RE C ENS I ONI
A . R e p a c i - C. N avo ne ,
D io
e Popolo,
Antologia del Risorgimento e della Resistenza, Bottega d ’Erasmo, Torino,
1961, pp. 579, L . 3.000.
Questo volume è stato premiato dalla
giuria del Concorso indetto dall’Associa­
zione fra i Comuni decorati, per un’an­
tologia che testimoniasse, attraverso scrit­
ti e documenti originali, la storia d ’Italia,
come storia della conquista dell’indipen­
denza e della libertà. Come tale, è,
dunque, naturale che essa abbracci nel
modo più ampio le testimonianze del Ri­
sorgimento e della Resistenza.
Per ritrovare un filo logico che ricolle­
ghi insieme questi due fatti e che armo­
nizzi, per così dire, le voci del coro, il
Repaci ha subito affrontato nell’Introdu­
zione i.l difficile e non ancora risolto pro­
blema del rapporto fra Risorgimento e
Resistenza e si è, anzitutto, chiesto se il
Risorgimento è « un periodo storico che
caratterizza le lotte e le imprese per la
formazione di un’ Italia unita e indipen­
dente, oppure un moto di idee e di aspi­
razioni molteplici, scaturito da un’esigen­
za rivoluzionaria, di fronte alla quale
l’unità e l’ indipendenza rappresentano
elementi secondari anche, talora, contra­
stanti » (p. 1).
Dopo un’analisi dei vari periodi della
storia d’Italia nella prima parte dell'ot­
tocento fino al settanta, l’autore afferma
che « il Risorgimento aveva risolto alcuni
problemi imprescindibili e fondamentali,
quali l ’unità e la libertà d’ Italia, lascian­
do alle generazioni successive il compito
della soluzione del problema sociale e del
rafforzamento dell'unità morale degli Ita­
liani ». Un problema così complesso e
così discusso dalle più diverse valutazioni
ideologiche si potrebbe forse porre in altri
termini : se nel fatto Risorgimento esi­
stessero o no in modo determinante, co­
me alcuni vorrebbero, gli elementi reali
di quella esigenza di rinnovamento sociale
e quindi anche economico, che caratte­
rizzerà, prima fuori d ’Italia, poi in Italia
gli ultimi decenni del secolo scorso, e
tutto il nostro secolo.
Noi sappiamo quanto contrastanti sia­
no le interpretazioni che si dànno ad un
medesimo fatto storico; se noi ammettia­
mo la presenza di certe istanze allora
possiamo anche stabilire certe continuità;
in caso contrario, pur ammettendo alcuni
aspetti generali comuni, dobbiamo rico­
noscere profonde differenze di caratteri
e di motivi. Le pagine introduttive, dopo
un lungo esame di tutta la storia d ’Italia,
dagli albori del Risorgimento alla vittoria
contro il fascismo, si concludono con
un’ affermazione
esplicita:
«Sem bra,
dunque, dimostrato (.......... ) che Risorgi­
mento e Resistenza altro non sono se
non momenti di un unico inscindibile
processo storico » (p. 58).
Vorrei qui osservare che l’affermazio­
ne è accettabile solo se noi riteniamo che
alla radice di ogni fatto a carattere in­
surrezionale sta prevalente un’esigenza
morale, anche se questa è di volta in
volta velata da esigenze contingenti. La
prima accomuna tutti, le altre sono sen­
tite da categorie diverse in modo diverso,
a seconda dei moti che scaturiscono dalla
sfera degli interessi, intendendo questa
parola in senso lato.
Come tutti sappiamo, un momento
storico può ritrovare i suoi richiami nel
passato a momenti simili ricchi di eguali
motivi, se consideriamo le linee esteriori
degli avvenimenti, mai se entriamo ad
analizzare condizioni e dati precisi di
fatto. Le cosiddette eredità o continuità
esistono se noi ci limitiamo a considerare
generici richiami spirituali, mai se da
quelli scendiamo alla dinamica concreta
dei fatti.
Così ci sembra di poter affermare in­
torno al rapporto Risorgimento-Resisten­
za; per quanto sia ovvio riconoscere che
l’ argomento è di tale importanza e di tale
complessità da non poter essere qui che
lievemente sfiorato.
Quest’ antologia è ricchissima; i passi
sono stati scelti con intelligenza e viva
consapevolezza del fine da raggiungere,
quello cioè che i giovani ascoltassero qui
tutte le voci, le più autorevoli, le più
profonde e le più alte a commento di
quella nobile storia italiana, intesa come
storia di conquista di valori umani e ci­
vili.
Una prima parte: « Dalla vecchia Ita­
lia all’Unità » comincia con uno scritto di
P. Verri sulla « Natura degli Italiani » e,
comprendendo tutta la parte attiva del
Risorgimento fino alla spedizione dei
Mille, finisce con le pagine del Salvato­
relli su « L ’ unificazione plebiscitaria ».
La seconda parte riguarda « La terza Ita-
Recensioni
lia » e la lotta per la democrazia; la terza
parte si intitola, invece, « .La Crisi e la
Diagnosi » e raccoglie scritti intorno alla
prima guerra mondiale ed al travaglio
che ne è seguito, fino alla crisi dell’Italia
Liberale ed al primo sorgere del fascismo.
E ’ doveroso elogiare, anzitutto, come
dote di gran pregio, il criterio severa­
mente obbiettivo che ha guidato questa
raccolta, in virtù del quale difficilmente
si potrà trovare una dimenticanza o una
esclusione di nomi di autori, o di segna­
lazione di fatti di rilievo, qualunque sia
la natura dei fatti stessi o la provenienza
politica degli uomini; scrupolo obbiettivo
che, purtroppo, non incontriamo sempre
in pubblicazioni del genere.
Questa rara dote si rivela, poi, parti­
colarmente necessaria quando giungiamo
alla storia più recente, quella dal 1924 al
1945. Essa è qui raccolta in due parti,
la quarta e la quinta: comincia con uno
scritto di Matteotti e finisce duecentocinquanta pagine più in là con i ricordi
della Liberazione, dove incontriamo i
nomi del Battaglia, di Leo Valiani, del
Negarville, del gen. Cadorna e di altri.
L ’ Antologia si chiude con un breve capi­
tolo sulla Costituzione e la Repubblica :
l’ultima pagina è di Ferruccio Parri :
a Europa unita per la salvezza dell’Euro­
pa ». Colui che legge accuratamente uno
dopo l’ altro in ordine cronologico gli
scritti qui raccolti, anche se non è sprov­
veduto di cultura specifica, si trova di­
nanzi, con diletto della mente, un vasto
ed organico panorama di tutta la nostra
storia, creato attraverso il richiamo armo­
nico di passi significativi, che talvolta
sono anche di difficile riperimento.
Al diletto della mente si aggiunge
spesso anche la mozione degli affetti, un
elemento che, sapientemente dosato, agi­
sce con un potere talvolta più efficace di
un’argomentazione, sul sentimento dei
giovani. Essi qui potranno avvicinarsi ai
momenti umani più alti e più coraggiosi
di cui la nostra storia è lungamente tes­
suta, e potranno, così, individuare quel
sottile filo che lega attraverso i decenni
il travaglio spirituale degli oppressi, che
per tutti, anche per gli obliosi e gli inerti,
si sono levati a testimoniare, nel mar­
tirio e nel sangue, la libertà della loro
coscienza morale e la loro dignità di cit­
tadini; quella sublime protesta che sola
lega le generazioni del Risorgimento a
quelle dell’ antifascismo e della Resisten­
za.
B. C eva
71
I s t it u t o G. G. F e l t r i n e l l i , Le R e s is te i
Za Italiana, 25 luglio 1943 - 25 apri­
le 1945, saggio bibliografico a cura di
Laura Conti, Feltrinelli, Milano, 1961,
pp. V ili - 404, L . 6.000.
Terzo della collana bibliografica dell’ I­
stituto Feltrinelli, il presente volume ha
per oggetto la stampa clandestina perio­
dica e non periodica della Resistenza Ita­
liana, con riferimento ai circa 5000 esem­
plari che, in originale o in foto copia,
sono stati raccolti presso il suddetto Isti­
tuto.
I risultati della ricerca sono stati sor­
prendenti: 2357 giornali, 2623 manifesti­
ni e opuscoli stampati alla macchia.
II censimento, effettuato con larghez­
za di mezzi e con esemplare precisione,
non è stato però — e in realtà non pote­
va essere — integrale; esso lascia consa­
pevolmente delle lacune che il prosegui­
mento del lavoro intrapreso con la col­
laborazione dei lettori potrà via via col­
mare.
Dobbiamo in merito osservare come
nel limite imposto dalla curatrice al cen­
simento sta la riprova della sua stessa
serietà. Soltanto le unità effettivamente
reperite sono state indicate. Lo scrivente,
per esempio, aveva segnalato il primo nu­
mero di un’edizione piemontese di « Azione contadina », da lui integralmente
redatta e stampata nel 1944 presso una
tipografia di Dogliani, ma di cui non
conservava alcun esemplare. La pubblica­
zione, che non gli è stato possibile esi­
bire alla redazione, non ha pertanto po­
tuto essere inserita nella bibliografia.
L a curatrice avrebbe invece potuto,
almeno per i periodici già posseduti in
alcuni numeri, dare notizia della serie
residua di essi, ove ne fosse stata infor­
mata. Farò un solo esempio: di « Gio­
ventù Liberale » non esiste soltanto il
primo numero qui indicato ma almeno
altri 4 ad esso successivi, conservati in
un fondo torinese, ai quali la bibliografia
non accenna, ritengo per le stesse ragioni
istitutive di cui ho detto. Il rigore limi­
tativo del censimento finisce così col da­
re forse più un catalogo — per quanto
amplissimo — delle unità possedute dal­
l’Istituto Feltrinelli che una rassegna bi­
bliografica generale.
Ma a prescindere da tale limite, det­
tato dalla diligenza stessa della ricerca, il
criterio organizzativo adottato dalla so­
lerte curatrice è davvero esemplare. L ’e­
same degli indici, che da soli costituisco­
72
R e c e n s io n i
no la parte terza del volume, è sufficiente
a darcene coscienza. Ad un indice gene*
rale (che, seguendo l’ordine di presen­
tazione delle materie, distingue la stam­
pa periodica e non periodica dei C LN
nelle loro varie espressioni e quella dei
partiti, dei fronti popolari e delle forma­
zioni partigiane da quella dei gruppi mi­
nori estranei al C LN o operanti all’este­
ro) s’accompagnano un indice alfabetico
delle testate dei periodici, un indice al­
fabetico della stampa non periodica, un
indice geografico (per regioni e per provincie), un indice della stampa bilingue
o in lingua straniera, un indice delle
formazioni militari di cui è stata censita
la stampa, una cartina con le dislocazio­
ni delle formazioni di montagna nell’ a­
prile 1945, un indice della stampa per
grandi categorie, sopratutto sociali e pro­
fessionali (perchè sono omessi gli « ope­
rai »?), un indice per autori (nomi e pseu­
donimi), un indice per partiti o gruppi
minori.
Una tale rete di inquadramento con­
sente di collocare immediatamente al suo
giusto posto un qualsiasi documento re­
perito valendosi di una delle varie cate­
gorie sotto cui esso è stato considerato
nel censimento e nelle quali ricorre con
un costante riferimento numerico. Inol­
tre lo schema adottato dalla bibliografia
offre lealmente sicure possibilità di con­
trollo delle sue stesse eventuali lacune e
inesattezze di attribuzione. Funzionalità
e probità scientifica non potevano essere
meglio rispettate.
E ’ inutile dire come ogni futuro stu­
dio sulla Resistenza, per quanto di na­
tura strettamente monografica, non po­
trà ormai prescindere da questo fondamentale strumento di lavoro; così come
da questa sistemazione organica delle
anonime o meno anonime « voci » della
Resistenza potrà finalmente prendere le
mosse una più approfondita ricerca sullo
spirito pubblico in Italia sotto l’ occupa­
zione nazista.
G . V accarino
E dith P ratt H oward, Il partito popolare
italiano, La Nuova Italia, Firenze,
1957, pp. 523 + X X IV , L . 2.300.
Negli ultimi anni sono stati numerosi
gli studiosi che hanno affrontato il tema
relativo alla storia del movimento politi­
co cattolico italiano, dalle origini all’at­
tuale democrazia cristiana; basti citare i
nomi di Jacini, De Rosa, Fonzi, Cande­
loro e Vaussard, i quali hanno arricchito
in misura notevole una letteratura storica
quasi del tutto deficiente fino a quindici
anni fa. In tale letteratura si inserisce
anche l’opera della studiosa americana
Edith Pratt Howard che ha trattato l'ar­
gomento relativo allo sviluppo, alla ideo­
logia ed alla funzione che, nel quadro
generale della storia d ’ Italia del primo
dopoguerra, ha esercitato il partito po­
polare italiano.
La Howard (che ha elaborato la sua
ricerca sotto la guida di Gaetano Salvemini, suo maestro e il cui volume è inte­
grato da una interessante Presentazione
di Paolo Vittorelli e da una nota biblio­
grafica, che tuttavia non risulta troppo
completa) ci offre uno studio che, pur
attingendo in misura notevole a docu­
mentazione indiretta, riesce a presentare
un quadro abbastanza completo di quella
che è stata la hreve vita politica, parla­
mentare e amministrativa del P.P.I.
La prima parte dell’opera è dedicata
alle origini del movimento cattolico ita­
liano e I'A . identifica la linea di pensiero
che condurrà poi alla nascita del partito
popolare, nel cattolicesimo sociale e nel
movimento democratico cristiano della
fine del secolo scorso, in particolare, ne!
programma
democristiano elaborato a
Milano nel 1894 dal Toniolo, sotto l’im­
pulso efficacissimo della Rerum Novarum.
In quel programma l’ A . vede « la prima
importante dichiarazione di principi de­
mocratici cristiani usciti in Italia » ed
osserva come alcune divergenze notevoli
dalla tradizione sociale cattolica ne fac­
ciano « un programma insolitamente avanzato per quell’epoca » (p. 52).
Osservazione senza dubbio valida, ma
che l ’A . non sembra tuttavia aver effica­
cemente approfondito, in quanto non
riesce ad afferrare quello che fu il carat­
tere peculiare della ideologia che con­
durrà poi al popolarismo: l’ intransigenza
cattolica, non assoluta e fine a se stessa
— alla Sacchetti o alla Paganuzzi, per
intenderci — bensì intransigenza costrut­
tiva, preparazione nell’astensione, che
doveva permettere ai cattolici di formarsi
una coscienza politica autonoma e di cui
abbiamo un efficace esempio nei discorsi
di Luigi Sturzo a Caltanissetta nel 1902
e a Caltagirone nel 1905, dove ebbe ad
affermare: « da soli, specificatamente di­
versi dai liberali, dai socialisti, liberi
nelle mosse, ora a destra e ora a manca,
con un programma consono, iniziale,
concreto e basato sopra elementi di vita
R e c e n s io n i
democratica : così ci conviene entrare
nella vita politica » (L. Sturzo, / discorsi
politici, Roma, 19 51, p. 379). « Se noi
— affermò lo stesso Sturzo in una lette­
ra del i9°3> inviata a Filippo Meda —
nella vita pubblica non ci stacchiamo dai
liberali moderati, dai conservatori in
quanto tali, noi non arriveremo ad avere
altra personalità che quella sola di cleri­
cali, come ci chiamano, buoni a prote­
stare e a lamentarci a parole, e poi nei
fatti ad aiutare gli stessi liberali con le
alleanze nella vita amministrativa e con
l’ appoggio secreto, ipocrita, anche di
cleri, nelle elezioni politiche, gente irrigi­
dita nelle formule che fa ideale del pas­
sato storico, bestemmia il presente e non
prepara l’avvenire » (L. Sturzo, La Cro­
ce di Costantino, Roma, 1958, pag. 165
nota).
Recenti studi, del resto, hanno chia­
ramente dimostrato la funzione che tale
tipo d ’intransigenza ha esercitato nella
evoluzione e nella preparazione del popo­
larismo. La Howard, invece, arriva a
giustificare l’atteggiamento di quei cat­
tolici, che, alleati ai liberali moderati,
parteciparono alle elezioni politiche del
1904 — dopo la tacita abrogazione del
non expedit — ed in seguito a quelle del
1909 e del 19 13, con il Patto Gentiioni,
affermando che era indispensabile che
essi si « alleassero con qualche gruppo
se desideravano avere un qualsiasi peso
in Parlamento », e sostiene più oltre:
« sacrificarono forse temporaneamente i
loro ideali al prestigio politico. Furono
opportunisti, è vero, ma il risultato pra­
tico del loro opportunismo fu che, quando
fu aiunto il momento, furono abbastanza
forti in Parlamento e nel Paese da fon­
dare un partito pieno di iniziative, con
un programma che incorporava la mag­
gior parte delle riforme sociali ed econo­
miche contemplate dai primi programmi
democratici cristiani » (pp. 78-79).
La Howard, insomma, non compren­
de che senza l’intransigenza e la ricerca
di una linea autonoma — di cui Sturzo
fu tra i maggiori assertori — un vero
partito non sarebbe mai sorto e i catto­
lici sarebbero rimasti legati alla politica
clientelistica di Giovanni Giolitti, assor­
biti, annullati da quella politica, che li
svuotava di ogni personalità e ne faceva
una semplice riserva di voti, da utilizzarsi
quando allo Statista di Dronero se ne
fosse presentato il bisogno, senza un
programma, una tradizione, una ispira­
zione politica. « Soltanto nel 1919 -—
73
ebbe ad osservare lo Chabod — con la
costituzione e l’organizzazione del partito
popolare, i cattolici si presentarono nella
vita politica italiana come una massa
compatta e organizzata e forniti di un
proprio e ben definito programma » (F.
Chabod, L ’ Italia contemporanea, Torino,
1961, p. 44). E cos’era ciò, se non il
risultato di una lunga, tenace e vittoriosa
battaglia che le forze più avanzate del
movimento cattolico avevano condotto
per dare ai propri seguaci una coscienza
di partito autonomo e libero da ogni
vincolo? D ’altra parte, VAppello ai liberi
e ai forti e il programma del P .P .I. nel
1919 si ispirano innegabilmente a tutta
l ’attività condotta da Sturzo e dai suoi
amici nei primi quindici anni del secolo,
a partire dai suoi primi scritti giovanili
sulla Croce di Costantino, . alla sua batta­
glia regionalista e municipalista in seno
all’ Associazione dei Comuni italiani, alla
lotta in favore della libertà della scuola
e contro ogni forma di accentramento bu­
rocratico e statalistico in tutti i campi
della vita pubblica e amministrativa, per
giungere alla concezione, chiaramente
intravista nel discorso di Caltagirone del
1905, di un partito cattolico aconfessio­
nale e libero da vincoli: e per tale ragio­
ne il P.P.I. fu, fin dalla sua nascita,
tenace assertore della proporzionale, co­
me anche il Vittorini ha rilevato nella
presentazione al volume in esame.
Nel programma del partito popolare
la Howard vede delle affermazioni trop­
po generiche e imprecise e sostiene che
« Don Sturzo e gli altri democratici cri­
stiani avevano omesso i punti più estremi
del loro programma » : ciò al fine di non
« irritare i clericali », che facevano parte
della Commissione provvisoria che aveva
elaborato il programma del P .P .I., o il
gruppo che essi rappresentavano. Inoltre,
la natura composita del partito determi­
nava, secondo la Howard, un attrito,
« una continua tensione interna » tra la
tendenza conservatrice e quella democra­
tica cristiana e — riportando un giudizio
di Salvemini — osserva ohe, « il partito
era una macchina nella quale un gran
numero di piccoli denti girava da una
parte, mentre alcuni denti più grandi
giravano dalla parte opposta, disturbando
o paralizzando completamente il funzio­
namento dei piccoli ». « Questa tensione
— sostiene l’ A. — continuò ner tutta
l’ esistenza del partito, indebolì la sua
azione politica e impedì al partito di
prendere una posizione decisa su Qualun­
que questione imiportante » (p. 13a).
74
R e c e n s io n i
La presenza nel partito di forze a
volte provenienti da varie tendenze: de­
mocristiani, moderati, conservatori, ecc.,
non basta, tuttavia, a dimostrare ciò che
afferma la Howard. Il significato del
P .P .I., come lo stesso Sturzo ha posto
in rilievo, era quello di « partito di cen­
tro, partito di confluenza delle categorie
0 classi sociali, e quindi, per sua propria
essenziale vitalità, basato sulla libertà a
carattere democratico » (L. Sturzo, Il
Partito Popolare Italiano, vol. I, Bologna,
1958, ip. 7). Il giudizio sulla compat­
tezza o meno di un partito politico, non
può esprimersi, come fa la Howard, sol­
tanto tenendo presenti le discussioni, a
volte vivaci e polemiche che si accendono
in seno alle Direzioni o ai Congressi na­
zionali; quello che conta in un partito
politico è la ispirazione ideologica, cultu­
rale e storica che lo guida e che nel P.P.I.
fu sempre chiaramente individuabile ed
ebbe sempre la prevalenza sulle correnti
estreme. Che dire allora degli altri partiti
dell’epoca: dai liberali, disgregati in mille
tendenze, ai socialisti, divisi fra Turati,
Ferri, Bissolati e Serrati?
Nelle conclusioni
al suo volume, il
giudizio della Howard sulla funzione del
P.P.I. nella vita politica italiana appare,
tuttavia, positivo, avendo secondo l ’A .
il popolarismo introdotto « un certo nu­
mero di fattori che non erano mai stati
rappresentati prima da un partito politico
indipendente. I ceti rurali più poveri si
accorsero, per la prima volta dall’unità
italiana, che i loro interessi erano espres­
si da un gruppo avente per fine essenziale
la riforma agraria. 1 democratici cristiani,
1 quali avevano contato poco o niente
in seno all’Azione Cattolica o al Parla­
mento durante i precedenti quindici anni,
ebbero la possibilità, dal 1919 al 1922,
di mettere in pratica il loro programma.
I clerico-moderati, pur essendo rappre­
sentati in Parlamento fin dal 1904 da de­
putati propri, non avevano ottenuto il
consenso a formare un gruppo politico
indipendente. Con la formazione del
P .P .I., questi tre gruppi ebbero l’occa­
sione di trasformare le loro dottrine po­
litiche in azione politica » (p. 487).
L'attività parlamentare e legislativa
dei popolari è analizzata accuratamente
dalla Howard, così come gli atteggiamenti
del partito nei confronti dei vari Governi
(Nitri, Giolitti, Bonorni, Facta) succedu­
tisi dal 1919 al 1922, in quello che fu uno
dei periodi più travagliati della vita po­
litica italiana.
La partecipazione dei popolari al pri­
mo Governo Mussolini, nel 1922, è aspra­
mente criticata dalla Howard, la quale
sostiene fra l ’altro: « La convinzione
che Mussolini avrebbe ripristinato l'ordi­
ne non giustificava tuttavia la decisione
dei popolari. Per due anni, essi avevano
condannato le campagne fasciste di vio­
lenza e di omicidi e il giorno stesso in
cui Mussolini andava al potere accetta­
vano di entrare a far parte del suo
governo. Avevano disapprovato d princi­
pi e i metodi fascisti durante i mesi pre­
cedenti e poi, nello spazio di 24 ore, li
accettavano. (...) Alleandosi con i fascisti,
i popolari si rendevano colpevoli del peggior tipo di possibilismo politico, la ri­
nuncia ai principi del loro partito all’e­
sclusivo scopo di ottenere il potere.
Quest'atto del P .P .I. non può essere scu­
sato e rimane il punto nero nella storia
di quel partito » (p. 389).
Giudizio senza dubbio eccessivo, che
non tiene conto di molti fattori e che
investe tutto il partito, mentre è stato
dimostrato che la collaborazione al Ga­
binetto Mussolini fu decisa dal solo D i­
rettorio del gruppo parlamentare mentre
la Direzione del partito era contraria e
lasciava la responsabilità di quella deci­
sione al gruppo parlamentare. Contrario
era Sturzo, come lo era Meda, il quale,
scrivendo al segretario del P .P .I. il 30
ottobre 1922, afferm ava: « Io sono dispo­
sto ad ammettere che vi sono state delle
buone ragioni per ridurci ad assumere
una simile posizione (...). Non posso na­
sconderti, però, che temo una sfavorevo­
lissima impressione nelle nostre masse,
della quale sentiremo gli effetti nelle
prossime elezioni. Del resto, non è il caso
di parlare, perchè purtroppo ho una gran
paura che parleranno con troppa elo­
quenza i fatti » (da: G. De Rosa, Storia
del Partito Popolare, Bari, 1958, p. 302).
La stessa Howard, d’ altra parte, mi­
tiga, qualche pagina oltre, il suo giu­
dizio, allorché afferma : « Molti di loro
[popolari] pensavano onestamente che
quello di cui l’ Italia aveva bisogno era
una piccola dose di governo forte e che
Mussolini era l’uomo che ci voleva per
somministrarla. Quello di cui i depu­
tati non si resero conto era la difficoltà
di cacciar via un dittatore già insediato
al potere. Lo appresero con dolore a pro­
prie spese negli anni seguenti » (p. 396).
Ma questo, non era l’errore comune
di quasi tutta la classe politica democra­
tica dell’epoca? Un errore di valutazione
R e c e n s io n i
su cui cadde soprattutto la vecchia clas­
se dirigente liberale e giolittiana, che
continuò a sostenere il fascismo fino al
1924, che credeva di poterlo incanalare,
assorbire in breve tempo, ridimensionar­
lo e servirsene per i propri fini. Ma il
fascismo, come ha ben osservato lo Cbabod, « rappresenta una novità che non
potrà essere assorbita nel sistema politico
liberale e costituzionale. Non essersi
accorti in tempo di questa pericolosa
novità, è il grave errore della maggio­
ranza degli uomini che fino a quel mo­
mento sono stati alla testa della vita
politica italiana » (F. Chabod, op. cit.,
p. 71).
Ricorda Luigi Sturzo, a proposito di
quei giorni, che « liberali, radicali e po­
polari accettarono di fare parte del mini­
stero Mussolini, illudendosi sulle possi­
bilità di normalizzazione. Fu lo slogan
del momento, lo che fui un dissenziente
aperto non voglio biasimare i miei amici
che (a titolo personale — così fu deciso)
fecero parte del ministero. Ma toccò a me
la parte di disincagliarli, quando mi ap­
pellai al congresso del partito, che fu
tenuto a Torino nell’ aprile del 1923. Il
mio discorso d'imnostazione fu definito
dal Popolo d’ Italia il discorso di un nemi­
co » (L. Sturzo, Politica di questi anni,
Bologna, 1955, p. 129).
Don Sturzo — sostiene la Howard a
proposito di quel discorso — restituì al
« partito quel senso di fiducia in se stesso
che aveva perduto durante l ’inverno »
e delineò « un programma d ’azione per
i mesi successivi » (p. 408). Quel di­
scorso ferì nel vivo il fascismo e l’ uomo
Mussolini, e contro le organizzazioni cat­
toliche si scatenò la violenza, determinan­
do quello che era nelle intenzioni del
duce : le dimissioni di Luigi Sturzo dalla
segreteria del P .P .I.. Togliendo di mezzo
il leader nopolare, Mussolini mirava a di­
sgregare il partito, il quale, invece, libe­
ratosi dai dissenzienti, « uscì più forte
e più unito da quel processo di chiarifica­
zione. (...) A metà luglio — osserva la
Howard — fu evidente che il tentativo di
Mussolini di scindere il P.P.I. era falli­
to » (pag. 433).
Il P .P .I. passò quindi alla opposizione
di principio e venne considerato « nemico
del governo e del fascismo ». Ormai la
sua sorte era segnata. Era la sorte di
tutte le organizzazioni politiche che in
difesa dei principi democratici osarono
75
opporsi a Mussolini e ai metodi instaurati
dal suo regime.
F rancesco M algeri
C orrelli B arnett , I Generali del deserto,
Longanesi & C .,
Milano,
1961,
L . 1900.
L ’opera vale assai più di quanto lasci
presagire la presentazione in copertina
dell’Editore italiano ispirata a vacua po­
lemica antibritannica.
Lo studio delle campagne d'Africa
settentrionale 1940-42 si prospetta nel­
l'analisi delle personalità e dell’opera
dei capi britannici: W avell, O’Connor,
Cunningham,
Ritchie,
Auchinleck
e
Montgomery. I generali del deserto non
furono nella realtà uomini mediocri.
Certo interamente nessuno: O'Connor
possedeva doti eccezionali: Auchinleck
ebbe meriti altissimi: e pure tutti par­
teciparono di virtù e difetti tipici della
classe militare britannica. Montgomery
trovò la battaglia e la vittoria. Non era
il più valente ma, ultimo arrivato, egli
solo potè disporre di un’abbondanza di
mezzi senza precedenti per l’ottava ar­
mata.
Drastico è il giudizio di Barnett sul
« capolavoro » del Visconte di El Alarnein : « Considerata l’immensa superio« rità di forze, quel che sorprende non
« è il fatto che vincessimo la battaglia,
« ma che fossimo sul punto di perderla».
Qui la critica dell’A . diviene partico­
larmente interessante anche se non è
sempre esauriente.
Il merito dell’arresto dell’avanzata
tedesca ad El Alamein è giustamente
attribuito ad Auchinleck perchè nei
combattimenti del luglio 1942, da lui di­
retti, la Panzer Armée di Rommel fu ri­
dotta in condizioni quasi disperate, pro­
prio mentre pareva alla vigilia del
successo risolutivo. Ciò è confermato an­
che da fonte tedesca : con dispaccio
segreto 23 luglio 1942 diretto al Supercomando italiano Rommel definiva le
forze dell’Asse ad El Alamein molto esili
(« sehr diinn ») e rappresentava la pro­
babile necessità di ritirarsi per evitare
la definitiva « capitolazione dell’ armata
« e quindi la perdita dell’Africa Setten­
trionale » (Ufficio Storico S.M .S., secon­
da controffensiva italo-tedesca... gennaiosettembre 1942, pag. 397, Roma, 1951).
Nella leggenda ufficiale inglese Mont-
76
R e c e n s io n i
gomery figura il « Messia » che salva
l'ottava armata sgomenta e già rasse­
gnata coll’ordine storico « non vi sa­
ranno più ritirate ». Simile volgare mi­
stificazione è respinta: era facile proibire
le ritirate quando altri aveva già salvata
la situazione e poste le basi per la ri­
scossa.
Anche nell’ultima battaglia d ’arresto
dell’estate 1942 ad Alam El Alfa spetta­
no a Montgomery meriti di semplice
esecutore del piano già prediposto dal
suo predecessore Auchinleck e dall’intelligente Dorman-Smith.
Secondo Barnett la stessa El Alamein
(ottobre 1942) fu addirittura una batta­
glia « inutile » perchè l’imminente sbar­
co anglo-americano nell’Africa francese
avrebbe comunque costretto Rommel a
ritirarsi.
Affermazione che invero lascia per­
plessi: se in fatto la ritirata di Rommel
fu un capolavoro nonostante la rotta
subita, è ragionevole supporre che una
ritirata volontaria avrebbe salvato un
numero ben maggiore di forze utilizzabili
nella successiva vicenda tunisina.
Così pure non del tutto persuasiva è
la critica, peraltro interessante, delle
operazioni d’inseguimento dopo El Ala­
mein.
Certo la « caccia » di Montgomery
non fu brillante e la « volpe » sfuggì a
lungo ma solo per finire senza speranze
nell’ cc impasse » tunisino. Eppoi, se sco­
po della guerra è vincere, ci sembra me­
riti lode e non rimprovero il capo che sa
profittare della propria superiorità ma­
teriale evitando rischi e perdite inutili.
Ciò fu visto con esattezza dallo stes­
so Rommel quando scrisse di Montgo­
mery : « il suo principio era di non coni­
li battere alcuna battaglia che non fosse
« sicuro di vincere, era prudente, secon« do me, troppo prudente, ma poteva
« permetterselo » (R o m m e l , Guerra sen­
za odio, Garzanti, Milano, 1955).
Insomma alla creazione della leggenda
Montgomery avranno concorso l’esibi­
zionismo dell’ uomo e il desiderio delle
sfere ufficiali inglesi di dare maggiore
risalto all’unica vittoria terrestre esclusi­
vamente britannica, al « canto del Ci­
gno » della Gran Bretagna come potenza
« indipendente », ma probabilmente non
fu estranea anche qualche abilità del
generale.
Qui Barnett, giovane autore non par­
tecipe dei fatti, riecheggia e amplifica la
stessa polemica accennata da altri ufficiali
inglesi delle campagne precedenti El
Alamein. Così tolta di peso dal Young
(La volpe del deserto, Longanesi, Mila­
no, 1951) è l’osservazione amara che i
combattenti delle prime campagne d ’Africa « non hanno diritto a portare il nume« ro 8 sul nastrino della decorazione del« l’Africa Star ». Per la storia ufficiale
l'ottava armata nasce solo il 23 ottobre
1942.
Inedita è invece la notizia che a
Dorman-Smith, brillante secondo di A u­
chinleck e con lui « silurato » nell’ago­
sto 1942, sarebbe poi stata preclusa
ogni carriera dalla « camarilla » dei vin­
citori di El Alamein.
Ma il merito principale del Barnett
non è tanto nella disquisizione strettamente tecnica, quanto piuttosto nell’a­
nalisi acuta e spregiudicata della casta
militare britannica.
Anche i migliori partecipavano delle
abitudini mentali di quella classe privi­
legiata e tradizionalista che, gradualmen­
te esclusa dalla vita nazionale sul finire
del diciannovesimo secolo, aveva conser­
vato una delle sue ultime roccheforti
nell’esercito.
« L ’esercito britannico nella seconda
« guerra mondiale rappresenta un’ ecce« zione forse unica nella storia... pur
« essendo l’esercito di una democrazia
« sociale e di una potenza industriale di
« prim ’ ordine... tuttavia era come un’ac« colta di campagnoli al comando della
« borghesia e dell’ aristocrazia ».
« .. . Pochi uomini poveri, dotati di
« grande ingegno, sceglievano l’esercito
« come impiego rimunerativo dei loro ta­
li lenti: la paga in tutti i gradi era più
« bassa di qualunque stipendio ». I sol­
dati d’altronde « preferivano essere co­
li mandati da gentlemen che non da uo« mini capaci della loro stessa classe so­
li ciale ».
Sul terreno strettamente militare ciò
si traduceva in una concezione di guerra
ottusamente « eroica » memore della ca­
rica di Balaclava e appena corretta dalle
esperienze della guerra di posizione
1914-18, anch’essa superata.
I pochi assertori della mobilità e del­
la motorizzazione, specialmente gli uffi­
ciali del Royal Tank Corps provenienti
indistintamente « dalle varie classi del
« paese industriale », erano guardati con
sospetto e non raggiungevano i gradi
più elevati.
R e c e n s io n i
Così agli uomini cavallereschi leali ed
incompetenti di « un mondo fondato sul
« giuoco del polo e sulla vita di società »
toccò misurarsi col prodotto tipico della
tecnocrazia del ventesimo secolo, funzionaie e spietato : l’esercito corazzato tedesco « composto di uomini... di tutte
« le classi sociali, che si interessavano
« più di cingoli che di speroni ».
Il primo risultato non poteva dunque
stupire. Pure non mancò qualcuno che
riuniva in sè genialità tecnica ed aristo­
crazia di carattere: W avell e soprattut­
to O’Connor.
Vivacissima è la rievocazione della
campagna 1940-41 in cui la minuscola
Western Desert Force di O’Connor sba­
ragliò l’armata di Graziani numericamen­
te cinque volte superiore. Lo studio di
questa campagna offrirebbe spunti inte­
ressanti anche per un raffronto fra l’eser­
cito britannico e l ’esercito italiano di
Mussolini certo, per tante ragioni, ancor
più anacronistico del suo antagonista.
Ma non è qui luogo per discettare
delle complesse vicende di questi primi
successi britannici : limitiamoci ad osser­
vare che in Inghilterra essi sono forse
ingiustamente oscurati dal mito ufficiale
di El Alamein e dei suoi vincitori; in
Italia del resto essi furono un po’ troppo
semplicisticamente addebitati ad una su­
periorità materiale avversaria solo in par­
te reale.
Interessa piuttosto rilevare un tratto
significativo di O’Connor.
La campagna 1940-41 sarebbe certa­
mente finita colla conquista di Tripoli,
se, contrariamente al parere di O’Con­
nor, Churchill non avesse smembrata
l’armata del deserto per portare un soc­
corso inutile alla Grecia. N e derivò il
prolungamento della guerra in Africa per
oltre due anni con conseguenze incalco­
labili.
Ebbene O’Connor, che aveva visto e
rappresentato tutto ciò, anche dopo la
guerra non ostentò di avere avuto ra­
gione ma anzi si schermì dalla polemica
dichiarando: « Basterà dire che la deci« sione di iniziare la campagna di Grecia
« mi dispiacque per ragioni egoistiche ».
In Inghilterra modestia e « understa­
tement » sono virtù perfino dei generali.
Lucio C eva
77
Das Tagebuch
von Joseph Goebbels
1925-26. Mit weiteren Dokumenten
hrgg. von Helmut Heiber, Deutsche
Verlags-Anstalt, Stoccarda, s. d., pp.
14 1.
Con questo volume l’Institut fiir Zeitgeschichte di Monaco inizia la pubblica­
zione di una collana di documenti e di
saggi sul movimento nazionalsocialista.
D al risvolto del primo volume apprendia­
mo che il programma delle prossime
pubblicazioni prevede un saggio di Mar­
tin Broszat sulla politica del regime na­
zista in Polonia e la chiesa cattolica
polacca dal 1939 al 1945, delle note di
diario dal 1929 al 1952 di Hermann
Piinder, Politik in der Reichskanzlei,
uno studio di diritto internazionale com­
parato di Lothar Gruchmann, Grossraumpolitik des Dritten Reiches ed il diario
del luogotenente maggiore Helmuth Groscurth, Militaropposition 1938-1940.
Di estremo interesse per coloro che si
occupano dello sviluppo del movimento
nazionalsocialista in Germania sono que­
ste note di diario di Joseph Goebbels.
Corn’è noto, Goebbels è stato uno dei
personaggi-chiave del Terzo Reich, come
organizzatore delle tecniche del mito po­
litico, nella sua qualità di ministro della
propaganda per il Reich dal 1933 in poi,
la sua influenza sulle masse fu seconda
soltanto a quella di Hitler. Nato a
Rheydt (Westfalia) nel 1897 da una fa­
miglia cattolica della piccola borghesia e
terminati gli studi secondari nel 1917,
partecipò per breve tempo alla prima
guerra mondiale relegato in un ufficio
dell’ amministrazione militare a causa del­
la sua ben nota deformità fisica, quel
« piede storto » (Klumpfuss), sul quale
poi la fantasia popolare costruì le più
fosche leggende (zampa del demomio
ecc.) e che divenne spesso oggetto di
sarcasmo da parte dei suoi avversari po­
litici. Finita la guerra studiò germanistica
e storia alle università di Bonn, Friburgo,
Würzburg, Monaco e Heidelberg; colti­
vando delle ambizioni letterarie, cercò di
entrare nel cenacolo di Friedrich Gundolf,
il famoso critico letterario e studioso di
letteratura tedesca, considerato allora la
personalità più illustre del mondo lette­
rario tedesco, ma venne respinto. Tentò
allora la carriera giornalistica ma fu un
secondo fallimento e si dovette acconten­
tare di un impiego presso una banca e
poi presso la sala di borsa di Colonia.
Finalmente nel 1924 un amico, iscritto al
78
R e c e n s io n i
partito nazista, gli procurò un impiego
presso il giornale nazista della Renanta,
la ” Vòlkische F re ih e it” . Alla fine del
1924 (o all’inizio del 1925, la data precisa
non si sa) Goebbels s ’iscrive al partito
nazionalsocialista, quando questo contava
già piìi di ottomila iscritti. Benché non
fosse uno di quelli « della prima ora »,
la sua carriera politica fu rapidissima :
.poco più di un anno più tardi lo troviamo
già a capo del Gau Berlino-Brandenburgo. Questo diario, che va dal 12 agosto
1925 al 30 ottobre 1926 racchiude il pe­
riodo della folgorante ascesa di Goebbels
e fin qui il suo interesse non oltrepas­
serebbe i limiti della biografia personale,
ma quel che più conta sono le vicende
interne del partito, la polemica tra i
gruppi di potere, nella quale Goebbels
seppe inserirsi con molta abilità, che co­
stituiscono lo sfondo del diario ma anche
gli strumenti attraverso i quali Goebbels
riesce a guadagnarsi una posizione di
prestigio nel partito.
La vicenda personale di Goebbels in
questo breve arco di tempo si identifica
con quella del movimento nazista e perciò
non c’è prospettiva migliore per seguire
10 sviluppo del partito che quella dalla
quale il protagonista principale giudica
uomini ed eventi. Nel novembre 1923
era fallito il putsch di Monaco, Hitler
veniva condannato e rinchiuso nella for­
tezza di Landsberg, il partito nazista
soppresso. Scontata la mite condanna,
Hitler mutò tattica, mutò alleanze, mutò
linguaggio. Scartata la via della forza, si
accettava la tattica legalitaria, ci s'impe­
gnava nella lotta sul piano costituzionale
del parlamento. Era l’ unico mezzo per
venire a patti con le autorità di governo
e di polizia locali. La nuova tattica im­
poneva un ridimensionamento dell’organizzazione del movimento nazista; deposi­
tario dell'idea nazista diventava il partito,
le formazioni militari delle S .A . operava­
no -nell’ambito delle direttive del partito.
Occorreva disfarsi della fraseologia socialisteggiante, che spaventava la borghe­
sia, disfarsi delle ipoteche dei movimenti
parareligiosi neo-pagani (Ludendorff) che
rendevano ostile la chiesa ed i cattolici,
con i quali bisognava venire a patti ad
ogni costo, soprattutto in Baviera,. Fallito
11 piano di prendere il potere con la forza
in Baviera e di « marciare su Berlino »,
ottenuta la ricostituzione del suo partito
dal D r. Held, primo ministro bavarese
di tendenze cattolico-conservatrici, Hitler
aveva bisogno di mettere piede a Berlino,
la centrale della vita democratica weima-
riana, la sede del Parlamento. Ma la re­
gione a i ùernno-rsranaenburgo era la Toc­
catone dei tratelli Strasser, leaders della
fronda « di sinistra » del partito, che so­
stenevano una soluzione più « socialista »
che nazionale del problema tedesco, che
esigevano profonde riforme sociali e che
impostavano la lotta sul piano militare
delle formazioni armate. Hitler non pote­
va agire direttamente a Berlino perchè il
ministro degli interni di Prussia, il so­
cialdemocratico Severing, manteneva nei
suoi confronti il Redeverbot. 1 due grup­
pi,
Hitler-Monaco
e Strasser-Berlino
avevano anche dei propri organi di stam­
pa che al momento opportuno potevano
diventare portavoci delle istanze di « cor­
rente » : a Monaco il ” Volkischer Beobachter ” ed i ” Nationalsozialistische
Monatshefte ” , a Berlino la ” Berliner
ArbeiterZeitung ” e le ’ ’Nationalsozialistische Briefe
Fu appunto come redattore di questo
periodico che Goebbels si acquistò la fa­
ma di rappresentante dell’ala più radicale
della « fronda » strasseriana. Negli ultimi
anni dell’università Goebbels aveva in­
contrato un amico che lo aveva spinto
alla lettura dei testi marxisti; costui,
lavoratore delle miniere, perì in una
sciagura mineraria nel 1923 lasciando nel
giovane Goebbels un’eredità di tipo senti­
mentale che lo indusse ad abbracciare la
vocazione del redentore degli oppressi,
quasi per continuare la via dell’amico.
Ma il « socialismo » di Goebbels aveva
delle radici emotive, addirittura psicopa­
tiche. Il campo d’azione di Goebbels
come propagandista delle idee naziste, fu
la regione della Ruhr, la Renania e la
Westfalia. Esistono quindi, al di là dei
legami ideologici di carattere sentimen­
tale, delle ragioni obbiettive per cui
Goebbels non rinunciò in un primo mo­
mento — ossia fintantoché questo non
ostacolava la sua carriera personale —
alla fraesologia socialisteggiante; la sua
propaganda si rivolgeva infatti essenzial­
mente al proletariato industriale della
Ruhr e lo stesso può dirsi di Gregor e
Otto Strasser a Berlino. Goebbels aveva
la sua sede a Elberfeld e, come dice nel
diario, voleva trasformarla nella « Mecca
del socialismo tedesco ». Da qui egli
partiva per i suoi giri di propaganda,
conducendo un ritmo di vita convulso,
estenuante, con frequenti crisi depressi­
ve. In breve la sua fama di arringatore di
masse, di abile e fanatico propagandista
giunse alle orecchie di Hitler che in una
R e c e n s io n i
riunione dei dirigenti del partito, lo
elogiò pubblicamente (come annota nel
suo Diario con compiacimento) additando
in lui il migliore tribuno uscito dalle file
naziste negli ultimi tempi. Ciò che distingueva Goebbels da Strasser era però
la sua fanatica cieca fedeltà al Führer,
che egli riteneva però attorniato a Mona­
co da una corte di imbecilli e di maneg­
gioni, vera rovina del movimento.
Per caratterizzare la posizione politica
di Goebbels basterebbe ricordare che il
tema costante dei suoi giri propagandisti­
ci era « Lenin o Hitler? '» oppure « N a­
zionalsocialismo o Bolscevismo » dove, si
noti, i due termini non venivano presen­
tati come antitetici ma come integrantesi
vicendevolmente in un qualche modo.
Più di una volta Goebbels afferma nel
diario che le lotte sanguinose tra comuni­
sti e nazisti sono una cosa « terribile »,
che la Russia sovietica è l’alleato natu­
rale di una futura Germania nazista.
Quando, nell’ottobre del 1925, apprende
che Stresemann ha firmato gli accordi
di Locamo, piange sulla Germania
« schiava del capitalismo occidentale » e
sul futuro dei tedeschi costretti « come
degli schiavi a combattere la guerra
santa contro Mosca » ed infine dichiara
di preferire « la morte assieme al bolsce­
vismo piuttosto che l ’ eterna schiavitù
al capitalismo occidentale ». L ’ attrito fra
Hitler e la « fronda » strasseriana si ag­
grava; Hitler capisce che Goebbels può
avere un peso decisivo per far pendere
la bilancia da una parte o dall’ altra, che
è pericolosissimo come avversario ma può
essere utilissimo come alleato; d’ altro
canto ha capito che Goebbels è avido di
far carriera, che il mingherlino, deforme
Goebbels non ha molte speranze di suc­
cesso nel gruppo degli Strasser, dove il
tono è dato dagli atteggiamenti rudi, vio­
lenti, militareschi. In un primo tempo
Hitler sceglie la strada più semplice per
« integrare » Goebbels nel suo sistema
e lo invita a venire a Monaco nella re­
dazione del ” Volkischer Beobachter ”
(Diario di Goebbels, 30 settembre 1925).
Goebbels capisce la manovra e rifiuta,
evidentemente perchè crede che Hitler
prima o dopo dovrà cedere. Ma il Füh­
rer aspetta e per il momento cambia
tattica; il 12 ottobre 1925 Goebbels an­
nota nel diario: « Hitler non si fida di
me. Ha imprecato contro di me. Quanto
mi addolora tutto ciò. Se il 25 ottobre a
Hamm mi lancia delle accuse, me ne va­
do ». Hitler era atteso in Westfalia per
un giro di propaganda e Goebbels si pre­
79
para ad « affrontarlo »; ma il Führer,
come s'intuisce chiaramente dalle note
di diario dei giorni successivi, lo tratta
con distaccata cortesia. Goebbels cerca
invano di nascondere la sua delusione
ed i suoi timori.
Frattanto la polemica fra i due gruppi
diventa così evidente che Hitler decide
di convocare una conferenza dei capi na­
zisti a Bemberg il 15 febbraio 1926, per
mettere le carte in tavola. E ’ una vera
doccia fredda per Goebbels e soci; alla
sera egli annota nel diario di avere avuto
« una delle più grandi delusioni » della
sua vita e si chiede spaventato: « Hitler
reazionario?... Non credo più ciecamente
in Hitler ». In sostanza il Führer aveva
detto di ritenere l’ Italia fascista e l’In­
ghilterra i naturali alleati di una futura
Germania nazista, di essere d'accordo con
l’ indennizzo ai principi per i beni loro
espropriati (mentre Goebbels e gli Stras­
ser appoggiavano la tesi dei partiti di
sinistra, socialdemocratico e comunista,
dell’esproprio senza indennizzo), di consi­
derare il bolscevismo una creatura degli
ebrei e di riconoscere la proprietà pri­
vata.
Nelle pagine successive, Goebbels tace
sui suoi rapporti con Strasser e Hitler:
è un silenzio estremamente signifiicativo;
ha compreso che se non vuole essere ta­
gliato fuori deve piegarsi al volere del
Führer. Il 13 aprile 1926 è nella tana del
lupo, a Monaco. Hitler parla ininterrot­
tamente per tre ore ed alla sera Goebbels
annota « M ’inchino di fronte al più gran­
de genio politico ». Due mesi dopo Hitler
è a Elberfeld per una campagna propa­
gandistica. Da pochi significativi accenni
del diario s’ intuisce che il Führer tratta
Goebbels con voluta cordialità, lo prende
« sottobraccio » gli parla « confidenzial­
mente, come un vecchio amico ». Gli
interessi dei due uomini ormai coinci­
dono: Goebbels avrà degli incarichi im­
portanti a Berlino, la roccaforte di Stras­
ser, sarà il « cavallo di Troia » del
Führer per espugnare il feudo strasseriano. Il patto viene concluso durante un
soggiorno di Goebbels a Berchtesgaden,
dal 23 al 26 luglio 1926. Il 25 agosto dello
stesso anno Goebbels annota: « L ’ultima
novità : nel movimento si constata il mio
Damasco. Mi sarei piegato di fronte a
Hitler a Monaco ». Il diario, come abbia­
mo detto, finisce il 30 ottobre 1926. Il
i° novembre Goebbels assume la carica
di Gaufiihrer di Berlino-Brandenburgo.
In appendice al volume sono inseriti
8o
Recensioni
alcuni documenti estremamente interes­
santi sulle situazioni creatasi dopo l’inse­
diamento di Goebbels. Nella prima circo­
lare che egli invia il 9 novembre ai
gruppi periferici si nota l ’evidente in­
tenzione di porre le basi per una strut­
tura burocratica del partito, di discipli­
nare le formazioni militari delle S .A . e
delle S .S ., sottoponendole alle direttive
dei funzionari del partito.
Segue un dossier di una disputa tra
Goebbels e Strasser. Sui giornali dei fra­
telli Strasser era apparso un articolo sulle
conseguenze della mistione razziale nel
quale Goebbels aveva ritenuto di intravvedere un attacco diretto alla sua persona
ed un’ allusione alla sua deformità fisica.
Chiede che la questione sia portata di
fronte alla commissione di disciplina del
partito (Uschla) e pone la questione di
fiducia. Una lunga serie di memoriali e
contromemoriali di Goebbels e degli
Strasser che s’accusano a vicenda e si
appellano ambedue al Führer. In partico­
lare i fratelli Strasser protestano per la
fondazione del nuovo organo di stampa
del partito a Berlino ” Der A n griÿ ” , la
cui funzione è evidentemente quella di
mettersi in concorrenza con il quotidiano
degli Strasser ’ ’Berliner ArbeiterZeitung” .
Hitler riesce a calmare le acque ma
riconferma Goebbels nella sua carica ed
ormai ha partita vinta. ” Der A n griÿ ” ,
prima mensile, poi bisettimanale ed infine
quotidiano, diretto da Goebbels, spode­
sterà il giornale della fronda strasseriana,
che può dirsi già liquidata anche se bi­
sognerà aspettare l’ estate del 1930 prechè
Otto Strasser abbandoni il partito e formi
il cosiddetto « Fronte nero », la cui scon­
fitta alle elezioni del settembre 1930 lo
costringerà ad abbandonare la Germania
ed a rifugiarsi all’estero. Gregor Strasser
invece darà le dimissioni dal partito nel
dicembre del 1932, alla vigilia della presa
di potere, senza rompere definitivamente
con il movimento come il fratello. Sembra
anzi che nel giugno del 1934 Hitler, nel
tentativo di riassorbire l’ala sinistra del
partito, gli avesse offerto il ministero
dell’economia nazionale ma avesse poi ri­
nunciato perchè Gregor pose come condi­
zione l’ espulsione di Goebbels e di Goering. Hitler risolse la questione con la
forza ed eliminò i suoi avversari il 30
giugno, nel famoso bagno di sangue in
cui trovarono }a morte il capo delle S .A .
Rohm ed il generale von Schleicher as­
sieme a molti altri.
Lo stile del diario di Goebbels non e
elaborato ma si limita a degli appunti
secchi, telegrafici, che gli conferiscono
un senso di immediatezza e di autenticità
documentaria. Per quanto impulsivo, sen­
timentale e fanatico Goebbels non si la­
sciò dominare dagli eventi, la sua ambi­
zione gli permise di considerarli con lu­
cido distacco e di strumentalizzarli ai
propri fini personali. N e risulta un docu­
mento insostituibile per la conoscenza
delle vicende interne del movimento na­
zista che proprio in quel periodo assume
la sua precisa fisionomia ed una sua, se
vogliamo, coerenza, mettendo in luce la
sua natura di classe. La polemica tra i
due gruppi di 'potere non riguardava tan­
to la strategia del movimento quanto la
sua sostanza stessa.
S ergio B ologna