dio consequenzialità necessaria esistente tra procedura di
aggiudicazione e stipula del contratto, la caducazione automatica del contratto di
appalto289.
Tale condivisibile orientamento giurisprudenziale è stato recentemente contraddetto
da un indirizzo del giudice civile che è pervenuto a diverse conclusioni nella ricostruzione
del rapporto tra annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto.290
In particolare la Corte di Cassazione è giunta ad escludere che la decisione sulla
sorte del contratto di appalto in esito alla pronuncia di annullamento degli atti di gara
esulasse dai confini della giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di appalti pubblici, così
287
In questo senso v. tra le altre, Cons. stato, sez. V, 10 gennaio 2007, n.41; Cons. stato, sez. VI, 4 giugno
2007, n.2950.
288
In questo senso in particolare, Cons. Stato, sez. VI, n. 7470/2003.
289
Cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 maggio 1998, n. 677; cons. Stato, sez. V, 30 marzo 1993, n. 435; Cons. Stato,
sez.VI, 14 gennaio 2000, n. 244; Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218; Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo
2003, n. 1518.
290
Cass., s.u. civ., 28 dicembre 2007, n. 27169; Cass., s.u. civ., 223 aprile 2008, n. 10443.
166
come tracciati dall’art. 6, comma 1, l. 205/00 (oggi sostituito dall’art. 244, comma 1, del D.
Lgs. 163/06).
E, ciò, non soltanto nelle fattispecie di radicale mancanza del procedimento di
evidenza pubblica (o di vizi che ne affliggono singoli atti), ma anche in quella della sua
successiva mancanza
legale provocata dall'annullamento
del provvedimento
di
aggiudicazione.
La tesi si fonda sull’assunto secondo il quale nella materia il criterio di riparto delle
giurisdizioni non è fondato sul grado ed i profili di connessione tra dette disfunzioni ed il
sistema delle invalidità-inefficacia del contratto; e neppure sulla tipologia delle sanzioni
civilistiche che dottrina e giurisprudenza di volta in volta gli riservano, “ma unicamente
sulla separazione imposta dall'art. 103 Cost., comma 1, tra il piano del diritto pubblico (e
del procedimento amministrativo) ed il piano negoziale, interamente retto dal diritto
privato”.
Ne consegue, secondo il ragionamento della Corte, che tanto la dichiarazione di
nullità quanto quella di inefficacia o l'annullamento del contratto di appalto, a seguito
dell'annullamento della delibera di scelta dell'altro contraente, adottata all'esito di una
procedura
ad
evidenza
pubblica,
spettano
alla
giurisdizione
del
g.o.
In entrambe le ipotesi, infatti, la controversia, non ha ad oggetto i provvedimenti
riguardanti la scelta del contraente, ma il successivo rapporto di esecuzione che si concreta
nella stipulazione del contratto di appalto, del quale i soggetti interessati chiedono di
accertare un aspetto patologico, al fine di impedirne l'adempimento.
L’orientamento del Giudice civile è stato da ultimo condiviso dal Consiglio di stato
nella pronuncia dell’Ad. Plen. 30 luglio 2008, n. 9.
Tale ultima decisone in vero contiene due affermazioni di principio.
Con la prima, il Consiglio di stato ricalcando il citato indirizzo della Corte di
Cassazione, afferma che appartiene alla giurisdizione del g.o. e non a quella esclusiva del
g.a., la decisione in ordine alla domanda volta ad accertare con efficacia di giudicato
l’avvenuta
caducazione
del
contratto di appalto,
a
seguito
dell’annullamento
dell’aggiudicazione della gara: con la seconda affermazione ammette che il g.a. possa
estendere il proprio sindacato sulla sorte del contratto di appalto, nel giudizio di
ottemperanza,
eventualmente
instaurato
avverso
l’inerzia
dell’amministrazione
nell’esecuzione della decisione di annullamento degli atti di gara.
167
L’indirizzo da ultimo riferito non si sottrae peraltro ad alcune riflessioni critiche.
Innanzitutto la tesi, in precedenza fatta propria dalla Corte di Cassazione, secondo
la quale la pronuncia sulla efficacia del contratto esulerebbe dalla giurisdizione esclusiva
del g.a. sembra non tener conto della reale consistenza degli interessi in gioco.
Chi ricorre avverso gli atti di una gara non agisce infatti mosso dall’intento del
mero ripristino della legalità violata, ma, in conformità alla natura soggettiva della
giurisdizione amministrativa, mira al risultato per lui favorevole di veder cambiato l’esito
della gara in proprio favore.
Da questo punto di vista può ritenersi che la pronuncia sulla validità della
procedura di gara e, quella successiva sulla validità ed efficacia degli atti consequenziali,
costituiscano momenti diversi di un identico episodio processuale.
Secondariamente non convince l’assunto secondo il quale il g.a. pur non potendo
conoscere e decidere in orine alla sorte del contratto di appalto nella fase di cognizione,
possa farlo in sede di esecuzione della decisione.
Non si vede infatti per quale ragione l’oggetto del giudizio di esecuzione debba
essere più ampio di quello della cognizione.
Alla base del ragionamento svolto dal Consiglio di Stato vi è la considerazione
della maggiore ampiezza dei poteri cognitori e decisori del giudice dell’ottemperanza
rispetto a quello della cognizione, differenza questa che giustificherebbe la maggiore
estensione del giudizio.
Tale affermazione sembra invero sovrapporre i due piani dei c.d. limiti esterni e
interni della giurisdizione amministrativa.
Com’è noto infatti mentre i casi di giurisdizione esclusiva costituiscono una deroga
al limite interno, in quanto in ordine ad essi è prevista la cognizione da parte del g.a di
controversie la cui tutela spetterebbe di regola al g.o., invece i casi di c.d. giurisdizione di
merito
costituiscono una deroga al limite esterno della giurisdizione, in quanto per
determinate controversie, implicano il sindacato del giudice amministrativo relativamente a
profili, appunto attinenti al merito, che in ordinaria gli sono sottratti.
Ne consegue che una volta affermato che l’ostacolo all’ammissione del sindacato
del g.a. sul rapporto contrattuale è dato dal limite interno della giurisdizione (atteso che
verrebbero in rilievo situazioni soggettive di diritto e non di interesse), non si comprende
perché tale ostacolo debba venir meno nel giudizio di ottemperanza, atteso che come si è
168
detto peculiarità di tale giudizio non è quella di derogare ai limiti interni della
giurisdizione, ma quelli esterni.
169
4. Le sentenze di condanna.
A questo punto della trattazione appare già chiaro il carattere distintivo
dell’azione di condanna rispetto alle altre azioni di cognizione.
L’azione di condanna è stata concepita nel sistema processuale civile in funzione
strumentale all’esecuzione forzata, pertanto essa assomma all’accertamento del diritto
controverso un qualcosa in più che fa sì che la condanna costituisca titolo esecutivo.
La richiesta di questo quid pluris è dunque ciò che vale a distinguere l’azione di
condanna, dall’azione di accertamento mero: più precisamente se l’esigenza di tutela
emerge, nella domanda come conseguente all’affermazione di un diritto semplicemente
contestato (o vantato) e perciò abbisognevole solo di certezza obiettiva, l’azione sarà di
mero accertamento, se invece la domanda contiene l’affermazione di un diritto violato e
di un conseguente bisogno di restaurazione sul piano materiale l’azione sarà di
condanna.
Tanto nell’ordinamento processuale amministrativo, come in quello civile non vi
è un richiamo espresso a tale tipologia di sentenza291.
Anzi, si può affermare che il codice di rito dà per presupposta la nozione di
condanna, limitandosi a regolarne ipoetesi particolari (ad es. l’art. 278 c.p.c. in tema di
condanna generica), o a disciplinarne taluni effetti (art. 431 c.p.c. in tema di esecutorietà
provvisoria della sentenza di condanna relativa ai crediti del lavoratore)292.
Pur in presenza di un panorama normativo così frammentario la dottrina
processualcivilista non ha mai dubitato della piena operatività nel giudizio civile
dell’azione di condanna in relazione al principio di atipicità delle azioni.
Viceversa il riconoscimento di un potere giudiziario di condanna è stato
tradizionalmente osteggiato dalla giurisprudenza tanto con riguardo alla giurisdizione
amministrativa, che con riguardo a quella ordinaria.
In riferimento alla giurisdizione ordinaria, il divieto per il giudice di emettere
sentenze di condanna nei confronti della p.a. è stato motivato sulla scorta del rispetto
formale dell’art. 4 L.A.C.
Tale ultima disposizione invero, lungi dal prevedere un espresso divieto di
emettere condanne nei confronti della p.a. si limita a vietare al giudice ordinario di
291
Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in dir. proc.
amm., n. 3/2005, p. 589.
292
Cfr. V. Denti, Azione – I) diritto processuale civile, in Enc. Giur. Treccani, vol. IV, 1988, 8.
170
modificare o annullare l’atto amministrativo, sempreché, si intende, si controverta in
tema di “diritti civili o politici”.
Malgrado la sentenza di condanna non produca l’effetto di annullare o di
modificare l’atto amministrativo, ma di imporre, semmai, che tale attività venga svolta
dall’amministrazione convenuta, la giurisprudenza sin dai primi decenni di applicazione
della legge abolitiva, si è orientata nel senso di ammettere le condanne pecuniarie
escludendo tutte le altre (a un facere, a un non facere, a un dare che abbia un oggetto
diverso da una somma di danaro).
La situazione non è dissimile in relazione alla giurisdizione amministrativa.
L’azione di condanna nel processo amministrativo è espressamente ammessa, come si è
si già detto, soltanto in relazione ai casi di giurisdizione esclusiva e unicamente per il
pagamento di somme di cui l’amministrazione risulti debitrice.
Fuori da queste ipotesi il legislatore evita di fare riferimento espresso a tale
potere. Così ad esempio l’art. 7 L. 205/00, che ha modificato l’art. 7 L. Tar attribuisce al
giudice amministrativo, “nell’ambito della sua giurisdizione”, l’importante potere di
“conoscere anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno,
anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali”. L’art. 35, D. Lgs. 80/98 introduce un meccanismo peculiare ed
eventuale per la quantificazione del danno, prevedendo una sorta di condanna generica
ai danni dell’amministrazione a cui segue una fase di ottemperanza C.d. “anomala”, in
ragione della peculiarità del contenuto della sentenza da portare ad esecuzione.
In tutti questi casi il legislatore, omette, come si diceva, di esplicitare che si
tratta di un’azione di condanna nei confronti della pubblica amministrazione.
L’atteggiamento è il riflesso della tradizionale prudenza che da sempre ha
accompagnato l’uso di poteri coercitivi nei confronti della p.a. in ossequio ad una
visione particolarmente rigorosa del principio della separazione dei poteri. Principio che
fa divieto al giudice di sovrapporre il proprio sindacato alle valutazioni riservate alla
discrezionalità dell’amministrazione.
Come si diceva l’originaria concezione dei rapporti intercorrenti tra funzione
amministrativa e funzione giurisdizionale è stata intaccata, quale che sia la tesi cui si
intenda aderire in ordine alla natura dei provvedimenti giudiziali, dalle predette riforme.
Può concordarsi pertanto con chi ha affermato che la vera novità portata dalla
sentenza 500799 in tema di risarcibilità dell’interesse legittimo non è tanto nell’avere
affermato la risarcibilità del danno anche nelle ipotesi di violazione di meri interessi, ma
171
nell’aver affermato la configurabilità, per la prima volta di un interesse - diritto al
provvedimento293.
La svolta giurisprudenziale sulla risarcibilità dell’interesse legittimo e le
conseguenti novelle apportate dal legislatore alle legge Tar, impone per certi versi di
sottoporre a revisione critica la stessa contrapposizione concettuale tra diritto e
interesse, contrapposizione fondata tradizionalmente sulla diversità di tutela che
l’ordinamento amministrativo appresta alle due situazioni giuridiche soggettive.
Nelle pagine che seguono si tenterà, la di là delle questioni definitorie, di chiarire
fino che punto possano spingersi i poteri ordinatori del giudice amministrativo nei
confronti della pubblica amministrazione.
Ci si soffermerà inoltre nella ricostruzione dell’annosa questione relativa ai
rapporti tra tutela risarcitoria (in forma specifica), e tutela reintegratoria ella p.a. al fine
di verificare quale sia il reale ambito di applicazione della tutela risarcitoria in forma
specifica degli interessi pretensivi.
293
G. Falcon, Il giudice amministrativo, tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit, p.
303, n.t. 31.
172
5. La condanna al risarcimento degli interessi pretensivi.
La tematica tocca un nervo scoperto del rapporto tra cittadino e pubblica
amministrazione, una volta infatti affermata in astratto la risarcibilità dell’interesse
legittimo pretensivo ad opera della nota sentenza della Corte di Cassazione n. 500/99, e
della successiva copertura normativa, restava e per certi versi resta tutt’oggi ancora
irrisolto il problema della definizione dei limiti di tale tutela risarcitoria, e se vogliamo
più a minte la più precisa definizione dei contenuti della posizione giuridica fata valere.
Occorre stabilire infatti quando sarà possibile ammetter dell’accesso alla forma di
tutela
risarcitori,
ossia
quando
dall’accertamento
dell’illegittimità
compiuta
dal’amministrazione sia possibile desumere (anche) una lesione rilevante ai sensi
dell’art. 2043 c.c.
Il punto di partenza della riflessione da svolgere sul punto, evidentemente, non più
che essere costituito dal contenuto della citata decisione del ’99, con la quale le sezioni
unite della Cassazione non si sono limitate all’affermazione della giuridica rilevanza
delle situazione soggettive qualificabili in termini di interesse legittimo pretensivo,
anche ai fini dell’eventuale concessione del rimedio risarcitorio, ma hanno sviluppato il
loro ragionamento ricostruttivo osservando come per ammettere tale rimedio, occorrerà
che “risulti altresì leso,
per
effetto dell’attività illegittima della pubblica
amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla”,
valutazione che – proseguono i giudici della Suprema Corte – “implica un giudizio
prognostico, da condurre con riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o
meno dell’istanza, onde stabilire se i pretendente fosse titolare non già di una mera
aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare
un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che,
secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un
esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”294.
Dall’esame del testo della sentenza si evince innanzitutto che il punto nodale della
tematica del risarcimento degli interessi pretensivi
è l’accertamento del nesso di
causalità tra il danno e il comportamento illegittimo adottato dall’amministrazione: per
appurare se l’atto illegittimo (o il comportamento in caso di inerzia) è stato causa della
294
Corte di Cassazione, sentenza n. 500/99 citata, punto 9.
173
mancata attribuzione del bene della vita, bisogna
formulare, infatti, un giudizio
prognostico e domandarsi cosa sarebbe accaduto se l’amministrazione avesse agito iure.
Secondo una parte della dottrina295 a tale interrogativo avrebbe potuto rispondersi
solo in presenza di un’attività ab origine, o divenuta tale per effetto del giudicato
amministrativo, si pensi in quest’ultimo caso all’annullamento dell’aggiudicazione in
favore de primo classificato che comporta il titolo per l’aggiudicazione in favore del
secondo.
Solo in questi casi, per l’assenza o per l’esaurimento dei margini di discrezionalità
amministrativa, sembra possibile affermare giuridicamente – com’è invalso l’uso di dire
in dottrina296 – la “spettanza” del bene della vita oggetto dell’istanza e,
conseguentemente, “raggiungere la certezza del pregiudizio patito”297.
Sulla scorta di tali considerazioni la citata dottrina giunge ad elaborare
un’ulteriore sottodistinzione nell’ambito degli interessi legittimi pretensivi tra interessi
pretensivi a tutela solo strumentale, per i quali alla base della fattispecie concreta o alla
illegittimità dedotta non è possibile provare, né avere certezza che possa essere fondata
la pretesa all’acquisizione del bene della vita ed interessi pretensivi a tutela finale, per i
quali la fattispecie concreta consente l’accertamento della fondatezza della pretesa,
contenuta nella domanda.
In questo secondo caso, ma non nel primo, si potrà vere risarcimento dei danni
commisurato alla mancata acquisirne di quanto richiesto.
A ben vedere l’idea che il risarcimento degli interessi pretensivi debba essere
accordato solo in presenza di un’attività amministrativa vincolata, o tutt’al più
connotata da discrezionalità tecnica, sembra ancora prevalente nella giurisprudenza
amministrativa.
Emblematica sul punto è la vicenda relativa alla risarcibilità del danno da ritardo,
ossia del danno arrecato dalla pubblica amministrazione per violazione del termine di
conclusione del procedimento.
295
F. Trimarchi Banfi, Tutela specifica e tutela risarcitoria degli interessi legittimi, Torino, 2000, p. 62 ss; F.
Fracchia, Risarcimento danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare i soli interessi a “risultato
garantito”?, nota a Tar Puglia, sez. I, 4 aprile 2000, n. 1401; F. D. Busnelli, Lesione di interessi legittimi: dal
“ alla “rete di contenimento”, in Danno e responsabilità, 1997, p. 269; G. Falcon, Il giudice amministrativo
tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, op. cit., 287.
296
G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, op. cit.,
287 ss.
297
G. Greco, Interesse legittimo e risarcimento dei danni: crollo di un pregiudizio sotto la pressione della
normativa europea e dei contributi della dottrina, in Riv. it, dir. pubbl. com., 1999, p. 1127-1128.
174
Un primo orientamento giurisprudenziale, nel delineare una responsabilità
dell’amministrazione da contatto qualificato298, ha posto in rilievo come, nel nuovo
modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241, possano assumere
rilevanza autonoma, rispetto all’interesse legittimo al bene della vita, posizioni
soggettive di natura strumentale che mirano a disciplinare il procedimento
amministrativo secondo criteri di correttezza, idonei a ingenerare, con l’affidamento del
privato, «un’aspettativa qualificata» al rispetto di queste regole (che non sono riguardate
- come vorrebbe una dottrina - alla stregua di «norme neutre», inidonee a radicare
posizioni soggettive), con la conseguenza che «la selezione degli interessi
giuridicamente rilevanti non può essere effettuata con riguardo al solo bene finale
idealmente conseguibile»299; sicché il privato ha titolo a una risposta certa e tempestiva
a prescindere dal contenuto della stessa.
In tale prospettiva, sarebbe enucleabile dal novero degli interessi pretensivi, e
piuttosto accanto a essi, un ambito di interessi procedimentali, la cui violazione
integrerebbe un titolo di responsabilità idoneo a fondare un danno risarcibile diverso e
autonomo rispetto alla lesione del bene della vita.
A tale categoria di interessi procedimentali sarebbe ascrivibile il danno da ritardo,
sicché il privato avrebbe titolo ad agire per il risarcimento del danno subìto in
conseguenza della mancata emanazione del provvedimento richiesto nei tempi previsti;
e indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto di tale
provvedimento.
Secondo un altro orientamento – che, come si diceva, è allo stato, prevalente nella
giurisprudenza amministrativa - il danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia
titolo al rilascio del provvedimento finale, se cioè gli spetti il « bene della vita»300.
Nell’ambito di tale indirizzo giurisprudenziale vi è poi chi ritiene che il titolo
andrebbe accertato azionando il procedimento del silenzio e sindacando il successivo
diniego espresso, e chi, invece, è dell’avviso che il giudice, adito in sede risarcitoria,
dovrebbe effettuare un giudizio prognostico sulla spettanza del titolo, ai soli fini del
risarcimento.
Come di recente è stato precisato301, non di rado, la pretesa risarcitoria, in specie
quando azionata da soggetti che entrano in contatto con l’Amministrazione in quanto
298
Cass. 10 gennaio 2003 n. 157; Cons. Stato VI, 20 gennaio 2003 n. 204 e 15 aprile 2003 n. 1945
Cass. n. 157 del 2003, citata.
300
Cons. Stato, Ad. Pl. 15 settembre 2005, n. 7
301
Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945.
299
175
portatori di interessi economici di rilievo, non ha ad oggetto il mero pregiudizio
derivante dalla violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione,
a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma, al contrario, proprio il
pregiudizio connesso alla preclusione frapposta dall’Amministrazione alla realizzazione
del bene finale.
In queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, né tanto meno
accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile, sulla
certa o statisticamente probabile spettanza del bene dell’utilità finale.
Questo giudizio prognostico si presenta particolarmente delicato, specie quando vi
sia necessità di distinguere a seconda della tipologia dell’attività amministrativa dal cui
concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita: il giudizio prognostico,
difatti, pone problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il
soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata, tecnico-discrezionale o
discrezionale pura.
Secondo
quanto
rilevato302,
il
rischio
che
il
giudice
si
sostituisca
all’amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria,
diventa tanto più consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione rimessi
alla seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita.
Evenienza questa che viene individuata in quelle ipotesi in cui l’attività
dell’amministrazione sia connotata da margini di discrezionalità amministrativa pura,
anziché solo tecnica: in questa ipotesi si prospetta il rischio di un’ingerenza del giudice
- chiamato a formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con
la determinazione illegittima ed annullata - nella sfera davvero esclusiva
dell’amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le valutazioni di pura
opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva dell’ottimale
perseguimento dell’interesse pubblico.
In questi casi, connotati dalla persistenza in capo all’amministrazione di
significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, la giurisprudenza prevalente
tende pertanto tutt’oggi ad escludere che il giudice possa indagare sulla spettanza del
bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che
l’Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all’istante il bene
302
Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945, cit.
176
stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio
determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene 303.
L’orientamento accolto dalla giurisprudenza prevalente in punto di risarcibilità
degli interessi pretensivi appare però a ben vedere poco conciliabile da una parte con i
canoni costituzionali in materia di giustizia, dall’altra con le disposizioni in punto di
diritto enunciate dalla Corte di Cassazione nella più volte citata sentenza 500/99.
La Suprema Corte nel subordinare la risarcibilità dell’interesse legittimo
pretensivo al giudizio prognostico in ordine alla spettanza del bene della vita, più che
negare la risarcibilità degli interessi in presenza di attività discrezionale, sembra invece
affermarla.
Non si comprenderebbe infatti l’utilità di un giudizio prognostico in relazione ad
un’attività “vincolata” per esserlo ab origine o per essere divenuta tale a seguito del
giudicato.
Sotto altro profilo lascia perplessi l’atteggiamento della giurisprudenza che in
presenza di una mera difficoltà probatoria, quale è quella di fornire la prova della
spettanza del bene in presenza di attività discrezionale, rinunci a priori ad ammettere in
tale ipotesi la risarcibilità dell’interesse pretensivo.
D’altra parte è ben noto anche alla giurisprudenza amministrativa l’istituto,
sperimentato dalla dottrina e dalla giurisprudenza civilistiche nel campo della
responsabilità medica, della chance.
Secondo l’impostazione ormai assolutamente prevalente, la chance costituisce una
posta attuale del patrimonio, ossia un bene della vita autonomo e tutelabile in sé: altro è
il risultato avuto di mira (per esempio vincere una gara), altro è la possibilità di
conseguirlo. La chance intesa come possibilità di un risultato, è pertanto un bene della
vita autonomamente apprezzabile, purchè, ovviamente, si tratti di un possibilità seria304.
Sulla scorta di tali considerazioni la giurisprudenza civile ha ammesso la
risarcibilità anche in presenza di un percentuale lontana, purchè non simbolica, dalla
certezza.
Il carattere discrezionale dell’attività amministrativa non inciderà pertanto sull’an
della risarcibilità, bensì sul quantum: le chance saranno infatti tanto minori quanto
maggiore è la discrezionalità di cui gode l’amministrazione.
303
In questo senso da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2008 n. 248.
304
Cass. s.u., 4 marzo 2004, n. 4400.
177
4.2 Risarcimento in forma specifica versus reintegra in forma specifica.
Com’è noto l’istituto della reintegrazione in forma specifica è stato introdotto
inizialmente nella giurisdizione esclusiva dall’art. 35, comma 1, D.lgs. 80/98, e poi
esteso alla giurisdizione di legittimità dll’art. 7 L. 1034/71 come novellato dalla legge n.
205 del 2000. La dizione è identica nei due articoli, i quali conferiscono al giudice
amministrativo il compito di disporre i risarcimento del danno “anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica”. Una dizione lapidaria che nella prima fase di
attuazione ha addensato sull’istituto profonde incertezze.
I principali nodi interpretativi emersi dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale
paiono concentrarsi attorno a due questioni generali: un primo profilo attiene all’esatta
collocazione sistematica della reintegrazione in forma specifica nell’ambito dei diversi
strumenti di tutela delle posizioni soggettive di interesse legittimo, essendo tutt’oggi
controverso se esso costituisca una misura risarcitoria alternativa al risarcimento per
equivalente, oppure debba essere posto al di fuori del contesto risarcitorio; un secondo
aspetto controverso concerne i possibili contenuti da assegnare alla pronuncia del
giudice amministrativo con la quale viene disposta la reintegra in forma specifica:
semplice rimozione del danno prodotto dall’illecito, oppure possibilità di condannare
l’amministrazione ad un facere e, in ipotesi, ad adottare un provvedimento con un
contenuto determinato?
Una prima lettura attribuisce alla reintegrazione in forma specifica natura di
rimedio complementare alla tutela di annullamento finalizzato a soddisfare l’interesse
inerente al rapporto originario.
Svincolato dalla logica risarcitoria, il rimedio in parola perde il carattere di
sanzione per un illecito imputabile all’amministrazione, prescinde dalla prova del danno
e dalla dimostrazione della colpevolezza del soggetto responsabile e si presenta come
uno strumento per condannare l’amministrazione al compimento di determinate
attività305.
305
Così F. Trimarchi Banfi, Tutela specifica e tutela risarcitoria degli interessi legittimi, Torino, 2000, p. 42;
nello stesso senso G. D. Comporti, Torto e contratto nella responsabilità civile delle pubbliche
amministrazioni, Torino, 2’’3, il quale evidenzia che il richiamo operato dall’art. 35 del D. Lgs. N. 80 del
1998 alla reintegrazione in forma specifica deve essere inteso come evocativo di una “ … misura che si pone
al di fuori dell’alternativa risarcitoria e che consente, a prescindere dalla esistenza di un pregiudizio, di
realizzare in modo specifico la pretesa relativa al rapporto originario rimasta insoddisfatta per effetto
dell’illegittimo uso del potere amministrativo”. Per G. Rossi, Diritto amministrativo, Milano, 2005, vol. I, p.
454, la reintegrazione in forma specifica si atteggia in modo diverso a seconda che sia invocata a tutela delle
178
Tale orientamento attribuisce alla reintegrazione in forma specifica la funzione di
integrare il tradizionale sistema di tutela costitutiva delle posizioni di interesse
legittimo306, affiancando ad esso una pronuncia mediante la quale è possibile imporre
all’amministrazione il compimento di una determinata attività e l’emanazione degli atti
amministrativi necessari a garantire al ricorrente il conseguimento dell’utilità finale cui
aspira e l’integrale soddisfacimento della pretesa azionata.
Ciò avviene attraverso la puntualizzazione, già nella sentenza di condanna, degli
obblighi di ripristino cui l’amministrazione è tenuta a seguito dell’annullamento
dell’atto (si pensi all’obbligo di restituite l’immobile a seguito della pronuncia di
annullamento del decreto di esproprio).
La distinzione tra la tutela di annullamento e il rimedio della reintegrazione in
forma specifica sfuma progressivamente, invece, fino
quasi a scomparire in quel
particolare orientamento che considera l’annullamento del provvedimento impugnato e
la conseguente rinnovazione dello stesso già di per sé come una reintegrazione in forma
specifica dell’interesse leso, la quale esclude o riduce altri tipi di tutela, ivi compresa la
tutela risarcitoria per equivalente monetario 307.
Con la conseguenza che, secondo il riferito indirizzo, il mancato esercizio dei
mezzi di tutela (e in partilare dell’azione di annullamento) che avrebbero consentito di
conseguire direttamente il bene della vita sacrificato dall’atto illegittimo, precluderebbe
al danneggiato la stessa possibilità di coltivare con profitto l’azione risarcitoria per
equivalente308.
Un secondo più consistente orientamento inquadra la reintegrazione in forma
specifica all’interno del paradigma risarcitorio309: in quest’ottica il rimedio in questione
costituirebbe uno strumento di tutela alternativo al risarcimento per equivalente, ossia
una delle modalità attraverso le quali il danno può essere risarcito.
All’interno di tale indirizzo si sono contrapposte due differenti posizioni, la prima
volta a ricostruire la tutela risarcitoria con le stesse caratteristiche prevista dal codice
posizioni di interesse legittimo oppositivo o pretensivo: solo nel primo caso il rimedio può essere ricondotto
al risarcimento del danno in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c.; nel secondo caso esso assume invece le
connotazioni tipiche dell’azione di adempimento, mediante l quale è possibile impartire un ordine alla
pubblica amministrazione di adottare il provvedimento ampliativo che è stato in precedenza negato.
306
A. ZIto, Risarcimento del danno e reintegrazione in forma specifica, p. 271.
307
Cons. Stato, sez. V, 12 ottobre 2004, n. 6579, in Foro amm., Cons. St., 2004, p. 2872 ss.; Cons. Stato, sez.
VI, 18 dicembre 2001, n. 553, in Urb e app., 2002, p. 706 ss.; Tar Marche, 27 luglio 2002, n. 910, in Foro
amm. Tar, 2002, p. 2464 ss.; Tar Puglia, Lecce, sez. II, 14 dicembre 2001, n. 189, in Urb. E app., 2001, n.
1351.
308
Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 14 gennaio 2003, n. 96, in Foro amm. Tar, 2003, p. 163; Tar Emili
Romagn, Bologna, sez. II, 28 novembre 2002, n. 1798, in Foro amm. Tar, 2002, p. 3647.
309
Per tutti, V. Caianiello, manuale di diritto processuale amministrativo, op. cit., 293 e ss.
179
civile per la tutela reintegratoria dei diritti, la seconda volta invece ad adattare il rimedio
alle caratteristiche dell’ordinamento amministrativo.
Secondo quest’ultimo indirizzo, rimasto minoritario, il legislatore avrebbe inteso
introdurre nel nostro ordinamento un rimedio analogo all’azione di adempimento
prevista nell’ordinamento tedesco, che consente di agire in giudizio per ottenere la
condanna dell’amministrazione all’emanazione di un atto amministrativo.
Tale ricostruzione non appare conciliabile però con la nozione di reintegrazione in
forma specifica accolta dalla dottrina e della giurisprudenza civilistiche per le quali si
tratta sempre di “un rimedio risarcitorio, ossia una forma di riparazione dell’interesse
del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto
del rapporto obbligatorio o del dovere di rispetto altrui”310.
Il rimedio in questione non va confuso pertanto né con l’azione di adempimento,
né con il rimedio dell’esecuzione forzata in forma specifica quale strumento per
l’attuazione coercitiva del diritto. Ad es. si tratta di risarcimento del danno se il
creditore chiede l’abbattimento del muro che il debitore era obbligato a non elevare, si
tratta di esecuzione forzata se il creditore agisce in via esecutiva per fare costruire il
muro che il debitore è obbligato a costruire.
Con l’ulteriore conseguenza che la “nuova” prestazione implica una verifica in
termini di “onerosità” e di “possibilità” (cfr. art. 2058, comma 2, c.c.) che l’esecuzione
in forma specifica e l’azione di adempimento invece non richiedono.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente l’azione reintegratoria nei
confronti della p.a (tanto se ricostruita come azione risarcitoria quanto se ricondotta
all’azione di adempimento) troverebbe applicazione solo a tutela di interessi di tipo
oppositivo (es. ripristino del bene illegittimamente sottratto al privato e trasformato
dalla p.a; consegna di una cosa uguale a quella illegittimamente distrutta; riparazione
materiale dei danni cagionati ad es. a seguito dell’illegittima demolizione del bene)311.
Per i sostenitori di tale orientamento per gli interessi pretensivi potrebbe attuarsi una
tutela analoga a quella risarcitoria ove si valorizzi l’effetto conformativo del giudicato
amministrativo di annullamento, che consiste nel particolare vincolo evincibile dalla
lettura
congiunta
del dispositivo
e della
motivazione,
sulla
futura
attività
dell’amministrazione.
310
311
C. M. Bianca, Diritto civile, Milano, 1994, vol. 5, p. 186.
Per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2008, n. 2622.
180
In questo senso si è affermato che il risultato cui si perviene attraverso la valorizzazione
del principio conformativo del giudicato non è dissimile da quello a cui si perviene ove
si ammetta la possibilità di una pronuncia che imponga all’amministrazione il rilascio
del provvedimento richiesto: in altri termini una volta annullato l’atto di diniego e
riconosciuta la fondatezza della pretesa sostanziale , il ricorrente potrà agire in
ottemperanza per ottenere l’esecuzione coattiva dell’obbligo di adempiere.
Si perverrebbe addirittura ad un rafforzamento della posizione del ricorrente e ciò in
quanto ove si ammetta che l’obbligo di emanazione del provvedimento favorevole al
richiedente scaturisca dall’esecuzione del giudicato, anziché dall’attuazione del rimedio
risarcitorio, può ritenersi che detto obbligo sia sottoposto esclusivamente al rispetto del
limite della possibilità e non anche al rispetto del limite dell’eccessiva onerosità di cui
all’art. 2058, c.2, c.c. (a cui dovrebbe ritenersi sottopoto ove invece l’obbligo di
adozione del provvedimento favorevole si ritenesse discendente dall’attuazione della
tutela risarcitoria).
L’orientamento trova fondamento in due differenti argomentazioni: la prima è che
la pronuncia risarcitoria degli interessi pretensivi finirebbe per avere ad oggetto
l’adozione del provvedimento amministrativo illegittimamente negato, ossia la stessa
prestazione originariamente dovuta non una prestazione “diversa e succedanea” rispetto
a quella.
La seconda argomentazione muove dalla affermazione del tradizionale limite per
il g.a. di condannare l’amministrazione all’adozione di comportamenti specifici.
Per quanto attiene alla prima può ricordarsi che un problema analogo si è posto
anche nell’ordinamento civile allorché ci si è chiesti se il rimedio del risarcimento in
forma
specifica
espressamente
previsto
nell’ambito
della
responsabilità
extracontrattuale potesse trovare applicazione altresì in ambito contrattuale.
Anche in quella sede tra gli argomenti contrari a tale evenienza si è osservato che
l’azione contrattuale per il risarcimento in forma specifica finirebbe per coincidere con
l’azione di esatto adempimento o con l’esecuzione in forma specifica.
In altri termini in presenza di un inadempimento contrattuale la parte non
inadempiente avrebbe finito per chiedere comunque l’esecuzione dell’originaria
prestazione e non, come richiesto dal rimedio risarcitorio, l’esecuzione di una
prestazione diversa rispetto a quella originariamente dovuta.
In sede civilistica l’argomentazione è stata superata facendo rilevare come le due
prestazioni, quella richiesta in sede di adempimento e quella risarcitoria, sino solo
181
apparentemente coincidenti, esse hanno infatti identico contenuto, ma presupposti
diversi: il presupposto della domanda di adempimento consiste nel fatto che uno dei
contraenti non abbia e seguito la sua obbligazione (art. 1453 c.c.), e, cioè, in una parola,
l’inadempimento; laddove l’azione risarcitoria ha come presupposto l’inadempimento,
cioè un fatto illecito, non il contratto 312.
Ciò significa che diverso sarà anche il carico probatorio facente capo alla parte
tutte le volte in cui agisca per l’adempimento o per il risarcimento, in quest’ultimo caso
essendo gravata dell’onere di provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, ossia
innanzitutto a fornire la prova di aver subito un danno, il fatto illecito, l’elemento
psicologico, nonché la prova del nesso di causalità intercorrente tra l’illecito e il danno.
Analogamente in diritto amministrativo può ritenersi pertanto che l’obbligazione
risarcitoria abbia ad oggetto non l’originaria richiesta di un provvedimento favorevole,
ma una nuova fattispecie generata dalla violazione ad opera della pubblica
amministrazione delle regole che presiedono il corretto esercizio della funzione.
In linea generale pertanto non sembra che si frappongano ostacoli di ordine
teorico ad ammettere la risarcibilità in forma specifica dell’interesse legittimo
pretensivo, naturalmente sempreché si dia prova degli elementi costitutivi dell’illecito e
in particolare del nesso di causalità intercorrente tra l’illecito e il danno.
Ne consegue che la tutela risarcitoria in forma specifica degli interessi pretensivi
potrà ammettersi solo in presenza di attività amministrativa vincolata; solo in tal caso
infatti il ricorrente potrà provare che il danno da lui subito è diretta conseguenza del
comportamento illecito tenuto dalla p.a.313
312
Castronuovo, La nuova responsabilità civile, 505. La giurisprudenza civile è ormai orientata in senso
favorevole all’ammissione del rimedio risarcitorio in forma specifica a tutela di posizioni contrattuali, sul
punto, tra le altre, Cass. civ, 582/73; n. 3739/1984, nonché la giurisprudenza richiamata da Cobelli,
Risarcimento in fora specifica, in Alpa-Bessone (a cura di), La responsabilità civile, 358 e ss.
313
La possibilità per il g.a di ordinare alla p.a. l’adozione di un provvedimento amministrativo, ove non
vengano in rilievo profili di discrezionalità della stessa è stata affermata da F. Figorilli, Commento all’art.
35, in M. Dell’Olio, B. Sassani (a cura di), Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai d.lgs.
31 marzo 1998, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387, Milano, 2000, 429 e ss.; F. Caringella, Giudice
amministrativo e risarcimento del danno: dai problemi teorici ai dilemmi pratici, in F. Caringella, M. Protto
(a cura di) Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002, p. 663 e ss; R.
Caranta, Il ritorno dell’irresponsabilità, in Urb. E app., 2001, p. 679, il quale riconosce al giudice
amministrativo un generale potere di sostituzione o di ordine che trova il proprio limite unicamente nelle
valutazioni discrezionali della pubblica amministrazione; M. De Palma, Il risarcimento del danno in forma
specifica, in R. Garofoli, G.M. Racca, M. De Palma (a cura di), Responsabilità della pubblica
amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, p. 536; c. Orrei,
La tutela risarcitoria dell’interesse legittimo, sviluppi giurisprudenziali e profili dogmatici, Napoli, 2002, p.
191; S. fantini, Le tecniche di tutela degli interessi pretensivi, in Nuove forme di tutela delle situazioni
giuridiche soggettive. Atti della Tavola rotonda in memoria di Lorenzo Migliorini (Perugia, 7 dicembre
2001), Torino, 2003, p. 219, il quale dopo avere osservato che la reintegrazione in forma specifica dà luogo
ad una condanna della pubblica amministrazione ad un facere specifico rapprsento dall’adozione dell’atto
182
D’altronde la dottrina ha avvertito già da tempo la necessità, imposta dal doveroso
rispetto del principio costituzionale di effettività della tutela, di superare le storiche
limitazioni ai poteri decisori del giudice amministrativo e segnatamente il limite alla
possibilità di condannare la pubblica amministrazione all’adozione di comportamenti
specifici consistenti, tra l’altro, nell’emanazione del provvedimento favorevole richiesto
dall’interessato ed illegalmente negato dall’autorità competente314.
Tale necessità, a ben vedere è resa ancora più stringente per gli interessi legittimi
proprio in ragione dell’assenza nell’ordinamento amministrativo, a differenza di quello
civile, di una generica azione di adempimento nei confronti della p.a.
Un’ultima questione di cui resta da dire è quella relativa ai rapporti tra l’azione
risarcitoria (in forma specifica) e l’azione di annullamento, dovendosi chiarire sul punto
se il giudice amministrativo abbia la possibilità, come pure affermato da un certo
orientamento giurisprudenziale, anche in assenza di un’espressa domanda di parte.
La tesi favorevole muove dall’assunto che la reintegrazione in forma specifica
nell’ordinamento amministrativo godrebbe di una sorta di priorità logica e sistematica
all’interno degli strumenti di tutela
delle posizioni soggettive lese dall’attività
procedimentale della p.a.
Ciò in quanto il rimedi reintegratorio in forma specifica rappresenta lo strumento più
adatto ad assicurare un’adeguata dell’interesse del ricorrente che tenga conto altresì
dell’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa. Sicchè secondo tale
orientamento, al giudice amministrativo sarebbe attribuito il potere di disporre la
reintegrazione in forma specifica anche in presenza di una domanda di risarcimento per
equivalente, dovendosi la prima ritenersi “implicita” nella seconda (salva un’espressa e
in equivoca richiesta tesa ad ottenere esclusivamente il risarcimento per equivalente)315.
In realtà l’orientamento appare criticabile in quanto contrastante con la natura
soggettiva della giurisdizione amministrativa, nonché con il principio di corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato che preclude al giudice amministrativo di attribuire ex
officio utilità diverse da quelle richieste dal ricorrente. Ferma restando pertanto la
possibilità per il giudice amministrativo di accordare la tutela riparatoria in forma
specifica solo se espressamente richiesto dalle parti, deve ammettersi invece che il
richiesto, osserva che il limite al rimedio è rappresentato dall’esistenza di ambiti di discrezionalità
amministrativa.
314
Sul punto, in particolare v. D. Vaiano, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, op. cit., p.
359,
315
Tar Lazio, Roma, sez. II, 19 luglio 2002, n. 6115, in Foro amm.-Tar, 2002, p. 2506; Tar Valle d’Aosta, 18
febbraio 2000, n. 2, cit.
183
giudice ove non ritenga di accordare tale rimedio perché impossibile o eccessivamente
oneroso per l’amministrazione, possa accordare la tutela risarcitoria per equivalente
anche se il ricorrente abbia limitato la richiesta al risarcimento in forma specifica.
Ciò in quanto secondo un costante orientamento del giudice civile, il risarcimento per
equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica, sicchè
sarebbe consentito al giudice amministrativo passare dal più (reintegrazione in forma
specifica) al meno (risarcimento per equivalente) all’interno dello stesso petitum316.
316
Per tutte cfr. Cass., 7 aprile 1983, n. 2468, in Mass. Giur. It., 1983.
184
4. I tentativi di evoluzione del sistema in via pretoria: in particolare la declaratoria di
cessazione della materia del contendere a seguito di annullamento dell’atto
impugnato per vizi formali.
La giurisprudenza amministrativa ha manifestato in più occasioni la tendenza a
mitigare il carattere rigidamente formale e “oggettivo” del giudizio di annullamento,
attraverso l’adozione di pronunce che apparentemente si limitano al mero riscontro della
legittimità/illegittimità dell’atto, ma che in sostanza deviano dalla logica puramente
impugnatoria e finiscono per operare un accertamento, diretto o indiretto, sulla pretesa
sostanziale fatta valere dalla parte ricorrente.
Si tratta di ipotesi nelle quali gli istituti processuali propri del giudizio
amministrativo di impugnazione, sono stati piegati, attraverso applicazioni talvolta
improprie e atipiche, alle esigenze di tutela sostanziale del cittadino.
Ci si riferisce innanzitutto all’orientamento giurisprudenziale che anteriormente
all’introduzione del nuovo regime dei vizi di illegittimità, ad opera della l. 15/05,
tendeva ad escludere l’annullamento dell’atto impugnato tutte le volte in cui la pur
riscontrata violazione delle regole formali non avesse inciso in modo apprezzabile la
sostanza del rapporto controverso317.
In altri casi, come si è già detto, la giurisprudenza ha adottato sentenze di rito
apparentemente svantaggiose per il ricorrente (si pensi alla pronuncia con la quale è
affermata la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse), ma in
pratica volte ad accertare il rapporto controverso in senso favorevole al ricorrente
stesso.
E’ il caso delle pronunce dichiarative della carenza di interesse per inesistenza o
inefficacia dell’atto impugnato318. Attraverso tale tecnica la giurisprudenza è pervenuta
così a garantire al ricorrente un risultato analogo a quello perseguito attraverso una
317
Si vedano ad esempio le decisioni rese con riferimento ai casi di inosservanza di prescrizioni per la
presentazione delle offerte nelle gare per l’aggiudicazione di contratti insuscettibili di incidere sulla scelta
del contraente. Sul punto Cons-. Stato, sez. V, 30 giugno 1995, n. 936, in Rass. Cons. Stato, 1995, I, p. 793;
Cons. Stato, sez. V, 4 novembre 1996, n. 1312, in Rass. Cons. stato, 1996, I, p. 1725; Tar Lazio, sez.III, 28
agosto 1997, n. 2051, in Rass. Tar, 1997, p. 3533. Nella materia elettorale, nella quale è altresì frequente il
richiamo alla categoria della mera irregolarità, cfr. tra le altre, Cons. Stato,, sez. V, 27 febbraio 1998, n. 219,
in Rass. Cons. Stato, 1998, i, p. 258. Per una ricostruzione dettagliata dell’evoluzione giurisprudenziale sui
c.d. vizi formali si rinvia a A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti
amministrativi, Milano, 1993, p 45 ss.
318
Cons. Stato, sez. IV, 6 dicembre 1977, n. 1129, cit.
185
pronuncia di accertamento (della inesistenza o della nullità dell’atto negli esempi
riferiti), ritenuta per certi versi tutt’oggi preclusa in materia di interessi legittimi.
Un’altra ipotesi nella quale la giurisprudenza amministrativa ha utilizzato in
senso atipico, almeno secondo la logica impugnatoria, uno strumento processuale al fine
di dare prevalenza all’interesse sostanziale del ricorrente su quello meramente formale,
è quella relativa all’istituto della cessazione della materia del contendere.
In una recente pronuncia, il massimo consesso di giustizia amministrativa319 ha
affermato che non comporta cessazione della materia del contendere, l’annullamento
d’ufficio del provvedimento impugnato, disposto, nelle more del giudizio, per un vizio
formale dello stesso, nel caso in cui siano state dedotte sia censure di tipo formale che di
carattere sostanziale320.
Secondo il citato orientamento, l’annullamento d’ufficio dell’atto impugnato per
ragioni formali, non riveste carattere integralmente satisfattivio dell’interesse fatto
valere con il ricorso originario, precludendo pertanto la declaratoria di cessazione della
materia del contendere per sopravvenuta carenza di interesse al ricorso.
L’orientamento è particolarmente interessante perché finisce indirettamente per
superare il tralaticio indirizzo secondo il quale per radicare l’interesse all’impugnazione
è sufficiente anche un interesse meramente formale o strumentale, consistente anche dal
“rimettere in discussione il rapporto controverso, per effetto della rimozione dell’atto
lesivo”321.
Secondo la logica impugnatoria, infatti, il presupposto dell’interesse al ricorso
sussiste tutte le volte in cui il ricorrente può trarre dall’eventuale accoglimento tanto il
soddisfacimento in via diretta dell’interesse sostanziale incisi dal provvedimento
illegittimo (è il caso dell’interesse oppositivo) quanto una tutela solo indiretta e
strumentale consistente nella semplice riedizione del potere da parte della
amministrazione (è il caso degli interessi pretensivi).
319
Cons. Stato, sez. VI, 2 ottobre 2007, n. 5086, in www.lexitalia.it.
Sent. Ult. cit. Nella specie l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto
era stato disposto per la mancata osservanza dell’obbligo di pubblicità della seduta di apertura delle offerte;
ma tale annullamento in via di autotutela lasciava praticamente insoddisfatto l’interesse sostanziale del
ricorrente, che tendeva non solo a rimettere in discussione il rapporto controverso, ma ad avere riconosciuto
il “diritto” ad ottenere l’aggiudicazione.
321
Tra le tante cfr. Cons. Stato, sez.VI, 18 luglio 1995, n. 754, in Giust. Civ., 1996, i, p. 279; Cons. Stato,
sez. IV, 12 marzo 1996, n. 310, in Foro amm. 1996, p. 833, con nota di E. Cannada Bartoli,. Sul punto anche
R. Ferrara, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), p. 474 il quale rileva
come “….non è solo sufficiente che il vantaggio che il ricorrente si ripromette di ricavare dalla caducazione
dell’atto impugnato sia meramente potenziale, ma esso può essere, secondo un indirizzo giurisprudenziale
pressoché costante anche semplicemente strumentale: espressioni forse in parte equipollenti, con le quali si
designa l’interesse che può eventualmente avere il ricorrente alla mera ridiscussione del rapporto
controverso”.
320
186
Corollario di tale principio è che l’annullamento d’ufficio dell’atto impugnato,
non importa se tale annullamento sia stato disposto per vizi formali o sostanziali,
dovrebbe comportare in ogni caso la cessazione della materia del contendere, essendo
venuto meno l’interesse anche solo strumentale al ricorso.
Con l’orientamento citato invece il Consiglio di Stato afferma il diverso
principio secondo il quale per poter dichiarare la cessazione della materia del
contendere non è sufficiente l’annullamento in via di autotutela per vizi formaliprocedurali dell’atto impugnato, ma è necessario un annullamento per motivi
sostanziali, in quanto tale integralmente satisfattivo dell’interesse azionato in giudizio.
E’ evidente
questo punto l’affermazione implicita che si cela dietro il
ragionamento del massimo consesso di giustizia amministrativa: se la cessazione della
materia del contendere non può essere affermata se non quando il provvedimento
emesso nelle more del giudizio sia pienamente satisfattivo dell’interesse sostanziale del
ricorrente, vuol dire che è questo interesse, e non il mero interesse alla riedizione del
potere, ad essere oggetto del processo.
Non sempre però da tali affermazioni di principio la giurisprudenza ha tratto i
corollari che ci si poteva attendere sotto il profilo dell’effettività della tutela delle
posizioni soggettive: si è visto di quanti e quali limiti la giurisprudenza amministrativa
ha circondato l’accesso al fatto a parte del giudice amministrativo. Resta da dire dei
limiti di efficacia del giudicato amministrativo, anche in questo caso, come si vedrà, al
di là di sporadiche fughe in avanti, la giurisprudenza amministrativa si mostra tutt’oggi
fedele ad un modello di processo incentrato più sull’accertamento della
legalità
dell’azione amministrativa, che sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente.
187
Capitolo V
L’esecuzione del giudicato.
1. Introduzione al tema: i “limiti oggettivi” del giudicato amministrativo nella
dottrina e nella giurisprudenza tradizionali.
Secondo un
tradizionale insegnamento 322 il principio secondo il quale il
giudicato copre il dedotto e il deducibile, ossia rende incontrovertibili non solo le
questioni che furono discusse e risolte, ma anche quelle che avrebbero potuto essere
discusse, ma non lo furono323, avrebbe una portata diversa a seconda che venga riferito
al processo civile o a quello amministrativo.
L’assunto si fonda sulla concezione del processo amministrativo come giudizio
incentrato sul’atto e più precisamente sui profili di invalidità fatti valere nel ricorso.
In coerenza con tale ricostruzione dell’oggetto del processo il giudicato non
investirà l’intero rapporto giuridico controverso, né il provvedimento impugnato nella
sua interezza, bensì i singoli vizi denunciati dal ricorrente.
Con l’ulteriore conseguenza che la decisone di rigetto non preclude (almeno in
astratto) al ricorrente la possibilità di far valere in un nuovo giudizio un motivo di
illegittimità non proposto nel primo ricorso324, mentre dal punto di vista della pubblica
amministrazione il giudicato si forma esclusivamente sul presupposto che in concreto è
stato posto a fondamento dell’atto impugnato.
Cosicchè, annullato un atto amministrativo in accoglimento di uno dei motivi di
ricorso, l’amministrazione può legittimamente emanare un nuovo atto del medesimo
contenuto, purchè sia emendato dal vizio accertato dal giudice: e questo tanto nel caso
in cui si ratti di un vizio meramente formale, quanto nel caso in cui si ratti di un vizio
di natura sostanziale325.
Si tratta di un orientamento a ben vedere più attento a garantire il dinamismo
dell’attività amministrativa che le reali esigenze di tutela del cittadino, se solo si
322
A. M. Sandulli, Il giudizio innanzi al Consiglio di Stato, Padova 1963, p. 53 e ss.
E. T. Liebman, Giudicato (Diritto processuale civile), voce in Enc. Giur. Trec., VIII, 1988.
324
A. M. Sandulli, Il giudizio, op. cit., p.55, nota 1.
325
Cons. Stato, sez. V, 16 marzo, 1987, n. 196.
323
188
consideri che nel sistema previgente alla recente riforma del 2005, in tema di vizi
formali, il più formale e marginale dei vizi era destinato a travolgere l’atto.
Il che se da una parte sembrava rafforzare la posizione del privato assicurandogli
comunque una vittoria immediata, dall’altra sembrava circoscrivere oltremodo
l’efficacia del giudicato, impedendo quella cognizione piena del rapporto controverso
che sola potrebbe veramente vincolare l’amministrazione nella fase successiva alla
sentenza326.
La posizione del privato ricorrente è anzi aggravata da un indirizzo
giurisprudenziale che tende a ridurre ancor più l’ambito di tutela del ricorrente.
Secondo un certo indirizzo infatti il giudicato amministrativo produrrebbe effetti
differenti seconda che si tratti di giudicato di accoglimento o di rigetto.
Mentre nel primo caso varrebbero le tradizionali limitazioni del giudicato di
annullamento in relazione ai vizi dedotti, nel secondo caso, il giudicato di rigetto
sarebbe idoneo invece a coprire il dedotto e il deducibile.
La tesi trova fondamento nella considerazione che, a differenza di quanto accade
nel processo civile, in cui il giudicato incide direttamente sul rapporto, nel processo
amministrativo gli effetti della decisione restano circoscritti al provvedimento
impugnato che, almeno secondo la tesi più tradizionale, rappresenta la res in judicium
deducta; sicché rigettato il ricorso, la validità del provvedimento resta confermata in
modo assoluto, restando preclusa una nuova contestazione avente ad oggetto lo stesso
atto.
La tesi com’è evidente dà luogo ad una duplice direttrice nello sviluppo della
teoria del giudicato: la prima, riferita al giudicato di rigetto, obbliga il ricorrente a
dedurre in giudizio tutti i possibili motivi, a pena di inammissibilità in un eventuale
nuovo giudizio,; la seconda riferita al giudicato di accoglimento, consente alla pubblica
amministrazione di rinnovare, di fatto, l’atto annullato adottando un nuovo atto di
identico contenuto rispetto a quello annullato ma emendato del vizio accertato dal
giudicato.
In entrambe le ipotesi al ricorrente è riservata una posizione nettamente
svantaggiata rispetto a quella dell’amministrazione in violazione dei principi
costituzionali di parità delle parti e di effettività della tutela.
326
G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, op. cit., 935.
189
Per tali ragioni il suddetto indirizzo è stato osteggiato dalla dottrina più avvertita
la quale non ha mancato altresì di rilevarne il contrasto con i principi basilari in materia
di identificazione dell’azione.
Si è fatto rilevare in questo senso che anche per le sentenze di rigetto non può
non valere il criterio che identifica l’azione sulla scorta della causa petendi, oltre che
dei soggetti e del petitum; ne consegue che anche nel caso di rigetto si avrà identità di
azione, e dunque preclusione processuale, solo nel caso in cui la nuova impugnativa
venga fondata su censure di identico tenore rispetto a quelle poste a fondamento del
ricorso originario327.
In ogni caso, anche a voler prescindere dagli eccessi della giurisprudenza, la
nozione di giudicato amministrativo elaborata dalla dottrina tradizionale, appare ben
lontana dalla corrispondente nozione civilistica del giudicato come “affermazione
indiscutibile d’una volontà concreta della legge, che riconosce o disconosce un bene
della vita a una delle parti”328.
Scopo del giudicato è infatti quello di dare certezza ai diritti rendendo
incontrovertibile e immutabile l’accertamento contenuto nel giudicato329: immutabilità
che riguarda tanto il procedimento di cui determina la fine (cosa giudicata in senso
formale), che il rapporto controverso (cosa giudicata in senso sostanziale) 330.
Naturalmente ogni discorso sul giudicato amministrativo deve tener conto delle
peculiarità della sentenza amministrativa, tra cui prima tra tutte quella di intervenire su
una “realtà in movimento” quale è l’attività amministrativa e l’esercizio della
discrezionalità che ad essa normalmente si correla.
Sotto questo profilo come si è visto la ricostruzione operata dalla dottrina e dalla
giurisprudenza tradizionali si mostra insoddisfacente, risolvendosi l’efficacia del
giudicato amministrativo, nell’effetto “minimo” di precludere all’amministrazione la
rinnovazione dell’atto affetto dai medesimi vizi che affliggevano il provvedimento
annullato.
I tentativi operati dall’evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale successiva, pur
seguendo percorsi differenti come si dirà nelle pagine che seguono, appaiono in realtà
327
Guicciardi, La giustizia amministrativa, III, Padova, 1954, 283; A. Romano, La pregiudizialità nel
processo amministrativo, Milano, 1958, p. ; A. M. Sandulli, Il giudizio, cit., p. 417 ss.
328
Così G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II ed., Napoli, 1935, p. 342.
329
Sul punto, Liebman, Manuale, op. cit., p. 259
330
Per la concezione unitaria del giudicato v. ancora Liebman, Manuale, op. cit.m, 267, secondo il quale “la
distinzione tra cosa giudicata formale e sostanziale perde in buona parte la sua importanza” essendo “l’una e
l’altra null’altro che immutabilità, i due suoi volti, il primo rivolto verso l’esterno, in quanto dà forma
definitiva all’efficacia della sentenza e si pone come unica e non più discutibile configurazione che il diritto
ha dato al rapporto o stato giuridico su cui il giudice ha pronunciato”.
190
muovere da una comune esigenza: quella di garantire al ricorrente vittorioso una tutela
efficace nei confronti dell’attività amministrativa successiva al giudicato. Com’è
evidente i problemi di maggiore spessore si pongono con riguardo agli interessi
pretensivi per i quali il giudicato di annullamento si pone di per sé come povero di
contenuti rispetto al successivo esercizio del potere.
Ma a ben vedere la questione si pone, anche se in termini necessariamente
diversi e meno gravi, per gli interessi oppositivi, tutte le volte in cui al giudicato di
annullamento sopravvivano spazi di discrezionalità che consentono all’amministrazione
di reiterare il provvedimento lesivo.
191
2. Le principali critiche alla concezione tradizionale del giudicato amministrativo. Il
contributo di Nigro.
Nell’elaborazione della teoria del giudicato amministrativo decisivo si presenta il
contributo di Negro che rappresenta a ben vedere i punto di equilibrio tra l’impostazione
tradizionale e quella più innovativa del processo amministrativo
e della tutela
giurisdizionale degli interessi legittimi.
Merito dell’insigne Autore è quello, tra l’altro, di aver individuato nella sentenza
di annullamento oltre l’effetto caducatorio, altresì un effetto ripristinatorio e
ordinatorio331.
Il primo effetto pone l’obbligo in capo all’amministrazione resistente di
ripristinare lo stato di fatto e di diritto preesistente all’emanazione dell’atto, in modo da
assicurare utilità al ricorrente vittorioso: così l’annullamento di un atto di espropriazione
comporterà la restituzione al proprietari del bene espropriato; l’annullamento
dell’esclusine di un concorrente da una gara comporterà la riammissione dello stesso e
la rinnovazione della gara a partire dal momento dell’esclusione , e così via. E ciò non
per effetto di un ulteriore fase di esecuzione della sentenza, bensì quale effetto diretto e
immediato della sentenza di annullamento 332.
Ma l’originalità del pensiero di Nigro è data dall’aver egli individuato un terzo
effetto della sentenza amministrativa di annullamento, cui si accennava, costituito dalla
possibilità di “conformare” la successiva attività dell’amministrazione di riesercizio del
potere.
Con l’atto amministrativo l’amministrazione ha operato una certa sistemazione
degli interessi in conflitto, con il ricorso uno degli interessati contesta tale sistemazione
e
ne
propone
un’altra.
L’annullamento
dunque
presuppone
l’accertamento
dell’illegittimità, ma l’accertamento dell’illegittimità dell’atto, visto a rovescio, non
rappresenta altro che la determinazione del “modo come, con riferimento ai profili
“emersi” nel giudizio per richiesta del ricorrente, il potere avrebbe dovuto essere
esercitato e non è stato”333.
331
M. Nigro, Giustizia amministrativa, op. cit., p. 314 ss; M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il
processo degli atti di ottemperanza, intti del XXVII Convegno di Studi di scienza dell’Amministrazione
(Varenna, 17-19 settembre 1981, Milano, 1983. I primi accenni al contenuto ordinatorio della sentenza si
hanno già in M. Nigro, Sulla natura giuridica del processo di cui all’art. 27 n. 4 delle leggi su lConsiglio di
Stato, in Rass.Dir. pubbl., 1954, p. 228 ss.
332
M. Nigro, Sulla natura giuridica, op. cit., p. 300.
333
M. Nigro, Giustizia, cit, p.314
192
La pronuncia dunque non produce solo l’effetto di eliminare l’atto
amministrativo illegittimo, ma altresì vale ad identificare il modo corretto di esercizio
del potere, fissando in tal modo la corretta sistemazione degli interessi.
La natura e l’intensità del vincolo com’è ovvio varieranno in ragione alla qualità
del potere (discrezionale o vincolato) e al tipo di vizio per il quale è stato disposto
l’annullamento.
Sotto quest’ultimo profilo l’Autore distingue un effetto pieno che sussiste
quando l’atto viene annullato per carenza dei presupposti oggettivi o soggettivi previsti
dalla norma attributiva del potere (effetto diretto), ovvero, c.d. effetto indiretto quando
l’annullamento implica l’impossibilità di riemanare l’atto per essere decorso il termine
di decadenza.
Un effetto vincolante semipieno che segue normalmente ad una pronuncia di
annullamento per eccesso di potere o per vizi di merito e presuppone la permanenza in
capo all’amministrazione di poteri discrezionali successivamente alla pronuncia di
annullamento, poteri che pertanto risultano non eliminati, ma solo limitati dalla
decisione giudiziale.
Un effetto vincolante secondario o strumentale: segue all’annullamento per vizio di
incompetenza relativa o per vizi formali, in entrambe le ipotesi si vincola
l’amministrazione ad eliminare il vizio ferma restando la possibilità in capo alla stessa di
emanare un nuovo provvedimento di contenuto identico a quello annullato ma emendato
dal vizio di forma, che pertanto dovrà essere fatto oggetto di autonoma impugnativa da
parte del soggetto che assuma esserne leso.
Tuttavia
data
la
peculiarità
del
giudicato
amministrativo
consistente
nell’intervenire su una realtà in movimento qual è l’attività amministrativa ossia su
un’attività che precede necessariamente il giudicato ma che continuerà ad espletarsi
anche successivamente ad esso, li giudicato amministrativo non può assurgere, al pari di
quello civile, a regola sufficiente e conchiusa dell’azione amministrativa.
In quanto residueranno ed eccederanno al giudicato degli “spazi liberi” ossia degli spazi
di azione non conformati dal giudicato.
193
Per tale ragione la regola della futura attività amministrativa racchiusa dal
giudicato sarà una regola il più delle volte implicita, elastica (per ciò che attiene
all’attività di ripristinazione) e incompleta334.
L’incompletezza della regola, in particolare, deriva dal fatto che essa “riguarda
solo i tratti di azione amministrativa sottoposti all’esame del giudice e quindi vincola
direttamente soltanto questi stessi tratti in quanto debbano o possano ripresentarsi
nell’azione amministrativa successiva”335.
Com’è stato rilevato dalla dottrina successiva336, nella concezione in esame,
l’unico vincolo scaturente dal giudicato per l’amministrazione è dato dai vizi dedotti in
giudizio. Ne consegue che gli unici tratti dell’attività amministrativa che potranno dirsi
intaccati dal giudicato potranno essere esclusivamente quelli portati alla conoscenza del
giudice sotto forma di motivi di impugnazione e che l’unica preclusione per
l’amministrazione consisterà, pertanto,
nel fatto che il giudicato “chiude” alcune
possibilità di comportamento.
Si è fatto rilevare inoltre che in molti casi dal giudicato amministrativo non è
possibile ricavare neppure in negativo alcuna regola atta a conformare la futura attività
amministrativa: è il caso del giudicato avente ad oggetto il silenzio della p.a., o contro
l’atto negativo esplicito.
In queste ipotesi la pronuncia di “annullamento” del silenzio è per sua natura
povera di contenuti e come tale inidonea a scalfire la successiva attività amministrativa.
Analoghe considerazioni possono farsi per le ipotesi di impugnativa di atti
discrezionali che possono essere adottati in presenza di una pluralità di presupposti
autonomi, l’annullamento giudiziale dell’atto per accertata mancanza del presupposto
posto a fondamento dell’atto non preclude all’amministrazione la possibilità di emanare
un nuovo atto avente il medesimo contenuto, facendo riferimento ad un altro
presupposto legale.
Di qui la necessità avvertita dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive di
tentare strade diverse per garantire effettività di tutela al ricorrente, rendendo più
incisivo il vincolo che sorge in capo all’amministrazione per effetto del giudicato.
334
M. Nigro, Giustizia, op. cit., 319; M. Nigro, IL giudicato amministrativo, op. cit., p. 76.
M. Nigro, Giustizia, op. cit., 321.
336
M. Clarich, Gudicato e potere amministrativo, op. cit., p. 74.
335
194
3. Il giudicato amministrativo nell’ottica del giudizio sul rapporto.
Perviene a conclusioni diverse rispetto a quelle anzidette quella parte della
dottrina che ritiene di poter individuare nell’oggetto del processo, non tanto la
situazione giuridica fatta valere, quanto piuttosto direttamente il rapporto giuridico sulla
cui base viene richiesto un determinato bene della vita337.
Gli aspetti caratterizzanti di tale indirizzo dottrinario sono stati tratteggiati nella
prima parte di questo studio, in questa sede ci si limiterà pertanto a evidenziarne le
implicazioni sulla teoria del giudicato.
Se l’oggetto di accertamento è costituito dal rapporto intercorrente tra la p.a e il
ricorrente, nessuna delle parti potrà allora invocare una ricostruzione del fatto diversa da
quella cristallizzata nella pronuncia giurisdizionale.
In altri termini dal giudicato amministrativo discenderebbe un effetto preclusivo
analogo a quello discendente dal giudicato civile e racchiuso nella regola secondo la
quale il giudicato copre le ragioni di fatto e di diritto concretamente dedotte in giudizio
e quelle anche solo deducibili.
Tale effetto vale tanto per l’amministrazione la quale non può più rimettere in
discussione il bene, l’utilità riconosciuta al ricorrente dalla sentenza passata in
giudicato, quanto per il ricorrente il quale, una volta respinta la domanda per ragioni di
merito, non potrà riproporla anche nel caso in cui essa si fondi su motivi diversi.
In definitiva, in base al principio del dedotto e deducibile, applicata al giudizio
amministrativo, il ricorrente deve “spendere” nel ricorso tutti i motivi di invalidità
dell’atto; la pubblica amministrazione deve dar conto nell’atto o nell’ambito del
processo (integrando la motivazione originaria) di tutti gli elementi e le ragioni che
valgono a giustificare l’atto. Se per entrambe le parti
il non dedotto non è più
deducibile successivamente, si realizza allora la desiderata stabilità del rapporto e l
definitiva attribuzione del bene della vita alla parte vittoriosa in giudizio.
Nell’ottica del giudizio sul rapporto infatti sussiste “una certa fungibilità dei
motivi dai quali viene fatta dipendere l’eliminazione degli effetti giuridici del negozio”.
Anche la tesi che individua l’oggetto del giudizio nel rapporto non è andata
esente da critiche: la tesi in parola, per esplicita ammissione del suo massimo
337
Come si è già detto nella prima parte di questo studio il contributo di maggiore rilievo sul punto è quello
di A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, op. cit., II, 140 ss.
195
sostenitore338, è concepita soprattutto con riguardo alle ipotesi di annullamento per vizi
sostanziali, mentre si attaglia con fatica sia alle ipotesi di impugnativa per vizi solo
formali, sia al caso di diniego espresso o tacito del provvedimento 339.
L’applicazione della regola del dedotto e deducibile all’annullamento per vizi
formali conduce infatti a due conseguenze entrambe sfavorevoli per
il ricorrente:
innanzitutto il ricorrente nel caso di annullamento dell0’atto per vizi di forma non può
più contestare la legittimità sostanziale del provvedimento, a meno che non si tratti di
vizi sopravvenuti o comunque non
deducibili al momento del giudizio;
secondariamente il giudicato di annullamento per vizi formali produce effetti favorevoli
per l’amministrazione la quale potrà procedere alla rinnovazione dell’atto confidando
nelle “certezza della legittimità sostanziale della sua azione”340 anche se in realtà la
questione relativa alla legalità sostanziale del provvedimento non è stata oggetto di
cognizione da parte del giudice.
In base a questo duplice risultato sembrerebbe pertanto che il rapporto giuridico
acquisti stabilità solo dal lato del ricorrente, non potendo questi rimettere in discussione
la legittimità sostanziale dell’atto, non per l’amministrazione resistente la quale al
contrario sarà legittimata ad adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto
rispetto a quello caducato confidando nella sua legittimità sostanziale.
Nel caso in cui il ricorso abbia ad oggetto il silenzio della p.a. l’accertamento
dell’illegittimità del comportamento negativo tenuto dalla p.a. non implica di per sé
l’accertamento dell’obbligo di emanare il provvedimento richiesto.
Tant’è che in questi casi si suole affermare che il giudizio ha ad oggetto non già
il rapporto controverso, quanto piuttosto l’“ulteriore determinazione del rapporto”341,
ovvero l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione che ha emanato l’atto negativo
o che è rimasta silente a porre in essere il provvedimento richiesto dall’interessato.
Piuttosto la stabilità del rapporto è garantita in questi casi dall’applicazione della
regola del dedotto e deducibile. Una volta ammesso che la pubblica amministrazione ha
l’onere di dar conto in giudizio delle ragioni del proprio comportamento omissivo (ossia
di tutte le ragioni che nella fattispecie concreta avrebbero giustificato un provvedimento
negativo), ove tale onere non venga adempiuto, dovrà giocoforza farsi discendere il
338
A. Piras, Interesse legittimo, op. cit., II, p. 452.
Tant’è che lo stesso Piras, Interesse legittimo, op. cit., II, p. 457, non esita ad instaurare una priorità tra
vizi sostanziali e vizi meramente formali, ponendo in capo al giudice l’obbligo di accertare l’esistenza dei
secondi soltanto dopo che sono state verificate le condizioni di validità sostanziale del provvedimento.
340
Cfr. A. Piras, Interesse legittimo, op. cit., II, p. 582, nota 172.
341
Cfr. A. Piras, Interesse legittimo, cit. II, p. 563.
339
196
divieto per l’amministrazione di porre un nuovo rifiuto (questa volta espresso) fondato
su ragioni e circostanze che potevano essere proposte nel corso del giudizio.
Le remore ad accettare la ricostruzione del giudizio amministrativo come
promosso fondato sul rapporto hanno indotto la dottrina e la giurisprudenza più recenti
ricercare altrove la desiderata stabilità della decisione di annullamento, ancorandola ad
altre premesse più in linea con l’impostazione tradizionale del processo amministrativo.
197
4. Il legame tra procedimento e processo e l’onere per l’amministrazione di acclarare
tutti i fatti che giustificano l’esercizio del potere.
Tra i tentativi più significativi di garantire maggiore stabilità alla statuizione contenuta
nel giudicato, senza tuttavia incidere sulla nozione tradizionale di oggetto del giudizio,
figura senz’altro quello operato da una recente dottrina342, la quale muovendo
dall’analisi dei rapporti tra procedimento e processo nel nostro ordinamento, giunge a
retrocedere in fase procedimentale l’onere dell’amministrazione di esplicitare tutti i fatti
costitutivi del potere esercitato.
Questo indirizzo tende a privilegiare una lettura più evoluta del rapporto tra
procedimento e processo rispetto a quella tradizionale.
Secondo la concezione tradizionale, annullato in un primo processo un provvedimento,
la pubblica amministrazione può emanare un nuovo atto, con il medesimo contenuto,
purché il nuovo atto sia fondato su fatti ed elementi diversi rispetto a quelli posti alla
base dell’atto annullato, esistenti già al momento dell’emanazione del primo atto.
A fondamento d tale assunto vi è com’è evidente la convinzione che il nuovo atto sia
espressione di un potere diverso, in quanto originato da fatti diversi, e che pertanto il
nuovo procedimento sia del tutto autonomo rispetto a quello conclusosi con
l’emanazione del primo atto.
La tesi in esame perviene invece a conclusioni opposte sulla scorta della considerazione
che la reiterazione del provvedimento impugnato nei termini sopra descritti, deve essere
considerata come atto di esercizio dello stesso potere, ancorché fondato su fatti diversi.
In altri termini la tesi in esame muove dall’idea che il potere amministrativo che si
esercita nel procedimento e che si trasfonde nel contenuto dell’atto finale sia e resti
unitario. E che il giudicato formatosi sull’illegttimità dell’atto investa in realtà il potere
nella sua unitarietà e non i singoli aspetti portatati alla cognizione del giudice attraverso
i singoli motivi di ricorso.
Ne consegue che come il ricorrente avrà l’onere di dedurre in giudizio tutti i motivi di
impugnazione dell’atto, del pari l’amministrazione deve ritenersi gravata dell’onere di
dedurre tutti i fatti costitutivi del potere.
A tale risultato è possibile pervenire, secondo l’indirizzo in esame, senza
stravolgere la struttura tradizionale del giudizio amministrativo costruito come giudizio
di impugnazione.
342
M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, op. cit., p. 209 ss.
198
Ferma restando infatti, almeno nella logica tradizionale, l’impossibilità per la p.a., di
controdedurre fatti nuovi nel corso del giudizio, la tesi in parola ritiene di poter
pervenire ad un esito siffatto fondando l’onere della p.a. di esplicitare tutti i fatti
costitutivi del potere, già nella fase procedimentale.
L’onere dell’amministrazione di esplicitare nel corso del procedimento tutti i fatti
costitutivi del potere troverebbe fondamento, secondo tale impostazione, nel doveroso
rispetto dei principi regolatori dell’attività amministrativa, coniugati con il principio
generale non scritto riconosciuto di rango costituzionale della tutela dell’affidamento343.
Sui ritiene così che a seguito dell’emanazione di un atto nasca in capo al
destinatario dello stesso un affidamento in ordine alla completezza dell’istruttoria
procedimentale, completezza intesa nel senso di accertamento di tutti i fatti costitutivi
del potere.
Ne consegue che non può l’amministrazione reiterare l’atto annullato fondandolo su
elementi diversi da quelli esternati nel procedimento senza con ciò stesso ledere il
legittimo affidamento riposto dal destinatario dell’atto nell’integrità dell’istruttoria
procedimentale.
Tale preclusione “procedimentale” scatta però non già con l’esternazione del
provvedimento finale, bensì con la notifica all’amministrazione del ricorso introduttivo,
ciò in quanto l’onere in questione è finalizzato a soddisfare non l’esigenza obiettiva
della stabilità del potere amministrativo, quanto piuttosto l’esigenza soggettiva del
destinatari del provvedimento a non veder vanificato il risultato di per sé favorevole
conseguito con l’annullamento giurisdizionale dell’atto impugnato.
La preclusione procedimentale non opera peraltro con riguardo a fatti preesistenti
all’emanazione dell’atto, ma che secondo un parametro di ordinaria diligenza
l’amministrazione non avrebbe potuto conoscere che in un momento successivo rispetto
a quello della notifica del ricorso.
E non opera nemmeno quando il ricorrente deduca solo vizi formali, ciò in quanto i
queste ipotesi non viene in contestazione la legittimità sostanziale dell’atto, e pertanto
l’amministrazione non è chiamata a rendere ragione di essa: in questo caso pertanto
l’amministrazione ben può rinnovare l’atto annullato per vizi di forma ponendo a
fondamento di esso fatti costitutivi che potevano essere posti a fondamento del primo
atto.
343
Clarich, Giudicato e potere, op. cit., ; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, p. 45 ss. ;
Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1956, p. 274.
199
5. La posizione della giurisprudenza.
La giurisprudenza amministrativa non ha seguito un indirizzo univoco in ordine
all’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato.
Un primo indirizzo tende a distinguere tra pronunce di accoglimento e pronunce di
rigetto.
All’interno di tale orientamento vi sono sentenze, meno recenti, che applicano il
principio secondo il quale il giudicato copre i vizi dedotti e quelli deducibili al solo
giudicato di rigetto ritenendo che solo in tal caso la statuizione contenuta nel giudicato
sia idonea ad accertare definitivamente la legittimità del provvedimento344, altre che al
contrario applicano il principio soltanto alle sentenze di accoglimento sul rilievo, a
monte, che solo queste ultime, a differenza delle sentenze di rigetto, darebbero luogo a
giudicato producendo effetti modificativi o innovativi rispetto al precedente assetto dei
rapporti sostanziali345
Un secondo indirizzo tende a fare applicazione della regola del dedotto e deducibile nel
processo amministrativo a prescindere dal contenuto del giudicato.
Secondo questo orientamento “la particolarità del giudizio amministrativo, non
esaustivo ex se della disciplina del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che richiede
il compimento di una ulteriore attività amministrativa, non esclude l’applicazione degli
artt. 2909 Cod. civ. e 324 Cod. proc. civ., con la conseguenza che la res iudicata
amministrativa ha efficacia preclusiva e di accertamento sostanziale negli stessi limiti
del giudicato ordinario.” 346
Il giudicato preclude quindi, secondo tale indirizzo, che possano essere rimesse in
discussione in un successivo giudizio profili della fattispecie già da esso affrontati o
suscettibili di essere affrontati se investiti da rituali e tempestive censure 347,
intendendosi per questioni deducibili quelle che, pur non pregiudizialmente enunciate,
costituiscono il presupposto necessario ed imprescindibile della pretesa e della relativa
344
Cfr. ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12 ottobre 1967, n. 474, in Foro amm., 1967, I, p. 1142; Tar Puglia, 10
gennaio 1978, n. 9, in Cons. Stato, 1984, I, p. 310.
345
Cons. St., sez. VI, 21 febbraio 1997, n. 305, in Cons. St., 1997, I, p. 283 (solo massima); in un caso,
peraltro, in cui gli effetti sfavorevoli erano opposti a soggetti estranei alla lite. Cfr. però Cons. St., sez. V, 23
ottobre 1970, n. 799, in Cons. St., 1970, I, p. 1672 (solo massima).
346
Cons. Stato, sez. IV, 10 ottobre 2005, n. 5474; nello stesso senso Cons. Stato, V Sez., 28 gennaio 1993 n.
194 e 31 marzo 1992 n. 269.
347
Cfr., fra le tante, Cons. Stato, Ap., 22 dicembre 1982 n. 19; IV Sez., 14 settembre 1984 n. 678
200
pronuncia348.
Inoltre, il giudicato sostanziale fra stato ad ogni effetto fra le parti per l’accertamento di
merito, positivo o negativo, del diritto controverso, e si forma su tutto ciò che ha
costituito oggetto della decisione, ivi compresi le premesse necessarie ed il fondamento
logico giuridico della pronuncia, spiegando quindi la sua attività non solo nell’ambito
della controversia e delle ragioni fatte valere dalla parte (c.d. giudicato esplicito), ma
estendendosi necessariamente a quanto si ricollega in modo inscindibile con la
decisione, formandone il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il
fondamento logico giuridico della pronuncia349.
Un terzo indirizzo, infine, tende a negare validità alla regola del dedotto e deducibile nel
giudizio quale che sia il contenuto della decisione350.
A fondamento di tale indirizzo vi è la constatazione che nel giudizio amministrativo
d’impugnazione il giudicato si forma con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti
dal giudice sussistenti alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso, essendo “inapplicabile
in toto alla giurisdizione degli interessi il principio secondo il quale la pronuncia
definitiva del giudice copre il dedotto ed il deducibile in via di azione o eccezione”351,
con la conseguenza che in sede di rinnovazione del procedimento amministrativo,
successivo al giudicato di annullamento, l’amministrazione incontra il solo limite di non
reiterare le illegittimità già sanzionate in sede giudiziale352.
L’impressione generale che si ricava dalla lettura della giurisprudenza più
recente è che sia ormai acquisita la consapevolezza che occorra superare lo schema del
processo di annullamento per poter realizzare una più efficace tutela del ricorrente;
d’altra parte emerge pure una certa timidezza ad abbracciare fino in fondo, in mancanza
di un preciso segnale del legislatore, soluzioni che comportino un mutamento troppo
profondo nella struttura del processo amministrativo.
La giurisprudenza amministrativa è andata così alla ricerca di un punto di
equilibrio che riuscisse a comporre questa doppia tensione del sistema processuale
amministrativo.
348
349
Cfr., da ultimo, VI Sez., 7 febbraio 2004 n. 399 e 2 marzo 2004 n. 973.
Cfr., per tutte, Cass. civ., SS.UU., 14 giugno 1995 n. 6689.
350
Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2005 n. 3027.
Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2005 n. 3027, cit.; id. sez. IV, 30 maggio 2002, n. 3023; cui adde 27
dicembre 2006, n. 7816, che da tale principio deduce che la sede per sindacare la legittimità dell’atto adottato
dall’amministrazione in fase di esecuzione del giudicato, sotto profili che non abbiano formato oggetto delle
statuizioni contenute nella sentenza, non è quella dell’ottemperanza ma quella ordinaria della cognizione.
352
Cfr. ,in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2007 , n. 1192; cui adde, 28 febbraio 2005, n. 692.
351
201
La soluzione generalmente accolta è stata quella di enucleare un contenuto della
sentenza di accoglimento che andasse per così dire “oltre l’annullamento”353, oltre la
mera demolizione dell’atto impugnato (laddove esista), adattando il modello processale
vigente alle peculiarità delle situazioni soggettive che in esso devono trovare tutela.
Accanto all’effetto demolitorio tipico della sentenza di annullamento, i giudici
amministrativi hanno individuato pertanto un effetto di ripristinazione derivante
dall’esigenza di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto derivante dalla sentenza, e
soprattutto, quello che poi la dottrina chiamerà un effetto conformativo del giudicato,
ossia un effetto “rivolto al futuro”, destinato ad operare sull’attività amministrativa
successiva al giudicato.
Tale tendenza giurisprudenziale si è manifestata dapprima al livello di
“prassi”354, affermandosi più compiutamente solo intorno agli anni sessanta355, allorché
il dibattito dottrinario, da tempo attento alla questione356, sembrò offrire un idoneo
fondamento teorico al fenomeno357.
Tuttavia, come rilevato dalla dottrina successivamente358, il sistema elaborato
dalla giurisprudenza non sempre appare pienamente satisfattivo delle esigenze di tutela
del ricorrente; il che accade ad esempio quando il giudicato di annullamento sia
particolarmente povero di contenuti come nel caso della decisione avvero il silenzio
dell’amministrazione o quando in genere al giudicato sopravvivano ampi spazi di
discrezionalità amministrativa.
Per rimediare a tali inconvenienti la giurisprudenza amministrativa ha imboccato
una duplice direttrice, operando sui due versanti della tutela cautelare e della tutela
esecutiva.
Sotto quest’ultimo profilo si è tentato di valorizzare le potenzialità del giudizio
di ottemperanza ritenuto uno strumento idoneo, nel quadro dei più ampi poteri attribuiti
353
L’espressione è di A. De Roberto, Il processo amministrativo oltre l’annullamento, negli Studi per il
centenario della IV sezione del Consiglio di Stato, Roma, 1989, vol. II, p. 885 ss.
354
Come rilevava intorno alla metà degli anni sessanta V. Ottaviano, La giurisdizione di merito nella
giustizia amministrativa, già in Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di
unificazione, Vicenza, 1968, p. 189 ss, ripubblicato in Id., Scritti giuridici, vol., I, Milano, 1992, p. 324-325,
il quale riferendosi alla prassi con la quale il giudice amministrativo sovente indica nella motivazione della
decisine i criteri a cui deve ispirarsi l’attività amministrativa successiva, stigmatizzava “la tendenza della
giurisprudenza ad esercitare poteri in via di fatto che l’ordinamento non prevede”
355
Tar le tante cfr., Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 1962, n. 891, in Rass. Cons. Stato, 1962, I, p. 2103;
Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 1963, n. 161, in Rass. Cons. Stato, 1963, I, p. 115.
356
E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, cit., p. 285
357
M. Nigro, L’appello nel processo amministrativo, cit., p. 210-211 e id., Giustizia amministrativa, op. cit.,
314.
358
M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, op. cit., 115 ss. e G. Greco, L’accertamento autonomo del
rapporto, op. cit., 20 ss.
202
al giudice amministrativo nella giurisdizione estesa al merito, ad attuare una tutela più
efficace, sebbene posticipata, dell’interesse del ricorrente vittorioso in giudizio 359.
Tale tendenza giurisprudenziale si è svolta a sua volta lungo due direttrici
principali volte per un verso ad ampliare i presupposti dell’ammissibilità stessa
dell’azione per l’ottemperanza al giudicato e, per l’altro, a precisare il novero delle
misure giurisdizionali legittimamente adottabili dal giudice dell’ottemperanza360.
Sotto il primo profilo la giurisprudenza amministrativa è passata da una
posizione del tutto restrittiva che riteneva possibile l’intervento sostitutivo del giudice
amministrativo solo di fronte all’assoluta inerzia mantenuta dall’amministrazione
competente all’esecuzione della decisione361, ad una diversa posizione che, al contrario,
ammette la proponibilità del ricorso per l’esecuzione del giudicato anche di fronte ad un
comportamento amministrativo di attuazione del giudicato concretatosi nell’adozione di
espliciti provvedimenti amministrativi362.
Con la conseguenza che il giudizio di ottemperanza risulta percorribile non solo
allorché l’amministrazione non emetta alcun provvedimento, bensì anche quando
emetta provvedimenti in contrasto con il giudicato (violazione del giudicato)363, ovvero
emetta atti formalmente ossequenti al giudicato, ma sostanzialmente non satisfattivi
dell’interesse del ricorrente (elusione del giudicato)364.
359
In tal senso, G. Corso, Processo amministrativo e tutela esecutiva, op. cit., 433 il quale rileva che
“percepita l’insufficienza di una protezione giurisdizionale disegnata, nel processo di cognizione, sull’atto
impugnato, la giurisprudenza più recente ha allargato le malie del giudizio di ottemperanza, ammesso in
ipotesi in cui era in passato escluso, ed arricchito di sempre nuove misure contro l’amministrazione
inadempiente”; nello stesso senso G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto, op. cit., p. 20, secondo il
quale “ il risultato tipico di ogni forma di tutela giurisdizionale – e cioè il soddisfacimento concreto
dell’interesse tutelato dall’ordinamento – viene raggiunto nel sistema elaborato dalla giurisprudenza
amministrativa attraverso un’utilizzazione atipica … del giudizio di ottemperanza”; cfr. anche C. Calabrò,
L’ottemperanza come “prosecuzione” del giudizio amministrativo, negli Atti del XXVII convegno di studi di
scienza dell’amministrazione svoltosi a Varenna nel 1981 sul tema Il giudizio di ottemperanza, Milano, 1983,
p. 174 ss, secondo cui ”la fase del giudizio di legittimità è definitoria non della controversia sostanziale ma
solo conclusiva di una fase del giudizio, laddove la definizione della controversia si ha solo nella successiva
fase esecutiva, intesa come “supplemento di giurisdizione intrinseco al sistema e connaturale al ruolo del
giudice amministrativo”.
360
Cfr G. Garrone, Commento all’art. 27 T.U. Cons. St. n. 1054 del 1924, Commentario breve alle leggi di
giustizia amministrativa, Padova, 1992, p. 358-359.
361
Cfr. fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 1938, n. 317, in Riv. dr. Pubbl., 1938, II, p. 456; Cons. stto,
sez. VI, 16 luglio 1951, n. 338, in Rass. Cons. Stato, 1951, I, p. 927; Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 1952,
n. 1152, ivi 1952, I, 1631; Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 1954, n. 993, ivi, 1952, I, 1631.
362
Cfr. per tutte cons. Stato, Ad. Plen, 1 luglio 1978, n. 23, in Foro amm., 978, p. 1506.
363
Cfr. per tutte, Cons. Stto, sez. VI, 31 gennaio 1986, n. 78.
364
La nozione di atto “elusivo del giudicato” risale alla decisione Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 1961, n. 4,
in Foro amm., 1961, I, p. 1179.
203
Si apre così quella che, se pur non immune da critiche365, poi verrà definita la
stagione della giurisprudenza dell’elusione366, finalizzata ad estendere l’operatività del
giudizio di ottemperanza alla tutela avverso gli atti comunque oggettivamente
contrastanti con i giudicato.
Sotto il secondo profilo la tendenza ad ampliare le maglie del giudizio di
ottemperanza si è espressa nel potenziamento delle misure adottabili dal giudice
dell’ottemperanza, misure che vanno da quelle intimatorie o compulsorie, consistenti in
ordini diretti all’amministrazione di adempiere minacciando sanzioni in caso di
perdurante inerzia, alle misure repressive, quali i provvedimenti di annullamento degli
atti contrastanti con il giudicato, alle misure sanzionatorie, come la denuncia al giudice
penale o contabile dei fatti contrastanti con il giudicato, o infine alle misure sostitutive
consistenti nella adozione degli atti necessari, anche attraverso la nomina di un
commissario ad acta, per l’ottemperanza del giudicato.
La seconda linea evolutiva seguita dalla giurisprudenza, nel tentativo di attuare
una tutela adeguata al ricorrente, è stata quella di “anticipare” i contenuti del giudizio
di cognizione alla fase cautelare, attraverso l’adozione già in limine litis di
provvedimenti giurisdizionali aventi contenuto “ampiamente eccedente la pura e
semplice paralisi degli effetti formali dell’atto”367.
Così attraverso la tecnica delle c.d. ordinanze propulsive la giurisprudenza
amministrativa ha aperto la via della tutela cautelare anche agli interessi pretensivi lesi
dall’attività amministrativa368.
La giurisprudenza ha così ammesso la possibilità in capo al g.a. di adottare, oltre
alla sospensione del provvedimento impugnato, altresì tutte le misure atte ad assicurare
interinalmente gli effetti della decisione sul merito, tra le quali misure rientrano anche
l’ingiunzione a pagare una somma di danaro, l’ammissione con riserva ad una gara o a
365
E. Cannada Bartoli, Ancora sull’efficienza dell’art. 27 n. 4 del T.U. sul Consiglio di Stato, in nota a cons.
Stto, sez. IV, 10 gennaio 1961, n. 4, cit.
366
L’espressione è di F. Merusi, L’ingiustizia amministrativa in Italia, Bologna, 1986.
367
In questo senso cfr. Cons. Stato ad. Plen, 30 aprile 1982, n. 6, in Rass. Cons. Stato, 1982, I, p. 413; Cons.
Stato, ad plen., 11 giugno 19892, n. 12, ivi, 1982, I, p. 758; Cons. Stato, ad. Plen., 8 ottobre 1982, n. 17, ivi,
1982, I, p. 1197; Cons. Stato, ad plen., 1 giugno 1983, n. 14, ivi, 1983, I, p. 623.
368
Cfr., ex multis, Cons. Stato, VI, 14 gennaio 2000, n. 85, in Cons. Stato, 2000, I, 165. Per una ricostruzione
del dibattito Cfr. A TRAVI, Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti tra giudice amministrativo e
pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1997, 167 e ss.; id. Sospensione del provvedimento
impugnato, in Dig. (disc. Pubbl.), XIV, 372; G. PALEOLOGO, Sospensione dell’esecuzione, in Enc. Giur.
Trccani, vol. XXIX.; sull’ammisibilità di misure cautelari propulsive in ordine a provvedimenti negativi o a
comportamenti omissivi, cfr. tra gli altri, BERTONAZZI, Brevi riflessioni sulla tutela cautelare nei confronti
dei provvedimenti negativi e dei comportamenti omissivi, in Dir. Proc. amm., 1999, 1208 ss e MIRENNA, La
tutela cautelare davanti al giudice amministrativo avverso i provvedimenti negativi della p.a., in Nuove
autonom., 2000, 375 e ss.
204
un concorso, l’ordine alla amministrazione che ha rifiutato un atto o è rimasta inerte
sull’istanza, di esaminare l’istanza stessa alla stregua dei motivi di ricorso nonché tutte
le altre misure idonee ad assicurare l’obiettivo della tutela cautelare369.
369
Per tutte Cons. Stato, sez.IV, 19 marzo 1996, n. 341, in Foro amm., 1996, 848 e ss; per una sintesi sulla
casistica giurisprudenziale si rinvia a G. SAPORITO, La sospensione dell’esecuzione del provvedimento
impugnato nella giurisprudenza amministrativa, Napoli, 1981
205
5.1 La tesi del giudicato formazione progressiva.
Al fine di garantire un adeguato grado di tutela avverso gli atti emessi dalla
amministrazione successivamente al giudicato di annullamento, la giurisprudenza
amministrativa ha fatto ricorso alla nozione di “giudicato a formazione progressiva”370,
in cui la regula iuris contenuta nel giudicato di annullamento viene ad essere
ulteriormente precisata in sede di ottemperanza grazie agli ampi poteri cognitori del
giudice dell’ottemperanza.
Secondo la tesi in questione il contenuto del dictum giurisprudenziale oggetto
del giudizio di esecuzione non sarebbe dato esclusivamente dal contenuto della sentenza
di annullamento, ma altresì dalla successiva attività di attuazione del giudicato svolta
dal giudice dell’ottemperanza.
La tesi, originariamente sposata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione
Sicilia, partiva dal presupposto che, di norma, la realizzazione concreta del giudicato
amministrativo fa sorgere negli organi (ordinari o straordinari) dell'amministrazione, che
devono provvedere
alla
sua
realizzazione
concreta,
371
comportamento, sia facoltà di apprezzamenti discrezionali
sia
puntuali obblighi di
.
Nel primo caso, la regola iuris scaturente dal giudicato può ritenersi
sufficientemente a coprire gli “spazi” di attività amministrativa susseguenti al giudicato,
nel secondo caso, invece, l'originaria statuizione, resa in sede di giurisdizione generale di
legittimità dovrà essere successivamente completata in sede di giudizio di ottemperanza.
Secondo la tesi in parola, pertanto, il generico obbligo di adempimento previsto
dall'art. 27 n.4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, si articola - in realtà - in
due forme logicamente distinte (anche se, in pratica, il regime è unico): e cioè in un
obbligo di "esecuzione" preordinato a realizzare le statuizioni tassative e puntuali della
sentenza, ed in un dovere di "ottemperanza", preordinato a realizzare quelle statuizioni
della sentenza che postulano - fermo restando il fine indicato, quanto meno genericamente,
dal giudice - scelte discrezionali da parte dell'amministrazione".
Ne consegue che il giudice investito del ricorso per l'ottemperanza, potrà esercitare
370
Cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 29 ottobre 1994,n. 406, in Mass. Cons. Stato, 479.
Cons.Reg. sic. 21 dicembre 1982 n. 92 che fa propria la tesi di A. M. Sandulli, Il problema dell'esecuzione
delle pronunce del giudice amministrativo, In dir.soc., 1982, 19.
371
206
cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia i poteri sostitutivi attribuitigli in sede
di ottemperanza, sia i poteri cassatori e ordinatori che gli competono in sede di
giurisdizione generale di legittimità, mediante l'integrazione dell'originario disposto della
sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera esecuzione, ma attuazione in senso
stretto, dando così luogo al noto fenomeno del giudicato a formazione progressiva372.
La posizione è stata ripresa dal Consiglio di Stato secondo il quale “il giudicato, pur
mancando di vincolatività per gli aspetti diversi da quelli toccati dalla sentenza, non può
restare senza influenza anche per i primi: con l'effetto che, in linea di principio, gli atti
posti in essere dall'amministrazione in sede di adempimento dell'obbligo di conformarsi al
giudicato hanno come punto di riferimento primario proprio le statuizioni del giudicato.
Sicchè la verifica di quella conformità spetterebbe, almeno in via di massima, al giudice
dell'ottemperanza, il quale deve ormai verificare se il preteso atto attuativo si discosti dal
diritto.”373
Per quanto suggestiva, la tesi del giudicato a formazione progressiva non è stata
accolta dalla dottrina la quale non ha mancato di rilevare come nozioni quali quella del
giudicato a formazione progressiva, rischiano di rendere “ancor meno definiti i confini,
già difficili da tracciare nel concreto, tra cognizione ed esecuzione e far regredire in
secondo piano la sentenza pronunciata in sede di cognizione”374.
Su analoghe posizioni si è assestata la giurisprudenza maggioritaria, la quale
resta fedele all’idea che la legittimità di un provvedimento sopravvenuto al giudicato
possa essere delibata o nell’ambito del giudizio di ottemperanza solo se la nuova
determinazione risulti palesemente elusiva delle regole di azione dettate dal giudicato,
dovendosi altrimenti denunciarne l’invalidità con autonomo ricorso nelle forme del
giudizio ordinario 375.
372
Cons. Giust. Amm. Reg. sic., 29 ottobre 1994, n. 406, cit.
Consiglio di Stato, sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134.
374
M. CLARICH, “Il giudizio amministrativo d’esecuzione, in G. Paleologo ( a cura di ) “I consigli di
Stato di Francia e d’Italia”, Milano, 1998, 325; nello stesso senso E. CANNADA BARTOLI, “Processo
amministrativo ( considerazioni introduttive ), in Noviss.)Dig. It., XIII, Torino, 1996, 1079 .
373
375
Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2003, n. 2197, in Cons. Stato 2003, I, 1009; Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio
2003, n. 239; Tar Abruzzo, 13 febbraio 1003, n. 40, in I Tar, 2003, I, 1557, secondo cui i provvedimenti
affetti da vizi propri, anche se non satisfattivi dell’interesse del ricorrente vittorioso, possono essere
impugnati solo con un normale ricorso di cognizione. La nozione di giudicato a formazione progressiva è
satat recentemente richiamata da Consiglio di Stato, sez. VI, 3 marzo 2008 n. 796, in www.giustamm.it.
207
5.2 La soluzione elaborata dalla giurisprudenza tedesca dell’unica possibilità di
scelta e le sue applicazioni in campo nazionale.
Si deve, da ultimo, sottolineare una recente tendenza a rendere ancora più
incisiva e sostanziale la tutela giurisdizionale amministrativa del ricorrente nei confronti
dei poteri amministrativi eccedenti il giudicato.
Ci si riferisce a quel particolare orientamento giurisprudenziale376 secondo il
quale all’indomani di un giudicato di annullamento l’amministrazione ha l’onere, nel
rivalutare la situazione e dunque nell’adottare il provvedimento con il quale dà
esecuzione al giudicato, di esplicitare tutte le questioni di fatto e di diritto che ritenga
rilevanti al fine della composizione degli interessi in gioco.
Ne deriva che in caso in cui sia annullato anche il secondo provvedimento,
l’amministrazione non potrà più dedurre, tanto in sede processuale che procedimentale,
nuovi motivi a sostegno del diniego (o, in genere del nuovo provvedimento avente il
medesimo contenuto di quello annullato), con la conseguenza che il terzo
provvedimento, deve ritenersi emanato in violazione del giudicato.
La tesi in parola individua pertanto un punto di equilibrio tra l’esigenza di
effettività della tutela e la salvaguardia dei margini di discrezionalità dell’attività
amministrativa, nello sbarramento per l’amministrazione, discendente dal giudicato, di
respingere per la terza volta la richiesta del privato.
La seconda pronuncia di annullamento, secondo detto orientamento, non si
limita, quindi ad annullare l’atto impugnato, ma comporta l’effetto di precludere un
terzo rigetto, recando con sé un accertamento della spettanza del bene della vita
illegittimamente negato.
Il
terzo
provvedimento
eventualmente
negativo
(o
comunque
lesivo
dell’interesse del ricorrente) sarà allora sottoposto alla cognizione del giudice
dell’ottemperanza stante la violazione dell’obbligo, discendente dal giudicato, di
esplicitare tutti i motivi di diniego377.
376
Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 1999, n. 134, in Cons. Stato, con nota di A. Russo, La frontiera
dell’ottemperanza verso una vera effettività della tuteal giurisdizionale, 1999, p. 1229 ss; conf. Cons. Stato,
sez. V, 28 giugno 2004, n. 4775, in Cons. stato, 2004, I, 1319; Tar liguria, Genova, sez. I, 13 maggio 2003, n.
627, in I Tar, 2003, I 1007; id. sez. I, 21 febbraio 2002, n. 174, in Foro amm. Tar, 2002, 436, con commento
di R. Spagnuolo Vigorita, Cognizione ed esecuzione specifica: un passo avanti nell’uso dei poteri istruttori;
Cons. Stato, 28 gennaio 2002, n. 49, in Cons. stato, 2002, I, 176.
377
Cfr. Tar Calabria, sez. II, 7 giugno 2002, n. 1604, in Fpro amm. Tar, 2002, 2184; da ultimo cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4829 secondo cui “ … a seguito di un primo giudicato amministrativo di
annullamento, da un lato l’amministrazione non è libera di determinarsi senza alcun limite; dall’altro canto,
non è possibile né precluso un nuovo provvedimento. Più in particolare, a seguito di un primo giudicato di
208
La giurisprudenza di primo grado ha fatto applicazione dell’orientamento sopra
citato anche in campo cautelare, giungendo ad affermare che a seguito di un primo
provvedimento di diniego, il successivo pronunciamento da parte dell’amministrazione,
anche se poggia non su un giudicato di annullamento ma su una mera misura cautelare,
rappresenta “… l’ultima possibilità concessa all’amministrazione” con la conseguenza
che il dispositivo della sentenza di primo grado non si limiterà ad annullare il diniego
ma disporrà “… il rilascio, in favore del ricorrente, dell’autorizzazione”.
La soluzione ricalca per certi versi quella di origine tedesca c.d. dell’unica
possibilità di scelta (one shoot)378, secondo la quale i presenza di concetti guridici
indeterminati, ossia di determinazioni normative che lasciano un margine di scelta in
capo all’amministrazione, esista una sola possibilità di scelta compatibile con i precetti
contenuti nella disciplina normativa, pienamente sindacabile da parte del giudice
amministrativo379. Sicché, una volta eliminato il provvedimento viziato resta inibita
all’amministrazione la possibilità di adottare un provvedimento del medesimo
contenuto.
La tesi si fonda sull’assunto che la pubblica amministrazione non disponga di
discrezionalità sul fronte della fattispecie normativa e che quindi l’interpretazione della
legge porti ad un’unica soluzione corretta.
Tale concezione a sua volta si basa su un’applicazione rigida sia del principio
della separazione dei poteri, che confina il potere esecutivo in un ruolo prevalentemente
attuativo del dettato normativo, sia dell’art. 19, c. 4 del Grundgesetz, che garantisce la
pienezza della tutela giurisdizionale.
In base a tale orientamento pertanto alla sufficiente determinatezza della norma
deve accompagnarsi un controllo altrettanto incisivo dell’autorità giudiziaria380.
L’indirizzo non è peraltro univoco, prevedendo circostanze di fatto suscettibili di
porre limiti al controllo dell’autorità giudiziaria anche con riguardo al disposto
normativo effettuata dall’amministrazione.
annullamento, in ragione della c.d. inesauribilità del potere amministrativo, scaturisce il dovere della
pubblica amministrazione di riesaminare una seconda volta l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le
questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l’avvenire e in sostanza, una terza volta) di tornare a
decidere sfavorevolmente in relazione a circostanze non esaminate.”
378
E. Schmidt-Assmann, Einleitung, in Schoch/Schmidt-Assmann/Pietzner, Verwaltungsgerichtsordnung,
commenta, Munchen, 1996, Rn. 186 ss.
379
Sui limiti al sindacato giurisdizionale sui concetti giuridici indeterminati cfr. C. Frankel-Haeberle,
Giuridizione sul silenzio, op. cit., 15 ss.
380
B. Varadinek, Ermess und gerichtliche Nachprufbaket im franzosischen und deutschen
Verwaltungscgrecht und im Recht der europaischen Gemeinschaft, Dissertation, Berlin, 1993, p. 106 ss.
Riportato da C. Fraenkel-Haeberle, Giurisfizione sul silenzio, op. cit., p. 24.
209
E’ stata conseguentemente tipizzata una casistica di situazioni nelle quali un
seppur ristretto spazio di valutazione amministrativa deve essere riconosciuto anche
nell’ambito dell’attività normativa in ragione della particolare rilevanza degli interessi
coinvolti (es. scelte in materia energetica), ovvero per la complessità delle decisioni
(es. formulazione di elementi prognostici funzionali all’assunzione di decisioni
politiche) 381.
In realtà la tesi dell’unica possibilità di scelta appare difficilmente conciliabile
con il quadro normativo nazionale, a tacer d’altro, per due ragioni.
Innanzitutto la soluzione elaborata dalla giurisprudenza tedesca sembra riferirsi
alle sole fattispecie connotate da discrezionalità tecnica, essendo assimilabile a
quest’ultima la nozione di “concetto giuridico indeterminato”, con esclusione dei casi in
cui al giudicato amministrativo sopravvivano spazi di discrezionalità amministrativa
pura.
Peraltro anche in dette ipotesi l’applicazione dei principi elaborati dalla
giurisprudenza tedesca desta qualche perplessità sotto il profilo della coerenza interna
del sistema processuale nazionale, dal momento che il nostro ordinamento, a differenza
di quello tedesco, pur quando ammette il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità
tecnica
lo ammette sempre nelle forme del sindacato non sostitutivo, laddove la
giurisprudenza tedesca come si è detto, prevede di regola la piena sindacabilità, delle
decisioni amministrative adottate in presenza di concetti giuridici indeterminati.
Secondariamente non si vede quale possa essere nel nostro ordinamento la base
teorica su cui fondare il limite al riesercizio dell’attività amministrativa al secondo
giudicato di annullamento (almeno nell’applicazione della tesi fatta dalla giurisprudenza
nazionale).
Nel silenzio del legislatore non è individuabile alcun discrimen tra primo e
secondo provvedimento successivo alla pronuncia di annullamento; sembra pertanto più
coerente con il sistema ritenere che già in prima battuta, ossia nel corso del primo
giudizio di annullamento l’amministrazione abbia l’onere di esplicitare le ragioni poste
a fondamento del provvedimento impugnato.
Da ciò discende che già il primo atto, con il quale l’amministrazione reitera il
contenuto del provvedimento annullato, sulla base di ragioni diverse da quelle poste a
fondamento del primo provvedimento ma deducibili al tempo del processo, sarebbe
impugnabile in sede di ottemperanza, ferma restando, si intende, la possibilità per
381
Cfr. C. Fraenkel-Haeberle, Giurisfizione sul silenzio, op. cit., p. 26 ss.
210
l’amministrazione di adottare un diverso assetto di interessi rispetto a quello
stigmatizzato nel giudicato, al sopravvenire di nuove ragioni di fatto o di diritto.
211
Conclusione sistematica: realizzazione della logica della spettanza e
processualcivilizzazione del giudizio amministrativo.
Si può tentare a questo punto di azzardare qualche conclusione in ordine allo
“stato dell’arte” della giustizia amministrativa nel nostro ordinamento.
Si era aperta questa indagine riferendo il pensiero di un illustre autore il quale
poneva un pesante interrogativo intorno ai riflessi che l’entrata in vigore della
costituzione repubblicana avrebbero dovuto produrre sull’amministrazione della
giustizia in genere e in special modo d quella amministrativa.
Com’è evidente un ruolo fondamentale nella mediazione degli effetti della
costituzione repubblicana nel sistema di giustizia amministrativa è stato svolto dalla
giurisprudenza la quale però ha talora dimostrato un atteggiamento contraddittorio
caratterizzato da una parte da vistose fughe in avanti (si pensi all’evoluzione in tema di
tutela cautelare, di vizi formali solo per fare degli esempi), dall’altra da atteggiamenti i
chiusura (si pensi all’atteggiamento restrittivo tutt’oggi tenuto dalla giurisprudenza in
ordine alla tipologia di pronunce adottabili d parte del giudice amministrativo).
Per parte sua il legislatore si è limitato ad interventi rapsodici senza mai attuare
una revisione complessiva del sistema.
Il sistema di giustizia amministrativa sembra pertanto ancor oggi permeato da
una visione oggettivistica della tutela amministrativa che finisce per tradursi in un grave
deficit di tutela per il ricorrente.
Nel corso della trattazione ci si è chiesti se tale vuoto di tutela possa essere
colmato facendo ricorso alle norme e ai principi che governano il processo civile.
La questione è complessa e come tale ci pare non sia suscettibile di risposte
univoche. Quello che si può dire è che il sistema di giustizia amministrativa come
ricostruito oggi dalla scarna disciplina di diritto positivo e dall’interpretazione della
giurisprudenza è un sistema senz’altro perfettibile, come dimostrato alla incessante
opera ricostruttiva della dottrina e dalla giurisprudenza in oltre un secolo dalla nascita
della IV sezione del Consiglio di Stato.
Che tale miglioramento debba passare attraverso la civilizzazione forzata del
giudizio amministrativo pare quanto meno dubbio.
Il rischio che si corre operando in tal senso è da una parte quello di trasformare il
giudice amministrativo in amministratore, dall’altra di farne un inutile doppione del
giudice ordinario.
212
Tanto varrebbe a questo punto affermare i carattere unitario della giurisdizione
analogamente a quanto fatto dai giuristi dell’area tedesca, ossia in una giurisdizione
unica che i svolge in complesse ed autonome articolazioni (ordinaria, amministrativa,
finanziaria, del lavoro e sociale: artt. 92 e 95 GG)382.
Il nostro ordinamento ha imboccato invece una strada diversa. La Costituzione
repubblicana ha previsto accanto al giudice ordinario un giudice speciale che è tale non
perché speciale è la tutela che assicura ma perché speciali sono gli interessi coinvolti
dalle controversie di cui conosce.
Il giudice amministrativo è tenuto a mediare dunque l’esigenza di garantire una
giustizia che l’art. 24 Cost. vuole sempre più “effettiva” con l’esigenza di salvaguardia
dell’esercizio del potere i cui tratti caratterizzanti possono scorgersi nella inesauribilità
e nella indisponibilità.
Il che non vuol dire però indulgere alla rassegnazione. Vi sono limitazioni nella
tutela giurisdizionale amministrativa, che come si è tentato di mettere in rilievo nel
corso della trattazione non trovano ragione nella descritta specialità del sistema.
Si pensi alle limitazioni tutt’oggi esistenti in materia di istruzione probatoria e di
accesso al fato del giudice amministrativo, ovvero alle limitazioni in ordine alla
tipologia di pronunce adottabili.
Sotto il profilo delle garanzie del giusto processo appaiono insoddisfacenti gli
approdi della giustizia amministrativa in ordine alla nozione di controinteressato nel
processo, nonché in ordine ai poteri ufficiosi del giudice amministrativo nella chiamata
in causa di terzi interessati.
In genere poi il sistema probatorio risente di ingiustificate limitazioni
difficilmente conciliabili con il nuovo volto del processo amministrativo così come
viene emergendo dai numerosi interventi di riforma.
382
Per un ampio panorama dei vari sistemi di giustizia amministrativa v. G. F. Ferrari, voce Giustizia amministattiva
in diritto comparato, in Digesto delle discipline pubblicistiche, VII, 567 ss, e in particolare, p. 591 ss. Per più
approfonditi riferimenti al processo amministrativo v. A. Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo,
Milano, 1991; nonché Badura, la recente novella alla legge tedesca sul processo amministrativo, in Dir. proc. am,m.,
1992, p. 31 ss.
213