Bertold Brecht e il teatro epico
di Mario Forella
Nella Germania del primo dopoguerra, avanza e si afferma l’intelligenza critico-creativa di Bertold Brecht (1898-1956).
Fu uomo d’ingegno e d’impegno, in patria prima, in esilio poi, per tornare trionfalmente in Germania, nel 1949 e
raccogliere i frutti della sua opera.
Letterato e “genio”, doveva dare una svolta decisiva alla storia del teatro e della recitazione, modificando, con le sue
teorie, il modo di far teatro e, soprattutto, il costume del pubblico teatrale, facendo passare lo spettatore, da un ruolo
passivo, a un ruolo attivo di primaria importanza. Almeno, questo il parere di molta critica autorevole e di affermati
storiografi di teatro.
A nostro parere, condiviso da altra parte di critica e da altri storici, l’opera di Bertold Brecht appare, sì notevole, ma
non allettante.
Il poeta, nato ad Augusta, era già ben noto dai primi tempi dell’espressionismo, quando i suoi primi accenti, più che
innovatori, torvamente ribelli, risuonarono in “Tamburi nella notte” (1921), storia drammatica di un soldato disperso
che, tornando in città, trova la fidanzata in procinto di darsi ad un imboscato. Il dramma apparve subito di triste
attualità e non mancò di suscitare una vasta eco. E di triste attualità si tratta nei successivi drammi di Brecht: Baal
(1922), dove un volgare seduttore finisce per uccidere per gelosia il suo più caro amico, morendo poi anch’egli.
Un uomo è un uomo, dove si assiste alle singolari e funamboliche avventure d’un misero facchino che, non essendo
capace di dire di no, si lascia convincere, da soldati di un esercito di occupazione, a prendere il posto di un soldato
fuggito per compiere una losca faccenda. Il protagonista finisce, non solo per sostituirlo, ma addirittura per passare
per eroe o qualcosa di simile.
L’opera da tre soldi (1928), tratta dall’«Opera dei mendicanti» di John Gay, facendola diventare una grottesca quanto
feroce accusa alla società coeva, la quale costringe ricchi e poveri a convivere nella medesima melma.
Ascesa e caduta della città di Mahagonny (1927), dramma di aperta propaganda marxista, l’ultimo che fu consentito
di rappresentare sulla scena tedesca, prima dell’avvento del nazismo, che costringe Brecht, dapprima a tacere, e,
quindi, ad emigrare in vari paesi europei (Francia, Olanda e Finlandia), per poi approdare sulle sponde degli Stati Uniti
d’America.
Dopo la sconfitta del nazismo e la disfatta della Germania, Brecht ritorna in Europa e si stabilisce per alcuni anni a
Zurigo. A Berlino, nella Berlino occupata dai russi, tornerà nel 1949.
È soprattutto nel periodo del suo esilio e del suo ritorno in Germania che Brecht porta a compimento le sue teorie,
unite ovviamente alla pratica scenica, su quello che lui ha definito Teatro Epico.
Si tratta, insomma, di un teatro didascalico, che costringe lo spettatore a farsi partecipe della vicenda, costringendolo
ad un giudizio assoluto e non solo estetico, nei confronti del quale la vicenda stessa non diviene che uno strumento.
Miglior sorte non tocca all’attore, che, secondo Brecht, non deve immedesimarsi totalmente nel personaggio e, per
non ingannare il pubblico, rendendolo incapace di operare una chiara analisi della situazione rappresentata, deve
mantenere un atteggiamento distaccato nei confronti del personaggio da rappresentare.
I fini di propaganda comunista sono ostentati addirittura nella denominazione dei drammi: La madre (1932), riduzione
scenica dell’omonima opera di Gor’kij, rappresentato in America fra grandi discussioni e in Russia con grande successo, in un teatro circolare, dove il pubblico circonda la scena come in un anfiteatro.
L’eccezione e la regola (1938), storia d’un bianco che, fraintendendo in senso minaccioso il gesto amichevole d’un
miserabile cinese da lui torturato e sfruttato, lo uccide, venendo assolto dai giudici, i quali sentenziano che, appunto a
causa dei maltrattamenti inflitti, il bianco aveva ragione di presumersi regolarmente odiato dalla vittima.
Santa Giovanna dei Macelli (1932), che si svolge a Chicago, dramma in cui un’appassionata propagandista dell’Esercito della Salvezza, quando s’accorge d’aver sostenuto, col suo apostolato religioso, lo sfruttamento dei poveri da
parte dei ricchi, sconta con la vita il suo errore.
Madre Coraggio e i suoi figli (1948), storia d’una povera vivandiera, il cui opportunismo le fa accettare, per vivere, di
seguire ora questo, ora quell’esercito in guerra e che si vede portar via, dalla guerra appunto, uno dopo l’altro, i suoi
otto figli, gli unici per i quali nutre un vero, fisico, animale amore.
Tralasciando le numerose altre opere drammatiche, si può concludere affermando che Brecht è stato un acerbo
denunciatore, un artista suo malgrado, per il quale l’arte è chiaramente non un fine, bensì un mezzo. Da qui, la
completa assenza, nelle sue opere, di una pur minima possibilità di commozione e la costrizione, per lo spettatore,
alla famosa “scelta”.
“Più disperato del presente che credente nell’avvenire, più truce che nobile, troppo compiaciuto in violenze e forzature,
finisce che, spesso dall’opera sua s’esprima un senso di orrore, più che di comunione e di pietà. Ma, scrittore tipico
d’un’età quanto mai angosciata, Brecht non può essere ignorato, nella storia del nostro costume, dove ha parte
incancellabile”.
Questo è il giudizio dell’autorevole critico Silvio D’Amico, che noi non possiamo che condividere.