RE C ENS I ONI A . R e p a c i - C. N avo ne , D io e Popolo, Antologia del Risorgimento e della Resistenza, Bottega d ’Erasmo, Torino, 1961, pp. 579, L . 3.000. Questo volume è stato premiato dalla giuria del Concorso indetto dall’Associa­ zione fra i Comuni decorati, per un’an­ tologia che testimoniasse, attraverso scrit­ ti e documenti originali, la storia d ’Italia, come storia della conquista dell’indipen­ denza e della libertà. Come tale, è, dunque, naturale che essa abbracci nel modo più ampio le testimonianze del Ri­ sorgimento e della Resistenza. Per ritrovare un filo logico che ricolle­ ghi insieme questi due fatti e che armo­ nizzi, per così dire, le voci del coro, il Repaci ha subito affrontato nell’Introdu­ zione i.l difficile e non ancora risolto pro­ blema del rapporto fra Risorgimento e Resistenza e si è, anzitutto, chiesto se il Risorgimento è « un periodo storico che caratterizza le lotte e le imprese per la formazione di un’ Italia unita e indipen­ dente, oppure un moto di idee e di aspi­ razioni molteplici, scaturito da un’esigen­ za rivoluzionaria, di fronte alla quale l’unità e l’ indipendenza rappresentano elementi secondari anche, talora, contra­ stanti » (p. 1). Dopo un’analisi dei vari periodi della storia d’Italia nella prima parte dell'ot­ tocento fino al settanta, l’autore afferma che « il Risorgimento aveva risolto alcuni problemi imprescindibili e fondamentali, quali l ’unità e la libertà d’ Italia, lascian­ do alle generazioni successive il compito della soluzione del problema sociale e del rafforzamento dell'unità morale degli Ita­ liani ». Un problema così complesso e così discusso dalle più diverse valutazioni ideologiche si potrebbe forse porre in altri termini : se nel fatto Risorgimento esi­ stessero o no in modo determinante, co­ me alcuni vorrebbero, gli elementi reali di quella esigenza di rinnovamento sociale e quindi anche economico, che caratte­ rizzerà, prima fuori d ’Italia, poi in Italia gli ultimi decenni del secolo scorso, e tutto il nostro secolo. Noi sappiamo quanto contrastanti sia­ no le interpretazioni che si dànno ad un medesimo fatto storico; se noi ammettia­ mo la presenza di certe istanze allora possiamo anche stabilire certe continuità; in caso contrario, pur ammettendo alcuni aspetti generali comuni, dobbiamo rico­ noscere profonde differenze di caratteri e di motivi. Le pagine introduttive, dopo un lungo esame di tutta la storia d ’Italia, dagli albori del Risorgimento alla vittoria contro il fascismo, si concludono con un’ affermazione esplicita: «Sem bra, dunque, dimostrato (.......... ) che Risorgi­ mento e Resistenza altro non sono se non momenti di un unico inscindibile processo storico » (p. 58). Vorrei qui osservare che l’affermazio­ ne è accettabile solo se noi riteniamo che alla radice di ogni fatto a carattere in­ surrezionale sta prevalente un’esigenza morale, anche se questa è di volta in volta velata da esigenze contingenti. La prima accomuna tutti, le altre sono sen­ tite da categorie diverse in modo diverso, a seconda dei moti che scaturiscono dalla sfera degli interessi, intendendo questa parola in senso lato. Come tutti sappiamo, un momento storico può ritrovare i suoi richiami nel passato a momenti simili ricchi di eguali motivi, se consideriamo le linee esteriori degli avvenimenti, mai se entriamo ad analizzare condizioni e dati precisi di fatto. Le cosiddette eredità o continuità esistono se noi ci limitiamo a considerare generici richiami spirituali, mai se da quelli scendiamo alla dinamica concreta dei fatti. Così ci sembra di poter affermare in­ torno al rapporto Risorgimento-Resisten­ za; per quanto sia ovvio riconoscere che l’ argomento è di tale importanza e di tale complessità da non poter essere qui che lievemente sfiorato. Quest’ antologia è ricchissima; i passi sono stati scelti con intelligenza e viva consapevolezza del fine da raggiungere, quello cioè che i giovani ascoltassero qui tutte le voci, le più autorevoli, le più profonde e le più alte a commento di quella nobile storia italiana, intesa come storia di conquista di valori umani e ci­ vili. Una prima parte: « Dalla vecchia Ita­ lia all’Unità » comincia con uno scritto di P. Verri sulla « Natura degli Italiani » e, comprendendo tutta la parte attiva del Risorgimento fino alla spedizione dei Mille, finisce con le pagine del Salvato­ relli su « L ’ unificazione plebiscitaria ». La seconda parte riguarda « La terza Ita- Recensioni lia » e la lotta per la democrazia; la terza parte si intitola, invece, « .La Crisi e la Diagnosi » e raccoglie scritti intorno alla prima guerra mondiale ed al travaglio che ne è seguito, fino alla crisi dell’Italia Liberale ed al primo sorgere del fascismo. E ’ doveroso elogiare, anzitutto, come dote di gran pregio, il criterio severa­ mente obbiettivo che ha guidato questa raccolta, in virtù del quale difficilmente si potrà trovare una dimenticanza o una esclusione di nomi di autori, o di segna­ lazione di fatti di rilievo, qualunque sia la natura dei fatti stessi o la provenienza politica degli uomini; scrupolo obbiettivo che, purtroppo, non incontriamo sempre in pubblicazioni del genere. Questa rara dote si rivela, poi, parti­ colarmente necessaria quando giungiamo alla storia più recente, quella dal 1924 al 1945. Essa è qui raccolta in due parti, la quarta e la quinta: comincia con uno scritto di Matteotti e finisce duecentocinquanta pagine più in là con i ricordi della Liberazione, dove incontriamo i nomi del Battaglia, di Leo Valiani, del Negarville, del gen. Cadorna e di altri. L ’ Antologia si chiude con un breve capi­ tolo sulla Costituzione e la Repubblica : l’ultima pagina è di Ferruccio Parri : a Europa unita per la salvezza dell’Euro­ pa ». Colui che legge accuratamente uno dopo l’ altro in ordine cronologico gli scritti qui raccolti, anche se non è sprov­ veduto di cultura specifica, si trova di­ nanzi, con diletto della mente, un vasto ed organico panorama di tutta la nostra storia, creato attraverso il richiamo armo­ nico di passi significativi, che talvolta sono anche di difficile riperimento. Al diletto della mente si aggiunge spesso anche la mozione degli affetti, un elemento che, sapientemente dosato, agi­ sce con un potere talvolta più efficace di un’argomentazione, sul sentimento dei giovani. Essi qui potranno avvicinarsi ai momenti umani più alti e più coraggiosi di cui la nostra storia è lungamente tes­ suta, e potranno, così, individuare quel sottile filo che lega attraverso i decenni il travaglio spirituale degli oppressi, che per tutti, anche per gli obliosi e gli inerti, si sono levati a testimoniare, nel mar­ tirio e nel sangue, la libertà della loro coscienza morale e la loro dignità di cit­ tadini; quella sublime protesta che sola lega le generazioni del Risorgimento a quelle dell’ antifascismo e della Resisten­ za. B. C eva 71 I s t it u t o G. G. F e l t r i n e l l i , Le R e s is te i Za Italiana, 25 luglio 1943 - 25 apri­ le 1945, saggio bibliografico a cura di Laura Conti, Feltrinelli, Milano, 1961, pp. V ili - 404, L . 6.000. Terzo della collana bibliografica dell’ I­ stituto Feltrinelli, il presente volume ha per oggetto la stampa clandestina perio­ dica e non periodica della Resistenza Ita­ liana, con riferimento ai circa 5000 esem­ plari che, in originale o in foto copia, sono stati raccolti presso il suddetto Isti­ tuto. I risultati della ricerca sono stati sor­ prendenti: 2357 giornali, 2623 manifesti­ ni e opuscoli stampati alla macchia. II censimento, effettuato con larghez­ za di mezzi e con esemplare precisione, non è stato però — e in realtà non pote­ va essere — integrale; esso lascia consa­ pevolmente delle lacune che il prosegui­ mento del lavoro intrapreso con la col­ laborazione dei lettori potrà via via col­ mare. Dobbiamo in merito osservare come nel limite imposto dalla curatrice al cen­ simento sta la riprova della sua stessa serietà. Soltanto le unità effettivamente reperite sono state indicate. Lo scrivente, per esempio, aveva segnalato il primo nu­ mero di un’edizione piemontese di « Azione contadina », da lui integralmente redatta e stampata nel 1944 presso una tipografia di Dogliani, ma di cui non conservava alcun esemplare. La pubblica­ zione, che non gli è stato possibile esi­ bire alla redazione, non ha pertanto po­ tuto essere inserita nella bibliografia. L a curatrice avrebbe invece potuto, almeno per i periodici già posseduti in alcuni numeri, dare notizia della serie residua di essi, ove ne fosse stata infor­ mata. Farò un solo esempio: di « Gio­ ventù Liberale » non esiste soltanto il primo numero qui indicato ma almeno altri 4 ad esso successivi, conservati in un fondo torinese, ai quali la bibliografia non accenna, ritengo per le stesse ragioni istitutive di cui ho detto. Il rigore limi­ tativo del censimento finisce così col da­ re forse più un catalogo — per quanto amplissimo — delle unità possedute dal­ l’Istituto Feltrinelli che una rassegna bi­ bliografica generale. Ma a prescindere da tale limite, det­ tato dalla diligenza stessa della ricerca, il criterio organizzativo adottato dalla so­ lerte curatrice è davvero esemplare. L ’e­ same degli indici, che da soli costituisco­ 72 R e c e n s io n i no la parte terza del volume, è sufficiente a darcene coscienza. Ad un indice gene* rale (che, seguendo l’ordine di presen­ tazione delle materie, distingue la stam­ pa periodica e non periodica dei C LN nelle loro varie espressioni e quella dei partiti, dei fronti popolari e delle forma­ zioni partigiane da quella dei gruppi mi­ nori estranei al C LN o operanti all’este­ ro) s’accompagnano un indice alfabetico delle testate dei periodici, un indice al­ fabetico della stampa non periodica, un indice geografico (per regioni e per provincie), un indice della stampa bilingue o in lingua straniera, un indice delle formazioni militari di cui è stata censita la stampa, una cartina con le dislocazio­ ni delle formazioni di montagna nell’ a­ prile 1945, un indice della stampa per grandi categorie, sopratutto sociali e pro­ fessionali (perchè sono omessi gli « ope­ rai »?), un indice per autori (nomi e pseu­ donimi), un indice per partiti o gruppi minori. Una tale rete di inquadramento con­ sente di collocare immediatamente al suo giusto posto un qualsiasi documento re­ perito valendosi di una delle varie cate­ gorie sotto cui esso è stato considerato nel censimento e nelle quali ricorre con un costante riferimento numerico. Inol­ tre lo schema adottato dalla bibliografia offre lealmente sicure possibilità di con­ trollo delle sue stesse eventuali lacune e inesattezze di attribuzione. Funzionalità e probità scientifica non potevano essere meglio rispettate. E ’ inutile dire come ogni futuro stu­ dio sulla Resistenza, per quanto di na­ tura strettamente monografica, non po­ trà ormai prescindere da questo fondamentale strumento di lavoro; così come da questa sistemazione organica delle anonime o meno anonime « voci » della Resistenza potrà finalmente prendere le mosse una più approfondita ricerca sullo spirito pubblico in Italia sotto l’ occupa­ zione nazista. G . V accarino E dith P ratt H oward, Il partito popolare italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1957, pp. 523 + X X IV , L . 2.300. Negli ultimi anni sono stati numerosi gli studiosi che hanno affrontato il tema relativo alla storia del movimento politi­ co cattolico italiano, dalle origini all’at­ tuale democrazia cristiana; basti citare i nomi di Jacini, De Rosa, Fonzi, Cande­ loro e Vaussard, i quali hanno arricchito in misura notevole una letteratura storica quasi del tutto deficiente fino a quindici anni fa. In tale letteratura si inserisce anche l’opera della studiosa americana Edith Pratt Howard che ha trattato l'ar­ gomento relativo allo sviluppo, alla ideo­ logia ed alla funzione che, nel quadro generale della storia d ’ Italia del primo dopoguerra, ha esercitato il partito po­ polare italiano. La Howard (che ha elaborato la sua ricerca sotto la guida di Gaetano Salvemini, suo maestro e il cui volume è inte­ grato da una interessante Presentazione di Paolo Vittorelli e da una nota biblio­ grafica, che tuttavia non risulta troppo completa) ci offre uno studio che, pur attingendo in misura notevole a docu­ mentazione indiretta, riesce a presentare un quadro abbastanza completo di quella che è stata la hreve vita politica, parla­ mentare e amministrativa del P.P.I. La prima parte dell’opera è dedicata alle origini del movimento cattolico ita­ liano e I'A . identifica la linea di pensiero che condurrà poi alla nascita del partito popolare, nel cattolicesimo sociale e nel movimento democratico cristiano della fine del secolo scorso, in particolare, ne! programma democristiano elaborato a Milano nel 1894 dal Toniolo, sotto l’im­ pulso efficacissimo della Rerum Novarum. In quel programma l’ A . vede « la prima importante dichiarazione di principi de­ mocratici cristiani usciti in Italia » ed osserva come alcune divergenze notevoli dalla tradizione sociale cattolica ne fac­ ciano « un programma insolitamente avanzato per quell’epoca » (p. 52). Osservazione senza dubbio valida, ma che l ’A . non sembra tuttavia aver effica­ cemente approfondito, in quanto non riesce ad afferrare quello che fu il carat­ tere peculiare della ideologia che con­ durrà poi al popolarismo: l’ intransigenza cattolica, non assoluta e fine a se stessa — alla Sacchetti o alla Paganuzzi, per intenderci — bensì intransigenza costrut­ tiva, preparazione nell’astensione, che doveva permettere ai cattolici di formarsi una coscienza politica autonoma e di cui abbiamo un efficace esempio nei discorsi di Luigi Sturzo a Caltanissetta nel 1902 e a Caltagirone nel 1905, dove ebbe ad affermare: « da soli, specificatamente di­ versi dai liberali, dai socialisti, liberi nelle mosse, ora a destra e ora a manca, con un programma consono, iniziale, concreto e basato sopra elementi di vita R e c e n s io n i democratica : così ci conviene entrare nella vita politica » (L. Sturzo, / discorsi politici, Roma, 19 51, p. 379). « Se noi — affermò lo stesso Sturzo in una lette­ ra del i9°3> inviata a Filippo Meda — nella vita pubblica non ci stacchiamo dai liberali moderati, dai conservatori in quanto tali, noi non arriveremo ad avere altra personalità che quella sola di cleri­ cali, come ci chiamano, buoni a prote­ stare e a lamentarci a parole, e poi nei fatti ad aiutare gli stessi liberali con le alleanze nella vita amministrativa e con l’ appoggio secreto, ipocrita, anche di cleri, nelle elezioni politiche, gente irrigi­ dita nelle formule che fa ideale del pas­ sato storico, bestemmia il presente e non prepara l’avvenire » (L. Sturzo, La Cro­ ce di Costantino, Roma, 1958, pag. 165 nota). Recenti studi, del resto, hanno chia­ ramente dimostrato la funzione che tale tipo d ’intransigenza ha esercitato nella evoluzione e nella preparazione del popo­ larismo. La Howard, invece, arriva a giustificare l’atteggiamento di quei cat­ tolici, che, alleati ai liberali moderati, parteciparono alle elezioni politiche del 1904 — dopo la tacita abrogazione del non expedit — ed in seguito a quelle del 1909 e del 19 13, con il Patto Gentiioni, affermando che era indispensabile che essi si « alleassero con qualche gruppo se desideravano avere un qualsiasi peso in Parlamento », e sostiene più oltre: « sacrificarono forse temporaneamente i loro ideali al prestigio politico. Furono opportunisti, è vero, ma il risultato pra­ tico del loro opportunismo fu che, quando fu aiunto il momento, furono abbastanza forti in Parlamento e nel Paese da fon­ dare un partito pieno di iniziative, con un programma che incorporava la mag­ gior parte delle riforme sociali ed econo­ miche contemplate dai primi programmi democratici cristiani » (pp. 78-79). La Howard, insomma, non compren­ de che senza l’intransigenza e la ricerca di una linea autonoma — di cui Sturzo fu tra i maggiori assertori — un vero partito non sarebbe mai sorto e i catto­ lici sarebbero rimasti legati alla politica clientelistica di Giovanni Giolitti, assor­ biti, annullati da quella politica, che li svuotava di ogni personalità e ne faceva una semplice riserva di voti, da utilizzarsi quando allo Statista di Dronero se ne fosse presentato il bisogno, senza un programma, una tradizione, una ispira­ zione politica. « Soltanto nel 1919 -— 73 ebbe ad osservare lo Chabod — con la costituzione e l’organizzazione del partito popolare, i cattolici si presentarono nella vita politica italiana come una massa compatta e organizzata e forniti di un proprio e ben definito programma » (F. Chabod, L ’ Italia contemporanea, Torino, 1961, p. 44). E cos’era ciò, se non il risultato di una lunga, tenace e vittoriosa battaglia che le forze più avanzate del movimento cattolico avevano condotto per dare ai propri seguaci una coscienza di partito autonomo e libero da ogni vincolo? D ’altra parte, VAppello ai liberi e ai forti e il programma del P .P .I. nel 1919 si ispirano innegabilmente a tutta l ’attività condotta da Sturzo e dai suoi amici nei primi quindici anni del secolo, a partire dai suoi primi scritti giovanili sulla Croce di Costantino, . alla sua batta­ glia regionalista e municipalista in seno all’ Associazione dei Comuni italiani, alla lotta in favore della libertà della scuola e contro ogni forma di accentramento bu­ rocratico e statalistico in tutti i campi della vita pubblica e amministrativa, per giungere alla concezione, chiaramente intravista nel discorso di Caltagirone del 1905, di un partito cattolico aconfessio­ nale e libero da vincoli: e per tale ragio­ ne il P.P.I. fu, fin dalla sua nascita, tenace assertore della proporzionale, co­ me anche il Vittorini ha rilevato nella presentazione al volume in esame. Nel programma del partito popolare la Howard vede delle affermazioni trop­ po generiche e imprecise e sostiene che « Don Sturzo e gli altri democratici cri­ stiani avevano omesso i punti più estremi del loro programma » : ciò al fine di non « irritare i clericali », che facevano parte della Commissione provvisoria che aveva elaborato il programma del P .P .I., o il gruppo che essi rappresentavano. Inoltre, la natura composita del partito determi­ nava, secondo la Howard, un attrito, « una continua tensione interna » tra la tendenza conservatrice e quella democra­ tica cristiana e — riportando un giudizio di Salvemini — osserva ohe, « il partito era una macchina nella quale un gran numero di piccoli denti girava da una parte, mentre alcuni denti più grandi giravano dalla parte opposta, disturbando o paralizzando completamente il funzio­ namento dei piccoli ». « Questa tensione — sostiene l’ A. — continuò ner tutta l’ esistenza del partito, indebolì la sua azione politica e impedì al partito di prendere una posizione decisa su Qualun­ que questione imiportante » (p. 13a). 74 R e c e n s io n i La presenza nel partito di forze a volte provenienti da varie tendenze: de­ mocristiani, moderati, conservatori, ecc., non basta, tuttavia, a dimostrare ciò che afferma la Howard. Il significato del P .P .I., come lo stesso Sturzo ha posto in rilievo, era quello di « partito di cen­ tro, partito di confluenza delle categorie 0 classi sociali, e quindi, per sua propria essenziale vitalità, basato sulla libertà a carattere democratico » (L. Sturzo, Il Partito Popolare Italiano, vol. I, Bologna, 1958, ip. 7). Il giudizio sulla compat­ tezza o meno di un partito politico, non può esprimersi, come fa la Howard, sol­ tanto tenendo presenti le discussioni, a volte vivaci e polemiche che si accendono in seno alle Direzioni o ai Congressi na­ zionali; quello che conta in un partito politico è la ispirazione ideologica, cultu­ rale e storica che lo guida e che nel P.P.I. fu sempre chiaramente individuabile ed ebbe sempre la prevalenza sulle correnti estreme. Che dire allora degli altri partiti dell’epoca: dai liberali, disgregati in mille tendenze, ai socialisti, divisi fra Turati, Ferri, Bissolati e Serrati? Nelle conclusioni al suo volume, il giudizio della Howard sulla funzione del P.P.I. nella vita politica italiana appare, tuttavia, positivo, avendo secondo l ’A . il popolarismo introdotto « un certo nu­ mero di fattori che non erano mai stati rappresentati prima da un partito politico indipendente. I ceti rurali più poveri si accorsero, per la prima volta dall’unità italiana, che i loro interessi erano espres­ si da un gruppo avente per fine essenziale la riforma agraria. 1 democratici cristiani, 1 quali avevano contato poco o niente in seno all’Azione Cattolica o al Parla­ mento durante i precedenti quindici anni, ebbero la possibilità, dal 1919 al 1922, di mettere in pratica il loro programma. I clerico-moderati, pur essendo rappre­ sentati in Parlamento fin dal 1904 da de­ putati propri, non avevano ottenuto il consenso a formare un gruppo politico indipendente. Con la formazione del P .P .I., questi tre gruppi ebbero l’occa­ sione di trasformare le loro dottrine po­ litiche in azione politica » (p. 487). L'attività parlamentare e legislativa dei popolari è analizzata accuratamente dalla Howard, così come gli atteggiamenti del partito nei confronti dei vari Governi (Nitri, Giolitti, Bonorni, Facta) succedu­ tisi dal 1919 al 1922, in quello che fu uno dei periodi più travagliati della vita po­ litica italiana. La partecipazione dei popolari al pri­ mo Governo Mussolini, nel 1922, è aspra­ mente criticata dalla Howard, la quale sostiene fra l ’altro: « La convinzione che Mussolini avrebbe ripristinato l'ordi­ ne non giustificava tuttavia la decisione dei popolari. Per due anni, essi avevano condannato le campagne fasciste di vio­ lenza e di omicidi e il giorno stesso in cui Mussolini andava al potere accetta­ vano di entrare a far parte del suo governo. Avevano disapprovato d princi­ pi e i metodi fascisti durante i mesi pre­ cedenti e poi, nello spazio di 24 ore, li accettavano. (...) Alleandosi con i fascisti, i popolari si rendevano colpevoli del peggior tipo di possibilismo politico, la ri­ nuncia ai principi del loro partito all’e­ sclusivo scopo di ottenere il potere. Quest'atto del P .P .I. non può essere scu­ sato e rimane il punto nero nella storia di quel partito » (p. 389). Giudizio senza dubbio eccessivo, che non tiene conto di molti fattori e che investe tutto il partito, mentre è stato dimostrato che la collaborazione al Ga­ binetto Mussolini fu decisa dal solo D i­ rettorio del gruppo parlamentare mentre la Direzione del partito era contraria e lasciava la responsabilità di quella deci­ sione al gruppo parlamentare. Contrario era Sturzo, come lo era Meda, il quale, scrivendo al segretario del P .P .I. il 30 ottobre 1922, afferm ava: « Io sono dispo­ sto ad ammettere che vi sono state delle buone ragioni per ridurci ad assumere una simile posizione (...). Non posso na­ sconderti, però, che temo una sfavorevo­ lissima impressione nelle nostre masse, della quale sentiremo gli effetti nelle prossime elezioni. Del resto, non è il caso di parlare, perchè purtroppo ho una gran paura che parleranno con troppa elo­ quenza i fatti » (da: G. De Rosa, Storia del Partito Popolare, Bari, 1958, p. 302). La stessa Howard, d’ altra parte, mi­ tiga, qualche pagina oltre, il suo giu­ dizio, allorché afferma : « Molti di loro [popolari] pensavano onestamente che quello di cui l’ Italia aveva bisogno era una piccola dose di governo forte e che Mussolini era l’uomo che ci voleva per somministrarla. Quello di cui i depu­ tati non si resero conto era la difficoltà di cacciar via un dittatore già insediato al potere. Lo appresero con dolore a pro­ prie spese negli anni seguenti » (p. 396). Ma questo, non era l’errore comune di quasi tutta la classe politica democra­ tica dell’epoca? Un errore di valutazione R e c e n s io n i su cui cadde soprattutto la vecchia clas­ se dirigente liberale e giolittiana, che continuò a sostenere il fascismo fino al 1924, che credeva di poterlo incanalare, assorbire in breve tempo, ridimensionar­ lo e servirsene per i propri fini. Ma il fascismo, come ha ben osservato lo Cbabod, « rappresenta una novità che non potrà essere assorbita nel sistema politico liberale e costituzionale. Non essersi accorti in tempo di questa pericolosa novità, è il grave errore della maggio­ ranza degli uomini che fino a quel mo­ mento sono stati alla testa della vita politica italiana » (F. Chabod, op. cit., p. 71). Ricorda Luigi Sturzo, a proposito di quei giorni, che « liberali, radicali e po­ polari accettarono di fare parte del mini­ stero Mussolini, illudendosi sulle possi­ bilità di normalizzazione. Fu lo slogan del momento, lo che fui un dissenziente aperto non voglio biasimare i miei amici che (a titolo personale — così fu deciso) fecero parte del ministero. Ma toccò a me la parte di disincagliarli, quando mi ap­ pellai al congresso del partito, che fu tenuto a Torino nell’ aprile del 1923. Il mio discorso d'imnostazione fu definito dal Popolo d’ Italia il discorso di un nemi­ co » (L. Sturzo, Politica di questi anni, Bologna, 1955, p. 129). Don Sturzo — sostiene la Howard a proposito di quel discorso — restituì al « partito quel senso di fiducia in se stesso che aveva perduto durante l ’inverno » e delineò « un programma d ’azione per i mesi successivi » (p. 408). Quel di­ scorso ferì nel vivo il fascismo e l’ uomo Mussolini, e contro le organizzazioni cat­ toliche si scatenò la violenza, determinan­ do quello che era nelle intenzioni del duce : le dimissioni di Luigi Sturzo dalla segreteria del P .P .I.. Togliendo di mezzo il leader nopolare, Mussolini mirava a di­ sgregare il partito, il quale, invece, libe­ ratosi dai dissenzienti, « uscì più forte e più unito da quel processo di chiarifica­ zione. (...) A metà luglio — osserva la Howard — fu evidente che il tentativo di Mussolini di scindere il P.P.I. era falli­ to » (pag. 433). Il P .P .I. passò quindi alla opposizione di principio e venne considerato « nemico del governo e del fascismo ». Ormai la sua sorte era segnata. Era la sorte di tutte le organizzazioni politiche che in difesa dei principi democratici osarono 75 opporsi a Mussolini e ai metodi instaurati dal suo regime. F rancesco M algeri C orrelli B arnett , I Generali del deserto, Longanesi & C ., Milano, 1961, L . 1900. L ’opera vale assai più di quanto lasci presagire la presentazione in copertina dell’Editore italiano ispirata a vacua po­ lemica antibritannica. Lo studio delle campagne d'Africa settentrionale 1940-42 si prospetta nel­ l'analisi delle personalità e dell’opera dei capi britannici: W avell, O’Connor, Cunningham, Ritchie, Auchinleck e Montgomery. I generali del deserto non furono nella realtà uomini mediocri. Certo interamente nessuno: O'Connor possedeva doti eccezionali: Auchinleck ebbe meriti altissimi: e pure tutti par­ teciparono di virtù e difetti tipici della classe militare britannica. Montgomery trovò la battaglia e la vittoria. Non era il più valente ma, ultimo arrivato, egli solo potè disporre di un’abbondanza di mezzi senza precedenti per l’ottava ar­ mata. Drastico è il giudizio di Barnett sul « capolavoro » del Visconte di El Alarnein : « Considerata l’immensa superio« rità di forze, quel che sorprende non « è il fatto che vincessimo la battaglia, « ma che fossimo sul punto di perderla». Qui la critica dell’A . diviene partico­ larmente interessante anche se non è sempre esauriente. Il merito dell’arresto dell’avanzata tedesca ad El Alamein è giustamente attribuito ad Auchinleck perchè nei combattimenti del luglio 1942, da lui di­ retti, la Panzer Armée di Rommel fu ri­ dotta in condizioni quasi disperate, pro­ prio mentre pareva alla vigilia del successo risolutivo. Ciò è confermato an­ che da fonte tedesca : con dispaccio segreto 23 luglio 1942 diretto al Supercomando italiano Rommel definiva le forze dell’Asse ad El Alamein molto esili (« sehr diinn ») e rappresentava la pro­ babile necessità di ritirarsi per evitare la definitiva « capitolazione dell’ armata « e quindi la perdita dell’Africa Setten­ trionale » (Ufficio Storico S.M .S., secon­ da controffensiva italo-tedesca... gennaiosettembre 1942, pag. 397, Roma, 1951). Nella leggenda ufficiale inglese Mont- 76 R e c e n s io n i gomery figura il « Messia » che salva l'ottava armata sgomenta e già rasse­ gnata coll’ordine storico « non vi sa­ ranno più ritirate ». Simile volgare mi­ stificazione è respinta: era facile proibire le ritirate quando altri aveva già salvata la situazione e poste le basi per la ri­ scossa. Anche nell’ultima battaglia d ’arresto dell’estate 1942 ad Alam El Alfa spetta­ no a Montgomery meriti di semplice esecutore del piano già prediposto dal suo predecessore Auchinleck e dall’intelligente Dorman-Smith. Secondo Barnett la stessa El Alamein (ottobre 1942) fu addirittura una batta­ glia « inutile » perchè l’imminente sbar­ co anglo-americano nell’Africa francese avrebbe comunque costretto Rommel a ritirarsi. Affermazione che invero lascia per­ plessi: se in fatto la ritirata di Rommel fu un capolavoro nonostante la rotta subita, è ragionevole supporre che una ritirata volontaria avrebbe salvato un numero ben maggiore di forze utilizzabili nella successiva vicenda tunisina. Così pure non del tutto persuasiva è la critica, peraltro interessante, delle operazioni d’inseguimento dopo El Ala­ mein. Certo la « caccia » di Montgomery non fu brillante e la « volpe » sfuggì a lungo ma solo per finire senza speranze nell’ cc impasse » tunisino. Eppoi, se sco­ po della guerra è vincere, ci sembra me­ riti lode e non rimprovero il capo che sa profittare della propria superiorità ma­ teriale evitando rischi e perdite inutili. Ciò fu visto con esattezza dallo stes­ so Rommel quando scrisse di Montgo­ mery : « il suo principio era di non coni­ li battere alcuna battaglia che non fosse « sicuro di vincere, era prudente, secon« do me, troppo prudente, ma poteva « permetterselo » (R o m m e l , Guerra sen­ za odio, Garzanti, Milano, 1955). Insomma alla creazione della leggenda Montgomery avranno concorso l’esibi­ zionismo dell’ uomo e il desiderio delle sfere ufficiali inglesi di dare maggiore risalto all’unica vittoria terrestre esclusi­ vamente britannica, al « canto del Ci­ gno » della Gran Bretagna come potenza « indipendente », ma probabilmente non fu estranea anche qualche abilità del generale. Qui Barnett, giovane autore non par­ tecipe dei fatti, riecheggia e amplifica la stessa polemica accennata da altri ufficiali inglesi delle campagne precedenti El Alamein. Così tolta di peso dal Young (La volpe del deserto, Longanesi, Mila­ no, 1951) è l’osservazione amara che i combattenti delle prime campagne d ’Africa « non hanno diritto a portare il nume« ro 8 sul nastrino della decorazione del« l’Africa Star ». Per la storia ufficiale l'ottava armata nasce solo il 23 ottobre 1942. Inedita è invece la notizia che a Dorman-Smith, brillante secondo di A u­ chinleck e con lui « silurato » nell’ago­ sto 1942, sarebbe poi stata preclusa ogni carriera dalla « camarilla » dei vin­ citori di El Alamein. Ma il merito principale del Barnett non è tanto nella disquisizione strettamente tecnica, quanto piuttosto nell’a­ nalisi acuta e spregiudicata della casta militare britannica. Anche i migliori partecipavano delle abitudini mentali di quella classe privi­ legiata e tradizionalista che, gradualmen­ te esclusa dalla vita nazionale sul finire del diciannovesimo secolo, aveva conser­ vato una delle sue ultime roccheforti nell’esercito. « L ’esercito britannico nella seconda « guerra mondiale rappresenta un’ ecce« zione forse unica nella storia... pur « essendo l’esercito di una democrazia « sociale e di una potenza industriale di « prim ’ ordine... tuttavia era come un’ac« colta di campagnoli al comando della « borghesia e dell’ aristocrazia ». « .. . Pochi uomini poveri, dotati di « grande ingegno, sceglievano l’esercito « come impiego rimunerativo dei loro ta­ li lenti: la paga in tutti i gradi era più « bassa di qualunque stipendio ». I sol­ dati d’altronde « preferivano essere co­ li mandati da gentlemen che non da uo« mini capaci della loro stessa classe so­ li ciale ». Sul terreno strettamente militare ciò si traduceva in una concezione di guerra ottusamente « eroica » memore della ca­ rica di Balaclava e appena corretta dalle esperienze della guerra di posizione 1914-18, anch’essa superata. I pochi assertori della mobilità e del­ la motorizzazione, specialmente gli uffi­ ciali del Royal Tank Corps provenienti indistintamente « dalle varie classi del « paese industriale », erano guardati con sospetto e non raggiungevano i gradi più elevati. R e c e n s io n i Così agli uomini cavallereschi leali ed incompetenti di « un mondo fondato sul « giuoco del polo e sulla vita di società » toccò misurarsi col prodotto tipico della tecnocrazia del ventesimo secolo, funzionaie e spietato : l’esercito corazzato tedesco « composto di uomini... di tutte « le classi sociali, che si interessavano « più di cingoli che di speroni ». Il primo risultato non poteva dunque stupire. Pure non mancò qualcuno che riuniva in sè genialità tecnica ed aristo­ crazia di carattere: W avell e soprattut­ to O’Connor. Vivacissima è la rievocazione della campagna 1940-41 in cui la minuscola Western Desert Force di O’Connor sba­ ragliò l’armata di Graziani numericamen­ te cinque volte superiore. Lo studio di questa campagna offrirebbe spunti inte­ ressanti anche per un raffronto fra l’eser­ cito britannico e l ’esercito italiano di Mussolini certo, per tante ragioni, ancor più anacronistico del suo antagonista. Ma non è qui luogo per discettare delle complesse vicende di questi primi successi britannici : limitiamoci ad osser­ vare che in Inghilterra essi sono forse ingiustamente oscurati dal mito ufficiale di El Alamein e dei suoi vincitori; in Italia del resto essi furono un po’ troppo semplicisticamente addebitati ad una su­ periorità materiale avversaria solo in par­ te reale. Interessa piuttosto rilevare un tratto significativo di O’Connor. La campagna 1940-41 sarebbe certa­ mente finita colla conquista di Tripoli, se, contrariamente al parere di O’Con­ nor, Churchill non avesse smembrata l’armata del deserto per portare un soc­ corso inutile alla Grecia. N e derivò il prolungamento della guerra in Africa per oltre due anni con conseguenze incalco­ labili. Ebbene O’Connor, che aveva visto e rappresentato tutto ciò, anche dopo la guerra non ostentò di avere avuto ra­ gione ma anzi si schermì dalla polemica dichiarando: « Basterà dire che la deci« sione di iniziare la campagna di Grecia « mi dispiacque per ragioni egoistiche ». In Inghilterra modestia e « understa­ tement » sono virtù perfino dei generali. Lucio C eva 77 Das Tagebuch von Joseph Goebbels 1925-26. Mit weiteren Dokumenten hrgg. von Helmut Heiber, Deutsche Verlags-Anstalt, Stoccarda, s. d., pp. 14 1. Con questo volume l’Institut fiir Zeitgeschichte di Monaco inizia la pubblica­ zione di una collana di documenti e di saggi sul movimento nazionalsocialista. D al risvolto del primo volume apprendia­ mo che il programma delle prossime pubblicazioni prevede un saggio di Mar­ tin Broszat sulla politica del regime na­ zista in Polonia e la chiesa cattolica polacca dal 1939 al 1945, delle note di diario dal 1929 al 1952 di Hermann Piinder, Politik in der Reichskanzlei, uno studio di diritto internazionale com­ parato di Lothar Gruchmann, Grossraumpolitik des Dritten Reiches ed il diario del luogotenente maggiore Helmuth Groscurth, Militaropposition 1938-1940. Di estremo interesse per coloro che si occupano dello sviluppo del movimento nazionalsocialista in Germania sono que­ ste note di diario di Joseph Goebbels. Corn’è noto, Goebbels è stato uno dei personaggi-chiave del Terzo Reich, come organizzatore delle tecniche del mito po­ litico, nella sua qualità di ministro della propaganda per il Reich dal 1933 in poi, la sua influenza sulle masse fu seconda soltanto a quella di Hitler. Nato a Rheydt (Westfalia) nel 1897 da una fa­ miglia cattolica della piccola borghesia e terminati gli studi secondari nel 1917, partecipò per breve tempo alla prima guerra mondiale relegato in un ufficio dell’ amministrazione militare a causa del­ la sua ben nota deformità fisica, quel « piede storto » (Klumpfuss), sul quale poi la fantasia popolare costruì le più fosche leggende (zampa del demomio ecc.) e che divenne spesso oggetto di sarcasmo da parte dei suoi avversari po­ litici. Finita la guerra studiò germanistica e storia alle università di Bonn, Friburgo, Würzburg, Monaco e Heidelberg; colti­ vando delle ambizioni letterarie, cercò di entrare nel cenacolo di Friedrich Gundolf, il famoso critico letterario e studioso di letteratura tedesca, considerato allora la personalità più illustre del mondo lette­ rario tedesco, ma venne respinto. Tentò allora la carriera giornalistica ma fu un secondo fallimento e si dovette acconten­ tare di un impiego presso una banca e poi presso la sala di borsa di Colonia. Finalmente nel 1924 un amico, iscritto al 78 R e c e n s io n i partito nazista, gli procurò un impiego presso il giornale nazista della Renanta, la ” Vòlkische F re ih e it” . Alla fine del 1924 (o all’inizio del 1925, la data precisa non si sa) Goebbels s ’iscrive al partito nazionalsocialista, quando questo contava già piìi di ottomila iscritti. Benché non fosse uno di quelli « della prima ora », la sua carriera politica fu rapidissima : .poco più di un anno più tardi lo troviamo già a capo del Gau Berlino-Brandenburgo. Questo diario, che va dal 12 agosto 1925 al 30 ottobre 1926 racchiude il pe­ riodo della folgorante ascesa di Goebbels e fin qui il suo interesse non oltrepas­ serebbe i limiti della biografia personale, ma quel che più conta sono le vicende interne del partito, la polemica tra i gruppi di potere, nella quale Goebbels seppe inserirsi con molta abilità, che co­ stituiscono lo sfondo del diario ma anche gli strumenti attraverso i quali Goebbels riesce a guadagnarsi una posizione di prestigio nel partito. La vicenda personale di Goebbels in questo breve arco di tempo si identifica con quella del movimento nazista e perciò non c’è prospettiva migliore per seguire 10 sviluppo del partito che quella dalla quale il protagonista principale giudica uomini ed eventi. Nel novembre 1923 era fallito il putsch di Monaco, Hitler veniva condannato e rinchiuso nella for­ tezza di Landsberg, il partito nazista soppresso. Scontata la mite condanna, Hitler mutò tattica, mutò alleanze, mutò linguaggio. Scartata la via della forza, si accettava la tattica legalitaria, ci s'impe­ gnava nella lotta sul piano costituzionale del parlamento. Era l’ unico mezzo per venire a patti con le autorità di governo e di polizia locali. La nuova tattica im­ poneva un ridimensionamento dell’organizzazione del movimento nazista; deposi­ tario dell'idea nazista diventava il partito, le formazioni militari delle S .A . operava­ no -nell’ambito delle direttive del partito. Occorreva disfarsi della fraseologia socialisteggiante, che spaventava la borghe­ sia, disfarsi delle ipoteche dei movimenti parareligiosi neo-pagani (Ludendorff) che rendevano ostile la chiesa ed i cattolici, con i quali bisognava venire a patti ad ogni costo, soprattutto in Baviera,. Fallito 11 piano di prendere il potere con la forza in Baviera e di « marciare su Berlino », ottenuta la ricostituzione del suo partito dal D r. Held, primo ministro bavarese di tendenze cattolico-conservatrici, Hitler aveva bisogno di mettere piede a Berlino, la centrale della vita democratica weima- riana, la sede del Parlamento. Ma la re­ gione a i ùernno-rsranaenburgo era la Toc­ catone dei tratelli Strasser, leaders della fronda « di sinistra » del partito, che so­ stenevano una soluzione più « socialista » che nazionale del problema tedesco, che esigevano profonde riforme sociali e che impostavano la lotta sul piano militare delle formazioni armate. Hitler non pote­ va agire direttamente a Berlino perchè il ministro degli interni di Prussia, il so­ cialdemocratico Severing, manteneva nei suoi confronti il Redeverbot. 1 due grup­ pi, Hitler-Monaco e Strasser-Berlino avevano anche dei propri organi di stam­ pa che al momento opportuno potevano diventare portavoci delle istanze di « cor­ rente » : a Monaco il ” Volkischer Beobachter ” ed i ” Nationalsozialistische Monatshefte ” , a Berlino la ” Berliner ArbeiterZeitung ” e le ’ ’Nationalsozialistische Briefe Fu appunto come redattore di questo periodico che Goebbels si acquistò la fa­ ma di rappresentante dell’ala più radicale della « fronda » strasseriana. Negli ultimi anni dell’università Goebbels aveva in­ contrato un amico che lo aveva spinto alla lettura dei testi marxisti; costui, lavoratore delle miniere, perì in una sciagura mineraria nel 1923 lasciando nel giovane Goebbels un’eredità di tipo senti­ mentale che lo indusse ad abbracciare la vocazione del redentore degli oppressi, quasi per continuare la via dell’amico. Ma il « socialismo » di Goebbels aveva delle radici emotive, addirittura psicopa­ tiche. Il campo d’azione di Goebbels come propagandista delle idee naziste, fu la regione della Ruhr, la Renania e la Westfalia. Esistono quindi, al di là dei legami ideologici di carattere sentimen­ tale, delle ragioni obbiettive per cui Goebbels non rinunciò in un primo mo­ mento — ossia fintantoché questo non ostacolava la sua carriera personale — alla fraesologia socialisteggiante; la sua propaganda si rivolgeva infatti essenzial­ mente al proletariato industriale della Ruhr e lo stesso può dirsi di Gregor e Otto Strasser a Berlino. Goebbels aveva la sua sede a Elberfeld e, come dice nel diario, voleva trasformarla nella « Mecca del socialismo tedesco ». Da qui egli partiva per i suoi giri di propaganda, conducendo un ritmo di vita convulso, estenuante, con frequenti crisi depressi­ ve. In breve la sua fama di arringatore di masse, di abile e fanatico propagandista giunse alle orecchie di Hitler che in una R e c e n s io n i riunione dei dirigenti del partito, lo elogiò pubblicamente (come annota nel suo Diario con compiacimento) additando in lui il migliore tribuno uscito dalle file naziste negli ultimi tempi. Ciò che distingueva Goebbels da Strasser era però la sua fanatica cieca fedeltà al Führer, che egli riteneva però attorniato a Mona­ co da una corte di imbecilli e di maneg­ gioni, vera rovina del movimento. Per caratterizzare la posizione politica di Goebbels basterebbe ricordare che il tema costante dei suoi giri propagandisti­ ci era « Lenin o Hitler? '» oppure « N a­ zionalsocialismo o Bolscevismo » dove, si noti, i due termini non venivano presen­ tati come antitetici ma come integrantesi vicendevolmente in un qualche modo. Più di una volta Goebbels afferma nel diario che le lotte sanguinose tra comuni­ sti e nazisti sono una cosa « terribile », che la Russia sovietica è l’alleato natu­ rale di una futura Germania nazista. Quando, nell’ottobre del 1925, apprende che Stresemann ha firmato gli accordi di Locamo, piange sulla Germania « schiava del capitalismo occidentale » e sul futuro dei tedeschi costretti « come degli schiavi a combattere la guerra santa contro Mosca » ed infine dichiara di preferire « la morte assieme al bolsce­ vismo piuttosto che l ’ eterna schiavitù al capitalismo occidentale ». L ’ attrito fra Hitler e la « fronda » strasseriana si ag­ grava; Hitler capisce che Goebbels può avere un peso decisivo per far pendere la bilancia da una parte o dall’ altra, che è pericolosissimo come avversario ma può essere utilissimo come alleato; d’ altro canto ha capito che Goebbels è avido di far carriera, che il mingherlino, deforme Goebbels non ha molte speranze di suc­ cesso nel gruppo degli Strasser, dove il tono è dato dagli atteggiamenti rudi, vio­ lenti, militareschi. In un primo tempo Hitler sceglie la strada più semplice per « integrare » Goebbels nel suo sistema e lo invita a venire a Monaco nella re­ dazione del ” Volkischer Beobachter ” (Diario di Goebbels, 30 settembre 1925). Goebbels capisce la manovra e rifiuta, evidentemente perchè crede che Hitler prima o dopo dovrà cedere. Ma il Füh­ rer aspetta e per il momento cambia tattica; il 12 ottobre 1925 Goebbels an­ nota nel diario: « Hitler non si fida di me. Ha imprecato contro di me. Quanto mi addolora tutto ciò. Se il 25 ottobre a Hamm mi lancia delle accuse, me ne va­ do ». Hitler era atteso in Westfalia per un giro di propaganda e Goebbels si pre­ 79 para ad « affrontarlo »; ma il Führer, come s'intuisce chiaramente dalle note di diario dei giorni successivi, lo tratta con distaccata cortesia. Goebbels cerca invano di nascondere la sua delusione ed i suoi timori. Frattanto la polemica fra i due gruppi diventa così evidente che Hitler decide di convocare una conferenza dei capi na­ zisti a Bemberg il 15 febbraio 1926, per mettere le carte in tavola. E ’ una vera doccia fredda per Goebbels e soci; alla sera egli annota nel diario di avere avuto « una delle più grandi delusioni » della sua vita e si chiede spaventato: « Hitler reazionario?... Non credo più ciecamente in Hitler ». In sostanza il Führer aveva detto di ritenere l’ Italia fascista e l’In­ ghilterra i naturali alleati di una futura Germania nazista, di essere d'accordo con l’ indennizzo ai principi per i beni loro espropriati (mentre Goebbels e gli Stras­ ser appoggiavano la tesi dei partiti di sinistra, socialdemocratico e comunista, dell’esproprio senza indennizzo), di consi­ derare il bolscevismo una creatura degli ebrei e di riconoscere la proprietà pri­ vata. Nelle pagine successive, Goebbels tace sui suoi rapporti con Strasser e Hitler: è un silenzio estremamente signifiicativo; ha compreso che se non vuole essere ta­ gliato fuori deve piegarsi al volere del Führer. Il 13 aprile 1926 è nella tana del lupo, a Monaco. Hitler parla ininterrot­ tamente per tre ore ed alla sera Goebbels annota « M ’inchino di fronte al più gran­ de genio politico ». Due mesi dopo Hitler è a Elberfeld per una campagna propa­ gandistica. Da pochi significativi accenni del diario s’ intuisce che il Führer tratta Goebbels con voluta cordialità, lo prende « sottobraccio » gli parla « confidenzial­ mente, come un vecchio amico ». Gli interessi dei due uomini ormai coinci­ dono: Goebbels avrà degli incarichi im­ portanti a Berlino, la roccaforte di Stras­ ser, sarà il « cavallo di Troia » del Führer per espugnare il feudo strasseriano. Il patto viene concluso durante un soggiorno di Goebbels a Berchtesgaden, dal 23 al 26 luglio 1926. Il 25 agosto dello stesso anno Goebbels annota: « L ’ultima novità : nel movimento si constata il mio Damasco. Mi sarei piegato di fronte a Hitler a Monaco ». Il diario, come abbia­ mo detto, finisce il 30 ottobre 1926. Il i° novembre Goebbels assume la carica di Gaufiihrer di Berlino-Brandenburgo. In appendice al volume sono inseriti 8o Recensioni alcuni documenti estremamente interes­ santi sulle situazioni creatasi dopo l’inse­ diamento di Goebbels. Nella prima circo­ lare che egli invia il 9 novembre ai gruppi periferici si nota l ’evidente in­ tenzione di porre le basi per una strut­ tura burocratica del partito, di discipli­ nare le formazioni militari delle S .A . e delle S .S ., sottoponendole alle direttive dei funzionari del partito. Segue un dossier di una disputa tra Goebbels e Strasser. Sui giornali dei fra­ telli Strasser era apparso un articolo sulle conseguenze della mistione razziale nel quale Goebbels aveva ritenuto di intravvedere un attacco diretto alla sua persona ed un’ allusione alla sua deformità fisica. Chiede che la questione sia portata di fronte alla commissione di disciplina del partito (Uschla) e pone la questione di fiducia. Una lunga serie di memoriali e contromemoriali di Goebbels e degli Strasser che s’accusano a vicenda e si appellano ambedue al Führer. In partico­ lare i fratelli Strasser protestano per la fondazione del nuovo organo di stampa del partito a Berlino ” Der A n griÿ ” , la cui funzione è evidentemente quella di mettersi in concorrenza con il quotidiano degli Strasser ’ ’Berliner ArbeiterZeitung” . Hitler riesce a calmare le acque ma riconferma Goebbels nella sua carica ed ormai ha partita vinta. ” Der A n griÿ ” , prima mensile, poi bisettimanale ed infine quotidiano, diretto da Goebbels, spode­ sterà il giornale della fronda strasseriana, che può dirsi già liquidata anche se bi­ sognerà aspettare l’ estate del 1930 prechè Otto Strasser abbandoni il partito e formi il cosiddetto « Fronte nero », la cui scon­ fitta alle elezioni del settembre 1930 lo costringerà ad abbandonare la Germania ed a rifugiarsi all’estero. Gregor Strasser invece darà le dimissioni dal partito nel dicembre del 1932, alla vigilia della presa di potere, senza rompere definitivamente con il movimento come il fratello. Sembra anzi che nel giugno del 1934 Hitler, nel tentativo di riassorbire l’ala sinistra del partito, gli avesse offerto il ministero dell’economia nazionale ma avesse poi ri­ nunciato perchè Gregor pose come condi­ zione l’ espulsione di Goebbels e di Goering. Hitler risolse la questione con la forza ed eliminò i suoi avversari il 30 giugno, nel famoso bagno di sangue in cui trovarono }a morte il capo delle S .A . Rohm ed il generale von Schleicher as­ sieme a molti altri. Lo stile del diario di Goebbels non e elaborato ma si limita a degli appunti secchi, telegrafici, che gli conferiscono un senso di immediatezza e di autenticità documentaria. Per quanto impulsivo, sen­ timentale e fanatico Goebbels non si la­ sciò dominare dagli eventi, la sua ambi­ zione gli permise di considerarli con lu­ cido distacco e di strumentalizzarli ai propri fini personali. N e risulta un docu­ mento insostituibile per la conoscenza delle vicende interne del movimento na­ zista che proprio in quel periodo assume la sua precisa fisionomia ed una sua, se vogliamo, coerenza, mettendo in luce la sua natura di classe. La polemica tra i due gruppi di 'potere non riguardava tan­ to la strategia del movimento quanto la sua sostanza stessa. S ergio B ologna