Il modello di sviluppo diseguale e il vento nazionalista che spira in

ALMANACCO DELL’ECONOMIA
N. 1-2017
Il modello di sviluppo diseguale
e il vento nazionalista che spira in Occidente
PAROLA CHIAVE #PROTEZIONISMO
Trumpeconomics. La crescita dell’economia mondiale e del commercio internazionale sembra
consolidata, ma su livelli lontani da quelli del primo decennio degli anni Duemila e, soprattutto,
con previsioni a ribasso (FMI, gennaio 2017). Oltre all’insistenza degli squilibri macroeconomici
globali, che affondano le radici nella disuguaglianza nella distribuzione del reddito e nella
disuguaglianza tra popoli, si affacciano all’orizzonte nuove incertezze.
Gli Stati Uniti crescono ancora a ritmi significativi (+1,6%), a seguito del vasto programma di
investimenti e della politica monetaria accomodante del Governo Obama che ha riportato il
tasso di disoccupazione a livelli addirittura inferiori a quelli pre-crisi (4,9%). Il 14 dicembre 2016
la FED ha innalzato i tassi di interesse di 25 punti base (federal funds da 0,50 a 0,75 per cento),
proprio alla luce dei progressi nel mercato del lavoro. Anche le aspettative nelle quotazioni di
mercato sono state corrette verso l’alto, riflettendo la prospettiva di un’espansione di bilancio
da parte della nuova amministrazione. Con l’elezione del Presidente USA Donald Trump, infatti,
si attendono due importanti decisioni di politica economica: un’imponente riduzione
generalizzata delle tasse e, in una fase immediatamente successiva, l’introduzione di misure
restrittive per il commercio estero (dazi, tariffe, imposte doganali, ecc.). Entrambe queste leve
dell’economia rispondono allo slogan che ha conquistato il ceto medio e le famiglie più povere
degli Stati Uniti (più occupate, ma sempre a bassi salari e con pochi diritti): “produci americano,
assumi americano”. La nuova strategia economica degli USA, quindi, sembra offrire una
soluzione “di popolo” alla crisi globale e al modello di sviluppo liberista che ha dominato la
globalizzazione nei decenni precedenti. Tuttavia, la Storia insegna che nazionalismo e
protezionismo – ancorché possibili, considerando l’interdipendenza globale delle produzioni e
della finanza – si accompagnano sempre a intolleranza e populismo, e possono avere successo
economico solo nel breve periodo, poiché la ricerca di nuovi margini di crescita nel medio e
lungo periodo induce a conflitti tra stati, a partire da quelli di natura commerciale, finanziaria e
valutaria, che hanno inevitabilmente una ricaduta sulla domanda aggregata nazionale. Tutto ciò
viene poi amplificato dalla politica economica dei paesi di nuova crescita, che viene sempre più
spesso definita “capitalismo di stato”, ossia governo nazionale (non sempre democratico) della
produzione e dell’economia (es. Russia, Cina, Brasile).
La tenuta dell’Euro(pa). In questo scenario, i paesi industrializzati europei crescono meno di
tutti gli altri e pesa l’instabilità dell’Euro e della governance economica europea, su cui sembra
riaperta una discussione (basti pensare alle recenti dichiarazioni della Cancelliera tedesca
Angela Merkel sulla possibilità di un’Area Euro a due velocità). La politica monetaria della BCE
(che ha esteso importo e durata del QE, cioè del programma di acquisto di titoli sovrani, almeno
fino a dicembre del 2017) fa da argine alla #deflazione, ma da sola non basta a rilanciare e far
convergere le economie dell’Area Euro. L’euro-austerità continua a dimostrare tutti i suoi limiti,
sia nel risanamento dei conti e nel contenimento della speculazione finanziaria, sia in termini di
svalutazione competitiva (prima monetaria, poi fiscale e del lavoro) a sostegno delle
esportazioni. D’altra parte, è proprio la scelta di una politica economica competitiva e
aggressiva, all’interno e all’esterno dell’Europa, a scatenare le guerre valutarie da parte delle
economie emergenti e l’insofferenza americana come locomotiva del pianeta. La politica
liberista ha deliberatamente scartato qualsiasi politica della domanda, sebbene l’Unione
europea sia la più grande area commerciale e a densità della popolazione del mondo. Difatti, le
prime spinte nazionaliste provengono dal Vecchio Continente: dalla Brexit ai referendum per il
distacco della Catalonia o della Scozia; dalle discussioni sull’uscita dalla moneta unica in Grecia
piuttosto che in Francia o in Italia; dai toni razzisti in Ungheria al rischio di chiusura delle
frontiere in Austria. In assenza di una politica fiscale espansiva, di un nuovo modello sociale
europeo e, in generale, di una visione alternativa ispirata alle politiche dei Trent’anni gloriosi
(New Deal, Piano Marshall, Piano Beveridge, Piano del Lavoro, ecc.) che portarono allo sviluppo
del Novecento, oggi, i popoli europei respingono le istituzioni sovranazionali – prima ancora dei
liberisti che le governano – rifuggendo l’economia internazionale attraverso le istanze nazionali.
A 60 anni dalla firma del Trattato di Roma, la tenuta dell’Euro, dell’Unione europea, delle
istituzioni europee e, forse, della stessa democrazia dipendono dalla capacità di riformare la
politica economica e definire un nuovo modello di sviluppo “intelligente, inclusivo e
sostenibile”, dunque, sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale e sia da quello
ambientale. Per realizzare questo ambizioso obiettivo e salvaguardare il sogno europeo è
necessario cambiare la politica economica. L’occasione da non perdere viene offerta dalla
scadenza del Fiscal compact, a meno di ratifica (unanime) nei Trattati europei entro la fine
dell’anno in corso.
Italia tra gli ultimi della classe e rimandata ad aprile (per una manovra correttiva). Rispetto
alle altre grandi aree economiche del Pianeta, l’UE-28 registra una crescita piuttosto modesta
(+0,4% nel IV trimestre 2016), anche se ormai da 15 trimestri consecutivi, contando una
variazione del PIL reale per l’anno scorso pari a 1,9% (Area Auro 1,7%). Invece, l’economia
italiana viaggia ancora a ritmi troppo contenuti per parlare di “ripresa” e avvicinarsi al recupero
dei livelli pre-crisi: il tasso di crescita del PIL reale risulta appena di 0,2 punti nel IV trimestre
2016 e di 0,9 punti in media annua (che equivale all’1% se si destagionalizza e si corregge il dato
per gli effetti di calendario), contraddistinguendo il nostro Paese come penultimo nella
classifica delle economie europee (peggio solo la Grecia) e tra le tutte economie OCSE (peggio
solo il Giappone).
Le previsioni della Commissione europea, inoltre non lasciano sperare in aumenti più marcati
nel prossimo nel 2017 (0,9%), ponendo problemi di sostenibilità delle finanze pubbliche che,
come noto, si misurano in percentuale del PIL (nominale), che il Governo Renzi ha sovrastimato
quando ha redatto la manovra in Legge di Bilancio 2017. Ciò ha spinto la Commissione europea
2
a chiedere un aggiustamento del deficit pari allo 0,2% del PIL (circa 3,4 miliardi di euro): “serve
a portare l’Italia all’interno del margine tollerato di deviazione dallo sforzo strutturale
raccomandato dal Consiglio per il 2017″ onde ridurre progressivamente il debito pubblico,
come previsto dal Fiscal Compact. Con lettera inviata in risposta alle osservazioni della
Commissione europea sulla manovra, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo
Padoan, da un lato, sollecita un calcolo più corretto del famigerato Obiettivo di medio termine
(riduzione del deficit in termini strutturali, cioè al netto delle una tantum e delle oscillazioni
cicliche), accenna all’emergenza terremoto e all’aumento dei flussi migratori e avvisa dei rischi
di una linea rigorista nell’attuale contesto geopolitico; dall’altro lato, però, dichiara l’intenzione
dell’attuale Governo di «continuare nel quadro di un consolidamento favorevole alla crescita e
delle riforme strutturali», impegnandosi a prendere «provvedimenti di contrasto all’evasione
fiscale in continuità con quelli già adottati nel recente passato, estendendone la portata, e di
riduzione della spesa».
Rimbalzi nella produzione, ma insiste la crisi di domanda. A un mese e mezzo dalla fine
dell’anno solare è possibile conoscere la stima preliminare del PIL, ma solamente a marzo
vengono resi noti i Conti nazionali Istat che permettono di sapere il livello del PIL nominale (PIL
reale + deflatore del PIL) e di comprendere quali siano le componenti della domanda aggregata
che hanno contribuito alla variazione del PIL nell’ultimo trimestre e, perciò, per tutto il 2016. In
assenza di tali informazioni fondamentali, tutte le principali istituzioni utilizzano alcuni
indicatori congiunturali – assieme alle variabili esogene (commercio mondiale, tasso di cambio
e prezzo del petrolio) e al clima di fiducia di famiglie e imprese – per approssimare una stima
dell’andamento dell’economia nazionale: in particolare, l’indice della produzione industriale, le
tendenze del mercato del lavoro e le rilevazioni sulle retribuzioni. La produzione industriale a
dicembre 2016 ha marcato un deciso incremento (+1,4%), che porta la variazione media annua
all’1,2% (nel 2015 era 1,8%). Tale espansione congiunturale è frequente nel periodo di fine
anno e, considerando le oscillazioni mensili più volte rilevate negli ultimi due anni, non sembra
uno slancio che si possa consolidare. Se si osservano, infatti, anche i dati del mercato del lavoro,
si nota che nell’ultimo trimestre non si contano rilevanti aumenti nel numero di occupati e, al
contrario, crescono i disoccupati (anche in ragione del calo dell’inattività). Lo stallo della
domanda di lavoro è in gran parte ascrivibile alla flessione degli incentivi legati al Jobs Act e al
costante incremento dei voucher. Da gennaio a dicembre sono poco meno di 16 mila i nuovi
permanenti, mentre calano gli indipendenti e in termini tendenziali spicca l’aumento dei
contratti a termine. Ciò contribuisce a indebolire consumi e investimenti, che aumentano solo
in ragione degli incrementi delle retribuzioni contrattuali (+0,6 nel 2016) e degli incentivi
“selettivi” previsti dalla Legge di stabilità 2016 (es. il cosiddetto superammortamento), anche se
l’effetto macroeconomico positivo appare inconsistente considerando i 40 miliardi di incentivi
fiscali impegnati a vario titolo a vantaggio delle imprese nel triennio in 2015-2017. A conferma
della persistente crisi di domanda, l’anno scorso, peraltro, la variazione media dei prezzi (in
tutti i diversi panieri che compongono i tre principali indici dell’inflazione: NIC, FOI e IPCA) ha
registrato segno negativo (-0,1%), ovvero una #deflazione annua, evento che non accadeva dal
1959.
(20 febbraio 2017)
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GLOSSARIO #DEFLAZIONE
La #deflazione indica una riduzione generale del livello dei prezzi. In altre parole, rappresenta il
contrario dell’inflazione (aumento generalizzato dei prezzi). Differisce dalla disinflazione, che è
una politica economica adottata per contenere l’inflazione, senza che ciò debba
necessariamente tradursi in una diminuzione dei prezzi.
La deflazione è sempre associata a una flessione accentuata dell’attività economica e
dell’occupazione. La deflazione può verificarsi quando una caduta della domanda aggregata, sia
per minori salari o massa salariale (per disoccupazione o dequalificazione del lavoro), creando
pressioni per un calo dei prezzi e dei redditi da lavoro, nel tentativo dei produttori (con eccesso
di capacità produttiva) di sollecitare la domanda con prezzi più bassi. La deflazione aumenta nel
breve periodo il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, ma essendo legati a vario titolo
alle aspettative di inflazione, nel medio e lungo periodo si innesca una spirale recessiva che
alimenta la stessa riduzione dei prezzi: a riduzione dei prezzi agisce sulle aspettative di imprese
e famiglie, che in vista di una flessione dei prezzi, hanno convenienza a posporre acquisti
(soprattutto in beni durevoli) e investimenti. Per questo è ritenuta molto più pericolosa per
l’economia dell’inflazione.
La deflazione, inoltre, agisce negativamente anche sul debito, pubblico e privato. Il debito
pubblico, infatti, si riduce con l’inflazione in termini reali e si misura – come tutti gli altri
indicatori di finanza pubblica – sul PIL nominale (PIL reale + inflazione, misurata con il deflatore
implicito del PIL). Anche per i debiti privati, la progressiva decrescita dei ricavi e dei redditi
monetari ne compromette la solidità patrimoniale, contando che la restituzione avviene al
valore monetario iniziale., con effetti più generali sul capitale delle banche creditrici.
“La deflazione comporta un trasferimento di ricchezza ai rentiers, e a tutti i detentori di effetti
monetari, da parte del resto della comunità; così come l'inflazione comporta un trasferimento
di segno opposto. (…) Entrambe, inflazione e deflazione, sono "ingiuste" e deludono ragionevoli
attese; ma, mentre l'inflazione, alleviando l'onere del debito nazionale e stimolando le imprese,
mette un contrappeso sull'altro piatto della bilancia, la deflazione non offre alcuna
contropartita” (J. M. Keynes).
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Valore assoluto dell'indicatore
Indicatori
Ultimo
periodo di
rilevazione
Ultimo
mese o
trimestre
disponibile
Periodo
corrispondente
(anno
precedente)
Pre-crisi
(2007)
Variazione % dell'indicatore
Periodo
precedente
(mese o
trimestre
precedente)
Rispetto al
livello Pre-crisi
Dinamica dell'indicatore
Tendenziale
Congiunturale
(periodo
(periodo
corrispondente) precedente)
(a) PIL trimestrale (stima preliminare )
Q4-2016
393.536
421.995
389.287
392.729
-6,7
1,1
0,2
(b) Consumi finali trimestrali
Q3-2016
315.673
329.248
312.606
315.171
-4,1
1,0
0,2
(c) Investimenti fissi lordi trimestrali
Q3-2016
66.760
93.295
65.257
66.237
-28,4
2,3
0,8
(d) Importazioni trimestrali
Q3-2016
109.920
116.593
107.505
109.185
-5,7
2,2
0,7
(e) Esportazioni triimestrali
Q3-2016
119.129
115.104
116.271
118.964
3,5
2,5
0,1
(f) Produzione industriale
dic-16
96,5
119,0
91,0
95,2
-18,9
6,0
1,4
(g) Produzione nelle costruzioni
nov-16
67,3
119,5
69,0
66,0
-43,7
-2,5
2,0
(h) Fatturato dell'industria
nov-16
101,5
112,3
98,0
99,1
-9,6
3,6
2,4
(i) Ordinativi dell'industria
nov-16
102,0
121,4
101,0
100,5
-16,0
1,0
1,5
(j) Inflazione (NIC generale)*
dic-16
100,3
101,4
99,8
99,9
-1,4
0,5
0,4
(k) Inflazione (IPCA generale)*
dic-16
101,0
100,4
100,6
100,7
-1,7
0,4
0,3
(l) Prezzi alla produzione industriale*
dic-16
102,1
97,0
101,2
101,5
-2,4
0,9
0,6
(m) Deflatore dei consumi*
Q3-2016
105,3
95,0
105,3
105,3
-2,2
0,0
0,0
(n) Deflatore del PIL*
Q3-2016
106,5
95,4
105,8
106,7
-2,6
0,7
-0,2
(o) Ore lavorate per dipendente*
Q3-2016
100,5
105,0
99,4
100,4
0,7
1,1
0,1
(p) Unità di lavoro (C.N.)
Q3-2016
23.771
25.192
23.540
23.773
-5,6
1,0
-0,0
(q) Occupati (FdL)
dic-16
22.541
23.046
22.400
22.574
-2,2
0,6
-0,1
(r) Disoccupati (FdL) #
dic-16
2.959
1.622
3.129
2.927
82,4
-5,4
1,1
(s) Forza lavoro
dic-16
25.499
24.690
25.529
25.502
3,3
-0,1
-0,0
(t) Tasso di occupazione°
dic-16
57,3
58,8
56,6
57,3
-1,5
0,7
0,0
(v) Tasso di disoccupazione° #
dic-16
12,0
5,9
11,6
12,0
6,1
0,4
0,0
(u) Tasso di disoccupazione giovanile° #
dic-16
40,1
19,9
38,3
40,0
20,2
1,8
0,1
(w ) Tasso di inattività° #
dic-16
34,8
37,4
35,8
34,8
-2,6
-1,0
0,0
(x) Retribuzioni contrattuali*
dic-16
107,3
91,2
107,0
107,3
-2,1
0,3
0,0
(y) Retribuzioni di fatto (C.N.)*
Q3-2016
29.405
25.961
29.244
29.350
-2,3
0,6
0,2
(z) Costo del lavoro (Oros)*
Q3-2016
107,5
90,9
107,9
107,6
-2,3
-0,4
-0,1
Rispetto al
Tendenziale
livello Pre-crisi
Congiunturale
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
NOTE:
Le frecce colorate descrivono la dinamica dell'indicatore rispetto alla rilevazione precedente (NON al numero di riferimento): verde migliora, rosso peggiora, giallo stabile.
(*) Variazione pre-crisi rispetto al tasso medio
Da (a) a (e) i valori sono espressi in milioni di euro
Da (p) a (s) i valori sono espressi in migliaia
(°) Variazione per differenza
Da (f) a (o), (x) e (z) i valori sono numeri indice
Da (t) a (w) i valori sono rapporti percentuali
(#) Frecce colorate in modo inverso
Il valore di (y) è espresso in euro
Sin dall’antichità, nella cultura di massa, gufi e civette hanno sempre rappresentato sapienza, saggezza, erudizione. Un udito
sopraffino e una vista eccezionale gli permettono di vedere bene, lontano, anche nell’oscurità, anche nelle notti più profonde.
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