La scelta impossibile dellappartenenza
- Alessandra Pigliaru, 18.06.2016
Scaffale. «Futuro interiore» di Michela Murgia, per Einaudi. «Esiliati dalle ideologie e arrivati ai
linguaggi digitali, i 40/50enni hanno mancato il tempo di ogni rivoluzione»
Nel suo Naufragio con spettatore, Hans Blumenberg parte dalla nota scena lucreziana che
appare nel secondo libro del De rerum natura e analizza lo svolgersi della metafora del naufragio,
paradigma dell’esistenza, in alcuni luoghi del pensiero occidentale. Ad altre latitudini il naufragio
non ha bisogno di metafore per essere compreso; significa già e drammaticamente morte, guerra,
olocausti sempre più vicini alle nostre serene sponde. E se ora gli spettatori lucreziani, salvi allo
stesso modo, sono stati catturati da smartphone e social-media che mostrano ancora più distante la
sciagura, sulla zattera sgangherata di sopravvivenza siamo imbarcati tutti, Vous êtes embarqué
scriveva Pascal. E aveva ragione nella misura in cui sfondare la parete che separa significa essere
coinvolti in quel rischio, affinché dalla pura e disincarnata contemplazione si arrivi al piano etico e a
un materialismo capace di raccontare il presente.
Anche il piccolo libro di Michela Murgia, Futuro interiore (Einaudi, pp. 84, euro 12), si apre
all’insegna del naufragio, in questo caso nella sua accezione sociale. Consapevole di raccontarne i
bordi da una posizione che le è propria, cioè di scrittrice e intellettuale che in più di un’occasione ha
mostrato intelligenza politica di lettura, Murgia convoca il naufragio a cui assistono – spesso loro
malgrado – le generazioni di donne e uomini fra i quaranta e i cinquant’anni. Quindi sottrae al
«paradigma dell’esistenza» il carattere che lo legherebbe alla condizione umana per situarlo con
precisione. Non comincia però con un dato di esperienza diretta, bensì affidandosi a un titolo
evocativo che la colloca in uno spazio teorico e pratico preciso: quello di un buco storico che, dopo
gli anni Settanta, non è riuscito a chiarire che tipo di eredità sarebbe toccata in sorte a chi è restato.
I soggetti di questo fallito risarcimento sono presto descritti: «Esiliati dalle ideologie e arrivati ai
linguaggi digitali come si arriva da adulti a una lingua straniera, i quaranta-cinquantenni hanno
mancato il tempo di ogni rivoluzione e lo sanno (…) Sono troppo giovani per considerare chiusa la
partita e troppo vecchi per giocarsela ancora a pieno fiato, ma hanno in fondo le stesse urgenze
primarie dei naufraghi del paradiso paasilinniano: sopravvivere e restare visibili». Eppure, se Arto
Paasilinna in Prigionieri del paradiso immaginava una futuribile isola deserta in cui inaugurare una
nuova organizzazione sociale, chi oggi è nell’età di mezzo indicata da Murgia ha una complessità da
decifrare che non può prevedere alcun tipo di azzeramento né di sospensione di giudizio.
«Usciamo dal presente per piombare in un futuro sconosciuto, ma senza dimenticare il passato, la
nostra anima è incrostata a sedimenti secolari e le radici sono più estese dei rami che vedono la
luce». Quando Maria Zambrano scrive queste poche righe le sue non sono solo Le parole del ritorno
ma una «visione di mondo» in cui, al di là del dilagare delle radici che vanno a trafiggere ciò che
avanza nostro malgrado, dei rami – senza di esse – non si avrebbe traccia alcuna. Il punto di
drammaticità in tutto questo non è allora il fatto di aver mancato il tempo di ogni rivoluzione, quanto
del desiderarsi fondativi di qualcosa a furia di diserbante.
Il futuro interiore di Michela Murgia, dove l’interiorità è il contrappunto di un’anima per l’appunto
trafitta, non è comunque privo di gratitudine, come accade invece quando si ascolta l’abbrivio di
alcune roboanti retoriche della rottamazione in cui, alla fine, ci si scopre ancor più disintegrati di
come la vita non faccia già di suo. L’interiorità di cui racconta Murgia è piuttosto l’anomalia stessa
del presente che, per sua stessa ammissione, lei indaga a partire da tre temi che negli ultimi anni
l’hanno sollecitata: identità, bellezza e potere insieme al darsi una possibilità di «sognare» ancora il
futuro.
Sul piano dell’identità, il ragionamento che viene consegnato è in linea con quanto sta accadendo in
Europa, ius sanguinis e ius soli hanno previsto schemi ideologici che li hanno strutturati negli stessi
sistemi asfissianti che li sostengono.
L’Europa, per Murgia, potrà essere al massimo multietnica ma non multiculturale giacché è proprio
il carattere monolitico dell’idea di identità a fondarne la struttura. O meglio a essere brandita nella
sua forma statica là dove si chiede adeguamento a chi vi aderisce quando non salvaguardia delle sue
origini. «Accettare che a definire l’appartenenza originaria di qualcuno siano il sangue e il suolo non
equivale a riconoscere che le occasionali condizioni di nascita siano un destino a cui sottrarsi non è
consentito, se non a un prezzo di un grandissimo sforzo personale che solo in pochi saranno poi in
grado di compiere?».
Se il diritto del sangue, così enunciato, sta alla base di modelli patriarcali e apre a una eredità che,
al pari di un patrimonio, si fonda sulle idee di razza e di famiglia intese come appartenenze
inaggirabili, bisogna dire con altrettanta chiarezza che di quel sangue che ha imbrattato secoli di
storia – non solo europea – andrebbero sottolineate le disfunzionalità e non la necessità di una
cittadinanza fondata socialmente attraverso la rivendicazione dei propri «genitori cittadini». Altro
discorso merita invece lo ius soli che invece per Murgia è un’ulteriore modalità per stabilire dettati
imperialisti. La cittadinanza dovrebbe spostarsi verso un ancora inesistente ius voluntatis, a una
scelta di appartenenza, là dove viene fatto l’esempio del Canada e del suo melting pot.
In tutto questo discorso, dove «la bellezza è una questione politica» e dove all’abbandono di un
progetto estetico si finisce nelle mani di governanti che scambiano i tentativi di invenzione come
disordine da reprimere, il «noi» che Michela Murgia utilizza con molta sicurezza non è costruito ma
si ritrova. Al pari di un a-priori tuttavia viene sì individuato come condizione di pensabilità e agire
ma di fatto configura solo ciò che si ritrova. È l’unico noi che ci si può permettere, quello del «noi
cittadini» che non è poco ma non per questo è sufficiente. Un riconoscimento comprato a saldi che
svuotato dal suo tenore teorico, teoretico e di materialità imprevedibile dei corpi può forse
soddisfare una mancanza relazionale strutturale? Il «noi cittadino», di rilievo politico, è allora un
voltarsi a osservare chi ci gravita attorno – in un gravitare neutro però, senza differenza,
disincarnato – che racconta l’intempestività di questo presente che vorrebbe serbare un’idea di
futuro. Da qui il baratro per chi a quaranta-cinquant’anni deve governare evenienze più che
l’interezza di un progetto, un tempo sinonimo della stessa esistenza.
Un cortocircuito singolare, a ben pensarci: da una parte c’è la misura di ciò che ci si può permettere,
anche se poca cosa, dall’altra c’è l’arrogarsi di una visibilità che i tecno-spettatori non
baratterebbero mai per niente al mondo. Non solo per il godimento delle altrui sventure ma anche
per la celebrazione della propria collettiva impotenza. Anche su questo punto il libro di Michela
Murgia riesce a cogliere una temperie caratterizzata da uno svuotamento che non ha niente di
generazionale ma tutto di politico.
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