Nella terra dei Tuareg - Viaggi Avventure nel Mondo

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AVVENTURE NEL MONDO • AVVENTURE NEL MONDO
Approvvigionamento dell’acqua nel villaggio di Indeleg
Nella
dei
terra
Tuareg
Viaggio Hoggar Breve, gr. Balostro
attraverso i fiumi fossili del deserto sahariano
Testo e foto di Tonino Piccone
Tamanrasset - Assekrem (5 aprile)
Dopo un viaggio che sembrava non dovesse finire
mai, nel buio della notte appare una distesa di luci
gialle che disegnano la città, bellissima a vedersi,
come tutte le città che, viste dall’alto, di notte assumono un fascino tutto particolare. Così ci si presenta Tamanrasset alle quattro del mattino, prima dell’atterraggio. Qualche ora di sonno e caricate le Land
Cruiser, partiamo con le guide seguendo la pista verso il massiccio dell’Hoggar.
Appena fuori Tamanrasset, la pianura è sconfinata,
punteggiata da rade spinosissime acacie e da qualche basso cespuglio. Poi il paesaggio di sabbia
scompare, lasciando posto ad un ambiente vulcanico costituito da straordinari svettanti picchi basaltici, da rocce gigantesche e da pinnacoli, residui di una
millenaria azione erosiva. Sul ciglio della pista incrociamo un tuareg con una piccola carovana di dromedari, a ricordarci che il deserto è una terra dove
il tempo non ha cambiato i millenari commerci. Ci
fermiamo a fotografarli.
Dalla pista facciamo una deviazione per una sosta
alla guelta di Afilal, una pozza d’acqua alimentata da
piogge o sorgenti sotterranee incastonato tra sabbia e una bastionata rocciosa. Non troppo distante,
da alcune vasche di roccia scende un rivolo d’acqua,
frequentate da uccelli migratori e da dromedari all’abbeverata, come testimoniano le numerose tracce che denunciano la loro presenza.
Il viaggio continua in un paesaggio sempre più aspro,
con grandiosi panorami delle montagne circostanti.
Sostiamo sotto le gigantesche formazioni colonnari
delle pareti del Tèzuyeğ, simili alle canne di un immenso organo, per poi proseguire in un desolato
paesaggio lunare. La pista ora sale ripida e sconnessa, con larghi tornanti, in un grandioso anfiteatro di pietre laviche bruciate dal sole.
Raggiungiamo il Col de l’Assekrem (2585 m), con l’omonimo rifugio costituito da tre costruzioni. Da questo punto si domina anche il versante opposto, che
presenta una miriade di rilievi che si perdono nell’infinito. Il rifugio, con alcune camerate, un salone
e una cucina, è accogliente ma spartano.
Bambine tuareg
Algeria
Bambine tuareg
Dal rifugio, saliamo lungo il bel sentiero che zigzaga sul versante della montagna, passando accanto
ad alcune piccole costruzioni mimetizzate tra le rocce che ospitano degli eremiti, e in 20 minuti raggiungiamo la sommità dell’Assekrem (2780 m), un
vasto pietroso pianoro su cui si erge, solitaria, una
casupola in pietra, con all’interno un piccolo altare.
Vi sono conservati libri, manoscritti, fotografie e altri ricordi: è l’eremo di padre Charles de Foucauld
(1858-1916), un ricco aristocratico di Strasburgo che
scelse la vita religiosa e nei primi anni del Novecento si ritirò a vivere su questa montagna.
Spettacolare, visto da qui, è il tramonto del sole verso il Tahat (2918 m), la montagna più alta dell’Algeria, e unico è lo spettacolo offerto dalle “canne d’organo”, i pinnacoli di roccia che in questo momento
della giornata si vestono d’arancio fuoco.
Accanto all’eremo, su una piastra semicircolare sono segnate le montagne dell’Hoggar, una regione
montuosa, che con le sue piramidi di basalto è una
mèta di grande interesse per turisti, alpinisti e studiosi.
Al rifugio per la cena, ci sistemiamo sui tappeti, tavoli e sedie sono ancora da venire, ci fanno compagnia un gruppo di spagnoli che incroceremo più volte nei giorni seguenti nel deserto, quindi apprezzeremo la chorba, una gustosa minestra con brodo di
carne, seguito da couscous: semola cotta al vapore.
Condito con carne e verdure, che è il piatto caratteristico dei paesi del Maghreb.
Per la notte ci attende un camerone con materassini disposti, uno dopo l’altro, a seguire il perimetro
dello stanzone.
Assekrem - Tamanrasset - Tamekrest (6 aprile)
Dal rifugio, prima dell’alba saliremo con le lampade
frontali, ancora un’ultima volta all’eremo per contemplare lo spettacolo del sorgere del sole attraverso lo scuro profilo di una distesa di cime che si
Il letto del fiume fossile di Tamekrest
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Algeria
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profilano lontane sull’orizzonte.
Vivide luci si disegnano nell’aria, poi il sole nasce accanto ai Tèzuyeğ, i due vulcani gemelli, irradiando il
labirinto di cime color ruggine.
Torniamo a Tamanrasset per la tormentata pista da
cui siamo saliti, ma poco prima di giungervi un
pneumatico si arrende alla pietraia e il nostro
driver prontamente lo sostituisce.
Alle 16, fatto scorta di carburante, d’acqua
e di viveri per una settimana, puntiamo
verso sud, in direzione del Tassili dell’Hoggar, un fantastico succedersi di sabbie e rocce modellate dal vento, verso il
confine con il Niger. Siamo ormai in aprile, come dire ai limiti della buona stagione per addentrarsi in questo angolo di
mondo.
E’ difficile raccontare un viaggio nel deserto senza rischiare di perdersi nei soliti luoghi comuni come il cielo stellato,
le dune, i tramonti; il deserto va vissuto
più che raccontato.
Alle 17,30 arriviamo nella zona di Tamekrest, dove ci accampiamo ai bordi dell’ampio letto di un fiume fossile, formazione creata dalle acque che, insieme ad
una vegetazione rigogliosa, alcuni millenni
fa abbondavano in queste zone. Il fondo, di
ghiaia e sabbia, ampio e pianeggiante, di questi
antichi fiumi è quasi sempre attraversato dalle piste
degli itinerari sahariani.
Tamekrest - Tin Tarabine - Youf Ahakit (7 aprile)
Dopo aver disfatto le tende, ci raggiunge un pastorello che conduce le capre al pascolo in quest’assurdo arido territorio. Ci dirigiamo verso quella che
i Tuareg chiamano la “cascata”; in realtà è un rivolo
d’acqua che scivola pigramente sulla roccia arrotondata dal tempo, ma per i nomadi è una ricchezza
straordinaria in questa zona desertica.
Riprendiamo il viaggio lungo il corso secco del wadi
Fotes arriviamo a Indeleg, un villaggio Tuareg: due
agglomerati poco distanti fra loro, in prossimità delle quali vi è il pozzo In Teak, dove i nostri driver si riforniscono d’acqua riempiendo la ghirba, l’otre realizzato impiegando un’intera pelle di capra, nel quale l’acqua resta a lungo fresca.
Il villaggio è formato da alcune semplici costruzioni
in muratura, alla cui costruzione ha contribuito lo
Stato allo scopo di rendere stanziali i nomadi Tuareg, e da una dozzina di capanne fatte con canne e
rami di palma e coperte da pelli di capra, abitate da
nomadi che si spostano alla ricerca di zone che offrano il pascolo a capre e dromedari.
Nel villaggio sono infatti presenti solo donne e bambine, perché gli uomini e i ragazzi sono al pascolo
con le capre, da cui traggono il loro principale mezzo di sostentamento.
Proseguiamo sostando lungo il percorso per aiutare i driver a raccogliere la legna con cui essi preparano i loro pasti, con usanze e ritmi per noi occidentali dimenticati: con calma accendono il fuoco, mettono l’acqua a bollire e, a pranzo ultimato è la piccola caratteristica teiera smaltata a contendersi le
ultime braci per l’irrinunciabile tè.
Un’acacia attira la nostra attenzione per la splendida fioritura gialla ma anche per i grossi aculei che
la difendono.
Dopo la sosta pranzo, Aziz la nostra guida si appar24
ta poco distante e si dedica alla preghiera pomeridiana rivolgendosi verso La Mecca. Si riprende il
viaggio, il paesaggio si trasforma gradatamente: da
deserto roccioso, con arbusti e radi alberi di acacia,
diviene sabbioso e molto ampio. Continuiamo a se-
Dalle dune di Tagrera
l’immensità del deserto
guire l’esteso letto fossile che arriva sino al Mali, dove i nostri autisti danno libero sfogo sull’acceleratore raggiungendo i cento chilometri orari, affiancando, per darci modo di fotografarle, le velocissime
gazzelle dorcas del Sahara.
Sostiamo all’ombra di una grande roccia per ammirare il graffito che rappresenta il formichiere. Qui
inizia la magnifica vallata del Tin Tarabine.
Sono le diciotto e il sole sta tramontando, mentre
raggiungiamo le singolari formazioni rocciose che si
elevano dalle sabbie.
Faremo campo qui a Youf Ahakit, un luogo che tra
dune e rocce forate dal vento esercita un certo fascino, con la complicità della luna piena.
Youf Ahakit - Tilenfasa - Tersi - Tahaggart (8 aprile)
Una splendida alba esalta le rocce nere che emergono dalle sabbie. Rade piante, per la maggior parte d’acacia, rompono l’uniformità del terreno.
Attirano la nostra curiosità alcuni solitari uccellini bianchi e
neri e degli alberelli carichi di torà, detti in tamasheq (la lingua dei
Tuareg), sono frutti
verdi simili a
grosse arance,
che contengono
un lattice cicatrizzante.
Youf Ahakit è
un luogo ricco
di incisioni.
Alcune pareti
rocciose recano incise
giraffe, elefanti, rinoceronti, spirali e
simboli misteriosi che evocano un’antica civiltà di
cacciatori e pastori.
Sullo sfondo una sequenza di pinnacoli sembra delimitare il deserto. Questo è certamente uno dei luoghi più affascinanti del nostro viaggio, anche se il
caldo è tornato prepotente e la sete insopportabile, che non si riesce a mitigare con l’acqua
ormai troppo calda.
Nelle ore più soleggiate sostiamo a Tilenfasa, per poi dirigerci verso il plateau
di Tin Eggoleh e in seguito verso il più
lontano sito di Tahaggart, ricco di testimonianze preistoriche, con scure rocce
laviche erose in forme bizzarre che si
elevano come guglie verso il cielo.
Tahaggart - Ihatan
Plateau de Ash Beti-Tagrera (9 aprile)
Togliamo il campo e ci dirigiamo a Ihatan, dove nell’assolata piana si trovano
dei resti umani pietrificati. Accanto, sopra un masso, è consuetudine deporre
una piccola pietra come atto penitenziale e anche noi ci lasciamo affascinare da questo atto primitivo (primigenio)
lasciando tra le pietre, che quasi ricoprono la roccia, la nostra.
Attraversiamo il Plateau de Ash Beti, uno
sconfinato pianoro sabbioso di ottanta chilometri, andando spediti sui settanta, ottanta all’ora.
Nella pista poco evidente nel mare di sabbia, seguendo per orientarsi prima gli innumerevoli solchi
lasciati dalle ruote di chi ci ha preceduti, poi, più
avanti solo una teoria di bidoni che, a lato della pista, scandiscono a intervalli regolari le distanze.
Questo tavolato, che si fonde quasi col cielo, sgomenta per il silenzio e l’essenzialità e ci dà il senso
irreale del vuoto, dell’infinito, rammentandoci reminescenze scolastiche di leopardiana memoria.
Saliamo su una duna da cui ammiriamo le vastità
sabbiose di Tagrera, disseminate di pinnacoli e curiose conformazioni rocciose a cui ognuno può dare
con la propria fantasia una sua interpretazione (la
chambre, il fungo, l’anatroccolo, ecc.).
Si prepara
il pranzo
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Campo a Tagrera
Montiamo le tende su un ripiano sabbioso circondato da rocce: è molto bello e offre un’ampia veduta.
Al chiarore della luna, sotto il cielo coperto di stelle, ceniamo accovacciati attorno ad un telo steso sulla sabbia.
Poco distante una delle guide cuoce la taguela, un
pane senza lievito, nella sabbia calda sotto le braci,
mentre Aziz, seriosa e imperturbabile guida-autista,
suona con la chitarra alcune melanconiche nenie
tuareg, che ci consentono di non avvertire il senso
dell’isolamento in cui ci troviamo (la città più vicina
è a oltre trecento chilometri).
Alcuni preferiscono dormire sotto le stelle, sulla
sterminata distesa di sabbia. L’ambiente lo invoglierebbe, penso ai serpenti e a tutte quelle creature del
deserto che si risvegliano per la notte e quindi mi
rintano nella tenda, al sicuro nel mio sacco da bivacco.
Tagrera - Tin Akachaker - El Ghessour (10 aprile)
Mi sveglio alle prime luci dell’alba, affamato e lieto
di essere circondato da tutta quella sabbia morbida
e dorata. Mangio qualcosa, mentre sistemo le mie
cose nello zaino. I driver, ancora avvolti nelle coperte, sonnecchiano attorno al fuoco ridotto ad un mucchio di cenere, mentre da dietro le rocce l’alba si
preannuncia con i suoi effetti speciali.
Non sono entusiasta all’idea di dover lasciare questa altura sabbiosa ma tuttavia, poco dopo dello
spuntare del sole, siamo già in viaggio.
Dopo qualche ora ci fermiamo presso le ultime alte
dune di Tagrera e saliamo su una di esse per dare
un’occhiata al paesaggio: un mare di sabbia che si
perde verso l’orizzonte, sul quale le creste sinuose
creano giochi d’ombra e danno un senso d’infinita
profondità.
Tutto è talmente levigato, da sentirmi quasi in colpa
nel lasciare le mie impronte sulle dune lisce e sabAccampamento tuareg
nei pressi di Tamanrasset
biose intorno a me. Sul versante
di una duna batte il sole, mentre
l’altro è in ombra e sulla cresta mi
diverto a realizzare con la fotocamera
delle immagini geometriche. Cammino ricalcando le mie orme precedenti, avendo cura di lasciare intatto il manto sabbioso. Procediamo entrando nel Tin Akachaker.
Il sole è alto, e facciamo sosta per il pranzo al riparo, accanto ad alte rocce vulcaniche. Attorno, da alte dune emergono alcune caratteristiche rocce: un
ambiente che da solo meriterebbe il viaggio.
Ci arrampichiamo sulle dune del grandioso massiccio di Tin Akachaker, che s’insinuano tra le strette
gole rocciose, e
procedia-
mo in quota tra torrioni e affilate guglie, in un paesaggio suggestivo.
Ammirato il grande arco di roccia, ci dirigiamo più
a nord per accamparci per la notte sulle sabbie di
El Ghessour, a ridosso di un ammasso di massi nerastri.
El Ghessour - Ahggar Ahggar (11 aprile)
Smontiamo le tende e ripartiamo, affrontando la pista che si apre tra un dedalo di rocce, sostiamo sotto un imponente arco roccioso per ammirare alcuni
graffiti di giraffe, elefanti, bovini di una perduta savana incisi, da mano ignota, dall’artista preistorico.
Con l’alzarsi del sole, il caldo si è fatto davvero soffocante.
Poco dopo mezzogiorno sostiamo all’ombra di un
grande albero per consumare un pasto frugale; il pane approvvigionato a Tamanrasset è ormai diventato qualcosa di informe ma ancora commestibile a
questa latitudine.
Alle 15 ci fermiamo al villaggio tuareg di Thenekan.
Mentre i driver si approvvigionano d’acqua dal pozzo, dando vita ad una scena biblica, vaghiamo un po’
tra le capanne, che sembrano disabitate. Poche persone, quasi tutte donne accovacciate, paiono in attesa di chissà cosa. Un
anziano, seduto
da-
Algeria
Youf Ahakit
vanti
alla sua
capanna, è assorto nella lettura.
Siamo ormai sulla via
del ritorno a Tamanrasset e
non ci rimane che percorrere
la pista verso nord.
Qui è facile avvistare gazzelle e
piccoli roditori, poi la sabbia lascia
quasi completamente spazio alla
roccia. Più frequenti sono i cespugli e gli alberi di acacie e tamerici.
Nell’ultimo tratto la pista
si apre difficoltosa tra una immensa pietraia, prima
di raggiungere il wadi sabbioso dove montiamo le
tende ostacolati dal vento.
La notte scende rapida e fresca. Ci sistemiamo per
cenare al riparo di alcune acacie, mentre dall’ammasso di rocce alle nostre spalle appare la luna ad
ammorbidire il nero della notte.
Ahggar Ahggar - Tamanrasset (12 aprile)
La nostra ultima alba nel deserto è ancora lontana,
forse un’ora, quando scivolo fuori dalla tenda e m’infilo gli scarponi, dopo averli scossi accuratamente
per liberarli da eventuali scorpioni che nella notte
potrebbero esservi entrati.
Con la macchina fotografica, avanzo di qualche passo nel chiarore lunare, poi mi soffermo, affascinato
dal silenzio, ad osservare le stelle luminosissime
che si stagliano nel cielo blu, per attendere il sorgere del giorno. Lentamente sabbia e rocce emergono
dall’oscurità e mentre il cielo si illumina sempre più,
scatto alcune fotografie.
Dopo aver ripreso il viaggio con le Land Cruiser, seguiamo come sempre il letto sabbioso dei fiumi fossili. Poco dopo sostiamo ad un piccolo villaggio dove lasciamo alcune cose agli abitanti delle capanne
costruite con rami di palma: vivono con estrema indigenza, sono così poveri e isolati che mi piacerebbe poter fare qualcosa per loro, qualcosa che non
fosse un po’ di medicine o qualche soldo.
Dopo aver percorso ancora un bel po’ di chilometri
attraverso paesaggi desolati, mi sentivo ancora addosso gli occhi pieni di speranza e i volti di quei bambini distanti dal resto del mondo. Tamanrasset è ormai vicina e con essa la fine del nostro breve ma intenso viaggio nel deserto algerino.
Un viaggio intensamente desiderato per molto tempo, e per motivi diversi sempre rimandato, che ha
appagato appieno la mia voglia di percorrere ambienti estremi nel cuore del deserto sahariano, dove nonostante tutto sembri arido e sterile, pulsa invece prodigiosamente la vita animale e vegetale, anche se risponde a complessi adattamenti.
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