Nicola Fazzini
foto Diego Landi
metamorfosi in quartet
di Andrew Rigmore e Antonio Terzo
Studiare, ricercare, comporre, arrangiare: parole chiave per il sassofonista Nicola Fazzini.
Formatosi in Austria e Olanda, ma pure a Siena, sta cavalcando un’intensa carriera che lo ha già
visto al fianco di Mark Murphy, Enrico Rava, Peter Erskine.
Tra i progetti in corso, l’XYQuartet con l’amico Fedrigo, il nuovo Try Trio e il quartetto con cui ha
inciso il Cd “Metamorfosi”. Dove studiare, ricercare, comporre e arrangiare prendono ancora forma.
C’è ancora chi ricorda la tua esperienza con Dario
Volpi, Danilo Gallo, Zeno de Rossi in Palo Alto, un
progetto particolare, si potrebbe dire “all’avanguardia”: cosa t’è rimasto e quanto è cambiato il
tuo approccio musicale da allora?
Palo Alto è stato molto importante per me. A trent’anni avevo già avuto la fortuna di suonare con qualche musicista importante — Rava, Mark Murphy,
Peter Erskine — però Palo Alto è stato il primo vero
e proprio progetto, un lavoro alla base del quale c’è
stata una bella amicizia, molti ascolti, composizione,
arrangiamento, e che ci ha portato a suonare molto,
specie all’estero, dove abbiamo partecipato anche
a rassegne e festival di rilievo. Sono cambiate molte
cose da allora, per me, ma penso che nella musica
ciò che conta è il processo e quello da allora nella sostanza è rimasto identico: cercare materiale musicale interessante, studiare, comporre e arrangiare.
Hai avuto importanti esperienze formative in Austria e Francia. Cosa ritieni renda più interessante
il jazz, in senso lato, del resto d’Europa, pur con
le varie differenze riscontrabili nei diversi paesi,
rispetto a quello italiano?
La mia esperienza più lunga all’estero è stata in Austria e sicuramente quello che mi ha maggiormente
colpito è stata la grande preparazione che hanno
professionisti e dilettanti: buona lettura, pluristrumentisti, disciplina, accuratezza e molto rispetto
per la musica. Dell’Olanda mi ha invece colpito la libertà espressiva e l’informalità, vedere musicisti
classici suonare in blue jeans in sale dove il pubblico
può tranquillamente bere una birra ascoltando musica contemporanea, come in un jazz club. In generale, all’estero ho notato la capacità di fare sistema
tra diversi interlocutori del mondo della musica. Managers, musicisti, giornalisti e organizzatori sembrano esserne consapevoli, discendendone, ad
esempio, la capacità di sostenere artisti locali e
contemporaneamente essere aperti a influenze
esterne. Noi italiani abbiamo grandi eccellenze ma
poca propensione a lavorare in squadra e pensare al
bene comune.
Non riscontri una maggiore apertura ed una maggiore voglia — “fame” — di ricerca (sonora, formale, ecc.) fuori dall’Italia?
Lo scorso anno ho fatto un tour di quasi un mese in
Asia — Taiwan, Cina, Hong Kong, Macao — e lì ho percepito quella sensazione di “fame”, enorme curiosità, apertura, che forse c’era in Italia per il jazz
negli anni ’60 e ’70, quando Il jazz riempiva gli stadi.
JazzColours | dicembre ’13
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foto Marzia Baso
Al Taichung Jazz Fest abbiamo suonato davanti a più
di 50.000 persone. In questo senso in Europa le cose
sono mutate quasi fisiologicamente in una direzione
più pacata e tradizionalista. Però, il desiderio di ricerca è insito nella natura umana, per cui forse si
tratta di guardare altrove e con occhi diversi. Oggi
parlare di jazz, di musica colta o di rock come linguaggi innovativi mi sembra non abbia più senso, e
all’interno di un singolo stile difficilmente si apriranno oggi nuove strade, perché con l’avvento delle
nuove tecnologie è cambiato il modo di ascoltare la
musica. Oggi parliamo di playlist, non più di Cd. La
musica di oggi sembra però poter andare anche in
una direzione nuova ed eccitante dove scrittura, improvvisazione, elettronica possano convivere grazie
alla forza delle idee musicali. Intorno a questo tipo
di proposta, secondo me, potremmo ritrovare entusiasmo e pubblico inaspettato.
Al di là del dato geografico, e dunque delle influenze che possono derivare dall’intorno, cosa
credi che invece renda particolare il jazz italiano?
Il jazz italiano è apprezzato all’estero per l’energia, il talento musicale, la simpatia, l’estro di molti
dei nostri interpreti. Queste sono meravigliose qualità che ci rendono amati e rispettati. Mi piace20
JazzColours | dicembre ’13
rebbe, però, che si aprisse una nuova strada del jazz
italiano, dove essere riconosciuti anche per la profondità e l’originalità della ricerca musicale. Sarebbe importante.
Con Alessandro Fedrigo avete messo su l’XYQuartet, un progetto che vi sta dando molte soddisfazioni con l’album “Idea F”: come nasce l’idea di
un quartetto sax-vibrafono-contrabbasso-batteria?
Preme precisare che non è un contrabbasso ma un
basso acustico: Alessandro è uno dei pochi in Italia a
suonarlo con perizia. La scelta degli strumenti è probabilmente legata ai nostri ascolti di John Hollenbeck, Claudia 5et, e l’ottetto e il quintetto di Steve
Lehman. Il vibrafono certamente dà un colore armonico interessante, meno determinato del piano e più
adatto a creare di volta in volta dei veri e propri tappeti sonori o figurazioni ritmiche. Però il punto centrale del nostro lavoro ci piacerebbe fossero le idee.
Io e Alessandro da ormai quattro anni ci confrontiamo
alla ricerca di nuove strade compositive e improvvisative e in questo percorso siamo stati fortunati a
trovare musicisti aperti e disponibili come Luca Colussi e Luigi Vitale, prima, e Saverio Tasca, ora.
Con un quartetto a tuo nome hai appena pubbli-
cato un nuovo album, “Metamorfosi”, che racchiude tue composizioni. Qual è stato l’input iniziale di questo lavoro?
A qualche anno dal primo lavoro con questa formazione, “Watch Your Step”, mi sembrava importante
ripetere l’esperienza di incidere un altro lavoro a
mio nome. “Metamorfosi”, anche se pubblicato dopo
“Idea F” di XYQuartet, è un lavoro precedente ad
esso. In qualche modo la sonorità è più legata ad
un’idea di modern mainstream. Però il lavoro di ricerca, composizione, in sostanza il processo, come
dicevamo prima, è stato in qualche modo identico:
ricerca, studio e duro lavoro.
C’è un gran lavoro sulle progressioni armoniche
nelle tue composizioni per questo disco: anche
questo aspetto è parte del concept originale?
Lavoro armonico, ma anche quello melodico e ritmico
sono riconducibili alla sola scala eptatonica con due
seconde aumentate che genera, attraverso varie metamorfosi, la quasi totalità delle composizioni e dei
suoni del Cd. Sul blog del sito a mio nome ho pubblicato una breve analisi dei primi tre brani dell’album.
Cosa c’entra Black Narcissus di Joe Henderson con
le “metamorfosi”?
La versione di Black Narcissus che ripropongo ha
delle importanti variazioni ritmiche rispetto all’originale e non è suonata e concepita all’interno del
disco come un tributo o uno standard. È un arrangiamento che ho fatto per un corso di musica d’insieme su Joe Henderson qualche anno fa, che poi mi
è sembrato valido, stimolante e in questa versione
NICOLA FAZZINI QUARTET
METAMORFOSI
(Caligola Rec. - 2013)
Nicola Fazzini (sa), Riccardo Chiarion
(ch), Stefano Senni (cb), Luca Colussi
(bt)
Metamorfosi I
Metamorfosi II
Metamorfosi III
Black Narcissus
Il Cubo di Escher
Low Mooon
Swan Song
adatto al repertorio del nuovo gruppo.
E siccome non ti fermi mai, ecco uscire pure
“Sphere”, album del nuovissimo Try Trio con il
batterista Francesco Cusa e Gabriele Evangelista
al contrabbasso. “Sphere” riporta a Monk e non a
caso ci sono cinque brani dello spigoloso pianista
afroamericano: si tratta dunque di un tributo? E
come vi si inseriscono i vostri pezzi collettivi?
È un lavoro veramente diverso da quelli di cui abbiamo parlato finora. È un disco che nasce da un incontro estemporaneo e da situazioni inaspettate e
in questo senso, come spesso succede nel jazz, Monk
è il luogo in cui ci siamo incontrati, ma la strada che
abbiamo intrapreso dopo è stata diversa, molto libera. Il mondo dell’improvvisazione libera o free non
è il mio territorio preferito, pur avendolo frequentato, non l’ho mai sentito come mio. Probabilmente
questo è un mio limite, ma onestamente ho la sensazione che molti dei lavori del free di oggi vengano
erroneamente percepiti come innovativi, mentre in
realtà sono divenuti a loro volta appartenenti a un
mainstream, dei classici per così dire, belli ma non
certo nuovi. Il risultato di questo disco però è sorprendentemente fresco per me. C’è un bellissimo
equilibrio. Con l’esperienza e l’estro di Francesco
Cusa e grazie alla grande maturità, a dispetto dell’età — accidenti a lui! — di Gabriele Evangelista è
stato tutto molto facile e naturale. Credo che né ai
concerti né durante la registrazione abbiamo mai
avuto bisogno di parlare di quello che saremmo andati a suonare e di come lo avremmo suonato. Un’alchimia naturale… una vera empatia.
Un album di modern mainstream, lo definisce Fazzini: un disco che per ricerca, studio e conseguente rigore concettuale non ha
nulla da invidiare a molti dei lavori che si
collocano nel contesto del moderno jazz europeo, diremmo noi. Metamorfosi I è arrembante e immediatamente travolgente,
Metamorfosi II ammalia e conquista con il
suo ritmo languido e ammiccante, Metamorfosi III, introdotta dai danzanti tamburi di
Colussi, è quasi africana, tribale: ma tutte
sono originate dalla sola “scala eptatonica
con due seconde aumentate”, quella su cui
poi si misurano le linee tematiche e le diverse rimodulazioni improvvisative. Ed è la
stessa scala che Fazzini utilizza per introdurre Black Narcissus, standard di Joe Henderson che però il contraltista milanese di
nascita, ma veneto d’adozione, rilegge con
tempo dilatato, così che ogni singola nota
possa essere pensata, soppesata: dalla progressione introduttiva all’assolo pregnante
della chitarra, a quello levigato del contralto. Il Cubo di Escher trova un momento
particolarmente riuscito nell’intervento del
sassofonista, sotto scorta della sola batteria:
avvincente. Da non dimenticare le sottolineature del walking bass di Senni, in stato di
grazia anche durante il contrappunto abbinato all’invenzione estemporanea di Chiarion. Dal suono pulito e solitario di Fazzini
prende avvio Low Moon, ballad nottambula
anch’essa costruita sulla medesima scala,
che sul tempo largo assume riflessi chiaroscuri poco percettibili negli altri pezzi, imprimendosi pure più facilmente nelle
orecchie dell’ascoltatore, grazie al turnaround finale. A far da ponte verso l’ultimo
brano un riflessivo monologo di Senni, viatico
per Swan Song: il tema è esposto dal contralto, ma è ancora la splendida cavata del
contrabbassista ad aprire ai giochi d’estemporaneità, lineare il fraseggio di Fazzini, articolato quello del chitarrista. Un’idea
covata, fortemente voluta, rifinita nei dettagli, dalla quale si sviluppa un intero album,
sorprendente per sfumature e vividezza di
colori: un importante tassello nella discografia di Fazzini, che si conferma raffinato
compositore e fine teorico._An.Rig.&An.Te.
JazzColours | dicembre ’13
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foto Marzia Baso
Il progetto altrui più interessante in cui sei stato coinvolto?
Difficile rispondere a questa domanda. Ho fatto tante
belle esperienze, e anche e soprattutto da quelle negative
ho imparato molto. Di recente è stato molto stimolante
suonare nel quartetto di Ananda Gari, giovane e interessante batterista pugliese, ospite il chitarrista newyorkese
Miles Okazaki che ci ha fatto conoscere e approfondire la
sua musica, molto interessante, profonda e affascinante.
E quello che ritieni più interessante fra i tuoi?
Il più interessante è sempre il prossimo perché deve ancora cominciare! Scherzi a parte, a marzo ci sarà la prima
di un progetto ambizioso e importante: CREI, [che sta per]
Composizione, Ricerca e Improvvisazione. È un composers
ensemble che sto di fatto formando in questi giorni, in collaborazione con MusiCaFoscari, quindi l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e l’associazione Nusica, l’etichetta che
produce XYQuartet. Una dozzina di elementi sul palco con
musica originale, di ricerca, su licenza Creative Commons.
Sono molto emozionato per questo nuovo lavoro, un impegno che sicuramente richiederà molta energia creativa
e organizzativa, non avendo mai scritto nulla prima per un
ensemble così largo. In questo senso per me un progetto
musicale non è solo creatività artistica ma è e deve essere
anche capacità organizzativa e responsabilità. Da anni dirigo la scuola “Monk” e la rassegna “Jam”, entrambe con
sede a Mira nel veneziano e collaboro con altre associazioni e manifestazioni come Nusica.org e Silejazz. Questi
per me sono impegni altrettanto importanti di quelli creativo-musicali tout-court, perché rappresentano, attraverso
proposte innovative, partecipate e fuori dai consueti canali, il mio piccolo contributo — almeno spero — al cambiamento di questo paese, di cui tutti fanno un gran
parlare, ma con il quale poi nessuno sembra volersi mai
confrontare veramente.
Cosa stai ascoltando al momento?
Il nuovo Cd di XY che uscirà nel 2014. Stiamo facendo editing, mix e così via, con ascolti e riascolti a distanza.
E quando invece cerchi stimoli nuovi, ascolti jazz made
in USA, avanguardie oppure tutto tranne del jazz?
In relazione al progetto CREI di cui parlavo prima sto soprattutto componendo, studiando e leggendo molto e
ascoltando musica di conseguenza. Nel ’900 ci sono stati
molti compositori e musicisti geniali che specialmente
nella musica cosiddetta classica hanno seminato idee i cui
frutti stanno nascendo ora. Pensate all’influenza dello
spettralismo nella musica di Lehman o al minimalismo in
quella di Vijai Iyer e negli ultimi lavori di Hollenbeck. O
anche arrangiatori jazz come Bill Russo, o ensemble difficili da classificare come Bang On A Can. C’è ancora un
sacco di musica da scoprire, da ascoltare e da capire.