IV DOMENICA DI QUARESIMA 2 Cr 36,14-16.19-23 Siamo alla conclusione di una vasta opera storiografica, che l’esegesi attribuisce ad una scuola sacerdotale del postesilio, opera che comprende i due libri di Cronache e forse anche Esdra e Neemia. Il cronista vede la storia d’Israele come una storia di abomini, che attentano al cuore stesso della vita religiosa del popolo, ossia alla purezza del tempio. L’intera vicenda d’Israele e di Giuda è quindi quella di una serie di richiami premurosi che Dio ha attuato nei confronti del suo popolo, inviando dei profeti, i suoi messaggeri. Tutti questi invii di profeti sono dovuti all’amore compassionevole del Signore per il suo popolo e per la sua dimora in mezzo a loro. A questa compassione del Signore corrisponde, da parte del popolo, non l’accoglienza ma il rifiuto e il disprezzo verso i profeti, divenuti oggetto di scherno. La risposta negativa suscita in Dio un’ira che giunge al suo culmine, presentandosi come ormai senza rimedio. Tale valutazione della storia delle relazioni tra Dio e il popolo intende spiegare la ragione della caduta di Gerusalemme, della sua distruzione e dell’esilio in Babilonia di coloro che erano scampati alla strage. L’autore, però, ha ben chiaro un fondamentale principio teologico: il Signore della storia è soltanto Yhweh e non le varie potenze politico-militari che si succedono. Anzi, esse sono misteriosamente al servizio del compiersi della parola del Signore. L’autore del secondo Libro delle Cronache, cita Ger 29 per quanto riguarda la durata dell’esilio che serve, secondo la corrente sacerdotale, per la purificazione dei sabati non osservati da Israele. In definitiva, il principio teologico con cui egli legge la storia, è quello della ‘retribuzione’, per cui al peccato corrisponde il castigo, alla fedeltà nel bene il premio. L’intento che Dio persegue non è dunque il castigo del peccato, ma la conversione e la vita del peccatore. E’ quanto il popolo sperimenta nella sua storia con il ritorno nella terra dopo la deportazione in Babilonia. Ecco perché l’autore insiste sul fatto che la parola di Dio attraverso Geremia (29,10) si compie interamente. Affinché tale parola si adempia, il Signore desta lo spirito di Ciro, re di Persia e questo suo intervento misterioso sfocia nell’editto regale del 538 a.C. Ciò che è più interessante, è che l’autore fa diventare questo editto imperiale una sorta di proclamazione di fede nel Dio d’Israele da parte del persiano Ciro:«Yhwh, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme» (2 Cr 36,23). Nella riedificazione del tempio l’autore vede il primo e fondamentale intervento di Dio per essere con il suo popolo, per avere letteralmente ‘casa’ in mezzo a loro. Inoltre l’editto presenta anche la sollecitazione del re persiano ai giudei deportati, perché tornino alla loro terra. Anche qui si presenta un Ciro teologo della storia, che riconosce in Giuda/Israele il popolo di Dio e come esso sia accompagnato e sostenuto, nel cammino dal suo Dio:«Il Signore, suo Dio, sia con lui e salga». 1 Gv 3,14-21: Dio è fedele alla sua Alleanza Il contesto della pericope liturgica è il più ampio dialogo con Nicodemo, nel corso del quale Gesù ha l’occasione di annunziare la possibilità di un nuova nascita, non frutto di risorse umane, ma del dono divino dello Spirito e dell’acqua, cioè la rivelazione cristologica. Il v. 14 introduce il tema dell’innalzamento del Figlio dell’Uomo: tale titolo cristologico ha certamente un’ascendenza danielica e si riferisce alla visione notturna di Dn 7. Nel vangelo di Giovanni il titolo di ‘Figlio dell’Uomo’ viene usato da Gesù in riferimento alla propria azione redentrice, al compimento della propria missione. L’espressione ‘Figlio dell’Uomo’, che Giovanni cita 13 volte, è una figura dinamica depositaria della rivelazione e soprattutto oggetto di esaltazione perché congiunge l’umile umanità alla sua gloria divina. L’innalzamento di cui si parla al v. 14, fa pensare subito all’innalzamento sulla croce che nella logica umana sembra il colmo dell’umiliazione e dell’abbassamento, ma che nella prospettiva pasquale assunta da Giovanni diventa la rivelazione della sua condizione regale perché è una morte per dedizione assoluta, per amare fino alla fine; l’innalzamento sul trono della croce diventa cioè un innalzamento a segno rivelatore di salvezza. Colui che è innalzato sulla croce diventa oggetto di contemplazione, come appare dalla tipologia istituita con il serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,9). Quanto precedentemente era stato affermato sulla missione del Figlio dell’Uomo, innalzato sulla croce, per donare la vita eterna a chi crede in lui, trova ora la sua fondazione teologica in una cristologia del Figlio in modo assoluto. Difatti il v. 16 inizia con una particella che talora ha un valore comparativo, ma quando è usata in modo assoluto assume una valenza esclamativa:«Fino a tal punto!». Inoltre la sua collocazione all’inizio della frase gli dà un valore assai enfatico. Si vuole così introdurre un’affermazione radicalmente unica e incomparabile, per dire il mistero di un amore di Dio assolutamente smisurato e che ha per oggetto il mondo. Il dialogo con Nicodemo si addentra poi in una serie di riflessioni di natura escatologica, tipicamente giovannea, che al contrario dei Sinottici anticipa il giudizio fin da ora, per cui esso si dà quando, invece della decisione di fede, si dà quella dell’incredulità. Chi crede ha già la vita eterna e con essa la promessa della risurrezione, mentre chi non crede è già condannato (Gv 3,18). In definitiva per Giovanni la decisione di incredulità pone la persona in un permanente stato di giudizio che si manifesterà nell’ultimo giorno. Nel prosieguo delle parole rivolte a Nicodemo, Gesù esplicita che il giudizio di condanna non è formulato da Dio, ma da chi si chiude alla luce divina venuta nel mondo e perciò risulta essere un’autocondanna. All’Amore incomprensibile di Dio, che giunge a dare il Figlio per il mondo, si contrappone il fatto che gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce. L’antitesi con cui si conclude il dialogo con Nicodemo vede l’opposizione tra chi fa il male e non viene alla luce e colui che fa la verità e viene alla luce. Fare la verità, nel vangelo di Giovanni, significa aprirsi al mistero di Cristo rivelatore, accogliendolo perciò come ‘luce’. La contrapposizione non è quindi tra un agire eticamente negativo e uno positivo, ma tra un agire ispirato all’incredulità e uno radicato nella fede cristologica. Infatti per Giovanni l’unica vera opera di Dio che l’uomo possa realizzare è la fede: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che Egli ha mandato» (Gv 6,29). Nicodemo ha accolto ciò che Gesù gli ha detto? Ha accettato di venire alla luce? La risposta la troviamo in Gv7,50, quando difende Gesù davanti al Sinedrio e poi quando, onora Gesù, in modo regale con le cento libbre di mirra e aloe (Gv 19,39). 2