La scena si svolge a Corinto, dove Medea, suo marito Giasone ed i loro due figli vivono tranquillamente. La donna ha aiutato il marito nell'impresa del Vello d'oro, abbandonando così il proprio padre, Eeta. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Malgrado la disperazione della donna, vista l'indifferenza di Giasone, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, morendo. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli avuti con lui condannandolo all'infelicita' perpetua. Gli studiosi concordano nel negare all'opera una derivazione dall'omonima tragedia di Neofrone, riconoscendo ad Euripide tutto il merito delle parti innovative del personaggio, che trova le sue origini nelle argonautiche scritte da Apollonio Rodio, dove viene raccontata l'epopea del Vello d'oro. L'opera ha molte sfaccettature e svariate interpretazioni, ma di sicuro è l'affermazione della dignità della donna, concetto che stava prendendo forma nell'Atene dell'epoca. Medea è vittima della "paura dell'estraneo", straniera in terra straniera viene vista come un pericolo e, per vendetta, alla fine lo diventa. La tragedia ha una spiccata presenza umana, lasciando da parte gli dèi, i quali sembrano rimanere muti alle tragiche vicende che vedono svolgersi. Giasone infatti a loro si rivolge, accusandoli di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli, ma non riceve risposta. Per la prima volta nel teatro greco (almeno quello che è arrivato sino a noi) protagonista è la passione di una donna, una passione violenta e feroce che rende Medea una donna debole e forte allo stesso tempo. Forte perché è padrona della sua vita e non si piega davanti a nessuno, ma anche debole perché questo l'ha resa sola, e dietro di sé ha distrutto tutto quello che rappresentava il suo passato. Medea ha un fortissimo orgoglio, che le impedisce di chiedere aiuto o di sottomettersi, tanto da arrivare a superare il senso di maternità: preferisce vedere i suoi nemici morti piuttosto che i suoi figli vivi. S'è appena conclusa una battaglia. Duncan, re di Scozia, saputo che il generale Macbeth signore di Glamis, suo cugino, ha combattuto valorosamente, lo nomina signore di Cawdor. Prima però che i messi del re gli portino la notizia, mentre cavalca insieme con Banquo, valoroso generale, s'imbatte in tre streghe che lo salutano come signore di Glamis, signore di Cawdor, e futuro re; ma nello stesso tempo salutano Banquo come genitore di re. Macbeth rimane molto sorpreso, ma quando poco dopo i messi del re gli confermano la sua nuova signoria, comincia a credere alla profezia delle tre streghe. Scrive alla moglie, Lady Macbeth, una lettera per informarla dettagliatamente di tutto, mentre la sua ambizione cresce a dismisura, e, con la moglie, prepara un piano per uccidere il re. Duncan viene ucciso e Macbeth ne prende il posto. Poco poco Macbeth farà uccidere Banquo, mentre suo figlio Flenace riesce a scappare. Poi toccherà alla moglie e ai figli di Macduff. Durante un banchetto lo spettro di Banquo tormenta Macbeth, ma la moglie riesce in qualche modo a giustificare agli occhi degli invitati il comportamento del re. Intanto Macduff si rifugia in Inghilterra e insieme con Malcom figlio di Duncan organizza la ribellione. Macbeth si reca dalle streghe per sapere qualcosa di più sul suo regno, e gli viene detto che nessun uomo nato da donna potrà ucciderlo, e che rimarrà al trono finché la foresta di Birnam non si muoverà verso la collina di Dunsinane. Macbeth, convinto di essere invincibile, affronta i ribelli. Ma questi, coperti ciascuno da un ramo d'albero del bosco di Birnam si avvicinano verso Dunsinane. Inoltre Macduff, prima del duello finale, dice a Macbeth di essere nato da un parto prematura con taglio cesareo. E' la fine: Macduff decapita Macbeth, e come da copione delle streghe, il trono spetta alla discendenza di Banquo. Due brani in cui le protagoniste rimuginano tra sé e sé e, trascinate dalla passione, manifestano i propositi di malvagità. Due donne, due passioni diverse (ambizione per lady Macbeth e orgoglio per Medea), ma un unico pensiero: quello di tramare e uccidere. Passione e malvagità seguono però un andamento che potrebbe definirsi “opposto” nelle protagoniste delle due tragedie. Medea costituisce uno dei personaggi più celebri del mondo classico, per forza drammatica, complessità e espressività. Tutte le altre figure si muovono attorno a lei, che domina la scena. Se, di solito, la tragedia classica presenta due personaggi in conflitto, ciascuno portatore di un ben preciso ordine di vedute, Medea contiene, dentro di sé, quasi due figure contrastanti: una vorrebbe uccidere i figli, l’altra li vorrebbe risparmiare. La sua è una mente scissa, conflittuale, quasi che Euripide conoscesse la moderna psicologia. Medea mostra lo smisurato orgoglio di una donna che teme più d’ogni altra cosa l’essere oggetto di riso, lei che è figlia di padre illustre e discendente del Sole. Ed è dall’orgoglio che si scatena il desiderio di vendetta e di rendere luttuose le future nozze del marito con la figlia di Creonte. Lady Macbeth è il personaggio psicologicamente più sfaccettato: è inconsciamente malvagia, ma al tempo stesso è fragile e compassionevole. È lei a spingere Macbeth, di per sé ignaro, verso la serie di efferati delitti che lo portano al trono. Lady Macbeth teme per la natura “tenera” del consorte , ambizioso ma senza abbastanza perfidia per ottenere ciò che desidera. Dal discorso traspare una smodata ambizione. I protagonisti sono certamente prede della più cupa follia, ma appunto per ciò, prigionieri al contempo della loro intrinseca imperfezione di esseri umani, per natura incapaci di combattere contro se stessi e di prevalere sulla furente passione che li ha resi o conservati - inumani. “…domani,domani,domani, così da un giorno all’altro ogni domani arriva all’ultima sillaba del tempo che si ricorda ancora, e tutti i nostri ieri hanno rischiarato a dei pazzi la via che li conduce alla polvere della morte. Spegniti, spegniti, piccola candela! La vita non è che un’ombra che cammina: un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo per un’ora, e poi non se ne parla più; la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, che non significa nulla.” (Macbeth) E so il male che sto per fare, ma la passione in me è più forte della ragione: e la passione è la causa delle peggiori sciagure del mondo…Anche se li ucciderai tu li hai amati, che donna infelice che sono” (Medea) “Io per trovare sprone all’azione non ho altro sprone che saltare in sella all’ambizione, la quale il più delle volte fa salti troppo lunghi e casca addosso al suo cavaliere” (Macbeth)