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ACCOGLIERE IL LUTTO E' PROMUOVERE LA VITA
A cura del dr Luigi Colusso
La relazione ha l’intenzione di offrire a tutti i partecipanti una base comune da cui
partire, per ritrovarsi in una prima condivisione all’inizio dei lavori, in fondo brevi, già
“caldi” rispetto alle argomentazioni che si andranno a sviluppare.
Nei tempi passati, e con profusione anche in questi anni, molta letteratura è stata
messa a disposizione di esperti e profani, di professionisti e comuni cittadini.
Letteratura scientifica, clinica, antropologica, teologica… e nel comune senso di
“letteratura”: poesia, romanzi, drammi, storie personali, riflessioni spirituali e
religiose, autobiografie.
Ma i lettori che hanno confidenza profonda con queste “letterature” sono pochi, e
comunque non è semplice trasferire dal livello formativo/informativo all’uso quotidiano
un approccio complessivo che sia davvero spendibile.
Quindi, come per altri aspetti di comune riscontro, molti anche tra i professionisti si
affidano alle casuali, personali esperienze.
Per questo anche la letteratura scientifica è poco conosciuta e poco amata, e ritenuta
a volte poco piacevole, crederei a torto perché ha invece molti lati affascinanti. Si
tratta infatti di lavorare intorno al mistero più grande che accompagna tutta la nostra
vita e che ognuno dovrà inevitabilmente affrontare in un qualche momento.
Riuscire a conquistare alcune coordinate in ordine al senso della vita, mettere insieme
pensieri non del tutto soggettivi e unilaterali, abituarsi a ricorrenti confronti sul tema
della morte e del lutto è proprio di ogni umano, e per certo si può ascrivere alle
competenze di professionisti e volontari che si confrontano con i problemi della salute
umana.
Meglio ancora credo si possa dire che tutti ci si deve confrontare, prima ancora che
con la morte e i lutti (e il cordoglio, come si vedrà) con le perdite, e i distacchi, che
dobbiamo accettare come parte integrante, fondante della storia naturale dell’uomo,
anzi strumenti privilegiati di preparazione all’incontro che verrà: quello con morte e
lutto, propri o di altri.
Si ritiene utile proporre, per i motivi suddetti, una breve panoramica sulla definizione
della morte e soprattutto sull’approccio al lutto e al cordoglio, compreso il cordoglio
anticipatorio, e sugli stili di lavoro sui luoghi di lavoro usati per fronteggiare il
possibile burn out degli operatori.
La morte è in una certa maniera inconoscibile: è noto l’aforisma che dice “quando ci
siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi”.
STORIA NATURALE DEL LUTTO E DEL CORDOGLIO
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Il dolore che nasce dalla morte di una persona cara viene nominato a volte lutto, a
volte cordoglio, e si usano i due termini come sinonimi o quasi, e il termine cordoglio è
poco utilizzato, spesso relegato a termine “aulico”, “formale” per indicare la propria
partecipazione al lutto altrui.
Ma la differenza tra lutto e cordoglio esiste davvero: sono due facce interdipendenti
della stessa realtà. È una differenza che esprime la complessità delle manifestazioni
interiori ed esteriori, personali, famigliari e sociali della morte di una persona.
Riconoscere l’esistenza di questa differenza aiuta a collocare con esattezza l’origine
di una parte delle difficoltà che le persone in lutto incontrano nel corso della storia
naturale della loro vita successiva alla morte della persona cara.
Lutto e cordoglio
Il termine LUTTO origina dal latino lugere = piangere, e si riferisce a tutte le
manifestazioni esterne, che ricordano agli altri membri della comunità l’evento e la
connessa condizione di sofferenza dei dolenti: il pianto stesso, silenzi ma anche parole
urlate, grida, espressioni di dolore del volto, sospiri, dialoghi centrati su contenuti di
dolore, comportamenti e modi di vestire.
Comprende le cerimonie di congedo dalla salma, dalla vestizione alle cerimonie del
definitivo addio e collocano i dolenti in una condizione di temporanea marginalità,
meglio ancora si potrebbe dire di liminalità (in rapporto alla comunità di riferimento).
Il lutto può con successo essere abolito o represso socialmente,ma non il cordoglio, in
quanto espressione di una caratteristica umana universale ancestrale, intesa anzitutto
come paura della (propria) morte e della “fine di tutto”. È proprio la negazione, la
repressione del lutto e del cordoglio che può portare allo sviluppo della patologia, nella
persone che la vive, o nella sua discendenza, a causa del vivere “fuori della realtà”
conseguente alla mancata elaborazione.
La marginalità, o liminalità è una condizione protettiva per i dolenti, perché concede
loro il tempo del cordoglio e della elaborazione.
Protettiva anche per la comunità che ha perduto un proprio membro, e che intende
difendersi dalla negatività che percepisce provenire dalla morte, in particolare dalla
stessa persona morta, dalla sua salma (le cerimonie funebri hanno anche questa
funzione) e dai dolenti: con l’esibizione del proprio lutto la ricordano ”troppo”. Per
questo è una condizione protettiva nello stesso tempo spontanea e anche obbligata, è
un obbligo sociale che costringe i dolenti a collocarsi per un certo tempo, che in molte
culture è esattamente definito, ai margini/confini della comunità.
Il lutto spesso prescrive di vestirsi secondo canoni sociali noti e compresi dalla
generalità dei membri della comunità, di relazionarsi con i conoscenti in forme ridotte
e secondo formule rituali: epigrafi murali e/o sui giornali, biglietti listati a lutto,
astensione dalla frequenza di luoghi di divertimento e di svago, esenzione da alcuni
obblighi sociali.
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L’insieme assume il significato di riti di passaggio: di separazione, di margine e di
aggregazione. I riti di aggregazione sono destinati a permettere il congiungimento del
morto al mondo dei morti, qualunque cosa questo significhi. I riti di separazione
confinano per il tempo del lutto i parenti del defunto in un gruppo particolare, a metà
strada tra il mondo dei vivi da una parte e il mondo dei morti dall’altra. Nella nostra
cultura oggi non esistono riti in qualche modo formali, sociali, che sanciscano la fine di
questo periodo.
Il confinamento temporaneo in una condizione di marginalità, meglio ancora di
liminalità, sottinteso nei riti già nominati, si tende oggi a trascurarlo, a rinnegarlo. Non
piace l’idea di essere sul margine, sembra un espediente per non dire “emarginato”. In
verità un periodo di tempo di transizione, nel vero senso del termine, cioè di
passaggio, con la necessità di accudirsi, ripensarsi in un differente orizzonte di senso,
darsi tempo come vedremo per riti e narrazioni è proprio ciò di cui abbiamo bisogno
come dolenti. E come può essere possibile passare da una condizione all’altra, da una
identità all’altra senza passare per il confine cioè senza attraversare i margini?
Del resto è proprio quello che le persone lamentano, sono frequenti le frasi come: “non
mi sento una vedova”, oppure “continuo a guardare le vetrine per cercare cosa
comprare per mio figlio, anche se ricordo che è inutile”.
Secondo le culture ed i tempi il modo di vivere il lutto assume aspetti specifici, ma
alcuni tratti sono universali e di tutti i tempi. Di solito quando si parla di tempi, della
durata della sofferenza, si fa riferimento alle manifestazioni più facilmente
conoscibili, e quindi si parla di “fine del lutto” come socialmente inteso. In questo caso
la durata è considerata uguale per tutti i dolenti e tutte le morti, senza considerare
età, causa di morte, altri parametri, per esempio la prossimità con il morto e il “peso”
dei legami, del contesto...
Storia naturale del cordoglio
Il termine CORDOGLIO proviene ugualmente dal latino, da cor dolere = dolore del
cuore, e riassume in sé gli sconvolgimenti interiori, le emozioni, i sentimenti, i pensieri
e la narrazione che ognuno rivolge a se stesso nel tentativo di dare un senso agli
eventi e alla propria stessa vita.
È quindi possibile che il cordoglio rimanga una questione personale, non manifestata e
non condivisa con altri, nemmeno con le persone più care.
A volte siamo molto gelosi del nostro cordoglio, come fosse una forma d’amore intimo,
esclusivo, che continua l’intesa a due con la persona morta; altre volte ce ne
vergogniamo, come fosse una debolezza, una maleducazione mostrare la sofferenza,
come fosse dichiarare la nostra fragilità.
Forse almeno a livello inconscio temiamo che dimostrando ad altri di soffrire si possa
provocare in loro una sorta di riprovazione, di giudizio morale verso il morto, che ha
provocato una “ingiusta” sofferenza; altre volte ancora desideriamo evitare di
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rinfocolare la sofferenza delle persone care prossime che abbiamo ben modo di
immaginare.
Infine a volte c’è l’aspettativa magica di esorcizzare la sofferenza, come se evitare di
parlarne possa nasconderla, annullarla o almeno prevenirne l’incancrenirsi. Ciò di cui
non si parla non esiste…! Ma questa rimane una pia intenzione. Anzi ciò che non si
nomina non si governa.
Nel rapporto con gli altri, gli umori e tutto quel che può essere interiorità possono
trasparire, anzi traspaiono senz’altro. È un bene per alcuni versi, può indurre gli altri a
prendere l’iniziativa di parlare, di chiedere di aprire il cuore e farne uscire il dolore.
Per altro la mancata esplicitazione di emozioni e sentimenti che si intravedono
soltanto può indurre equivoci, ansie (si pensa sempre al peggio, soprattutto in certe
situazioni…) rabbia, vissuti di distanziamento, di rifiuto…
Lutto e cordoglio esprimono ambedue anche la nostra irrazionale (?) paura della
morte, a causa della sua inconoscibilità, della sua imprevedibilità. Quando muore una
persona cara siamo di fatto incerti sulla sua sorte, mentre conosciamo (o meglio
crediamo di conoscere) i contenuti della vita. Temiamo un evento vitale ineludibile, che
è privilegio proprio di tutta l’umanità (secondo la mitologia greca gli dei invidiavano agli
uomini unicamente la loro mortalità…). Competenza quindi di tutti, come singoli e come
comunità di cui i singoli partecipano. A tutti quindi spetta come dovere etico e civico
di partecipare “coralmente” della elaborazione altrui.
Il cordoglio con molti suoi contenuti è un evento NORMALE nella vita degli esseri
umani. Solo se si prolunga indefinitamente, o presenta certi contenuti specifici di
sofferenza o per caratteristiche particolari della morte o del contesto in cui si
concretizza, possiamo tentare di definire il lutto come patologico, ritardato,
complesso, congelato…
Tenere presente questa sostanziale normalità e generalità del processo di
attraversamento della sofferenza legata ad una morte permette a chiunque una
relazione diretta, orizzontale con le persone in lutto, anche perché possiamo
apprezzare le similitudini con i nostri lutti passati o prefigurati, e quindi godere di un
rapporto tra pari.
E si comprende che tante volte non ha senso la delega ad esperti, a specialisti (?) di
qualcosa che appartiene al quotidiano di ogni essere umano. Con questo non si esclude
il contributo di qualcuno che per esperienza e competenza possa collaborare per
facilitare lo scioglimento di eventuali problemi e/o assumersi un ruolo nelle situazioni
che presentano anche contenuti patologici o di complessità.
Elaborazione del lutto
È un processo temporalmente lungo senza un termine evidente. I cambiamenti, che
avvengono al suo interno ci permettono di suddividerlo in fasi, che sono solo
“indicative”, come negazione, rabbia, depressione, patteggiamento e infine
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pacificazione. Corrispondono a emozioni sentimenti e comportamenti di volta in volta
prevalenti, senza escludere ricorsività, contemporaneità di fasi,e qualunque possibile
combinazione.
Oggi i tempi delle singole fasi tendono a dilatarsi perché il contrasto tra la
“trascendenza orizzontale” in cui siamo immersi e la spinta verso la spiritualità propria
del cordoglio frena i processi di cambiamento, in particolare .
La differenza di genere è molto importante, perché mediamente uomini e donne
esprimono molto diversamente il proprio cordoglio, utilizzano riti differenti e si
comportano molto diversamente rispetto alla narrazione..
A causa di questa differenza si mette a rischio di crisi il senso della famiglia, del
“noi”, e in particolare aumentano separazioni, divorzi, conflitti in presenza di un
cordoglio non elaborato, legato a morte/malattia grave di figli.
Inoltre i diversi membri delle famiglie oggi vivono separati nel lavoro, nel tempo
libero, nei legami interpersonali, e anche nelle esperienze positive, e tendono a
mantenere la frammentazione anche nei periodi di sofferenza con esiti distruttivi: per
esempio padri che lasciano la famiglia a motivo della nascita di un figlio con handicap.
Quando si cerca conforto, dialogo, possibilità di accoglienza e di fare narrazione del
proprio dolore, ognuno si appoggia in solitaria comunque fuori della famiglia.
La metacomunicazione, il significato profondo può essere molto triste: nel seno della
famiglia non si affrontano le questioni importanti, non si cerca/propone il sostegno nei
momenti più ardui, ma lo si cerca all’esterno, non come rinforzo, ma in alternativa.
Ne risulta una grave svalutazione del senso della coppia, a detrimento del “noi”.
Con la consapevolezza di questi rischi, Rimanere Insieme si impegna a lavorare con una
ottica di tipo sistemico, con il fine di facilitare alle persone la riconquista delle
proprie relazioni in famiglia in primo luogo, e nella comunità di appartenenza.
In definitiva una descrizione, parziale e imperfetta, di cosa significhi l’elaborazione
del lutto si riferisce a:
1. L’aver attraversato la sofferenza causata dalla morte, ritrovando
qualche piacere dalla propria vita,
2. La trasformazione dei ricordi della persona amata in memoria
3. superare il blocco delle attività non obbligate, e prendere decisioni
importanti con una certa serenità, e la capacità di iniziativa
4. Aver ridefinito la propria identità personale, stravolta dalla morte
della persona amata
5. Possedere di nuovo un orizzonte di senso della vita (che ci faccio qui?):
il precedente riconfermato, o una sua revisione, o uno differente. E’
già determinante essere attivi nel ricercarlo e costruirlo
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6. L’incorporazione, per quanto traumatica, della morte come
caratteristica universale della vita, anche della propria vita
7. Pensare alla propria morte senza desiderarla e senza respingerla
8. Saper accogliere una richiesta di aiuto e dedicarsi ad altri, che è la
felicità possibile
Spesso si propone l’elaborazione come il saper “lasciare andare” la persona che è
morta. Ma questa affermazione che corrisponde alla verità ci offre una visione
limitata e passiva di un processo che è ricco, complesso, richiede molto impegno e una
grande fatica. Inoltre succede che le persone si sentano in colpa per il solo tentativo
di lasciar andare, confondendolo con il dimenticare, l’abbandonare.
Lasciar andare ha il significato di un profondo rispetto per la storia altrui e il suo
giungere a compimento, e dello scioglimento del contenzioso che può mantenere in noi
la rabbia, o almeno il risentimento, verso chi “ci ha lasciato”. Pensiamo alla relazione
con un figlio che forma la sua famiglia e va a vivere nella sua nuova casa: ci ha
abbandonato o è andato incontro al proprio destino? Come può vivere in libertà se lo
facciamo sentire attore di un tradimento, di un abbandono? Non si rischia in una simile
situazione una rottura traumatica?
Il meccanismo del “lasciar andare” è sempre il medesimo, sia pure con tutta un’altra
drammaticità.
Il paragone che si può introdurre è quello con il parto, evento con il quale una donna si
separa con dolore da un figlio amato, consapevole di introdurlo in un mondo che lo farà
certo anche soffrire, ma partorisce ugualmente con gioia, convinta tra l’altro della
ineluttabilità del parto.
Lavoro del lutto
Questa definizione, proposta a suo tempo da Freud, è largamente accettata, e
significa attraversare la sofferenza, compiere un percorso con pensieri, azioni,
relazioni, cambiamenti, attraverso prove ed errori. È solo grazie al lavoro del lutto che
si può giungere ad una qualche elaborazione,e ci ricorda che si tratta di un processo
attivo.
L’identità e il ruolo
La morte di una persona cara provoca la perdita/riformulazione di una parte
importante della costellazione identitario “passiva ed attiva”. A differenza del ruolo,
che può essere perso definitivamente, l’identità, salvo una patologia, grave si perde
come funzione ma non certo come storia, e anche come motivo di conflitti.
Ci si salva storicizzando la relazione intercorsa che definitiva l’identità e conferiva un
ruolo, identità e ruolo vissuti attraverso una serie di eventi, di cui si conservano i
ricordi, che appunto trasformiamo in memoria, grazie alla narrazione.
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L’identità non sta nel soggetto ma nella relazione. (Lèvinas)
Accettare questa definizione (parziale) dell’identità porta come conseguenza ad
accettare che l’identità non è mai data e conquistata una volta per tutte, ma è
fisiologicamente sottoposta ad evoluzione quotidiana. Di solito è una evoluzione molto
lenta, per cui si fatica a rendersene conto. Significa anche che la nostra identità è
indissolubilmente legata a quella delle altre persone con cui siamo in relazione (un
capoufficio è tale in quanto ci sono degli impiegati, un padre è tale perché c’è almeno
un figlio…), nelle due direzioni di senso: noi definiamo l’identità altrui, e gli altri
definiscono la nostra.
Per questo l’identità è sottoposta a processi di acquisizioni, cambiamenti, di possibile
svuotamento totale o parziale, di ridefinizione dopo una grossa crisi causata da una
perdita, per esempio una morte.
Margine e transizione
Lo spazio per la transizione oggi è negato, anche perché il margine, il confine, è
“nascosto”, è confuso. Il lutto segnava dei confini, generali ed astratti, ma utili come
riferimento e contenimento nel tempo e nei comportamenti, come confini quasi
materialmente visibili. Basta ricordare la ormai abbandonata abitudine a vestire di
nero per un anno, ma anche la tutt’ora vigente “prescrizione” di una periodo minimo di
due anni tra la perdita di una persona cara e l’inserimento in un volontariato connesso
alla causa di morte, sempre che l’elaborazione sia nel frattempo stata significativa.
Perdita della bellezza
La perdita del vissuto di bellezza, sostituito dalla sensazione che il mondo sia
dominato dal “brutto”, dalla negatività è una caratteristica centrale, è la norma nel
cordoglio, e aiuta a comprendere il rifiuto di ogni proposta e l’abbandono di tutti gli
interessi anche quando amati prima, e la parte di famiglia sopravvissuta è inclusa in
questa visione.
Per comprendere questo fenomeno possiamo utilmente fare riferimento a LevyStrauss, l’antropologo che definisce la possibilità di individuare la bellezza di un
oggetto nella intensità e coerenza dei legami interni all’oggetto. La morte, come è
evidente, spezza i legami che conferivano bellezza alla relazione, e per diretta
conseguenza franano o almeno si modificano in modo sostanziale gli altri legami, la loro
coerenza il loro essere ben ordinati e “pettinati”, ed è tutto questo che causa la
sensazione della perdita della bellezza.
È legata alla perdita della vicinanza e dell’identità.
Perdita della vicinanza
È possibile inserirsi nel vuoto che la morte ha lasciato nelle consuetudini, che sono
soprattutto “semplici”, quotidiane, offrendo parimenti semplicità, ovvero condividendo
la presenza, almeno le piccole cose, proprio come accadeva con la persona morta. È
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proprio quello che manca, un vuoto che quasi nessuno pensa di colmare o almeno
attenuare.
Perdita della lontananza
Caratteristica che può essere di tutti, ma segna in particolare i genitori dopo la morte
di un figlio (o del figlio) come pure il superstite anziano di una coppia di lungo corso.
Questa perdita si riconosce dal rifiuto di proiettarsi nel futuro, dal mancato
riconoscimento di un orizzonte di senso nella vita futura, per la difficoltà a rendersi
responsabile rispetto alle conseguenze future del proprio comportamento
rinunciatario. Possono riuscire a restituire la proiezione verso il futuro e quindi la gioia
di vivere nuovi figli, i nipoti che arrivano dopo il lutto, specie se sono i primi. Credo che
la possibilità di cambiare si possa attribuire in generale alla rinascita di emozioni e
sentimenti positivi, al vissuto di poter davvero essere utili, significativi.
Narrazione
Il bisogno di narrazione è connaturato alla essenza- interdipendenza dell’uomo. Si
manifesta per gli eventi positivi (l’innamoramento, un successo professionale, la
nascita di un figlio…) che non potrebbero essere riconosciuti, socializzati, e nemmeno
affermati se impediti nella loro narrazione. Altrettanto vale per gli eventi negativi,
che certo trovano ben altre difficoltà di accoglienza.
Quanto potersi narrare sia un bisogno irriducibile si evince da una esperienza molto
potente vissuta con i lavoratori dei cimiteri di un grande comune, che in un corso di
formazione loro dedicato hanno lamentato come maggior inconveniente del proprio
mestiere l’impossibilità di condividere a fine giornata, in famiglia o con gli amici, come
gli altri comuni mortali, i grandi e piccoli eventi del proprio lavoro.
È un esercizio liberatorio, che soddisfa diversi nostri bisogni. Di svuotamento della
negatività, di rafforzamento della identità, di confronto con gli altri…e questo è un
aspetto fondamentale, irrinunciabile per il benessere mentale e per la nostra visione
del mondo.
Infatti come è ben noto noi non conosciamo il mondo ma solo le nostre idee su di esso.
Ed è altrettanto evidente che le nostre idee, il nostro pensiero non ha strumenti
certi, infallibili per giudicare l’oggettività di se stesso, per così dire. È in un dialogo di
vero scambio, di confronto con le idee altrui che il nostro pensiero, le nostre idee
hanno la possibilità di mettersi in relazione di prossimità di verifica quanto meno (non
potendo contare sulla conquista di una Verità, di certezze inconfutabili) della
compatibilità e della interattività con il pensiero altrui, della comunità sociale di
appartenenza. Anche senza aderire al pensiero di Wittgenstein (“la verità sta nel
linguaggio”) abbiamo molte occasioni di verificare come il linguaggio sia indispensabile
per comunicare in modo efficace, se non veritiero con certezza. E nel linguaggio credo
si possa comprendere ogni sua forma, verbale e non verbale.
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Nella situazione specifica del dolore riferito a perdite e lutti è di comune riscontro
che la personale esperienza negativa rischia di essere assolutizzata ed ingigantita nel
proprio pensiero, con conseguenti altri ragionamenti che scaturiscono dalle forti
emozioni dell’immediatezza, ma che possono essere molto, molto lontani dalla
“obiettività”, ovvero confrontabili e paragonabili con altre simili perdite. La
narrazione, agita in un contesto accogliente, permette già al narratore di riformulare
nel momento della verbalizzazione il proprio pensiero.
Quando noi ci impegniamo nella narrazione degli eventi significativi della nostra vita
sempre li selezioniamo, filtrandoli secondo il loro contenuto e peso emozionale. Inoltre
l’evoluzione naturale del tempo e il succedersi di nuovi importanti eventi come la morte
di un caro (= esperienza) operano in direzione di una rilettura, di una diversa
attribuzione di significati.
Diversa attribuzione che diviene agevole grazie alla narrazione, orale o scritta. “La
nostra esistenza non ha mai la forma del dover essere così e basta, ma quella del
poter sempre divenire anche qualcos’altro”. (V. Frankl, 2001).
(la narrazione la possiamo veder come uno degli “attrezzi” utili per il divenire, per
riconoscere, assecondare, provocare il cambiamento)
In particolare scrivere “implica la fatica di fermarsi e di guardarsi dentro, di
rimettersi in discussione, di accettare e rielaborare i vissuti, e infine di decidersi per
un significato. È doloroso a volte, come una gestazione, ma consente, alla fine, un
nuovo inizio” (D. Buzzone, Noi siamo un racconto, Ricerca di senso n.2/08)
Riti
IL COMPLESSO DELLE NORME CHE REGOLANO LE CERIMONIE DI UN CULTO
Si può riferire al culto degli antenati, della famiglia, del clan, e ha un valore di ricerca
di protezione, di buon augurio, di allontanamento di energie negative…
Per avere un esempio semplice, lampante, proviamo a ricordare il modo con cui si
organizza il Natale in famiglia, almeno come vorremmo organizzarlo… non è forse un
rito, laico, prima ancora che religioso, o anche senza essere religioso?
Definizione dal Devoto-Oli del rito:
CONFORMITÀ CON UNA CONSUETUDINE PRESCRITTA O UNA PRASSI ABITUALE, TALVOLTA
SENTITA COME INDEROGABILE O INEVITABILE
E crediamo che trattandosi di un peso sia bene esentare per esempio i bambini…
Può essere conforto nello smarrimento e nell’incertezza, guida al da farsi quando non
si ha consuetudine con l’evento: la morte per fortuna non è quotidiana; però, se ci
abituassimo alle perdite, ai distacchi…
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I riti sono come dei segnapassi, segnano i confini della transizione, conferiscono un
ruolo, trasformano i ricordi in memoria, e lavorano anche sull’identità.
Corrisponde ad una necessità, che è quella di attraversare la fase di passaggio della
elaborazione del lutto identificandola con un proprio inizio, un percorso, ed anche una
sua conclusione, magari sfumata.
All’interno delle fasi di transizione sono proprio i riti, o almeno alcuni riti, a
permettere l’identificazione della transizione stessa e a scandirne i tempi.
Si tratta senz’altro dei riti specifici della propria fede, o suggeriti da una religione di
appartenenza, e questi sono in relazione con il concetto di sacro. Sono riti pubblici in
quanto offerti e condivisi con una comunità, per piccola che essa possa essere, riti che
inseriscono vita e morte della persona amata ed il valore della sua esistenza in un
orizzonte di senso con le caratteristiche del sacro, magari a un livello molto
semplificato, ma che attraverso questa consacrazione permettono la trasformazione
di semplici e volatili ricordi in una degna memoria, stabile e tramandabile.
Rientrano, crederei, in questa categoria i riti di istituzione di Fondazioni, Musei, e
anche della organizzazione di alcune manifestazioni sportive: tornei calcistici
parrocchiali e corse podistiche di paese, premi di poesia...
I riti personali, del tutto “laici”, e non condivisi socialmente, possono vicariare almeno
in parte il senso dei riti pubblici quando questi per vari motivi non hanno corso, e
propriamente assumono specifici significati: prolungamento dell’esistenza della
persona morta: cucinare per lei, valutare nelle vetrine oggetti che si potrebbero per
lei acquistare, frequentare alcuni luoghi da lei amati, parlare con lei davanti alla lapide,
davanti alla sua fotografia, davanti ad un “pubblico” di almeno una persona (e qui si
rientra nella narrazione...) e naturalmente frequentare il cimitero... Ma anche
conservare gli oggetti appartenuti al morto, farne manutenzione, a volte usarli o
almeno contemplarli o annusarli.
In tutto questo entra anche la questione della donazione d’organo, dei trapianti, in
generale dell’uso del corpo del defunto, compresa la cremazione e la destinazione delle
ceneri. È notevole come i famigliari di persone il cui corpo è stato utilizzato per la
donazione si sentano legati specificamente all’operatore che ha formulato la richiesta
di donazione, e con il quale se ne è stabilito il patto.
E spiega il significato liberatorio dei contatti con i “sacerdoti” che in modo figurato
hanno presieduto ad amministrare l’abbandono (ma è stato davvero tale? E in che
senso abbandono? Negativo o misericordioso?) del corpo. Una loro rassicurazione che
il rito sia andato a compimento, a buon fine, rappresenta un rito ulteriore che potrà
permettere di decidere di lasciar andare, di cominciare a lasciar andare il caro morto,
perché ciò che doveva essere fatto è stato fatto, onorevolmente.
Possiamo comunque ricordare la sacralità del corpo e dei riti di congedo, che servono
proprio a “lasciar andare” la persona, ma in un modo che ne ricordi e perpetui
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l’appartenenza alla comunità, e anche che metta un confine invalicabile tra i vivi ed il
morto, che ne impedisca il ritorno in vesti sgradevoli, spaventose.
Non si spiega altrimenti la riluttanza al contatto con i cadaveri, le attribuzioni
negative verso gli “affossatori”, il tabù verso la profanazione del corpo o di parti, o
viceversa l’uso rituale, come accade nelle usanze antropofaghe.
Si comprende allora il malessere di alcuni, la curiosità a volte al di là del limite del
morboso di altri, e un sottofondo di insicurezza, una impalpabile sensazione che può
rendere ambivalente la relazione e rendere ai superstiti più difficile il lasciar andare.
Il dono come stile di vita
I doni ricevuti: ognuno può interrogarsi e darsi una spiegazione personale sulla propria
capacità di riconoscersi nel paradigma del dono, e della soddisfazione di viverlo come
criterio di riconoscimento del mondo, e capacità di ricambiare quanto ha avuto e
continua a ricevere in dono.
La crisi generata da una esperienza di morte può condurre finalmente ad includere il
paradigma del dono nell’orizzonte di senso della nostra vita, e conquistare una
differente qualità di vita.
Nel ‘900 l’antropologia ha approfondito gli studi sul dono, inteso come strumento di
conoscenza del mondo e di relazione sociale. Eccone una “definizione ristretta”:
OGNI PRESTAZIONE DI BENI E SERVIZI EFFETTUATA SENZA
GARANZIA DI RESTITUZIONE, AL FINE DI CREARE, ALIMENTARE,
RICREARE IL LEGAME SOCIALE TRA LE PERSONE. (Godbout e Caillé)
Se cerchiamo sui dizionari, troviamo che il dono viene definito come:
9. Quanto viene dato per pura liberalità, per concessione
disinteressata o abnegazione.
10. Prodotto di cui l’uomo fruisce.
11. Dote spirituale.
12. Privilegio, prerogativa.
13. Abbuono concesso a chi pagava in anticipo le imposte.
Perdono invece, sul Devoto Oli viene definito “atto di umanità e generosità che
induce all’annullamento di qualsiasi desiderio di vendetta, di rivalsa, di
punizione”.
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Godbout e Caillé dicono che nel dono così caratterizzato il fatto fondamentale è che
il legame è più importante del “bene” (ovvero dell’oggetto).
Nel caso della morte il “bene”, l’oggetto del dono, ha lasciato il suo aspetto di materia,
ma il legame è rimasto, e nella sua pienezza, interezza. Basta volerlo riconoscere.
Quindi non va perso il dono (il donarsi) reciproco la vita. Anzi trattandosi di qualcosa di
immateriale e di profondamente personale si ha la certezza di poterne godere senza
limiti di tempo o di altro, per sempre.
Un modo concreto di godere di quanto ricevuto è ricambiarlo donandolo, donandosi, ad
altri che sono nel pieno della sofferenza per il proprio cordoglio, e dialogare con altri
che per la loro storia, o per le caratteristiche del loro lavoro sono alla ricerca del
senso della vita e della morte.
Non vi è dubbio, continuano Godbout e Caillé, che il dono non funzionerebbe, non
sarebbe l’operatore privilegiato di socialità che è, se non fosse nello stesso tempo
paradossalmente obbligato e libero, interessato e disinteressato.
Difficile entrare nel dettaglio della spiegazione di queste affermazioni, può aiutare un
loro stesso commento: “l’opposizione
maggiore tra l’obbligo e la spontaneità
certo non è altro che quella tra la vita e la morte”.
Conforta l’affermazione di Bruno Forte “la vittoria sulla morte, sia pure
effimera, si celebra quando si esiste per amare, per stabilire circoli di
pace”
Ma anche la riflessione di Sogyal Rinpoche: “possiamo trasformare ogni momento
in una occasione per cambiare e prepararci, con sincerità, accuratezza e
pace mentale, alla morte e all’eternità”.
IL CORDOGLIO ANTICIPATORIO
E’ più corretto parlare di cordoglio anticipatorio (c. a.) e non di lutto anticipatorio per
la differenza di significato effettivo che esiste tra i due termini: il lutto si riferisce
come già scritto più esattamente alle manifestazioni esterne del dolore per una
morte, per una perdita. Il cordoglio si riferisce alla sofferenza intima, interiore,
legata alla crisi personale per la perdita, con relative incertezze e insicurezze, alla
depressione per la perdita della bellezza…
Per questo quando una persona, una famiglia sperimenta la sofferenza legata ad una
perdita non ancora avvenuta, ma presentificata come aspetto emozionale e
convincimento intimo, si parla di cordoglio e non di lutto perché le manifestazioni
esteriori non sono di norma evidenti, esplicite: per esempio non si portano fiori in
cimitero per una persona che non è ancora morta…
Altro esempio, che può stimolare comportamenti differenti dagli usuali, è lo scrivere:
un buon numero di persone decide di scrivere ai propri cari quando sono morti, ma
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pochi hanno l’accortezza di scrivere in vita, almeno brevi missive, scritte solo per
raccontare il proprio affetto, ai propri cari anche se conviventi.
Quando parliamo di cordoglio anticipatorio ci riferiamo certo ad una serie di
manifestazioni/esternazioni/comportamenti, per esempio i figli vanno a trovare molto
più spesso il genitore che si immagina giunto all’ultima fase di crescita della vita, senza
spiegarne il motivo; ma accade anche l’esatto contrario di questo comportamento,
ovvero che i figli, soprattutto se maschi si allontanino!.
Ma soprattutto ci si riferisce a sentimenti ed emozioni, che nascono dalla
attualizzazione nel presente di un evento che non si è ancora verificato, ma che si
ritiene – spesso a ragione ma a volte anche a torto- certo e più o meno imminente.
Si tratta evidentemente di un evento che possiamo credere destinato a incidere in
maniera negativa sulla vita delle persone.
Quanto negativamente, e in che modo, in quali aree di salute vitale, e per quanto
tempo non è possibile predire, in ragione della molteplicità delle influenze interne ed
esterne che entrano in gioco nella sua evoluzione.
Il c. a. nei vissuti personali non prevede a priori differenze fondamentali con il
cordoglio che si presenta dopo la morte o la perdita, né come sofferenza, ne come
tipologia di pensieri che premono la persona. La differenza può essere individuata
nella durata, in quanto:
• può estinguersi in caso di risoluzione felice del problema, per esempio una
diagnosi di tumore che si dimostra errata, o comunque seguita da una guarigione
certa e stabile. Ma pensiamo anche ad un esempio di donna che per lungo tempo
si ritiene sterile, e poi partorisce felicemente,; o che teme di doversi
sottoporre ad un intervento chirurgico lesivo della femminilità, ma che poi trova
una soluzione extrachirurgica del problema…
• In alternativa il c. a. potrebbe protrarsi a tempo indefinito, per l’attesa di un
evento che in realtà si allontana sempre nel tempo, come per esempio per la
previsione della morte di un genitore per Alzheimer, o per il temuto distacco
dei figli dalla casa genitoriale.
Infine, dopo il verificarsi dell’evento temuto può continuare senza soluzione
temporale.
Il cordoglio anticipatorio può nascere anche dalla previsione/anticipazione della
propria morte. Certo la morte fisica, per la quale, in specie se si presenta oltre una
certa età, esso è intuibile, comprensibile, si potrebbe quasi dire scontato, se non
proprio doveroso.
Ma può presentarsi, magari come caratteristica “patologica”, rivelatrice forse di una
presenza di depressione, anche in età insospettabili. Può giocare un ruolo nelle istanze
autosoppressive, in particolare dei giovani quando prendono coscienza della mortalità e
della fallibilità, ovvero della impossibilità di realizzazione di tutti i sogni coltivati da
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adolescenti. Identica domanda vale per le altre età, quando una compromissione nelle
aree di salute vitale mette drammaticamente a rischio le stesse fondamenta della vita
biologica.
Ma non esiste solo il timore della morte biologica. Come per i giovani la nostra mappa
di definizione della vita contempla normalmente come fondanti anche contenuti di
realizzazione personale (è vita vera se riesco a realizzare alcune cose di me, o
comunque nel mondo) e di significato per gli altri (la mia vita ha significato in quanto
sono importante per gli altri, per almeno un’altra persona), ovvero ha un significato
relazionale. Per questo quando nella vita si verificano eventi che vanno a negare
inesorabilmente questi fondamenti vitali del nostro esistere il vissuto può essere un c.
a. per il nostro prematuro allontanamento dal teatro del mondo non in senso biologico,
ma, nel senso del significato.
Queste considerazioni a prima vista inducono malinconia, perché ci riportano alla
nostra condizione di limitazione, di finitezza. In verità possono trasformarsi in
positività, per dirlo con Maria –Clotilde Gislon, in “Vivere e morire” (Zapparoli e Adler
Segre): “Sempre difficile e dolorosa, tale consapevolezza provoca molte diverse
reazioni (….) anche positive, che contengono un potenziale di crescita. Ciò avviene
quando il processo di “personalizzazione” della morte e dei limiti della vita si
costituisce come un organizzatore (nel senso di Spitz) indice di un nuovo livello di
organizzazione e di funzionamento psicologico”.
GLI OPERATORI FRONTEGGIANO LA MORTE E IL LUTTO (E ALTRE PERDITE…)
NEGLI AMBITI LAVORATIVI SPECIFICI
In una condizione lavorativa normale gli operatori della salute incontrano ogni giorno
persone che devono confrontarsi con l’elaborazione di lutti, e/o perdite. E tutti
comunque hanno a che fare, inevitabilmente, con la rete sanitaria formale e informale
e i suoi membri, e quindi con il loro modo singolare, individuale di approcciare le
persone e i loro problemi, e in definitiva con il loro paradigma di pensiero, per solito
molto diverso da un approccio che riesca ad utilizzare il paradigma del dono. In
particolare ci si relaziona con un pensiero che nei confronti di perdite e lutti è
evitante, poco accogliente e in definitiva si rivela di modesta efficacia.
Ricordo alcuni aspetti del comportamento dell’operatore generalmente noti e discussi,
ma che comunque interferiscono (vissuto di infallibilità, di onnipotenza, di assunzione
di responsabilità oltre ogni limite, o in alternativa di fallimento,…) e che sono
all’origine del burn out.
Ricordo anche come per l’operatore sanitario sia centrale l’identità, attribuita ope
legis e/o conquistata sul campo, di persona di riferimento per i “pazienti-utenti”,
spesso assunta come modello, e oggetto di confronto e imitazione.
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Questo aspetto, normalmente negato o almeno negletto non dovrebbe influire sulle
responsabilità vere e sulla comunicazione agita sul lavoro, però…. La parola e la
gestione della relazione interpersonale sono determinanti per la trasmissione di
cultura. Per fare questo è indispensabile che l’operatore parli di se stesso e ascolti
l’altro per uno scambio umano prima che professionale, e che riconosca il valore
dell’esperienza e della narrazione altrui.
Per porre rimedio alle difficoltà appena accennate ci sono vari strumenti, su cui si
ragionerà, e per i quali è importante ora evidenziare come siano sempre basati sul
linguaggio e sulla condivisione di esperienze,
IL MUTUO AIUTO: UN APPROCCIO DI LAVORO BASATO SUL PARADIGMA DEL
DONO. DAL MUTUO AIUTO IN GENERALE ALLO SPECIFICO DEL LUTTO.
Nella situazione del gruppo di mutuo aiuto si realizza uno “scambio di doni” tra i
partecipanti. Sono il dono della fiducia e accoglienza reciproca, della propria
esperienza, della propria narrazione e della accoglienza della narrazione altrui.
Non si danno consigli, non si giudica, ma si rimanda la propria comprensione del “testo”
offerto. Accade così che ognuno è lettore NEL proprio testo, e gli altri come lettori
DEL testo offerto permettono una rilettura, sempre più incardinata nella
oggettivazione possibile, nella condivisione, nella ricerca delle possibili aperture ad un
cambiamento, ad un sguardo verso il futuro.
Nello specifico del lutto è uno strumento prezioso per la rarità con cui le persone del
proprio normale contesto di vita si prestano ad essere lettori DEL testo della
narrazione delle persone in lutto, e per liberarsi di vissuti abbandonici, per esempio.
Il gruppo è il luogo in cui finalmente può essere espressa la rabbia, il senso di colpa,
ma anche il ritorno della voglia di vivere, il pianto non viene interrotto, il sorriso non
viene giudicato.
L'appartenenza al gruppo permette di non abbandonarsi all'idea di una propria totale
definitiva impotenza, e riesce a far uscire di casa le persone,e con uno scopo, perché
si è e ci si sente importanti per gli altri membri del gruppo.
L'ACCOGLIENZA DELLA FAMIGLIA E IL PRIMO COLLOQUIO
Quando una persona cerca un contatto finalizzato ad affrontare il tema della propria
elaborazione di un lutto, o di una perdita, è più aderente al bisogno profondo delle
persone e alla modalità ideale di fronteggiamento parlare di accoglienza per indicare il
contatto iniziale con un operatore.
Questo vale anche quando la conoscenza tra loro è antecedente all’evento di perdita, o
il lutto /perdita si concretizza nel corso di una occasione di relazione in atto
(tipicamente, durante un ricovero ospedaliero o nel corso di una ospitalità in casa di
riposo). Infatti l’evento, in quanto caratterizzante una perdita importante per la
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persona, ne modifica in modo potente l’identità, e l’operatore deve accettare di essere
di fronte ad una persona nuova, MOLTO DIFFERENTE dalla persona già conosciuta, o
differente da quella che potrebbe essere una propria aspettativa teorica, costruita
nella mente dell’operatore in base alle proprie aspettative.
Sempre, ma in particolare quando la relazione nasce ed motivata da altri motivi, il
bisogno reale può essere taciuto, o sepolto dietro il velo di una domanda
“politicamente corretta”.
Solo la sensazione sicura di essere accolta permette alla persona di aprirsi quanto
basta a dichiarare o a far trapelare il vero bisogno. Che del resto può rimanere
inconsapevole per lo stesso interessato. E il colloquio non può trascurare i bisogni
emozionali e spirituali specifici di una persona con una perdita che richieda il “lasciar
andare”.
COLLOQUI DI ACCOMPAGNAMENTO, COLLOQUI DI INSERIMENTO IN GRUPPO.
LA VITA DEL/NEL GRUPPO E L'USCITA COME CONCLUSIONE DELL'ESPERIENZA
L’accoglienza con il primo colloquio rare volte esaurisce il bisogno delle persone. Più
spesso, anche per dare modo all’inserimento nel gruppo di essere agito in modo
corretto, si rende opportuno un secondo colloquio, o una piccola serie di colloqui.
Altre volte l’inserimento in gruppo non è opportuno, o non rientra nelle esperienze che
le persone si sentono di affrontare, ed allora si offre un accompagnamento tramite
colloqui individuali, che sono comunque nel segno del mutuo aiuto, cercando di
promuovere l’empowerment del nucleo famigliare, e in ogni caso con una ottica di tipo
sistemico, per poter realizzare il miglior reinserimento possibile nella propria
comunità di appartenenza.
La vita nel gruppo prevede ingresso ed uscita senza vincoli temporali, nemmeno come
durata della permanenza. Nel periodo iniziale l’interesse è centrato sulla narrazione di
quanto attiene al caro defunto, e a comprendere le storie dei singoli e le dinamiche del
gruppo. Mano a mano la rigidità e la scarsa capacità di iniziativa lasciano il posto ad
crescente interesse concreto per i vivi, e alla ricerca di un nuovo equilibrio, che tenga
conto delle nuove identità di tutto il sistema famigliare e di riferimento, dei nuovi
bisogni. La narrazione si non si concentra solo sul passato, ma inizia a proiettarsi verso
un futuro possibile, ad essere strettamente connessa con il presente che si vive
davvero.
Quando la trama della vicinanza si è ricostituita e si aperta almeno una finestra sul
futuro le persone cominciano a interrogarsi sulla necessità di scegliere se proseguire
l’esperienza del gruppo o coinvolgersi nelle suggestioni provenienti da una vita che ha
ripreso a scorrere, non più congelata.
Non è solo una questione di tempo (si trovano le due ore per continuare a partecipare
al gruppo, senza rinunciare alle altre attività) ma di scelte di vita. Giunte a questo
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punto di riflessione le persone possono staccarsi dal gruppo, “lasciar andare” questa
esperienza.
Ma proprio come accade per il lasciar andare i cari defunti, non si interrompe il
legame spirituale, amicale, e in varie occasioni le persone partecipano ad attività
ricreative, formative, e di altro vario genere, organizzate dall’associazione, non solo
dal progetto di “Rimanere insieme”.
L’uscita dal gruppo segue un percorso individuale, non esiste un modo unico, e a volte
semplicemente le persone diradano la frequenza fino a diluirla all’infinito, mantenendo
una propria difficoltà nel lasciar andare.
LA SENSIBILIZZAZIONE E LA FORMAZIONE. I RAPPORTI NELLA COMUNITA'
LOCALE
Le persone decidono di affidarsi ad un percorso di “cura” esterno alla propria
comunità con difficoltà, a volte con diffidenza, e la maggior parte compie questa
scelta per necessità, perché sperimenta l’impossibilità di risolvere nella propria
comunità i problemi che pesano sulla qualità di vita e di salute.
Se l’affidamento produce un risultato positivo ma nel frattempo non ci sono stati
cambiamenti significativi nella comunità le persone devono scegliere tra:
rimanere ancorati al luogo esterno, dopo il periodo di tempo più o meno
opportunamente trascorso in condizioni di liminalità rispetto alla comunità, rinunciando
al rientro in essa e quindi ponendosi in una condizione di forte rischio di alienazione:
vivere in un ambiente che ha un differente paradigma di pensiero estraniandosene
quanto più possibile (migrazione psicologica)
distaccarsi finalmente dal luogo esterno e tentare di ri-prendere il ruolo in seno alla
comunità, in condizioni di isolamento ambientale di tipo psicologico e di privazione del
riferimento umano e di pensiero vissuto emozionalmente e razionalmente come
“nutriente” e rispondente a bisogni primari.
È chiaro che nessuna delle due condizioni è l’ottimale, e per questo appena possibile
occorre sensibilizzare la comunità locale perché possa crescere con un cambiamento
consensuale all’emersione dei bisogni e alla coscienza di essi che le persone vanno
assumendo. Per accompagnare poi la comunità in percorsi formativi che sviluppino le
competenze utili a fronteggiare i problemi direttamente con i nodi della rete locale.
Un progetto di azione nasce come fronteggiamento di un bisogno specifico.
Bisogno che si modifica, per il fatto stesso di essere stato raccolto, a prescindere dal
buon esito dell’intervento messo in opera, forse più velocemente di quanto comunque
farebbe spontaneamente, visto l’equilibrio dinamico del vivere umano.