1_4 IL TEATRO EPICO DI BERTOLT BRECHT – seconda parte

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IL TEATRO EPICO DI BERTOLT BRECHT – seconda parte
WALTER BENJAMIN
Studi per la teoria del teatro epico1
Il teatro epico è gestuale. Si può dire, a rigore, che il gesto è il materiale e il teatro
epico l’utilizzazione appropriata di questo materiale. Se si accetta questa definizione, si
presentano per intanto due problemi. Primo: donde rileva i suoi gesti il teatro epico?
Secondo: che cosa si intende per utilizzazione dei gesti? A queste domande se ne
aggiungerebbe poi una terza: sulla base di quali metodi ha luogo l’elaborazione e
critica dei gesti nel teatro epico?
Risposta alla prima domanda: i gesti sono ritrovati nella realtà. E precisamente (è
questa una constatazione importante, connessa nel modo più stretto con la natura del
teatro) soltanto nella realtà contemporanea. Nell’ipotesi che qualcuno scriva un
dramma storico, io affermo che egli sarà pari a questo compito solo se ha la possibilità
di associare, in modo sensato e sensibilmente evidente, gli eventi passati che
rappresenta a un gesto presente, tale da poter essere eseguito dall’uomo
contemporaneo. Da questa esigenza si potrebbero derivare certe cognizioni relative alle
possibilità e ai limiti del dramma storico. Poiché da un lato è certo che i gesti imitati
non hanno alcun valore a meno che non sia per l’appunto in discussione il processo
gestuale dell’imitazione. In secondo luogo è certo che il gesto ad esempio del papa che
incorona Carlo Magno, o di Carlo Magno che riceve la corona, oggi non compare più
altrimenti che come imitato. Materia grezza del teatro epico è dunque esclusivamente il
gesto che si può incontrare oggi, il gesto di un’azione o quello dell’imitazione di
un’azione.
Risposta alla seconda domanda: nei confronti delle dichiarazioni e asserzioni del tutto
ingannevoli della gente da un lato, nei confronti della plurivocità e imperscrutabiità
delle sue azioni dall’altro, il gesto ha due vantaggi. In primo luogo può essere
falsificato solo in una certa misura, e lo può tanto meno, quanto più è inappariscente e
abituale. In secondo luogo è possibile fissare il suo inizio e la sua fine, a differenza
delle azioni e imprese degli uomini. Questa rigorosa chiusura e delimitazione di ogni
elemento di un contegno che nella sua totalità è tuttavia caratterizzato da un vivo fluire,
è addirittura uno dei fondamentali fenomeni dialettici del gesto. Ne traiamo
un’importante conseguenza: otteniamo tanto più gesti, quanto più spesso
interrompiamo un’azione. Per il teatro epico l’interruzione dell’azione sta dunque in
primo piano. In tale interruzione risiede il valore dei songs per l’economia complessiva
del dramma. Senza voler percorrere la difficile ricerca sulla funzione dell’aria nel
teatro epico, si può constatare che in certi casi la funzione principale dell’aria — lungi
dall’illustrare o addirittura promuovere l’azione — consiste invece nell’interromperla.
E non solo l’azione di un estraneo, ma anche e altrettanto la propria. Sono proprio il
carattere ritardante dell’interruzione, il carattere episodico dell’incorniciamento che
(detto tra parentesi) fanno del teatro gestuale un teatro epico. Bisognerebbe ora vedere
a quali processi è sottoposta, sul palcoscenico, la materia grezza così preparata — il
gesto. Azione a aria qui non hanno altra funzione che quella di essere elementi variabili
in un esperimento. Ora, in quale direzione si trova il risultato di quest’esperimento?
La risposta a questa formulazione della seconda domanda non può essere separata dalla
discussione della terza: con quali metodi è compiuta l’elaborazione del gesto? Queste
domande aprono la vera e propria dialettica del teatro epico. Qui ci limiteremo a
indicare alcuni dei suoi concetti fondamentali. Dialettici sono anzitutto i seguenti
rapporti: quello del gesto con la situazione, e viceversa; il rapporto dell’attore
1
Da Walter Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, trad. it ., Einaudi , Torino 1973, pp. 173-75.
rappresentante con il personaggio rappresentato, e viceversa; il rapporto del
comportamento autoritariamente vincolato dell’attore con quello critico del pubblico, e
viceversa; il rapporto dell’azione rappresentata con quell’azione che si può vedere in
ogni specie di rappresentazione. Questo elenco è sufficiente per vedere come tutti
questi momenti dialettici si subordinino a quella suprema dialettica che dopo lungo
tempo è stata qui riscoperta, e che è determinata dal rapporto di conoscenza ed
educazione. Poiché tutte le conoscenze a cui perviene il teatro epico hanno un effetto
direttamente educativo, ma nello stesso tempo l’effetto educativo del teatro epico si
traduce immediatamente in conoscenze, che peraltro possono essere specificamente
diverse nell’attore e nel pubblico.
ROLAND BARTHES
I compiti della critica brechtiana2
Non è arrischiato prevedere che l’opera di Brecht acquisterà sempre maggiore
importanza; non solo perché è un’opera grande, ma anche perché è un’opera
esemplare: brilla, almeno oggi, di un eccezionale splendore in mezzo a due deserti: il
deserto del teatro contemporaneo dove, tolto Brecht, non ci sono grandi nomi da citare;
il deserto dell’arte rivoluzionaria, sterile a partire dagli inizi dell’impasse zdanoviana.
Chiunque voglia riflettere sul teatro e sulla rivoluzione dovrà incontrarsi fatalmente
con Brecht. Brecht stesso ha voluto così: la sua opera si oppone con tutta la sua forza al
mito reazionario del genio inconsapevole; possiede la grandezza che meglio conviene
al nostro tempo, quella della responsabilità; è un’opera che si trova in stato di
“complicità” col mondo, col nostro mondo: la conoscenza di Brecht, la riflessione su
Brecht, in una parola la critica brechtiana, è, per definizione, coestensiva alla
problematica del nostro tempo. Instancabilmente dobbiamo ripetere questa verità:
conoscere Brecht è di ben altra importanza che conoscere Shakespeare o Gogol’;
perché il suo teatro Brecht lo ha scritto precisamente per noi, e non per l’eternità. La
critica brechtiana è dunque una piena critica di spettatore, di lettore, di consumatore, e
non di esegeta: è una critica di uomini coinvolti. E se dovessi scrivere io stesso la
critica di cui abbozzo lo schema, non mancherei di far intendere, a rischio di sembrare
indiscreto, in che cosa quest’opera mi riguarda e mi aiuta, me, personalmente, in
quanto uomo concreto. Ma per limitarmi all’essenziale di un programma di critica
brechtiana darò solo i piani di analisi in cui questa critica dovrebbe successivamente
situarsi.
1) Sociologia. In generale non abbiamo ancora sufficienti strumenti d’indagine per
definire i pubblici di teatro. Del resto, almeno in Francia, Brecht non è ancora uscito
dai teatri sperimentali (salvo la Mère Courage del TNP, che è un caso poco istruttivo,
dato il controsenso della regia). Per il momento quindi si potrebbero solo studiare le
reazioni della stampa.
Ci sarebbero da distinguere quattro tipi di reazione. All’estrema destra, l’opera di
Brecht è integralmente screditata per il suo assunto politico: il teatro di Brecht è un
teatro mediocre perché è un teatro comunista. A destra (una destra più sottile, e che
può estendersi fino alla borghesia “modernista” dell’«Express»), si sottopone Brecht a
una tradizionale operazione di svuotamento della carica politica: si dissocia l’uomo
dall’opera, si abbandona il primo alla politica (sottolineando successivamente e in
modo contraddittorio la sua indipendenza e il suo servilismo nei confronti del Partito),
si arruola la seconda sotto le insegne del Teatro Eterno: l’opera di Brecht, si dice, è
grande malgrado lui, contro di lui.
2
Da Roland Barthes, Saggi critici, trad. it ., Torino 1972, pp. 38-43. Saggio apparso su «Arguments»,
1956.
A sinistra, c’è in primo luogo un’accoglienza umanistica a Brecht: Brecht sarebbe una
di quelle grandi coscienze creative dedite a una promozione umanitaria dell’uomo,
quali hanno potuto essere Romain Rolland o Barbusse. Sotto questa prospettiva
accomodante si cela purtroppo un pregiudizio antintellettualistico, frequente in certi
ambienti di estrema sinistra: per meglio “umanizzare” Brecht si scredita, o almeno si
minimizza, la parte teorica della sua opera: quest’opera sarebbe grande malgrado i
sistematici concetti brechtiani del teatro epico, dell’attore, dello straniamento, ecc.: si
recupera così uno dei teoremi fondamentali della cultura piccolo-borghese, il contrasto
romantico tra cuore e cervello, intuizione e riflessione, ineffabile e razionale,
contrapposizione che maschera, in ultima istanza, una concezione magica dell’arte.
Infine verso il teatro brechtiano si sono manifestate delle riserve da parte comunista
(almeno in Francia): in generale esse riguardano l’opposizione di Brecht all’eroe
positivo, la concezione epica del teatro e l’orientamento “formalista” della
drammaturgia brechtiana. A parte la contestazione di Roger Vailland, fondata su una
difesa della tragedia francese come arte dialettica della crisi, queste critiche discendono
da una concezione zdanoviana dell’arte.
Cito da un materiale raccolto a memoria; ma occorrerebbe riprendere la rassegna punto
per punto. Del resto, il problema non è affatto di confutare le critiche a Brecht, ma
piuttosto di accostarsi a Brecht a partire dai modi che la nostra società adotta
spontaneamente per digerirlo. Brecht rivela chiunque ne parli, e naturalmente questa
rivelazione concerne Brecht al massimo grado.
2) Ideologia. Alle “digestioni” dell’opera brechtiana bisogna contrapporre una verità
canonica di Brecht? In un certo senso e entro certi limiti sì. Nel teatro di Brecht c’è un
contenuto ideologico preciso, coerente, consistente, notevolmente organizzato, e che
protesta contro le deformazioni abusive. Tale contenuto va descritto.
A questo fine disponiamo di due tipi di testi: in primo luogo i testi teorici, di un’acuta
intelligenza (non è cosa di poco conto avere a che fare con un uomo di teatro
intelligente), di una grande lucidità ideologica, e che sarebbe puerile voler
sottovalutare col pretesto che sono un’appendice intellettuale di un’opera
essenzialmente creativa. Certo il teatro di Brecht è fatto per essere rappresentato. Ma
anche prima di rappresentarlo, o di vederlo rappresentare, nulla vieta di capirlo; questa
comprensione è organicamente legata alla sua funzione costitutiva, che è quella di
trasformare un pubblico nel momento stesso in cui lo diverte. In un marxista come
Brecht i rapporti fra la teoria e la pratica non devono essere sottovalutati o deformati.
Separare il teatro brechtiano dai suoi fondamenti teorici sarebbe altrettanto sbagliato
quanto voler comprendere l’azione di Marx senza leggere il Manifesto dei comunisti, o
la politica di Lenin senza leggere Stato e Rivoluzione. Non c’è deliberazione statale o
intervento soprannaturale che dispensi graziosamente il teatro dalle esigenze della
riflessione teorica. Contro tutta una tendenza della critica, occorre affermare
l’importanza capitale degli scritti sistematici di Brecht: considerare questo teatro come
un teatro pensato non significa indebolirne il valore creativo.
D’altra parte l’opera stessa fornisce gli elementi principali dell’ideologia brechtiana.
Posso indicarne qui solo i più importanti: il carattere storico, e non “naturale”, delle
sventure umane; il contagio spirituale dell’alienazione economica, il cui ultimo effetto
è di accecare sulle cause della loro schiavitù proprio quelli che essa opprime; lo statuto
correggibile della Natura, la plasticità del mondo; il necessario adeguamento dei mezzi
e delle situazioni (per esempio, in una cattiva società il diritto può essere ristabilito
solo da un giudice imbroglione); la trasformazione dei vecchi “conflitti” psicologici in
contraddizioni storiche, soggette come tali al potere umano di correzione.
Bisognerà però precisare che queste verità non sono mai date se non come esiti di
situazioni concrete, e queste situazioni sono infinitamente plastiche. Contrariamente al
pregiudizio della destra, il teatro di Brecht non è un teatro a tesi, non è un teatro di
propaganda. Dal marxismo Brecht non prende delle parole d’ordine, un’articolazione
di argomenti, ma un metodo generale di spiegazione. Ne consegue che nel teatro di
Brecht gli elementi marxisti appaiono sempre ricreati. In fondo la grandezza di Brecht,
la sua solitudine anche, è di inventare continuamente il marxismo. In Brecht il tema
ideologico potrebbe definirsi molto esattamente come una dinamica di avvenimenti che
frammischi la constatazione e la spiegazione, l’etica e la politica: conforme
all’insegnamento profondo del marxismo, ogni tema è al tempo stesso espressione del
voler essere degli uomini e dell’essere delle cose, insieme protestatario (perché
smaschera) e riconciliante (perché spiega).
3) Semiologia. La semiologia è lo studio dei segni e delle significazioni. Non voglio
entrare qui nella discussione di questa scienza, che è stata postulata una quarantina
d’anni fa dal linguista Saussure, e che in generale è tenuta in grande sospetto di
formalismo. Senza lasciarsi intimidire dalle parole, sarebbe utile riconoscere che la
drammaturgia brechtiana, la teoria dell’Episierung, quella dello straniamento, e tutta la
pratica del Berliner Ensemble circa la scenografia e il costume, pongono un problema
nettamente semiologico. Perché il postulato di tutta la drammaturgia brechtiana è che,
almeno oggi, l’arte drammatica più che esprimere il reale deve significarlo. È perciò
necessario che ci sia una certa distanza tra il significato e il suo significante: l’arte
rivoluzionaria deve ammettere una certa arbitrarietà dei segni, deve dare la sua parte a
un certo “formalismo”, nel senso che deve trattare la forma secondo un metodo
appropriato, che è il metodo semiologico. Tutta l’arte brechtiana protesta contro la
confusione zdanoviana fra l’ideologia e la semiologia, che sappiamo a quale impasse
estetica ha portato.
Si capisce del resto perché questo aspetto del pensiero brechtiano sia il più ostico alla
critica borghese e zdanoviana : l’una e l’altra si rifanno a un’estetica dell’espressione
“naturale” della realtà: l’arte ai loro occhi è una falsa Natura, una pseudo-physis. Per
Brecht invece, oggi, cioè entro un conflitto storico la cui posta è la disalienazione
umana, l’arte deve essere un’anti-physis. Il formalismo di Brecht è una protesta
radicale contro l’invischiamento della falsa Natura borghese e piccolo-borghese: in una
società ancora alienata l’arte deve essere critica, deve recidere ogni illusione, anche
quella della «Natura»: il segno dev’essere parzialmente arbitrario, senza di che si
ricade in un’arte dell’espressione, in un’arte dell’illusione essenzialista.
4) Morale. Il teatro brechtiano è un teatro morale, vale a dire un teatro che si domanda,
insieme con lo spettatore: che cosa bisogna fare in quella certa situazione? Questo
porterebbe a recensire e a descrivere le situazioni archetipe del teatro brechtiano,
riconducibili, penso, a un unico problema: come essere buono in una società cattiva?
Credo che sia molto importante enucleare correttamente la struttura morale del teatro di
Brecht: è ben comprensibile che il marxismo abbia avuto compiti più urgenti che non
sia quello di soffermarsi su problemi di condotta individuale; ma la società capitalistica
dura, il comunismo stesso si trasforma: l’azione rivoluzionaria deve sempre più
coabitare, e in modo quasi istituzionale, con le norme della morale borghese e piccoloborghese: sorgono allora problemi di comportamento, e non più d’azione. In questo
senso Brecht può avere un grande potere di dirozzamento, di smaliziamento.
Tanto più che la sua morale non ha niente di catechistico, nella maggior parte dei casi è
strettamente interrogativa. Sappiamo che certi suoi drammi si concludono con un
letterale interrogativo al pubblico, a cui l’autore lascia il compito di trovare da sé la
soluzione del problema posto. Il ruolo morale di Brecht è di inserire vivamente una
domanda nel pieno di un’evidenza (è il tema dell’eccezione e della regola). Perché,
essenzialmente, si tratta di una morale dell’invenzione. L’invenzione brechtiana è un
procedimento tattico per accedere alla correzione rivoluzionaria. Come dire che per
Brecht l’uscita da qualsiasi impasse morale dipende da una più giusta analisi della
situazione concreta in cui si trova il soggetto: l’uscita scaturisce dalla rappresentazione
evidente della particolarità storica di questa situazione, della sua natura artificiale,
puramente conformista. La morale di Brecht consiste essenzialmente in una lettura
corretta della storia, e la plasticità di questa morale (mutare, quando occorre, la
Grande Abitudine) fa tutt’uno con la plasticità stessa della storia.
PHILIPPE IVERNEL
Dallo spettacolo al montaggio ininterrotto: il Lehrstück brechtiano3
Il teatro epico prende a prestito dal cinema (e non solo da esso) la tecnica del
montaggio. Procede invariabilmente a due operazioni congiunte di “découpage” e di
assemblaggio. Isola le cose interrompendo il loro corso naturale — l’onda viene a
infrangersi sulla «roccia dello stupore»4 — poi ne ricostruisce la successione come un
processo discontinuo, i cui momenti sono nettamente distinti. Colui che scrive per il
teatro epico, commentava Walter Benjamin, si comporta verso la trama «come il
maestro di ballo verso l’allievo. Prima di tutto deve sciogliergli le articolazioni fino ai
limiti del possibile»5. Fino ai limiti del possibile: fino al punto in cui appare chiaro che
tutto ciò che si svolge in un certo modo potrebbe svolgersi anche in un altro. La
disarticolazione della trama, che accoglie volentieri ritardi, episodi, dettagli, mette alla
prova la sua attitudine alla variazione e al rovesciamento.
Lo spettatore del teatro epico non è preso da quei meccanismi dello spettacolo che
assicurano l’ordine imperiale della rappresentazione. Al contrario, negli intervalli
previsti tra un momento del processo e l’altro (da un gesto all’altro, da una frase
all’altra, fra il gesto e la frase, ecc.), è portato a intervenire. A lui è affidata, in ultima
istanza, la causa di questo “possibile” che non è “naturale”. Lo spettatore come
produttore.
Queste considerazioni indicano a sufficienza che la tecnica del montaggio è innalzata
dal teatro epico all’altezza di un principio, di un principio politico. A questo proposito,
il Lehrstück, categoria sotto la quale si classifica una parte importante della produzione
brechtiana degli anni che vanno dal 1929 al 1933, non rappresenta un’innovazione. Ma
trae tutte le conseguenze dalla tecnica e dal principio del montaggio, costitutivo del
teatro epico e dello spettatore di quel teatro.
Il Lehrstück, secondo la definizione che ne ha dato Brecht quando ha voluto
sottolinerarne la specificità, è fatto più per essere recitato che per essere visto. E
recitare, nel caso specifico, non vuol dire rappresentare, ma uscire dall’ordine della
rappresentazione che mette faccia a faccia, da una parte gli spettatori, dall’altra gli
attori. È la nozione stessa di spettacolo, fondamento della teatrocrazia (ivi compresa la
teatrocrazia che si richiama a Brecht e al suo effetto di straniamento) che si vede messa
in causa. Il gioco sostituisce allo spettacolo consumato (nei due sensi del termine) la
sperimentazione collettiva, che presuppone allo stesso tempo un modello e delle
variazioni libere. Il Lehrstück, secondo una nota illuminante di Reiner Steinweg, si
avvicina al jazz. «L’analogia non si basa soltanto — scrive — sulla tecnica del
montaggio, ma anche sull’improvvisazione simultanea di vari individui nel quadro ben
fissato di un accordo preventivo, con la possibilità di intercalare degli “a solo” (... delle
3
Il saggio è tratto dal volume Théâtre années vingt. Collage et montage au théâtre et dans le autres arts,
a cura di D. Bablet, La cité – L’age d’homme, Parigi 1978. In una nota al titolo l’autore scrive di aver
preferito mantenere il termine tedesco Lehrstück «per evitare la traduzione appiattente di “dramma
didattico”».
4
Cfr. Walter Benjamin, Versuche über Brecht, Suhrkamp verlag, Frankfurt am Main 1966, p. 21 [Che
cos’è il teatro epico?, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino
1966].
5
Ibid., p. 15.
invenzioni personali) o di recitare con e contro i cori»6. L’analogia con il jazz pone
fortemente l’accento sull’irruzione della spontaneità nell’accordo. Per contro, non
rende abbastanza conto del controllo metodico al quale il Lehrstück sottomette questa
spontaneità in espansione. In questa prospettiva, il Lehrstück si ricollegherebbe
piuttosto, mutatis mutandis, a certe ambizioni di Zola, moralista sperimentatore, che
cerca di farsi padrone della vita per dirigerla, provocando delle osservazioni a scopo di
controllo.
La riscoperta o piuttosto la rivalutazione del Lehrstück è dovuta allo studio recente di
Reiner Steinweg, preceduto da un’edizione critica delle diverse versioni de La linea di
condotta. Il riferimento a quest’ultima pièce è tanto più significativo in quanto La linea
di condotta fu a lungo sospettata di dogmatismo e alimentò il mito (interessato) di un
Brecht settario che veniva dopo il Brecht anarchico e che precedeva il “grande” Brecht
della maturità, finalmente promesso (come un novello Goethe) alla dialettica e
all’umanesimo. Quella parte della critica che sosteneva la teoria del riflesso e del
realismo socialista contribuì largamente a diffondere questo giudizio sommario oltre
che scolastico, che misconosceva completamente la legge del Lehrstück.
Detto questo, lo studio di Reiner Steinweg non fa che ricollegarsi alle analisi (ancora
esitanti, è vero, talvolta ancora vaghe) di marxisti indipendenti come Ernst Bloch o
Walter Benjamin, che ben presto riconobbero la funzione sperimentale del Lehrstück.
Sperimentalismo agli antipodi del settarismo veicolato, appunto, dalla teoria del
riflesso e dal realismo socialista, imposto da Zdanov in URSS a partire dal 1935 (la
società staliniana, in fondo, non è forse una società dello spettacolo sui generis, che
privilegia la vista a svantaggio del gioco?).
In Eredità del nostro tempo, Ernst Bloch impiega il concetto di Lehrstück in senso
estensivo, inglobandovi tanto Santa Giovanna dei macelli che La madre che Il
consenziente / Il dissenziente e La linea di condotta. Egli l’associa in modo stretto alla
tecnica, al principio del montaggio, più esattamente, del montaggio «produttivo».
Quest’ultimo consente, all’occorrenza, di spostare un dato elemento da una
configurazione a un’altra, allo scopo di osservarne e di controllarne il funzionamento,
grazie alla riproduzione ripetuta dell’esperienza in condizioni ogni volta diverse. Ne Il
consenziente / Il dissenziente, si tratta di un’antica usanza, in La linea di condotta di
una quadrupla moralità, in Santa Giovanna dei macelli della predicazione di un
umanesimo astratto, in La madre della maternità (fonte di effetti reazionari nella
famiglia, di effetti rivoluzionari nel partito). Ogni volta, il montaggio dell’elemento
spostato permette di confrontare i discorsi con i fatti, le credenze con le situazioni, le
idee con le circostanze. «Distruzione delle idee da parte delle circostanze», dice un
frammento di Brecht. Ma questa distruzione non è un puro e semplice annientamento.
È la prima tappa di una trasformazione dialettica, di un rimontaggio a venire. Ernst
Bloch identifica questo gioco sperimentale che infrange l’autosufficienza dello
spettacolo, con le grandi manovre della teoria e della prassi, che spezzano
l’autosufficienza dell’ideologia, delle immagini compiute del mondo.
Walter Benjamin ha redatto due versioni di un saggio sul teatro epico. Nella prima, non
datata, egli tende come Ernst Bloch ad assimilare il Lehrstück al teatro epico. Nella
seconda, del 1939, egli sottolinea la specificità del Lehrstück, che tratta come un «caso
particolare»7 del teatro epico. Ne riconosce l’apporto originale: la messa in discussione
della divisione fra spettatori e attori.«Ogni spettatore potrà diventare coattore».
Precisiamo: non per adesione al ruolo, certo, ma essenzialmente per estensione
produttiva del gioco. Walter Benjamin era particolarmente adatto a recepire questo
messaggio del Lehrstück come autore di un Programma per un teatro di bambini
6
Cfr. Reiner Steinweg, Das Lehrstück, Brechts Theorie einer politisch aesthetischen Erzierhrung,
Stuttgard 1972, p. 98.
7
Cfr. Walter Benjamin, op. cit., p. 27.
proletari, che preconizzava l’emancipazione del collettivo infantile attraverso
l’emancipazione del gioco teatrale («La performance infantile ricerca, a dire il vero,
non l’eternità dei prodotti, ma l’istantaneità del gesto. Il teatro, arte effimera, è l’arte
infantile per eccellenza»8 — Walter Benjamin assegna al gesto infantile un valore di
segnale, e non di gesto, in altre parole, una forza imperativa).
Reiner Steinweg, nel suo studio del 1972, estende queste indicazioni su dei frammenti
di Brecht ritrovati o reinterpretati, li sistematizza, li innalza al livello di una teoria del
Lehrstück e dell’educazione estetico-politica. All’opposizione classica [...] fra
Vergnügunstheater (teatro di divertimento) e Lehrtheater (teatro didattico), sovrappone
e al limite sostituisce l’opposizione sovversiva fra Schaustück (dramma da vedere) e
Lehrstück (dramma per imparare). Questa rottura fra Schaustück e Lehrstück sembrerà
particolarmente determinante, se si ammette che comporta logicamente la messa in
discussione del fenomeno dello spettacolo come tale e dell’istituzione che lo gestisce.
A partire da qui, il Lehrstück non può più essere ridotto a un caso particolare del teatro
epico, come dice Walter Benjamin. Al contrario, esso segna la fase ultima del suo
sviluppo, quella fase in cui supera le frontiere, precipita al di fuori della sfera
autoritaria e autorizzata dello spettacolo istituito, che organizza a fini ben precisi la
separazione fra lo spettatore e l’attore, fra consumo e produzione. In questo senso non
è un caso se il periodo del Lehrstück corrisponde a un periodo cruciale della storia
tedesca (nella quale non si lascia rinchiudere. Il Lehrstück è sempre in divenire), quella
della scelta fra socialismo e barbarie (1929-1933). Lo scrittore di teatro sente allora il
terreno bruciargli sotto i piedi. Immagina una uscita al di fuori dai luoghi ufficiali in
cui si diffondono immagini amministrate (gli “spettacoli”) e tenta di guadagnare lo
spazio quotidiano in cui si elabora un nuovo uso della cultura, non per un nuovo
“pubblico”, ma con dei nuovi “utilizzatori”: la gioventù, il movimento operaio, cioè le
forze vive, interessate alla trasformazione sociale, quelli che non pensano senza motivo
e senza conseguenze. Costoro sono tutti invitati a recitare piuttosto che a vedere, a fare
piuttosto che ad ascoltare: in una parola, a praticare il teatro, e questo come scuola di
pratica.
Quando Brecht dichiara nel 1956 a Pierre Abraham che La linea di condotta9 non è
fatta per essere vista, ma per essere recitata al proprio interno, che è scritta non per un
pubblico di spettatori, ma esclusivamente per i pochi ragazzi che si impegneranno a
studiarla, bisogna ben comprendere che questo «al proprio interno» non ha niente di
intimo, che questo «esclusivamente» non ha niente di restrittivo. Al contrario.
L’impressione di esercizio a parte che lasciano queste raccomandazioni si deve al
cambiamento di regime che è qui dettato al teatro. Si tratta di passare dalla
consumazione individuale (in massa) alla produzione collettiva. Operazione difficile,
ma che soprattutto non ha niente di riservato. Al contrario, essa mette in discussione
una divisione secolare fra l’intellettuale e le masse.
Questa pratica del teatro come scuola della prassi, Brecht l’assimila nella stessa
intervista con Pierre Abraham, pietra angolare per la ricostruzione del Lehrstück, a un
esercizio di raffinamento dialettico. Ogni ragazzo che si impegni a studiare La linea di
condotta «deve passare da un ruolo all’altro e ricoprire di volta in volta il ruolo
dell’accusato, degli accusatori, dei testimoni, dei giudici. In questo modo ciascuno di
loro potrà confrontarsi con gli esercizi della discussione e finirà per acquisire la
nozione — la nozione pratica — di cosa sia la dialettica». L’eventuale lettore è quindi
avvertito di non cercare qui «delle tesi o delle contro-tesi, degli argomenti per questa o
quella opinione, delle arringhe o delle requisitorie che mettano in discussione le sue
opinioni, ma esclusivamente degli esercizi di riscaldamento destinati a quelle specie di
8
Cfr. Walter Benjamin, Programme pour un théâtre d’enfants prolétairien, in Travail Théâtral, n. 20,
luglio-ottobre 1975, p. 49.
9
Cfr. Europe, numero speciale dedicato a Brecht, gennaio-febbraio 1957, pp. 172-73.
atleti dello spirito che devono essere i buoni dialettici. La bontà o meno del giudizio è
questione completamente diversa; fa appello a degli elementi che io non ho introdotto
in questo dibattito».
Questo tornare su La linea di condotta nel 1956 riattualizza i dati principali del
Lehrstück teorizzati all’inizio degli anni Trenta: sapere che è fatto per l’uso e non per
l’occhio, che riguarda l’azione artistica (Kunstakt) e non la contemplazione artistica
(Kunstbetrachttung), che riguarda i rapporti fra gli uomini, le loro reciproche posizioni,
e non il bello, la centralizzazione delle immagini; che si nutre di gestualità (Gestik), e
non di espressione (Ausdruck), salvo lasciare spazio, ben inteso, all’espressione in
quanto gesto. Ma la concezione del Lehrstück avanzata nel 1956 come metodo di
allenamento e ginnastica preparatoria perde per strada (mette tra parentesi?) un
concetto capitale, che fonda in realtà la drammaturgia del montaggio ininterrotto, il
concetto di autocomprensione. «Il Lehrstück — dice questa volta un antico frammento
— è fatto per l’autocomprensione degli autori, e di coloro che vogliono prendervi una
parte attiva, e non per servire da Erlebnis a chiunque. Non è neppure compiuto in tutte
le sue parti. Il pubblico, dal momento che non collabora all’esperienza, non dovrebbe
dunque svolgere il ruolo di destinatario, ma di semplice presenza»10. Il concetto di
autocomprensione è preso in prestito da Marx («Abbandonammo tanto più facilmente
l’Ideologia tedesca alla critica rabbiosa dei sorci dal momento che eravamo arrivati
all’autocomprensione di noi stessi»): egli indica chiaramente che gli esercizi di
riscaldamento del Lehrstück non sono pura forma, ma che al contrario prevedono o
richiedono un coinvolgimento sostanziale degli autori/attori, che il gioco teatrale porta
infatti a un alto grado di coscienza. Ed è forse questo il motivo per cui questo teatro
razionalista a carattere sperimentale solleva, come Brecht stesso constata, reazioni
emozionali così forti (più del resto del suo teatro) e consente il paragone musicale col
jazz. Questo coinvolgimento degli autori/attori nel gioco — la parte del soggetto, che
non è solamente quella della soggettività, del desiderio, ma anche e soprattutto quella
dell’interesse, e dell’interesse storico fra gli altri — è proprio la fonte
dell’improvvisazione, dell’incompiutezza produttiva, la fonte delle variazioni che
giocano (riprendiamo il verbo) all’interno del modello fornito dal testo, ma che al
limite possono giocarsi anche su di esso, fino a denunciare i controlli che esso ha il
compito di esercitare.
La messa in gioco (e non in scena) del Lehrstück autorizza (provoca) negli attori
atteggiamenti diversi — contrapposti, diversi o complementari —, a seconda che
predomini la riproduzione del modello o la variazione improvvisata. Questi
atteggiamenti possono essere portati a succedersi o a giustapporsi. Brecht preconizza
talvolta un modo di recitazione meccanico, artificiale, analogo a una lettura scolastica,
che distanzia le parole e le sillabe [...]. Si tratta di un’imitazione fredda, di una copia
per così dire («Come deve essere la pittura: copiabile da tutti»11, dice un frammento
associato alla sfera del Lehrstück). Esiste anche il caso dell’adesione calda,
tradizionalmente chiamata identificazione. Identificazione né passiva né completa con
un personaggio — cosa che farebbe tornare il Lehrstück al di qua della dialettica —,
ma attiva e momentanea, legata a posture o a movimenti parziali. Essa non passa più
dallo sguardo e dal sentimento, ma dal gesto. È ciò che Brecht definisce una
identificazione non «solamente morale», un’operazione che consiste nel conservare e
superare l’identificazione spingendola fino in fondo, fino alla esteriorizzazione che la
socializza. Infine l’attore, proprio perché non esegue che dei modelli, ha più che mai
l’occasione di conservare la propria indipendenza, di affermare il proprio pensiero e il
proprio volere. Insomma, è il momento in cui si lancia in un doppio gioco ostensibile,
prefigura le nuove vie o le alternative che attivano di nuovo il principio del montaggio
10
11
Citato da Reiner Steinweg, p. 19.
Ibid., p. 21.
ininterrotto. In conclusione, l’autocomprensione equivale, come vale la pena di
precisare, a un autoapprendimento. Il Lehrstück non si pone l’obiettivo di trasmettere
una lezione bell’e fatta, di suggerirla surrettiziamente o semplicemente di inculcarla.
«Nell’insegnare, l’apprendere deve essere contenuto», dice un frammento centrale di
Brecht, «i Lehrstücke non sono solo delle parabole destinate a illustrare una morale
aforistica, essi indagano anche. E per questo che non è necessario che le soluzioni
siano troppo concentrate o ricondotte a formule troppo semplici»12. Prima di tutto essi
indagano moltiplicando gli esercizi dialettici sui rapporti delle idee con le circostanze,
o ancora della teoria con la pratica. E questo non in un campo neutro, ma determinato
dalla lotta di classe, «In una società — scrive il musicista Eisler — nella quale le
grandi masse si accordano sul fatto che debba esserci la lotta di classe, ma non sul
come debba essere condotta, l’arte diventa per la prima volta la grande istitutrice della
società»13.Un’affermazione assai poco convenzionale, perché l’arte viene raramente
interpellata sul come, sulla tattica e sulla strategia, indegne delle sue visioni. E il
dinamismo obbligato dell’azione teatrale, in particolare, le impedisce quel ritorno
sperimentale su se stessa che il Lehrstück, al contrario, le impone costantemente, in
modo ancora più sistematico del teatro epico. Sperimentalismo eminentemente
politico, ma anche eminentemente produttivo, perché il rapporto fra teoria e pratica,
cioè la tattica e la strategia, sono sempre da reinventare. E infine anche la rivoluzione
stessa. La prospettiva generale di tutto questo? È una definizione di socialismo non
come «grande ordine» (come grande spettacolo) ma come «grande produzione» (come
montaggio ininterrotto). Brecht non arriverà subito a questa definizione, ma essa
illumina l’orizzonte del Lehrstück. Lo provano paradossalmente, in un certo senso per
difetto, le difficoltà incontrate con il Lehrstück del Cattivo Baal L’asociale. «Il grande
errore che mi impedì di portare a termine la piccola pièce didattica del Cattivo Baal
L’asociale consisteva nella mia definizione del socialismo come grande ordine.
Bisogna definirlo al contrario come grande produzione. Produzione da intendersi
naturalmente nel senso più largo del termine, e la lotta mira a liberare da ogni legame
la produttività di tutti gli uomini. I prodotti possono chiamarsi pane, lampade, cappelli,
brani di musica, mosse di scacchi, irrigazione, colore, personaggio, recitazione, ecc.»14.
Per considerare più da vicino come funziona il principio del montaggio ininterrotto,
consideriamo Il volo oceanico e L’accordo, due versioni di uno stesso modello, che si
corrispondono come Il consenziente corrisponde a Il dissenziente. Le versioni dei
Lehrstücke tendono naturalmente a moltiplicarsi, e l’una può arrivare fino al
rovesciamento dell’altra. È la conseguenza diretta della variabilità sperimentale che
costituisce la loro propria legge. Il volo oceanico (originariamente Il volo dei
Lindbergh) rappresenta il primo tentativo di Brecht nel campo del teatro didattico. Le
scene (come le frasi) sono brevi, articolate in modo chiaro, relativamente indipendenti
le une dalle altre, perché se ne possa cambiare una senza necessariamente cambiare
tutto. Niente di superfluo, di decorativo, niente atmosfere. La povertà, l’economia di
questo dramma radiofonico hanno un loro fondamento teorico: il Lehrstück non si
presta a essere consumato. Il ruolo dei Lindbergh è fatto non per essere visto, ma per
essere recitato. Lo strumento Lehrstück deve poter essere preso in mano, è un oggetto
didattico destinato all’uso (l’imitazione, la critica, la trasformazione, ecc.), non serve la
radio e la sua clientela — l’apparecchio di distribuzione, che costringe al consumo —
serve «l’insurrezione dell’ascoltatore, la sua attivazione, il suo insediamento come
produttore».
12
Ibid., p. 22.
Ibid., p. 22.
14
Cfr. Brecht, Journal de Travail, Editions de l’Arche, Paris 1976, p. 174.
13
La funzione del Lehrstück è in qualche modo tematizzata nel dramma stesso. La
versione originale metteva l’uno di fronte all’altra la radio e l’ascoltatore. La radio
presta la sua voce tanto alle forze elementari della natura e della società di classe —
nebbia, neve, acqua, sonno, paura, ignoranza, ecc. — quanto alle città, ai continenti,
alle masse che, coi Lindbergh, lavorano alla vittoria su di esse: molteplicità,
discordanza, contraddizione di cui il medium è la posta. La traversata dell’Oceano è
anche una traversata della radio. È l’ascoltatore a prestare la voce ai Lindbergh,
collettivo di aviatori che rappresenta la collettività dei lavoratori. La parte dei
Lindbergh è la parte propriamente pedagogica: facendola propria l’ascoltatore si educa;
educandosi, educa. La radio, da apparecchio di distribuzione si trasforma in strumento
di comunicazione.
La povertà, l’economia del Lehrstück sono di ordine funzionale. Questa funzionalità
non solamente non esclude ma piuttosto richiede l’impiego di un materiale
estremamente vario. Il volo oceanico prevede diciassette numeri i cui titoli
basterebbero a indicarne la diversità. Costituiscono un racconto discontinuo della
traversata, che rompe con tutte le costrizioni del realismo. Questo racconto prende la
forma di un montaggio di voci, voci singole, voci plurime, voci corali, dalle tonalità,
dalle intensità diverse, voci che dialogano e voci che polemizzano. Uno schema
semplice struttura questa molteplicità, la fa funzionare. I primi numeri, da 1 a 7,
disegnano una linea discendente, fino al numero 8, intitolato «Ideologia», punto di
svolta a partire dal quale i numeri dal 9 al 17 disegnano una linea contraria, una linea
ascendente. Ciascuna delle due traiettorie comporta a sua volta alti e bassi, dai valori
variabili: dalla terra verso il cielo e dal cielo all’acqua, dall’acqua verso il cielo e dal
cielo alla terra. Numero 8: «Ideologia». La legge del montaggio — che è anche un
découpage — si avverte con particolare nettezza nello sviluppo di questa sequenza in
cui l’ideologia del volo è isolata dal racconto del suo svolgimento. Una separazione
che prelude a una nuova messa in relazione (è col pensiero, del resto, che i Lindbergh
sfuggono alle vertigini dell’acqua), proprio come la teoria si astrae momentaneamente
dalla pratica per meglio implicarsi in essa. La legge del montaggio altro non è che
quella della dialettica — ininterrotta.
Di quale ideologia stiamo parlando? Quella che associa la lotta contro le forze
elementari della natura alla lotta contro la società di classe; la conquista del cielo a
quella della terra; il progresso tecnico al progresso sociale.
Progresso tecnico e progresso sociale si mettono reciprocamente in azione. Il loro
movimento circonda il luogo in cui nasce una nuova perfezione dovuta all’industria
degli uomini: «Lasciateci combattere la natura fino a che noi stessi siamo diventati
naturali». Spunta la promessa d’una innocenza d’acciaio, di un uomo consapevolmente
impeccabile, adatto a programmare, in qualche modo, lo stato finale di riconciliazione.
L’accordo parte dall’immagine di questo trionfo, con la quale termina Il volo oceanico.
Ma ciò che è in gioco ora non è più il girotondo del progresso tecnico e del progresso
sociale; ciò che si gioca ora è al contrario l’incidente, la caduta sociale, la disumanità
del progresso tecnico. Ricomincia il montaggio, interrotto per un istante, ricomincia la
forma-sperimentazione, ostile a ogni logica formale, attenta allo stesso tempo a tutto
ciò che si è convenuto di chiamare caso, ricomincia in una parola quella dialettica che
Il volo oceanico rischiava di bloccare a forza di farla girare in fretta, in modo quasi
automatico. Il Lehrstück soprattutto non ha come compito quello di trascendere le
contraddizioni, per una fretta eccessiva, ma di rivelarle, o meglio di suscitarle
pazientemente, metodicamente, allo scopo di testarne la produttività. [...].
In L’accordo l’incidente, che rovina il programma dell’uomo senza macchia
dall’innocenza d’acciaio (che si richiama al saint-simonismo, al futurismo o al
socialismo), non è altro che la morte. Recitare la morte, questa è la scommessa di
questo Lehrstück, recitare didatticamente con ciò che si insegna di meno, con questo
irrazionale che non vuole dare soddisfazione e che il marxismo tradizionale ha più o
meno espulso dalla sua sfera, in modo astratto.
Gli aviatori di fronte alla morte, questo incidente, questo incommensurabile
infinitamente concreto. Due numeri questa volta, disposti attorno al 6, che occupa
quindi un posto esattamente paragonabile a quello dell’8 ne Il volo oceanico, fra la
linea discendente dei primi cinque numeri e la linea discendente degli ultimi cinque:
anche in questo caso, punto di svolta. L’8 di Il volo sopra l’Oceano designa un pieno,
«Ideologia». Il 6 di L’accordo, un vuoto: «Contemplazione dei morti». Si presentano
per la seconda volta delle fotografie di massacri, senza referenze (poiché le referenze
introducono una razionalità in ciò che, nel caso specifico, non ne ha). Grida degli
aviatori: «Non possiamo morire». Qui si raggiunge il colmo del terrore, ma con esso
comincia anche la saggezza: bisogna imparare a farlo. Da 1 a 5 una serie di indagini e
di riflessioni stabiliscono l’onnipotenza della morte, legata alla completa solitudine
degli uomini lasciati in balia della violenza dello sfruttamento: lo sfruttamento è nel
progresso tecnico stesso contrario al progresso sociale, gli aviatori si vedono rifiutare
l’aiuto da coloro che hanno contribuito a sfruttare, dimenticando nella velocità sempre
maggiore della corsa lo scopo di essa. Le indagini condotte per stabilire i fatti si
svolgono secondo modalità volutamente contrastanti, cori dialoganti alla maniera della
tragedia antica, proiezioni di documentari come in una messa in scena di Piscator,
clownerie stridenti vicine alle eccentricità del cinema muto. Da 7 a 11 l’apprendistato
della morte passa attraverso una serie di riti (letture di testi del commento, l’esame,
ecc.) che si collegano al contrario a un rigore clericale. Non si hanno qui né
misticismo, né Ersatz di religione, né parodia, ma sperimentazione di forme antiche a
fini nuovi. Infine, i tre meccanici dell’aereo, accettando di essere esprorpiati del loro
atto a vantaggio della società, muoiono «senza conformarsi alla morte», mentre il
pilota, che non vuole rinunciare a niente della sua gloria personale, perde nome e volto.
La questione qui non è di entrare nella tematica particolare di questi Lehrstücke — che
pure si colloca con una vivacità notevole attorno a un asse centrale, la socialità e il suo
contrario —, ma di sottolineare una volta di più, in conclusione, il metodo che
propongono, quello del montaggio ininterrotto, che allena al gioco teatrale coloro che
non si accontentano di stare semplicemente a guardare. Costoro troveranno nel
Lehrstück uno strumento, altamente qualificato, che li aiuterà a produrre le variazioni e
i rovesciamenti necessari per padroneggiare dialetticamente, cioè concretamente, le
situazioni. Giovani studenti e giovani lavoratori, in particolare, dovranno un giorno
appropriarsi di questo strumento.
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