PARTE I LE FINALITÀ PUBBLICISTICHE DELLA PRIVATIZZAZIONE 9 10 Capitolo 1 L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLA PRIVATIZZAZIONE 1 – La lotta di liberazione del lavoro pubblico dal diritto amministrativo 11 La prima e la seconda privatizzazione1 del rapporto 1 Alla fine l’espressione privatizzazione sembra averla spuntata sull’espressione rivale “contrattualizzazione”, ed è ormai di uso così invalso da rendere persino superfluo l’uso della virgolettatura. Per un sintetico riepilogo dei termini dell’accesa diatriba linguistica cfr. CARINCI, Le fonti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Commentario, Milano, 2a edizione, tomo I, pp. LXXIII ss., il quale rileva come lo stesso D’ANTONA, dopo averla criticata, l’avesse infine fatta propria, nel battezzare come “seconda privatizzazione” la fase della riforma di cui è stato l’indiscusso padre. Sono state così superate più per effetto della prassi linguistica, le pur fondate critiche della dottrina amministrativista (per tutti, CASSESE, Il sofisma della privatizzazione del pubblico impiego, in Riv.it.dir.lav., 1993, I, 287 ss. secondo cui “denominare privatizzazione il fenomeno che si è fin qui analizzato comporta un abuso linguistico ed uno logico”. L’A. osserva che “le norme non dispongono una privatizzazione, ma piuttosto la sindacalizzazione del pubblico impiego”, e rileva l’erroneità del sofisma: “la privatizzazione comporta che non vi sia disciplina statale; il sindacato non è lo Stato; quindi la sindacalizzazione del pubblico impiego è la sua privatizzazione”. L’errore è nell’abuso del termine medio, perché il sindacato è destinatario di una disciplina che “va ben oltre il sostegno”, ed “il sindacalismo pubblico — così — è un sindacalismo «garantito dallo Stato»”); nonché della dottrina giuslavoristica [per tutti, RUSCIANO, Problemi sulla contrattualizzazione del lavoro pubblico, in DE MARTEN (a cura di), Il nuovo assetto del lavoro pubblico. Bilanci della prima tornata contrattuale, nodi problematici, prospettive, Quaderni ARAN/11, 1999, 217, che ritiene “fuorviante” il termine privatizzazione, perché sarebbe “un errore pensare” che i rapporti alle dipendenze da pubbliche amministrazioni “da «pubblici» siano diventati «privati»: in realtà essi rimangono pubblici, ma vi si applicano, per un verso le norme generali del diritto del lavoro, e, per altro verso, le norme della contrattazione collettiva, che è il tipico strumento di regolazione dei rapporti di lavoro. In questo senso è più corretto parlare di «contrattualizzazione»”]. Critico è anche GHEZZI, La legge delega per la riforma del pubblico impiego, in Riv.giur.lav., 1992, I, 573, ed ora in Studi in onore di Renato SCOGNAMIGLIO, IPZS, Roma, 1997, che osserva come il termine privatizzazione sia inesatto “perché pubblica resta pur sempre la natura giuridica dell’amministrazione, dell’apparato o dell’ente datore di lavoro interessato dalla riforma: a meno che la confusione tra i due termini non abbia uno scopo strumentale nei confronti di opera- 12 (già) di pubblico impiego hanno trasformato la materia del diritto del lavoro forse più di quanto non abbiano trasformato lo stesso rapporto di pubblico impiego. Il pubblico impiego (rectius: il lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni) è infatti entrato a far parte pleno iure del diritto del lavoro, il cui ambito è stato corrispondentemente esteso 2. La privatizzazione del rapporto di impiego pubblico è pertanto la manifestazione forse più eclatante della cd. “tendenza espansiva del diritto del lavoro” 3, in controtendenza rispetto alla “fuga dal diritto del lavoro” 4: fuga cui il legislatore del lavoro reagisce, per l’appunto, colonizzando nuovi territori (il pubblico impiego, e, da ultimo, le collaborazioni coordinate e continuative atipiche, non riconducibili ad un progetto) e dunque estendendo 2 Per un’accurata ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, dall’unificazione ad oggi, con particolare attenzione ai profili relativi alla giurisdizione, si veda BATTINI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, CEDAM, 2000. Con riferimento specifico alla ormai decennale storia della privatizzazione, F. CARINCI, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa. Prefazione in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di) Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario, Giuffrè, Torino, 2004, XLIII ss., L. ZOPPOLI, Dieci anni di riforma del lavoro pubblico (1993–2003), in Lav.pubbl.amm., 2003, 751; CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.: dall’illuminismo del progetto alla contaminazione della prassi, in Lav. pubbl.amm., 2001, 973 ss., nonché in AA.VV. (a cura di D’ANTONA, MATTEINI, TALAMO) Riforma del lavoro pubblico e riforma della pubblica amministrazione (1997–1998). I lavori preparatori ai decreti legislativi n. 396 del 1997, n. 80 del 1998, e n. 387 del 1998, Giuffrè, Milano, 2001, XIII, ss. 3 Cfr. CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. CI: “secondo una formula suggestiva, di larga presa, la riforma starebbe tutta in una tendenziale riconduzione nell’ambito del diritto comune dell’intero universo del lavoro subordinato”. 4 Cfr. anche ICHINO, La fuga dal diritto del lavoro, in Dem. e dir., 1990, 69 ss., e LISO, La fuga dal diritto del lavoro, in Ind. e sind., 1992, n. 28, 1 ss. 13 i confini del proprio impero, ma accentuando, in tal modo, quella “crisi di identità”5 che aveva provocato o, quantomeno, agevolato la fuga6. È noto, infatti, come per lungo tempo (un “secolo breve”7, ma pur sempre un secolo nella storia, anch’essa breve, del diritto del lavoro) il pubblico impiego fosse stato considerato estraneo alla materia del diritto del lavoro ed assoggettato al dominio pressoché esclusivo del diritto 5 Sull’instabilità dei quattro pilastri “dell’identità del diritto del lavoro che conosciamo” (lo Stato–nazione, la grande fabbrica, la piena occupazione, la rappresentanza generale del lavoro attraverso il sindacato) si veda D’ANTONA, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità?, in Riv.giur.lav., 1998, I, 311 ss., ora in Contrattazione, rappresentatività, conflitto. Scritti sul diritto sindacale, a cura di GHEZZI, Roma, 2000, pp. 273 ss. Sulle “non condivisibili affermazioni della dottrina sulla crisi di identità e la possibile dissoluzione del diritto del lavoro” cfr. però SCOGNAMIGLIO, Lavoro subordinato e diritto del lavoro alle soglie del 2000, in Arg.dir.lav., 1999, 2, 273 ss., sul punto 283 ss. 6 Cfr. PERSIANI, Brevi riflessioni sulla privatizzazione dell’impiego pubblico, in Arg.dir.lav., 3, 200, 621, il quale sembra condividere il timore “che al diritto del lavoro possa accadere quello che accadde all’impero austroungarico quando, ormai già in crisi, si determinò ad annettere la Bosnia–Erzegovina. Annessione che, com’è noto, fu la premessa dell’assassinio del Granduca Ferdinando e, quindi, della prima grande guerra mondiale che determinò, tra l’altro, la scomparsa di quell’impero”. 7 È l’espressione che dà titolo al primo paragrafo del saggio di D’ANTOpubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, già in Lav. pubbl. amm., 1998, n. 1, 42, ed ora in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Commentario, Giuffrè, Milano, 2000, p. XLIX. NA, Lavoro 14 amministrativo8, essendo state presto travolte le tesi dirette a ricostruire in termini unitari il “contratto di impiego pubblico e privato”9. 8 All’inizio del secolo, per la verità, non vi era affatto concordia di vedute circa la collocazione del rapporto di pubblico impiego nel diritto privato ovvero nel diritto pubblico. Cfr. in particolare BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901, p. 218: “Dottrina e giurisprudenza, specie quest’ultima, non sono concordi nel ritenere che qui vi sia un rapporto di diritto privato, un contratto di lavoro”. L’A. riteneva che il rapporto tra la pubblica amministrazione e l’impiegato rimanesse “fondamentalmente di diritto privato” e che non si potesse “disconoscere l’elemento contrattuale”, posto che “il decreto di nomina […] esprime la pura e semplice volontà della pubblica amministrazione. Ma da sé è inefficace: occorre il consenso anteriore o posteriore dell’impiegato” (così, pp. 220 ss. ed ivi ampi riferimenti alla dottrina ed alla giurisprudenza dell’epoca). Sul piano legislativo, l’art. 2 del R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825 (Disposizioni relative al contratto d’impiego privato), poi trasfuso nell’art. 2129 c.c., disponeva che le disposizioni del decreto stesso “si applicano anche agli impiegati di Enti morali, di Enti Parastatali e di Enti pubblici, salvo che il rapporto d’impiego non sia diversamente regolato per legge”, anche se, ai sensi dell’att. 18, comma 2, nulla era “innovato circa la competenza stabilita da altre leggi sulle controversie relative ai rapporti d’impiego di dipendenti da enti pubblici e parastatali”, cosicché, “la tendenziale sottoposizione dell’impiego pubblico e di quello privato ad una stessa disciplina non apparve nel 1924 incompatibile con la rispettiva diversa natura e che non destò scandalo l’ipotesi di un impiego pubblico regolato dal diritto privato” (così FRENI, Impiego pubblico e diritto comune del lavoro, in Dir.lav., 1978, I, 318, che parla al riguardo di “forza espansiva di questa disciplina tendenzialmente comune ai due settori”). Per il rilievo che “con il d.lgs. n. 29 del 1993, si ripristina e non si ribalta […] il significato originario […] della disposizione contenuta nel c.c. all’art. 2129 (significativamente intitolata «contratto di lavoro per i dipendenti degli enti pubblici» cfr. MARESCA, Le trasformazioni dei rapporto di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, in Atti del Convegno AIDLASS, dell’Aquila, 31 maggio–1° giugno 1996, Giuffrè, Milano 1997, 12. 9 COGLIOLO, Idee direttive per il contratto di impiego pubblico e privato, in Scritti vari di diritto privato, Giuffrè, 1917. PACINOTTI, Contributo alla determinazione della natura giuridica del rapporto intercedente tra lo Stato o tra un’altra pubblica amministrazione e gli impiegati suoi, Niccolai, 1899. 15 Ne fanno fede — anche visivamente — i manuali di diritto sindacale e di diritto del lavoro nelle edizioni meno recenti, e precedenti, per il diritto sindacale, l’anno 1983 (anno di entrata in vigore della l. n. 93, legge quadro sul pubblico impiego); e, per il diritto del rapporto di lavoro, gli anni 1992–1993 (anni di entrata in vigore della l. n. 421 del 1992 e del d.lgs. n. 29 del 1993). Invero, i manuali di diritto del lavoro si occupavano quasi sempre “in negativo” del rapporto di pubblico impiego, in sede, cioè, di individuazione dell’oggetto della materia del diritto del lavoro e di delimitazione dei suoi confini, e, dunque, essenzialmente per affermare l’incompetenza funzionale dei giuslavoristi, e la competenza dei cultori del diritto amministrativo 10. Ed anche nei suoi primi timidi approcci la “dottrina giuslavoristica […] priva di una seria 10 F. SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1977, p. 72: “ancora oggi può dirsi che al rapporto di lavoro pubblico, regolato diversamente dalla legge, e più precisamente da norme che si considerano tuttora appartenenti al diritto amministrativo, non trovano applicazione in concreto le norme costituenti il diritto del lavoro in senso tradizionale” (ma negli stessi termini testuali si veda, ad esempio, anche l’edizione del 1987: p. 80); GHERA, Diritto del lavoro, 1982, pp. 253–256 “è la sicura prevalenza del rapporto organico su quello di servizio che […] ha determinato la sistemazione del pubblico impiego nel diritto pubblico (e precisamente nel diritto amministrativo)”. SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, parte generale, Cacucci, Bari, 1972, osservava invece che “la circostanza che il lavoro sia prestato alle dipendenze dello Stato o degli altri enti pubblici, in quanto agiscono con potere di supremazia per il perseguimento di finalità di ordine generale, incide in larga misura sulla natura e disciplina del rapporto. Così da porre in dubbio addirittura la fondatezza, o comunque l’opportunità, di ogni tentativo di estendere a quest’altro obietto, e secondo una più vasta visuale della materia, il contenuto del diritto del lavoro” (p. 121). Un maggior rilievo il pubblico impiego ha sempre avuto nel manuale di CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, 2, Torino, 1985, III cap. “Il rapporto di pubblico impiego”, pp. 59–70, con descrizione dei “profili essenziali della disciplina”. 16 tradizione al riguardo […] si è sempre occupata del pubblico impiego con l’insicurezza di chi compie un indebito sconfinamento in zone riservate all’altrui competenza”11. Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza del lavoro si concentrò sopratutto sul rapporto di impiego alle dipendenze da enti pubblici economici, che si ritenne comunque assoggettato all’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art. 429, n. 3, c.p.c., pur dopo il venir meno dell’inquadramento sindacale degli enti in questione nelle disciolte organizzazioni sindacali di diritto pubblico 12. Quanto al rapporto di impiego alle dipendenze da pubbliche amministrazioni, non espressamente considerato nell’art. 39 Cost., si discusse in origine — in appendice al colossale e monomaniacale dibattito sull’attuazione della suddetta norma costituzionale — sull’opportunità di considerare nella futura legge sindacale anche il settore pubblico, con la previsione, ad esempio, di una registrazione dei sindacati dei pubblici dipendenti, sia pure con esclusione della “possibilità di contrattazione collettiva”; sull’opportunità di “delineare un procedimento di determinazione delle condizioni di impiego che faccia sempre capo alla legge, ma che abbia tuttavia come necessario presupposto la consultazione delle associazioni sindacali rappresentative”; 11 Così, RUSCIANO, Il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni: crisi del modello tradizionale e ipotesi di nuova regolamentazione, in Riv.giur.lav., 1974, I, 312 ss. 12 I termini del dibattito sono efficacemente riassunti da PERA, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, 1960, pp. 261 ss. 17 sulla “ammissibilità o no dello sciopero nel pubblico impiego”13. Si trattava, però, pur sempre di visite o incursioni in casa d’altri, nel quadro del “tradizionale disinteresse dei giuslaboristi per il pubblico impiego”14. Fu soprattutto a partire dal 1970, con l’art. 37 dello Statuto dei lavoratori, che “i cultori del diritto del lavoro possono trarre una sorta di legittimazione diretta, da parte del legislatore, ad occuparsi dei rapporti di pubblico impiego”, ed a teorizzare, sul piano metodologico, una “prospettiva giuslavoristica del pubblico impiego”15. Sono di quegli 13 Si veda per tutti ancora PERA, Problemi costituzionali…, cit., pp. 257 ss., cui si riferiscono le frasi virgolettate. 14 Così CARINCI, Alle origini di una storica divisione: impiego pubblico–impiego privato, in Riv.trim.dir.civ., 1974, 1098 ss. (citazione in nota 12, p. 1102). 15 Così, RUSCIANO, Pubblico impiego e diritto del lavoro, Napoli, 1974 (p. 16), il quale osservava che “è un dato di comune esperienza il manifestarsi sempre più accentuato nel pubblico impiego di talune rivendicazioni sindacali, notevolmente articolate, che differenziandosi da quelle assai frequenti di natura tipicamente corporativa, sono volte ad incidere non solamente sui livelli retributivi ma altresì su quegli aspetti dell’organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni che, resistendo all’erosione del tempo, hanno la duplice negativa funzione di essere contrari all’interesse dei dipendenti senza giovare all’efficienza dell’apparato burocratico. Questo dato di comune esperienza, ben lungi dal poter essere trascurato, si ritiene stia a dimostrare che è in atto un processo, probabilmente irreversibile, di rivalutazione del profilo tipicamente lavoristico del rapporto di pubblico impiego e pertanto impone, sia al legislatore che all’interprete, di operare scelte globali che siano aderenti a questa nuova realtà ”. Ma cfr. già ROMAGNOLI, Commento all’art. 37 dello statuto dei lavoratori in GHEZZI, MANCINI, MONTUSCHI, ROMAGNOLI, Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972, pp 559 ss., nonché in Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 1329. 18 anni le prime monografie a carattere generale16 ed i primi saggi, specie di diritto sindacale, da parte di giuslavoristi17 . È di quegli anni il primo convegno dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale18, sui temi del pubblico impiego, anche se soprattutto con riferimento a specifiche questioni, quale quella relativa alla “condotta antisindacale nel pubblico impiego”19. Ed è pro- 16 GHERA, Il pubblico impiego, Bari, 1975, e già in precedenza, Rapporto di lavoro e pubblico impiego nella organizzazione degli enti pubblici, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, vol. V, Napoli, 1972, pp. 381 ss., in una prospettiva che non sembra mettere in discussione la competenza del diritto amministrativo a regolare il rapporto di pubblico impiego, stante la particolare natura della subordinazione del pubbico dipendente, “qualificata dalla connessione del rapporto di servizio con la struttura degli uffici nei quali si articola l’organizzazione degli apparati amministrativi”, ciò che dimostra “come la subordinazione del pubblico dipendente non sia debitoria bensì organizzatoria” (sul punto, 17 ss.). “Differente nel pubblico impiego, più che la collaborazione, è in realtà il modo ed il fine della stessa, qualificata dall’inserzione del lavoro nell’organizzazione del lavoro dell’amministrazione. Tale inserzione, e quindi il collegamento funzionale tra la prestazione lavorativa e l’interesse della pubblica amministrazione al cui servizio è resa, si realizza secondo lo schema normativo rigido della c.d. supremazia speciale, laddove nel rapporto di lavoro interprivato […] un simile collegamento si realizza mediante lo schema normativo flessibile della subordinazione” (così, p. 14). 17 Ad esempio, TREU, Struttura contrattuale e politiche rivendicative nel pubblico impiego, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1973, 1112 ss. FERRARO, Autonomia collettiva e pubblico impiego, in Riv.giur.lav., 1973, I, 573 ss., e Statuto dei lavoratori e pubblico impiego, Napoli, 1979. 18 Si vedano gli Atti delle Giornate di studio di Siena del 9–10 ottobre 1972, sul tema Statuto dei lavoratori ed enti pubblici, Milano, 1974. 19 Cfr. Atti delle Giornate di studio, su Condotta antisindacale e pubblico impiego, Napoli, 1973. 19 prio a tale questione che i manuali di diritto sindacale iniziano a dedicare qualche timida pagina 20. Il sindacato sembra giocare in quegli anni (come ai nostri giorni) un ruolo fondamentale nella partita per l’annessione del rapporto di pubblico impiego al diritto del lavoro. Invero, “la tesi generale che i sindacati, col vasto concorso di studiosi, sostengono, consiste nell’affermazione conclamata che non vi dovrebbe essere nessuna sostanziale differenza tra l’impiegato pubblico e quello privato e che per entrambi deve perciò attuarsi la stessa disciplina del contratto collettivo, con la piena sostanziale parificazione del rispettivo trattamento […] nella prospettiva tuttora valida di rendere omogenee le situazioni giuridiche degli uni e degli altri all’interno del sistema del lavoro subordinato”21. Quella “tesi generale”, complice “l’ambizione di dominio” dei giuslavoristi22 , finisce per imporsi al legislatore. “L’azione svolta direttamente o indirettamente dalle organizzazioni attraverso convegni, dibattiti, studi per opera diretta delle stesse associazioni e col concorso di studiosi in 20 Ad esempio GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, nell’edizione (la IV) del 1979 non si occupava ancora della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, ma dedicava qualche cenno all’applicabilità dell’art. 28, l. n. 300 del 1970 nei confronti degli enti pubblici (p. 104). 21 Così, SIMI, La “legge quadro del pubblico impiego” di fronte alla costituzione, in Riv.it.dir.lav., 1985, I, 58 ss. (sul punto p. 59), in senso decisamente critico rispetto alla tesi generale riferita. 22 L’espressione è di TREU, Intervento, in Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti. Atti delle giornate di studi di diritto del lavoro l’Aquila, 31 maggio – 1° giugno 1996, Milano, Giuffrè, p. 194, ed è riferita alla fiducia riposta nel contratto collettivo come unico mezzo per risolvere i problemi del pubblico impiego. 20 gran parte collegati all’area sindacale, ha così avuta realiz- 21 zazione attraverso la cd. legge quadro”23. 23 Così, ancora, SIMI, La legge quadro…, cit., p. 61. Secondo gli “studiosi” evocati criticamente dall’A., invece, era “necessario innanzi tutto combattere ed eliminare le spinte corporative, che da sempre caratterizzano la politica rivendicativa del sindacalismo c.d. autonomo”: così, RUSCIANO, Il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni…, cit., p. 325, che osservava altresì che “le organizzazioni dei dipendenti pubblici, aderenti alle maggiori confederazioni dei lavoratori, possono costituire, nel pubblico impiego, degli agenti contrattuali forniti della necessaria consapevolezza dei problemi specifici, ma nello stesso tempo capaci di raccordare, in uan visione globale ed equilibrata, l’interesse dei dipendenti pubblici e l’autentico interesse generale, che certamente si identifica con l’interesse della collettività — costituita in massima parte dai lavoratori subordinati — alla efficienza ed alla produttività degli apparati pubblici”. Il punto di vista del sindacalismo confederale è ben sintetizzato anche da TREU, Politiche rivendicative sindacali e riforma della pubblica amministrazione, in Riv.giur.lav., 1974, I, 331 ss., e da ICHINO, Iniziative e linee di azione del sindacato per la riforma della pubblica amministrazione, ibidem, p. 343, che, tra l’altro, osservava: “dallo sfacelo della pubblica amministrazione non si uscirà soltanto mettendo in galera qualche burocrate corrotto o sollecitando moralisticamente i lavoratori del settore pubblico a lavorare di più; il problema non è soltanto di moralità o di alacrità delle singole persone: occorre ricostruire l’organizzazione amministrativa secondo principi e schemi nuovi rispetto al passato, in modo che essa possa funzionare per lo Stato democratico ed in modo democratico”. Secondo l’A. la riforma non era finalizzata solo a far funzionare in modo più efficiente e democratico la pubblica amministrazione, ma anche a tutelare meglio il dipendente pubblico, considerato che “i livelli di tutela del dipendente pubblico sono rimasti fermi per interi decenni o sono progrediti in misura ridottissima: il risultato paradossale è che oggi il pubblico dipendente è sotto diversi aspetti molto più esposto all’arbitrio del datore di lavoro e giuridicamente sprovvisto di tutela di quanto non sia il dipendente privato”. L’A. esplicita infine quello che potremmo definire il valore in sé della privatizzazione: “Ma al di là di queste considerazioni contingenti, è ora che il movimento sindacale affronti alla radine il problema della dicotomia fra lavoro pubblico e lavoro privato; occorre riaffermare […] che è venuta a cadere la ragion d’essere della distinzione sul piano giuridico fra la categoria del lavoro pubblico e la categoria del lavoro privato […] entrambi i rapporti devono essere finalmente ricondotti ad un’unica disciplina”. 22 I cultori del diritto del lavoro, ed in particolare del diritto sindacale, ricevono dunque dalla legge quadro sul pubblico impiego una nuova e più ampia “legittimazione”24 ad occuparsi del pubblico impiego 25, peraltro senza alcuna espropriazione in danno dei cultori del diritto amministrativo, posto che, come è noto, “con la legge quadro un fenomeno tipico del lavoro privato, come la contrattazione collettiva, viene rielaborato dal diritto amministrativo secondo le categorie del diritto pubblico”26. I manuali di diritto sindacale successivi al 1983 dedicano così specifiche e distinte 24 Di “legittimazione alla ricerca”, parlava ad esempio ROMEO, La privatizzazione ovvero la contrattualizzazione del pubblico impiego, in Riv.it.dir.lav., 1991, I, 301 ss., secondo cui “l’impegno del giurista, anzi del giuslavorista, considerato che da oltre un decennio il diritto del lavoro ha «requisito» l’area del pubblico impiego, è ineludibile”. 25 Cfr. per tutti L. ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego (Dalla legge quadro alle politiche di “privatizzazione”), Napoli, 2° ed., 1990 (ed ivi ricchissimi riferimenti e spunti cui si rinvia), che così apre, significativamente, la sua monografia: “Con la legge quadro sul pubblico impiego del 29 marzo 1983 n. 93 si afferma definitivamente nel nostro ordinamento il principio secondo cui i pubblici dipendenti possono concorrere alla determinazione delle proprie condizioni di lavoro secondo i metodi e i criteri della contrattazione collettiva. Se si hanno presenti le coordinate concettuali e le valenze ideologiche del c.d. rapporto di immedesimazione organica dei pubblici impiegati, ricorrono motivi sufficienti per parlare di una vera e propria rivoluzione o almeno di una trasformazione di portata storica”. 26 Così D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. XLVII, che a tal proposito parla di “ibridazione della contrattazione collettiva con il diritto amministrativo”. E del resto curata dall’istituto di Diritto pubblico della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Firenze, l’opera collettanea di ORSI BATTAGLINI, MAVIGLIA, ALBANESE, LUCIBELLO, Accordi sindacali e legge quadro sul pubblico impiego, Milano, 1984. 23 trattazioni alla contrattazione collettiva nel pubblico impiego 27. Ma è nel 1992, con la legge delega per la privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, che i giuslavoristi conquistano definitivamente l’agognata frontiera del pubblico impiego, e non hanno così più bisogno di esibire alcun passaporto legislativo per varcare i confini della loro materia, avendo il legislatore esteso quei confini, con l’annettere al diritto “comune” del lavoro una gran parte dei rapporti di pubblico impiego 28. 27 Cfr. CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU Diritto del lavoro. Il diritto sindacale, 1, Torino, 1983, i quali dedicano un ampio capitolo (l’undicesimo) alla “contrattazione collettiva nel pubblico impiego” (pp. 269–284), nonostante all’epoca vi fosse soltanto un disegno di “legge quadro”. Le edizioni successive, ed in particolare la 3° del 1994 (ristampa nel 1997) tengono conto degli sviluppi successivi ed ampliano il cap. XI cap. (pp. 369–386). GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, 1984 dedica per la prima volta un apposito capitolo (il 9°) alla “contrattazione collettiva nel pubblico impiego” (pp. 197– 208). PERSIANI, Diritto sindacale, Padova, 1986, non considera ancora la contrattazione collettiva nel settore pubblico. 28 Cfr., per un’analisi dall’interno delle concitate fasi finali della conquista di uno storico traguardo che, ancora nel luglio del 1992, sembrava “impossibile” e comunque “lontanissimo, persino per i più fiduciosi”, TREU, Prefazione, in TREU (a cura di), Pubblico impiego. Verso il diritto comune del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1993, pp. 7 ss. 24 Di conseguenza, cambiano ancora, e più decisamente, i manuali di diritto sindacale29, tenuti ora a dare compiutamente conto di un sistema di rappresentanza sindacale e di contrattazione collettiva che si vuole ormai definitivamente affrancato dal diritto pubblico. Invero, il contratto collettivo non è più recepito in un atto legislativo o regolamentare, ma è ritenuto fonte diretta di disciplina del rapporto di pubblico impiego (salvo però a negare siffatta natura di fonte diretta, allorché si tratta di salvare la costituzionalità del sistema), e tanto già basta alla dottrina, pressoché unanime, per ricondurre il contratto collettivo de quo al genus autonomia privata collettiva 30. Ma la competenza scientifica dei giuslavoristi non verrebbe certo meno anche a voler considerare il contratto collettivo come fonte normativa 31, come dimostrano i pre29 Ad es., PERSIANI, Diritto sindacale, cit., che nelle edizioni degli anni 80 non si era occupato del settore pubblico, nell’edizione del 1999 dedica un apposito capitolo (il V, pp. 129–136) alla contrattazione collettiva nel pubblico impiego, dopo aver dedicato il 3° cap. all’organizzazione sindacale nel pubblico impiego. Nel manuale di diritto sindacale della GALANTINO nell’edizione del 1999 il capitolo sulla contrattazione collettiva ha uno sviluppo considerevole (cap. 7, pp. 153–180), mentre nella 1° edizione del 1990 la trattazione era ben più scarna (pp. 183–188). I nuovi manuali di diritto sindacale “partono” già con apposite parti dedicate alla contrattazione collettiva del settore pubblico: cfr. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, I, Il diritto sindacale, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 183–192. 30 Cfr. per tutti CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. CVIII, e da ultimo in Una riforma “conclusa”…, cit., p. 16, il quale rileva che “si può ancora parlare di un genus comune costituito dall’autonomia privata collettiva”. 31 Per qualche spunto in tal senso, all’epoca del tutto marginale, sia consentito il rinvio a PILEGGI, in Comparti, materie, livelli della contrattazione collettiva, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, n. 16, 1995, p. 143. 25 cedenti storici relativi al contratto collettivo corporativo ovvero, al contratto collettivo recepito in decreto legislativo ai sensi della l. n. 241 del 1959, tanto per restare in epoca repubblicana. Non cambiano però solo i manuali di diritto sindacale. Cambiano e si imbolsiscono anche i manuali di diritto del lavoro (in senso stretto), che ora si occupano ex professo anche del rapporto di pubblico impiego, inserendone perlopiù la trattazione nella parte dedicata ai rapporti speciali di lavoro 32. Più in generale, si assiste, da parte della dottrina lavoristica, quasi dovesse sfogare una lunga astinenza, ad una 32 Nell’edizione del 1993 del già citato manuale di GHERA il rapporto di pubblico impiego inizia ad avere un certo risalto, nonostante l’A. avesse potuto tenere conto soltanto della l. delega n. 421 del 1992 (si vedano pp. 308– 314). Nell’ultima edizione del 2000, a privatizzazione ormai completata (e dunque a materia ormai acquisita) il rapporto di pubblico impiego viene trattato con maggiore ampiezza (anche se ancora in termini piuttosto contenuti: pp. 465–480). SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 2000, inserisce un’ampia trattazione sul rapporto di pubblico impiego nella sezione (III) relativa ai rapporti speciali di lavoro (pp. 123–148), facendo riferimento, conformemente all’impostazione del manuale, sia ai profili di disciplina del rapporto di lavoro sia a quelli di diritto sindacale. CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, 2, IV edizione, Torino, 1998, dedicano il XIII cap. al “Rapporto di pubblico impiego” (pp. 507–535). VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro, Giappichelli, Torino, 1998, si occupa del pubblico impiego nel capo V, relativo alle “articolazioni interne al lavoro subordinato”, e precisamente tra “le discipline adattate all’interesse tipico dell’organizzazione” (pp. 383– 386). Ma in tutti i manuali il rapporto alle dipendenze da pubbliche amministrazioni trova piena cittadinanza: cfr. GALANTINO, Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2000, cap. XVIII, “Il rapporto di lavoro pubblico”, pp. 551–582; SUPPIEJ, DE CRISTOFARO, CESTER, Diritto del lavoro. Il rapporto individuale, Cedam, Padova, 1998, cap. VI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazione, pp. 323 e 347. 26 vera e propria esplosione di studi sul lavoro pubblico 33, non arginata da alcuno strumento deflativo del sovraccarico editoriale, per celebrare il ritorno del figliol prodigo, cioè “il ritorno dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni al diritto del lavoro”34. Tutti i profili (sostanziali, sindacali, processuali) della privatizzazione vengono vivisezionati in un florilegio di scritti, specie nella forma della raccolta di saggi, dei numeri monografici di varie riviste, del commentario 35, stante la vastità, l’eterogeneità e l’instabilità della materia: una materia fluida che mal si presta a trattazioni monografiche, destinate, peraltro, ad essere presto superate dal corso incessante delle modifiche legislative. Nasce una rivista bimestrale dedicata esclusivamente al “lavoro nelle pubbliche 33 Di “letteratura formatasi con la velocità delle foreste tropicali”, parla ROMAGNOLI, Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano, in Aidlass (a cura di), Il diritto del lavoro alla svolta del secolo. Atti delle giornate di studio. Ferrara 11–13 maggio 2000, Giuffrè, Milano, 2002, 84. 34 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., 37. 35 Tra i moltissimi commentari ricordiamo, da ultimo, F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Utet, Torino, 2004; F. CARINCI e D’ANTONA (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Giuffrè, Milano, 2000; CORPACI, RUSCIANO, L. ZOPPOLI, La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro, e del processo nelle amministrazioni pubbliche. Commentario, in Nuove leggi civ.comm., 1999; PERONE, SASSANI (a cura di), Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Il decreto legislativo n. 80 del 1998, Cedam, Padova, 1999; DELL’OLIO, SASSANI (a cura di), Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387, Milano, 2000. 27 amministrazioni”36, ed al tema “le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico ed il sistema delle fonti” viene dedicato il congresso dell’Associazione nazionale di diritto del lavoro e della sicurezza sociale37. I convegni, i seminari, le giornate di studio, gli incontri, i dibattiti non si contano più, e rendono difficile ed inutile un’arida elencazione. La proliferazione degli studi è del resto in parte giustificata dalla necessità di inseguire affannosamente il legislatore, autore consapevole (e forse colpevole), di una riforma sperimentale, concepita come “riforma in itinere”38, realizzata con la tecnica della novellazione permanente del d.lgs. n. 29 del 1993, destinata a proseguire sul d.lgs. n. 165 del 2001. Una tecnica che costringe anche la dottrina a “novellare” continuamente i propri contributi, altrimenti condannati ad una precocissima obsolescenza. Una tecnica legislativa alluvionale che contraddice i propositi di delegificazione e di semplificazione perseguiti dalla riforma. 36 Il primo numero esce nel gennaio–febbraio del 1998, con editoriale, dal titolo assai significativo, di CARINCI, Una nuova rivista per una riforma in itinere, p. 1. Più recentemente (il primo numero e di ottobre–dicembre 2003) è nata la rivista trimestrale di legislazione e giurisprudenza sul rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione Lavoro Pubblico, diretta da FORLENZA. 37 È il titolo delle Giornate di studio di diritto del lavoro, tenutesi a L’Aquila dal 31 maggio al 1° giugno 1996, in Atti, Milano, 1997. 38 L’espressione è di CARINCI, Una nuova rivista per una riforma in itinere, cit., p. 1, nonché Una riforma in itinere: la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego pubblico, in Atti in onore di G.F. Mancini, Giuffrè, Milano, 1998. 28 La materia del pubblico impiego, sospesa in una sorta di “terra di nessuno” 39, è però oggetto di una doppia competenza dottrinale, ed è tuttora contesa. Invero i cultori del diritto amministrativo non si sono affatto rassegnati all’idea di perderla40, ed a prendere atto di ciò che i giuslavoristi 39 L’espressione è di Giuliano AMATO, ed è tratta dal seguente significativo brano di un’intervista al quotidiano la Repubblica del 27 settembre 1992, citato da CASSESE (Il sofisma della privatizzazione, cit., 308): “c’è in questo momento una specie di terra di nessuno, dove si cerca di operare per superare la crisi. In questa terra di nessuno stanno operando due soggetti: il governo e i sindacati. Questi due protagonisti sono collegati da un filo”. 40 La dottrina amministrativistica è assolutamente restia a cedere una branca appartenuta per molto tempo al proprio dominio, cosicché fiorisce anche su tale versante della materia ogni genere di scritto, ed i manuali di diritto amministrativo continuano ad occuparsi ex professo, e non per nostalgica rievocazione, del pubblico impiego (e non solo di quello non privatizzato), continuando talora ad utilizzare la locuzione “rapporto di pubblico impiego” in luogo di quella “rapporto di lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni” utilizzata dal legislatore. Cfr. ad es. LANDI POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, 1997, Giuffrè, Milano, pp. 412–480; GALLI, Corso di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1996, pp. 281–336, che utilizza, come titolo del VII cap. la locuzione “rapporto di lavoro alle dipendenze di enti pubblici”. SCOCA, Organizzazione amministrativa, in AA.VV., Corso di diritto amministrativo, a cura di MAZZAROLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO, SCOCA, Monduzzi, Bologna, 1993, parte II, p. 628 (cap. X, “Cenni sull’impiego pubblico”), il quale, movendo dalla premessa secondo cui il problema della natura pubblica o privata del rapporto “riveste scarsissimo rilievo”, e che il “problema vero attiene al contenuto sostanziale della disciplina e non alla natura formale del rapporto” (p. 644), osserva, specie con riferimento alla materia relativa al mutamento di mansioni, che “di fronte a discipline di questo tenore non ha senso parlare di privatizzazione del pubblico impiego”. Maggiore disponibilità ad accettare la svolta è espressa da CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 139 ss., il quale osserva, citando GIANNINI, che “la scelta della disciplina di diritto pubblico, per altro storicamente contingente e da noi a lungo perplessa […] non è imposta da alcuna ragione di principio, e semmai ragioni di principio spingono piuttosto nel senso del diritto comune dipendente prestato a titolo professionale” (p. 145). 29 chiamano “il distacco della materia lavoristica dal diritto amministrativo”. Non a caso i cultori del diritto amministrativo e della scienza dell’amministrazione continuano ad occuparsi, senza remore, rinunce o complessi, del pubblico impiego, nonostante la privatizzazione41. È certo, però, che il pubblico impiego è ormai “pane quotidiano” dei giuslavoristi (pur diviso con quel commensale abituale che è ormai la dottrina amministrativistica), specie da quando possono contare su una pedina fondamentale: il “loro” giudice, il giudice del lavoro, garante della piena e fedele applicazione del diritto del lavoro al rapporto di pubblico impiego, e, dunque, delle conquiste della privatizzazione. Il nostro legislatore, infatti, “si rese ben conto che la privatizzazione sarebbe stata effettiva solo se all’estensione del campo di applicazione delle norme privaistiche sostanziali si fosse accompagnata anche l’estensione ai lavoratori già pubblici, della giurisdizione ordinaria” 42, al punto che, non senza una qualche fondamento (desumibile anche dalla “percezione soggettiva” dei diretti interessati), si è potuto rilevare che “la sola novità di rilievo” della privatizzazione “è rappresentata dalla devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro di tutte le controversie riguardanti i rapporto di lavoro privatizzati”43. Ed in effetti, all’esito della privatizzazione (ma anche nei prodromi della stessa) sembra essere cambiato molto di 41 D’ANTONA, Autonomia negoziale…, cit., pp. 34 ss. (sul punto, pp. 37 ss.). 42 SUPPIEJ, Nove anni di travaglio del trapasso di giurisdizione per i lavoratori pubblici, in Riv.it.dir.lav., 2001, I, 308. 43 Così, E.M. BARBIERI, Dipendente pubblico, dipendente privato e dipendente privatizzato, in Mass.giur.lav., 1999, 1294. 30 più il lavoro del giuslavorista che non quello del dipendente pubblico. Ma è certo che ora l’interlocutore della dottrina (amministrativistica o giuslavoristica che sia) nel dialogo con la giurisprudenza è il giudice del lavoro ed è con tale giudice che il pubblico dipendente deve fare i conti. Il che non significa necessariamente migliore e maggiore tutela per il lavoro pubblico, come aveva avvertito la “resistenza” giuspubblicistica (“«i poteri forti» della comunicazione giuridica sul pubblico impiego”44), capeggiata dal Consiglio di Stato 45. Si tratta però di verificare — ed è lo scopo delle presente contributo — se la tardiva conquista del pubblico im- 44 D’ANTONA, La neolingua del pubblico impiego riformato, in Lav.dir., 1996, 237, ed ora in Opere, cit., 83. 45 Il riferimento è al “famigerato” (dal punto di vista dei più convinti riformatori) parere reso dal Consiglio di Stato, ai sensi della l. n. 739 del 1939, sull’art. 2 dell’allora disegno di legge delega (Atti Senato XI, 463), poi trasfuso, con varie modifiche, nell’art. 2, l. n. 421 del 1992 (in Riv.it.dir.lav., 1993, III, 20, ss, con nota di ALBANESE, Il parere del Consiglio di Stato sullo schema di disegno di legge delega per la riforma del pubblico impiego), che sul punto osservava che: “tutte queste considerazioni debbono indurre ad attente riflessioni riguardo all’opportunità di una riforma che incida su di un sistema giurisdizionale ormai collaudato e sperimentato (suscettibile, peraltro, di miglioramenti e adattamenti) e che […] ha dato prova di saper rispondere alla «domanda di giustizia» dei dipendenti pubblici, in misura non deteriore alla risposta che il giudice civile del lavoro dà alla «domanda di giustizia» dei lavoratori privati”. Per la dottrina amministrativistica si veda CASSESE, Il sofisma della privatizzazione…, cit., 311, secondo cui “la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è tanto più criticabile in quanto il primo non potrà assicurare maggior tutela di quella che il pubblico dipendente ottiene dal giudice amministrativo”. 31 piego da parte del diritto del lavoro46, sia dovuta, quantomeno in minima parte, all’affermazione delle essenziali finalità di tutela del lavoro senza aggettivi sottese al diritto del lavoro ed alle sue fonti (così come sembravano propugnare taluni dei precursori e dei protagonisti della storica “riunificazione”), cosicché il “diritto comune del lavoro” possa ritenersi fondato, sia che riguardi il lavoro pubblico, sia che riguardi il lavoro privato, su di una medesima ratio di fondo, o non sia piuttosto dovuta a finalità del tutto di- 46 Con un secolo di ritardo sulle già richiamate teorie di COGLIOLO e PACINOTTI, analizzate da CARINCI, Alle origini…, cit. Per una breve, ma efficace analisi dei “presupposti concettuali” che, dal punto di vista della dottrina amministrativistica, orientano il pubblico impiego “verso il diritto comune del lavoro”, cfr. CARDI, Note di diritto positivo sulla «privatizzazione» del pubblico impiego, in Pubblico impiego. Verso il diritto comune del lavoro, cit., 19, ss., secondo cui sarebbero entrati in crisi i due “presupposti giuridici che giustificano un rapporto di impiego speciale: la supremazia della pubblica amministrazione e gli aspetti soggettivi dell’ufficio pubblico”. Quanto al primo, l’A. richiama le varie leggi che “disciplinano le modalità di un assetto negoziato dell’interesse pubblico”, cosicché “l’amministrazione agisce sempre meno per atti amministrativi, atti di natura autoritativa, ed agisce sempre più attraverso accordi, intese, programmi”. Quanto al secondo, l’A. osserva che “l’amministrazione è sempre di più un’amministrazione di servizio, un’amministrazione cioè che pone al centro del rapporto con il cittadino la prestazione di un servizio. L’amministrazione è dunque […] sempre meno un sistema di apparati autoritativi, ed è sempre più un insieme di grandi, medie e piccole aziende di servizi pubblici”. Ora “in uno «stato di servizi» la relazione tra l’amministrazione ed il cittadino si impianta soprattutto intorno alla sostanza dell’azione amministrativa: all’utente del servizio non interessa che il servizio sia prestato in forme legalmente corrette, interessa che gli sia assicurata l’utilità nella cui prestazione il servizio consiste”. Di qui il passaggio “in un’altra sfera che non è più quella dell’interesse legittimo protetto”, ma quella del diritto soggettivo. Ma se “si incrina l’interesse legittimo come situazione soggettiva correlata alla «prestazione» dell’amministrazione, non può opravvivere l’interesse legittimo nel rapporto di impiego […] che deve dunque essere ricondotto a regole comuni del rapporto di lavoro”. 32 verse, non sempre adeguatamente evidenziate (e, forse, strumentalizzate) da quei precursori47 . Si tratterà poi di verificare se le finalità dichiarate della privatizzazione (finalità pubblicistiche a “tutela”, per così dire, della efficienza della pubblica amministrazione), perseguite attraverso lo “strumento” della privatizzazione, non siano state a loro volta strumentalizzate per il perseguimento della (sottesa, ma non dichiarata) finalità di privatizzare il rapporto di pubblico impiego48, quale premessa per la sindacalizzazione del medesimo rapporto 49. Si ha invero sovente l’impressione che sia stato piuttosto il fine dell’efficienza della pubblica amministrazione (cioè il fine “dichiarato” della riforma) ad essere strumentalizzato per perseguire il (non dichiarato) fine di privatizzare (o sindacalizzare) il rapporto di pubblico impiego (che sul piano del diritto positivo è invece lo strumento per perse- 47 Auspicava un “cammino verso una legislazione comune, che non risulti tale in via meramente suppletiva”, CARINCI, Alle origini…, cit., p. 1106. 48 ROMEO, La privatizzazione ovvero…, cit., nell’imminenza della riforma, riteneva necessario “liberare il campo di indagine dal semplicistico apriorismo ideologico della «privatizzazione» del pubblico impiego come panacea di tutti i mali”. 49 Osservava D’ANTONA, La disciplina del rapporto di lavoro…, cit., 178, che “in pochi paesi europei i grandi sindacati sono stati coinvolti così profondamente nel processo di riforma del pubblico impiego, sia nel senso di sostenerne gli obiettivi generali anche contro gli interessi immediati della categoria dei lavoratori pubblici, sia nel senso di influenzarne gli sviluppi attraverso una pratica di concertazione codificata persino nella procedura di contrattazione collettiva (in nessun settore privato le confederazioni hanno un titolo autonomo per partecipare alla contrattazione collettiva settoriale accanto ai sindacati di categoria, come prevede il d.lgs. n. 29/93 per i comparti del settorie pubblico)”. 33 guire il fine dell’efficienza), secondo la mistica della privatizzazione come valore in sé50. L’efficienza della pubblica amministrazione avrebbe così assunto la funzione di “cavallo di Troia” utilizzato dai fautori della privatizzazione (e della sindacalizzazione) per penetrare nella cittadella del pubblico impiego 51. L’idea “forte”, talmente forte da assurgere a finalità stessa della riforma (al di là delle finalità dichiarate e più o 50 Cfr. ALLEVA, in sede di illustrazione della Bozza di articolato CGIL– CISL–UIL per la riconduzione al diritto privato del rapporto di pubblico impiego, in Riv.giur.lav., 1991, I, 354, ss.: “La scelta di utilizzare il diritto amministrativo, per disciplinare il rapporto con i dipendenti, è una scelta storicamente superata, sia dal punto di vista dei principi (condizione di «superiorità» della P.A.) sia, sopratutto, da quello dei presupposti di efficienza dell’azione di una pubblica amministrazione”. Viene tuttavia esplicitata l’idea della privatizzazione come valore in sé: “La grande opzione, di principio e politica, ma anche dettata da forti ragioni e considerazioni concrete, delle organizzazioni sindacali, è, dunque, quella di unificare ed omogeneizzare il mondo del lavoro, all’insegna di regole comuni — che sono quelle del diritto privato del lavoro — sia per quanto riguarda il contratto individuale di lavoro che per quanto riguarda la disciplina collettiva del rapporto” (ivi, 355). Una scelta che non rinnegherebbe le istanze di tutela del lavoro: “In realtà, come riconoscono tutto i giuristi esperti della materia, non vi è nessuna tutela che può dare il diritto pubblico che non possa dare, egualmente e meglio, il diritto privato, che in più dispone di un prezioso polmone, vale a dire il contratto — espressione di parità formale tra le parti — che manca al diritto pubblico (ivi). 51 Si domandava opportunamente TREU, Pubblico impiego: quale deregolazione?, in Pubblico impiego. Verso il diritto comune del lavoro, cit., 14 ss., “se sotto le forme di consenso che sostengono anche il progetto di legge, tutti perseguono veramente gli stessi obiettivi”. L’A. osservava come “il problema più importante, in particolare nel pubblico impiego, sia quello del controllo delle retribuzioni” che considerava “un problema assorbente rispetto a qualunque ipotesi di soluzione istituzionale che si voglia dare al pubblico impiego […] il rigore nella contrattazione del pubblico impiego è oggi più che mai essenziale”. Ma se “a parole c’è qualche consenso su questo punto […] nei fatti la pratica del rigore è a dir poco incerta”. 34 meno convergenti), è quella del passaggio “dall’alveo del diritto amministrativo […] all’alveo del diritto civile”: “l’idea del trasloco”52. Ma se l’idea è quella del trasloco si capisce perché segnali di sfratto, cioè interventi (giurisprudenziali o legislativi), di ripubblicizzazione della materia, siano considerati, dalla prevalente dottrina giuslavoristica, un vulnus al valore in sé della privatizzazione, oggetto di interpretazioni correttive e riduttive, e che si teorizzi, in linea generale, che tra due possibili interpretazioni debba prevalere quella maggiormente conforme ai valori della privatizzazione. Si tratta però di verificare se il diritto del lavoro, così tardivamente penetrato in quella cittadella, grazie alla “missione impossibile” che ha accettato o promesso di svolgere, pur di estendere i propri confini (e, con essi, le competenze di giuslavoristi e sindacalisti) — la missione, cioè, di accrescere l’efficienza delle amministrazioni e di contenere il costo del lavoro pubblico — non finisca per diversificarsi e specializzarsi a tal punto da snaturarsi, una volta “adattato” a lavoratori inseriti in organizzazioni (rimaste) pubbliche, e dichiaratamente asservito a finalità completamente estranee alla tutela del lavoro. E si tratta infine di domandarsi cosa vi sia davvero di “comune” nel diritto “comune” del lavoro pubblico e privato. 2 – Riforma del pubblico impiego e “crisi di identità” del diritto del lavoro: le finalità della privatizzazione 52 D’ANTONA, La contrattualizzazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, in MARTINENGO e PERULLI (a cura di), Struttura retributiva nel lavoro privato e riforma del pubblico impiego, Cedam, Padova, 1998, 11. 35 In un volume destinato a far parte di una collana dedicata alle trasformazioni del diritto del lavoro per ragioni, per così dire, esogene in rapporto alla sua funzione caratterizzante e genetica di tutela del lavoratore subordinato53, 53 L’idea della collana era stata concepita dal Prof. Hernandez nel corso di una riunione della redazione della rivista Il Diritto del lavoro. L’idea era evidentemente nell’aria. Essa ha ispirato anche un saggio di PERSIANI, Diritto del lavoro ed autorità del punto di vista giuridico, in Arg.dir.lav., 2000, 1, 1 ss., destinato agli studi in memoria di D’ANTONA. L’A. — nel quadro di una proposta metodologica tendente a restituire autorità al punto di vista giuridico ed a valorizzare il dialogo tra dottrina e giurisprudenza — rileva che “la tutela di chi lavora nei confronti di chi detiene i mezzi di produzione, se caratterizza il diritto del lavoro, non ne esaurisce interamente la funzione e, quindi, non può costituire l’unico ed esclusivo canone per un’interpretazione idonea a garantire la necessaria razionalità sistematica, posto che anche quest’ultima deve tener conto della complessità degli interessi in gioco”. Invero, lo scadimento dell’autorità del punto di vista giuridico nella materia del diritto del lavoro dipende da un “ragionamento valutativo che non è argomentato dialetticamente”, e cioè dalla “convizione che principio ordinatore, determinante ed esclusivo del diritto del lavoro, sarebbe quello della tutela del lavoratore e, di riflesso, il necessario costante sostegno dell’azione sindacale […]. Senonché, il punto di vista giuridico deve essere individuato muovendo da una visione sistematica della normativa e, quindi, prendendo atto che, sia pure nella diversità delle valutazioni comparative accolte, anche la normativa del lavoro tiene conto di tutti gli interessi in conflitto che valuta comparativamente ed ai quali dà, appunto, assetto” (pp. 12 ss.). Uno studio analitico su ciò che nell’odierno diritto del lavoro si discosta da quel “principio ordinatore” si correla dunque perfettamente, e fornisce specifici argomenti di supporto, alla suddetta impostazione metodologica, tendente a restituire alla nostra materia l’autorità del punto di vista giuridico. E del resto, la stessa idea di una valorizzazione del dialogo tra dottrina e giurisprudenza (in contrapposizione alla tendenza di “molti cultori del diritto del lavoro” a scegliere “come interlocutori preferenziali sindacalisti e politici”, con sostanziale rinuncia “a fornire ai giudici le possibili regole di razionalità del discorso giuridico”) era stata alla base di un’ampia ricerca promossa dal Prof. Hernandez e dalla rivista Il diritto del lavoro, e trasfusa negli Atti del Convegno di Roma del 7, 14 e 27 novembre 1997, sul tema “Il dialogo tra dottrina e giurisprudenza nel diritto del lavoro, in Quaderni riv. inf., INAIL, 1998, Roma. 36 non poteva certo mancare un contributo sulla “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego. La privatizzazione ha infatti avuto un impatto tellurico sull’assetto delle materia del diritto del lavoro della quale non soltanto ha dilatato notevolmente i confini, ma ha anche condizionato i contenuti e gli sviluppi, specie sul versante del diritto sindacale. Ma non è stato tanto il diritto del lavoro a conquistare e colonizzare il pubblico impiego, per ivi imporre la propria supremazia come apparato di tutela dell’intero universo del lavoro subordinato. Il diritto del lavoro è stato trapiantato forzosamente nel corpo dei rapporti alle dipendenze da pubbliche amministrazioni con un’operazione di chirurgia istituzionale, fatalmente esposta a crisi di rigetto, destinata a risollevare le sorti non tanto del dipendente pubblico — che è piuttosto il 37 grande imputato 54, la vittima designata dell’auspicato contenimento del costo del lavoro, dell’accrescimento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni e della “migliore utilizzazione delle risorse umane” — quanto, piuttosto, per 54 A sedere sul banco degli imputati è per la verità “il modello tradizionale di rapporto di pubblico impiego”, posto che “se una struttura rigida di rapporto si può giustificare per quella categoria di dipendenti, che si è soliti qualificare come «alta dirigenza» […] la medesima struttura non solo non si giustifica, ma anzi finisce ineluttabilmente con l’ostacolare l’agile funzionamento dell’organizzazione, quando si pretende di applicarla indiscriminatamente a tutti quanti i rapporti di lavoro che si svolgono alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (così, RUSCIANO, Il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni: crisi del modello tradizionale ed ipotesi di nuova regolamentazione, cit, 319). Osserva l’A. che “spirito autoritario ed efficienza organizzativa sono diventati termini antitetici”; che “il marcato verticismo gerarchico, oltre a deresponsabilizzare, reprime lo spirito di iniziativa e rende demotivate anche persone fornite di buone capacità”; che “la natura paternalistica (oltre che autoritaria) del rapporto crea nei dipendenti quell’atteggiamento di immaturità e di ristrettezza mentale che dà luogo all’aggregazione dei famosi interessi corporativi”; che “la sottotutela della libertà di opinione e dell’esercizio dei diritti sindacali […] ha consentito una gestione del rapporto, in tutte le sue vicende — dal concorso all’assunzione, dall’assegnazione di mansioni ai trasferimenti, all’estinzione — in chiave strettamente clientelare e quindi nella totale insensibilità alle reali esigenze del servizio”. Secondo l’A. lo schema contrattuale proposto “deve servire soltanto al fine di valorizzare, anche per il lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, quella logica scambistica — che è logica conflittuale — la quale è stata accortamente sempre mantenuta estranea al pubblico impiego” (ivi, 324). 38 risollevare le sorti delle pubbliche amministrazioni inefficienti55 attraverso la “cura drastica del diritto comune”56. Se mai la privatizzazione ha contribuito anche a risollevare le sorti del sindacalismo confederale, “protagonista autorevole” della riforma: riforma che, anzi, ha non disinteressatamente “promosso e patrocinato” per reagire alla “caduta di rappresentatività nell’impiego pubblico”, e “quale movimento generale che rivendica un compito di rappresentanza dell’intero universo del lavoro dipendente e come 55 Illuminanti in tal senso le parole di TREU (Prefazione, cit. , 7 ss.), “C’è voluto uno scossone che ha investito l’intero sistema Italia per accelerare questa riforma che sembrava impossibile. Ed è comprensibile che sia così, perché il funzionamento della pubblica amministrazione e del pubblico impiego condiziona in modo decisivo l’efficienza del sistema nazionale. La drammaticità della crisi ha non solo accresciuto la consapevolezza dell’urgenza della riforma, ma ha anche aumentato il coraggio dei riformatori”. Conclude l’A. osservando che “chi crede nella perdurante importanza del pubblico nella gestione delle società e delle economie moderne ha l’onere di dimostrare che esso può essre all’altezza del compito e quindi efficiente: la funzionalità del pubblico impiego ne è una componente essenziale”. 56 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle leggi «Bassanini», in Lav.pubbl.amm., 1998, I, 37, ed ora in CARUSO e SCIARRA (a cura di), Massimo D’Antona. Opere, Giuffrè, Milano, 2000, p. 236. 39 tale sopporta un costo in crescendo per la divaricazione perversa tra impiego pubblico e privato” 57. Ed anzi, già sin dai tempi della legge quadro parte, invero piuttosto isolata, della dottrina lavoristica aveva notato, non senza preoccupazione, che “già da molto tempo ormai il sindacato esigeva nel settore pubblico la contrattazione collettiva ed ha operato in tutti i modi per realizzarla”58. Ed oltre un decennio dopo, ottenuta la tanto agognata “contrattualizzazione piena del pubblico impiego”59, autorevole dottrina amministrativistica, nel correggere “il nome 57 Così, F. CARINCI, All’indomani di una riforma promessa: la “privatizzazione” del pubblico impiego, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, dal d.lgs. 29/1993 alla finanziaria 1995. Commentario, Giuffrè, Milano, 1995, XXXIII ss., nel narrare la “storia breve di una lunga riforma”. Nello stesso senso, LISO, La privatizzazione dei rapporti di lavoro, in F. CARINCI e D’ANTONA (diretto da), Il lavoro alle dipendenze dalle amministrazioni pubbliche. Dal d.lgs n. 29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Commentario, Giuffrè, Milano, 2000, 177 ss., il quale osserva che “da questo punto di vista il d.lgs. n. 29/1993 potrebbe venire accostato alla legge sullo sciopero nei servizi essenziali: entrambi questi provvedimenti legislativi possono essere considerati come una nuova versione della politica promozionale nei confronti delle organizzazioni sindacali storiche, caratterizzata, a differenza del passato, da finalità, per così dire difensivistiche, in ragione della presenza di contesti turbolenti che minacciavano di mettere in seria difficoltà la loro capacità rappresentativa” (p. 181, n. 6). Le tre confederazioni si sono del resto sempre costitutite (anche se non sempre detta costituzione è stata ritenuta ammissibile) nei giudizi di legittimità costituzionale proposti, per così dire, “contro la privatizzazione”, e gli argomenti delle loro memorie hanno trovato puntuale riscontro nelle motivazioni di rigetto, come meglio diremo. 58 Così, SIMI, La “legge quadro del pubblico impiego”…, cit., pp. 58 ss. (sul punto, p. 61). 59 Il riferimento alla “contrattualizzazione piena del pubblico impiego” identifica la Commissione mista, istituita […], il cui documento conclusivo è in Riv.it.dir.lav. 40 della cosa” 60 da “privatizzazione” in “sindacalizzazione”, osservava un po’ sgomenta che “i sindacati la faranno da padroni nel pubblico impiego con la norma ora entrata in vigore” (cioè “con la norma del 1993”)61 . Se, dunque, sotto il profilo appena considerato, la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego è un macroscopico esempio di legislazione promozionale e di sostegno al sindacalismo confederale (dal cui punto di vista essa è probabilmente un fine62) dal punto di vista dell’ordinamento statale la privatizzazione non è un fine, ma è invece uno 60 L’espressione è di RESCIGNO, La nuova disciplina del pubblico impiego. Rapporto di diritto privato speciale o rapporto di pubblico impiego speciale?, in Lav. dir. 1993, 553. Ma si veda già CARINCI, Il fascino indiscreto del diritto privato: la così detta privatizzazione del pubblico impiego,in Pubblico impiego. Verso il diritto comune del lavoro, cit., 32 che si domanda “che cos’è esattamente la «cosa»?”. 61 CASSESE, Il sofisma della privatizzazione…, cit., p. 305, il quale osservava come nel testo originario del d.lgs. n. 9 del 1993 “ben quindici disposizioni prevedono loro poteri”, e che “nessuna legge prevede tanti poteri dei sindacati nel rapporto di lavoro privato, dove obblighi di informazione e di contrattazione sono «conquistati» con la contrattazione collettiva, e cioè in forme privatistiche”. 62 Illuminante in tal senso la Relazione, in ordine alla “Ipotesi di articolato per una nuova disciplina sulla contrattazione ed il rapporto di lavoro nel pubblico impiego”, della CGIL funzione pubblica, in Riv.giur.lav., 1990, I, 297, laddove si evidenzia il “rischio […] che una riforma generale sia caricata funzionalmente, come è avvenuto per la legge quadro, più di quanto non sia ragionevole e opportuno. È insomma necessario […] non pensare di fare la riforma della P.A. a partire dal rapporto di lavoro, o la riforma del rapporto di di lavoro pubblico a partire dalla riforma delle strutture e procedure amministrative. Con ciò non si vuole naturalmente dire che le due cose siano reciprocamente indifferenti, ma solo che il punto di vista sindacale, cioè la tutela del lavoro pubblico, è e non può non essere un punto di vista parziale”. 41 “strumento” 63, volto a “realizzare — con il concorso di altre innovazioni — le condizioni per un miglior funzionamento della macchina amministrativa nel suo insieme”. In particolare, il legislatore ha “inteso attivare, nella pubblica amministrazione, circuiti di responsabilità”, cosicché attraverso l’utilizzo strumentale del “modulo privatistico si cerca di chiedere alla dirigenza un’assunzione di responsabilità rispetto agli andamenti della macchina amministrativa”64. Ma se la privatizzazione è uno strumento al servizio di finalità di rilievo pubblicistico l’epica immagine di un diritto del lavoro che conquista nuove frontiere, e pianta il proprio vessillo a tutela dei “lavori”, o del lavoro senza aggettivi (non più pubblico o privato) è un’immagine fantasiosa, se non addirittura “truccata”. Ed è piuttosto il diritto del lavoro a smarrirsi ed a snaturarsi una volta asservito ai 63 “La privatizzazione come strumento di efficienza” è, significativamente, il titolo di un paragrafo del recentissimo saggio di TREU, Finalità della riforma del lavoro pubblico, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario Utet cit., 12 ss. Si veda anche, BELLAVISTA Fonti del rapporto. La privatizzazione del rapporto, ivi, 71. Ma si vedano già TREU e FERRANTE, Finalità della riforma, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Commentario, Giuffrè, cit., 33: “L’ipotesi, o se si preferisce la scommessa, sottesa al d.lgs. n. 29 è che sia possibile contenere il costo complessivo (cioè diretto e indiretto) del lavoro pubblico, nonché aumentare l’efficienza delle amministrazioni, e in particolare della gestione del loro personale, senza ridurre la quantità di servizi offerti ai cittadini e alle imprese del settore pubblico, operando all’interno delle strutture pubbliche esistenti con la loro “razionalizzazione” come dice il titolo del decreto, e con la “privatizzazione” della disciplina del rapporto, cioè con l’avvicinamento di questo alla normativa del lavoro privato”. 64 Così, LISO, La privatizzazione…, cit., p. 183, il quale riporta anche un brano di un intervento dell’allora presidente del consiglio Giuliano Amato. 42 fini organizzativi di efficienza e di risanamento finanziario della pubblica amministrazione65. Dovrebbe più realisticamente ritenersi, allora, che è stato piuttosto il pubblico impiego — quale nucleo elementare dell’organizzazione amministrativa — a “farsi regola65 Ancora nel 1990 attenta dottrina si domandava non senza scetticismo “se il passaggio dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni dal regime pubblicistico a quello privatistico sarebbe di per sé utile a realizzare l’obiettivo di una maggiore efficienza nella gestione del personale pubblico. Se infatti è vero che nel diritto del lavoro le esigenze aziendali, da un punto di vista rigorosamente normativo hanno in linea generale una più ridotta considerazione rispetto a quella attribuita alle esigenze organizzative dei poteri pubblici nel sistema amministrativo, la privatizzazione dei rapporti di lavoro dovrebbe comportare in astratto, anche attraverso il pieno dispiegarsi della contrattazione collettiva, una migliore tutela del lavoratore, non dell’efficienza «aziendale»” (così, ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione…, cit., pp. 59 ss.). Osservava giustamente l’A. che “se invece non è la normativa lavoristica a garantire di per sé una maggiore efficienza, ma il complessivo regime giuridico in cui operano gli imprenditori privati e, soprattutto, la concreta gestione manageriale dell’azienda, il problema non è tanto quello di modificare il regime giuridico dei rapporti di lavoro, bensì di snellire e semplificare il sistema di controlli e procedure e vincoli cui è sottoposta tutta l’azione amministrativa”. Una proposta, questa, che tuttavia non interessa al sindacato, cui interessa invece “di poter contrattare con maggior certezza le condizioni di lavoro e l’organizzazione del lavoro. Se è interessato all’efficienza dell’amministrazione, non lo è fino al punto da perseguire tale risultato attraverso una riduzione delle garanzie dei lavoratori ed un rafforzamento/snaturamento della propria controparte”. Ed in effetti la proposta sindacale (citata in nota…), esprimeva la “scelta di contrattualizzazione del rapporto, come strada per restituire al sindacato un campo di azione sgombro dagli impedimenti che fino ad oggi hanno reso l’attività contrattuale e di tutela del tutto sui generis, con pesanti effetti sulla credibilità dell’organizzazione”. Si trattava per il sindacato di sostituire “alla coppia nefasta codeterminazione dello stato giuridico–cogestione subalterna del personale […] quella virtuosa contrattazione collettiva–autotutela e tutela giurisdizionale dei diritti individuali e collettivi”. La contrattualizzazione del rapporto di lavoro avrebbe comportato dunque “la necessità di spostare le garanzie dei lavoratori dallo stato giuridico alla contrattazione stessa, che verrebbe gravata e arricchita di una funzione molto più larga”. 43 re” da un diritto del lavoro largamente reinterpretato (e sovente snaturato) ad uso e consumo delle pubbliche amministrazioni, per una precisa scelta di politica del diritto motivata da finalità dichiaratamente estranee alla tutela del lavoratore pubblico (e dunque alla finalità essenziale del diritto del lavoro). La privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni, “che fa seguito al blocco delle retribuzioni dei dipendenti pubblici”, non era infatti che uno dei quattro capitoli (e precisamente il secondo) della complessiva riforma generale delegata al governo per la “razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale” (così la rubrica della l. 23 ottobre 1992, n. 421), cioè, in definitiva, per il risanamento dei conti dello Stato66. In particolare, la previsione centrale ed iniziale (art. 2, lett. a, l. n. 421 del 1992) che i rapporti dei dipendenti da pubbliche amministrazioni dovessero essere “ricondotti sotto la disciplina del diritto civile” e “regolati mediante contratti individuali e collettivi” era dichiaratamente strumentale (cioè espressamente “diretta”) “al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione” (così l’inci66 Cfr. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 42: “La legge delega del Governo Amato, n. 421del 1992 — che fa seguito al blocco delle retribuzioni dei dipendenti pubblici — contiene misure straordinarie per riportare sotto controllo la spesa pubblica”. Cfr. anche l’introduzione di VENTURA, Lavoro pubblico: i motivi di una riflessione, nel numero monografico di Riv.giur.lav., 1996, n. 3–4, dal titolo significativo ai nostri fini: Il lavoro pubblico nella stagione del risanamento e delle riforme istituzionali. 44 pit dell’art. 2 nel precisare il “fine” generale cui erano diretti i decreti legislativi che il Governo era delegato ad emanare), cioè al soddisfacimento di esigenze, che, se mai, stanno tutte dal lato del datore di lavoro pubblico. La stessa Corte costituzionale, del resto, ha più volte avuto modo di rilevare il “carattere strumentale” della privatizzazione, “rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione”, e proprio su tale presupposto ne ha escluso il contrasto con l’art. 97 Cost. Invero, la scelta del legislatore di “abbandonare il tradizionale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego”, sia pure “attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici”, è diretta proprio a “garantire, senza pregiudizio dell’imparzialità, anche il valore dell’efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione”67. Tuttavia, la genesi sindacale, ed il forte sostegno non solo ideale, ma progettuale ed effettuale68, della dottrina giuslavoristica alla privatizzazione, hanno sovente determi67 Così, la nota sentenza Corte cost. 16 ottobre 1997, n. 309, in Lav. pubbl. amm., 1998, 131, ss. ma si veda già Corte cost. 30 luglio 1993, n. 359, in Foro it. 1993, I, 3219, ove si parla di “esigenze primarie di rilievo nazionale, connesse allo sviluppo della produttività dell’amministrazione ed al controllo della spesa pubblica relativa la personale”. 68 La “sintonia”, che ha “raggiunto un livello assai elevato”, della “prevalente e migliore dottrina” con le scelte del legislatore, che essa ha “fortemente appoggiato”, dipende anche dal fatto che la “dottrina ha partecipato all’elaborazione dei progetti poi confluiti nella prima legge delega”, e poi ha “direttamente contribuito alle modifiche ed innovazioni” introdotte con la seconda privatizzazione: in tal senso, BELLAVISTA, Fonti del rapporto. La privatizzazione del rapporto di lavoro…, cit., p. 78. 45 nato una sorta di rimozione delle finalità pubblicistiche della stessa (rendere più efficiente la pubblica amministrazione, contenere la spesa per il personale entro i vincoli di finanza pubblica): finalità di cui è talora apparsa evidente la strumentalizzazione (nella situazione di emergenza dovuta alla “drammaticità della crisi” ed agli “shock causati dalle tempeste monetarie dell’autunno” 69) per il conseguimento di quello che è parso essere il vero obiettivo della riforma: “l’obiettivo della privatizzazione del pubblico impiego” 70. 69 Si veda ancora TREU, Prefazione…, cit. 70 Era questo, infatti, l’obiettivo della riforma secondo l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel noto parere più volte citato (in Riv.it.dir.lav., 1993, III, 26): “la riforma si prospetta come tendente a realizzare, attraverso un processo più o meno diluito nel tempo, l’obiettivo della privatizzazione del pubblico impiego; ossia la scomparsa di un sistema normativo e giudizio proprio del pubblico impiego, e la completa riconduzione di quest’ultimo alla disciplina privatistica”. L’obiettivo della privatizzazione non è direttamente enunciato nello schema di articolato, ma è chiaramente espresso nella sua relazione illustrativa, che parla di «obbiettivo dell’unificazione normativa del rapporto sotto la disciplina del diritto comune» e di «processo d’introduzione di una disciplina di lavoro privato». E ancora di «graduale sostituzione dell’attuale disciplina pubblicistica con quella privatistica». Si nota però nel parere come vi sia “una certa discrasia fra l’articolato e la relazione illustrativa”, posto che “l’articolato non solo non enuncia tale obiettivo con altrettanta chiarezza, ma, anzi, contiene esplicite limitazioni alla portata delle future privatizzazioni”. L’idea della privatizzazione come obiettivo è diffusa nella dottrina giuslavoristica: cfr. per tutti GHEZZI, La legge delega per la riforma del pubblico impiego, cit., 332: “Scopo della delega contenuta nell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, è l’unificazione, in via di principio, del regime giuridico sostanziale, e, in gran parte dei casi, processuale, vigente, da un lato, per il lavoro prestato alle dipendenze di datori di lavoro privati e, dall’altro lato e fatte savle alcune eccezioni, per i rapporto di pubblico impiego”. L’A. critica aspramente il riferimento del legislatore alla riconduzione del rapporto di pubblico impiego “sotto la disciplina del diritto civile”, rilevando che l’espressione più esatta sarebbe stata quella di “diritto comune del lavoro”, ed osserva che “raramente una riforma per taluni apsetti fondamentale […] sia stata trattata con mano tanto insicura e malferma”. 46 Appare evidente, dalle parole a caldo dei protagonisti della svolta 71, quella sorta di scambio politico 72 tra “via libera” alla “contrattualizzazione piena” del rapporto di pubblico impiego e “consenso” ad una politica dei redditi estesa al pubblico impiego. Ma del “dibattito” è rimasto impresso sulla pellicola normativa soltanto il riferimento alle finalità pubblicistiche 71 Cfr. SACCONI (all’epoca sottosegretario di stato per le funzioni pubbliche), Anno 1991. Introduzione alla relazione sullo stato della pubblica amministrazione, in Pubblico impiego. Verso il diritto comune del lavoro, Angeli, Milano, 1993, 49, che illustra le cinque “fondamentali linee guida che ispirano la rilevante azione di riforma che il governo ha inteso avviare attraverso lo strumento della legge delega ed un intenso confronto con le confederazioni sindacali più rappresentative, nel quadro delle più generali intese sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione ed il costo del lavoro”. Osservava in particolare il rappresentante del governo che “sotto il profilo economico–finanziario, l’introduzione di criteri di controllo della massa salariale, e quindi anche del numero degli addetti, deriva non solo dagli obiettivi di risanamento del bilancio, ma anche dal confronto con gli analoghi aggregati dei paesi europei, rispetto ai quali l’Italia si colloca nella media quanto ai valori d’insieme, ma ben peggio quanto a salario di ingresso, a retribuzione media, a distribuzione degli addetti sul territorio e tra settori, a offerta quantitativa e qualitativa di servizi. Pertanto il «blocco» degli accordi di comparto a tutto il 1993 non elimina la possibilità e la necessità di un intenso confronto tra il governo e le confederazioni sindacali, con il fine di regolare consensualmente, in una sede che abbia valore «costituente», la transizione alla nuovissima fase contrattuale che si aprirà dal 1° gennaio 1994”. Estremamente critica la valutazione di CASSESE, Il sofisma…, cit., p. 317: “Le disposizioni sul pubblico impiego del 1992–1993 costituiscono un autentico pasticcio, condito di norme promessa, di norme inapplicabili, di norme bugiarde […]. L’autore di questo bel pasticcio, il generoso sottosegretario al tesoro Maurizio SACCONI, in un’intervista del 24 gennaio 1993 a «Il Tempo» ha dichiarato che la sua opera è una «vera rivoluzione». Quanto più avrebbe meritato da parte della Patria se vi avesse sacrificato quest’opera!”. 72 Cfr. RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico: fonti della trasformazione e trasformazione delle fonti, in Atti del Convegno dell’Aquila 31 maggio–1 giugno 1996, Giuffrè, Milano, 1997, 72. 47 della privatizzazione, le uniche rilevanti per l’interprete che ritenga di non schierarsi dalla parte della riforma o dalla parte opposta73. 3 – I limiti funzionali della privatizzazione Era dunque inevitabile che la riconduzione del rapporto di impiego “sotto la disciplina del diritto civile” (privatizzazione)74 e l’assoggettamento alla regolamentazione “mediante contratti individuali e collettivi” (contrattualizzazione) avvenissero nei limiti ed alle condizioni strettamente necessari per il conseguimento delle suddette finalità di risanamento finanziario e di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. 73 Per il rilievo che “la prevalente e la migliore dottrina lavorista e amministrativista, pur con inevitabili diversità di vedute, ha fortemente appoggiato la scelta della privatizzazione soprattutto in considerazione del fatto — verificabile in via empirica — che un secolo di regime pubblicistico aveva contribuito a tenere lontano anni luce il lavoro pubblico dai livelli di produttività ed efficienza del settore privato”, si veda, da ultimo, BELLAVISTA, Fonti del rapporto. La privatizzazione del rapporto di lavoro, in Commentario Utet 2004, cit., 78, ed ivi ampi riferimenti. 74 Come è noto la formula legislativa deputata a limitare l’applicazione del diritto del lavoro in funzione degli interessi della pubblica amministrazione è stata modificata nelle varie stesure dell’art. 2, comma 2, in modo da rendere meno evidente il condizionamento pubblicistico. Dalla formula originaria secondo cui il diritto del lavoro avrebbe trovato applicazione “compatibilmente con la specialità del rapporto di lavoro”, si è passati a quella intermedia che faceva “salvi i limiti stabiliti dal presente decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono indirizzate”, introdotta dall’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1993, a quella attuale che fa “salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”. 48 E allora non è forse un caso se il legislatore delegato (integrando e specificando il fine assegnatogli dalla legge delega nel testo del decreto delegato) abbia poi ritenuto di elencare le “finalità” della “privatizzazione” nella stessa disposizione destinata a circoscriverne “l’ambito di applicazione” (art. 1, d.lgs. n. 165 del 2001), quasi a voler sottolineare anche l’ambito “funzionale” della privatizzazione medesima. L’estensione del diritto del lavoro (e delle fonti contrattuali) ai rapporti di lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni dovrebbe allora essere interpretata ed applicata — in conformità alla ratio così chiaramente dichiarata dal legislatore — in base non tanto ad un principio di favor per il dipendente pubblico, ma piuttosto in base ad un opposto ed inedito principio di favor per il datore di lavoro pubblico 75, e dunque avendosi innanzitutto riguardo all’esigenza di accrescere l’efficienza delle amministrazioni, di 75 Si tratta di implicazione interpretativa che la dottrina giuslavoristica non sembra aver sempre valorizzato adeguatamente. Tra i pochi Cfr. PERSIANI, Prime osservazioni sulla nuova disciplina del pubblico impiego,in Dir.lav., 1993, I, 250: “La tutela dell’interesse del lavoratore pubblico ben potrebbe risultare attenuata a ragione della prevalenza che deve essere assegnata, a differenza di quanto avviene per l’interesse del datore di lavoro privato, all’interesse pubblico. Tale criterio ermeneutico trova necessaria applicazione alla residua disciplina speciale del pubblico impiego che, per definizione, presuppone la particolare rilevanza del pubblico interesse nel rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Quel criterio, però, può trovare applicazione anche quando si tratti di interpretare le disposizioni della legge che regolano il lavoro privato per applicarle al pubblico impiego. Ritenere che quete disposiziohni si applichino alle pubbliche amministrazioni con le identiche modalità con le quali sono state tradizionalmente applicate all’imprenditore sarebbe, a mio avviso, opinione superficiale”. 49 contenere il costo del lavoro pubblico, di gestire ed utilizzare in modo più flessibile il personale76. Si è al riguardo rilevato (sia pure da parte di asseriti “nostalgici” del vecchio assetto pubblicistico della materia) che è “la pubblica amministrazione datrice di lavoro […] il vero soggetto debole” che la privatizzazione mira a tutelare, cosicché è parso persino “inopportuno che le controversie promosse contro di essa venissero affidate ad un giudice ritenuto tradizionalmente orientato in favore del lavorato- 76 Si potrebbe obiettare — sulla scorta dell’autorevole dottrina già citata in nota — che, anche nel suo terreno elettivo (e cioè nel settore privato), “la tutela di chi lavora nei confronti di chi detiene i mezzi di produzione se caratterizza il diritto del lavoro, non ne esaurisce interamente la funzione e, quindi, non può costituire l’unico ed esclusivo canone per un’interpretazione idonea a garantire la necessaria razionalità sistematica, posto che anche quest’ultima deve tener conto della complessità degli interessi in gioco”. Deve tuttavia al riguardo rilevarsi che nel settore pubblico il diritto del lavoro trova applicazione (nello “stato in cui si trova” ad un certo punto delle sua evoluzione storica), per una scelta legislativa basata esclusivamente su dichiarate finalità di efficienza della pubblica amministrazione e di finanza pubblica. Si vuol dire che nel settore privato il diritto del lavoro muove da esclusive finalità di tutela di chi lavora e, nel corso della sua evoluzione, tiene conto anche di altri interessi antagonistici (quelli di chi detiene i mezzi di produzione, dei disoccupati, degli utenti e via dicendo), che, tuttavia, comportano, se mai, una attenuazione delle tutele, non tale, però, da mettere in crisi l’identità del diritto del lavoro come strumento di tutela di chi lavora. Nel settore pubblico il diritto del lavoro trova applicazione con riferimento a rapporto di lavoro già pienamente “protetto e tutelato” dal diritto amministrativo (che sostituisce), e non determina il benché minimo incremento del livello di tutela, che anzi attenua, trovando esso applicazione esclusivamente per rendere più efficiente la pubblica amministrazione. 50 re”77. A meno di non ritenere che “la presenza dinanzi allo stesso giudice della P.A. dalla stessa parte degli altri datori di lavoro rafforzerà la posizione di questi ultimi e metterà in crisi l’ideologia della «giustizia del lavoro», che non si troverà più a dover scegliere tra due interessi, quello dell’operatore economico (nella logica del profitto) e quello del lavoratore (nella logica promozionale di classe), dei quali, quest’ultimo ha una valenza costituzionale superiore, ma a dover fare i conti con l’interesse pubblico, comunque sotteso a quello dell’Amministratore in giudizio”78. Invero, se il diritto del lavoro esteso ai dipendenti pubblici dovesse essere interpretato dal (nuovo) giudice alla luce della ratio che ha giustificato una siffatta estensione, il criterio da seguire (al prezzo di un cambiamento di mentalità che rischia di trasmodare in schizofrenia) dovrebbe essere il già indicato criterio di favor per la pubblica ammi- 77 Cfr. la risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, in Foro it. 1996, III, 56 ss., criticata da GAROFALO, Il trasferimento di giurisdizione nel lavoro pubblico, in Lav. pubbl. amm., 1999, 3–4, 450, il quale sintetizza l’opinione “politica” del Consiglio superiore della magistratura, utilizzando l’espressione virgolettata nel testo. Già in precedenza il Consiglio di Stato nel ben noto parere (Ad. Gen. 31 agosto 1992, n. 146, in Foro it., 1993, III, 4 ss.), considerato una sorta di “libro nero” dagli alfieri della privatizzazione, aveva sottolineato l’inopportunità di incidere “su un sistema giurisdizionale ormai collaudato e sperimentato […] e che […] ha dato prova di saper rispondere alla domanda di giustizia dei dipendenti pubblici”. Per una recente critica ai nostalgici della giurisdizione amministrativa cfr. GARILLI, Il riparto di giurisdizione tra organizzazione amministrativa e rapporto di lavoro, in Lav. pubbl. amm., 2000, 5, 715. 78 Così, acutamente, FRENI, Impiego pubblico…, cit., p. 315, nel quadro di un esame delle “logiche e degli interessi diversi e spesso contraddittori” cui rispondono “le spinte attrattive di questa materia dal giudice amministrativo al giudice ordinario”. 51 nistrazione, per quanto paradossale (se non addirittura provocatorio) possa apparire un simile rilievo79. E rasenta altresì il paradosso la considerazione che il diritto del lavoro è stato esteso al settore pubblico in quanto strumento di contenimento del costo del lavoro e di gestione flessibile dei rapporti di lavoro, ove si consideri come nel suo terreno d’origine — cioè nel settore privato — quel medesimo diritto del lavoro sieda sul banco degli imputati come principale responsabile dell’eccessivo costo del lavoro e della rigidità nella gestione del personale. E, proseguendo nel paradosso, se il diritto del lavoro si evolve per rispondere alla domanda di flessibilità delle imprese, onde accrescerne la competitività e l’efficienza, non si comprende la ragione per cui da una siffatta evoluzione sia stato “tagliato fuori” proprio il (diritto del) lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni, cui il diritto del lavoro è stato reso applicabile al dichiarato fine di accrescerne l’efficienza80. Ma, come tenteremo di chiarire nel corso dell’indagine, la serie dei paradossi si presta, almeno in parte, ad essere compresa, tenendo conto del carattere in buona parte fittizio e “nominale” dell’estensione del diritto “comune” del lavoro al pubblico impiego, o, quantomeno, dei penetranti limiti ad una indiscriminata e pedissequa estensione, ed in 79 Il giudice del lavoro dovrebbe così assumere la mentalità del tanto vituperato giudice amministrativo al fine di contemperare l’interesse pubblico al risanamento delle pubbliche amministrazioni (sotteso alla privatizzazione) con le esigenze di tutela del lavoro pubblico, in un’evidente linea di continuità rispetto al passato. 80 Ci riferiamo qui ovviamente alla disposta inapplicabilità al lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni del d.lgs. n. 276 del 2003. 52 ogni caso dei rilevanti adattamenti, che hanno sfigurato, fino a rendere irriconoscibile il volto del diritto del lavoro. Le “finalità” dichiarate dal legislatore delegato (ripetitive di quelle espresse nella legge delega) rendono dunque evidente l’assunto di partenza e giustificano pienamente la collocazione di questo volume in una collana sul diritto del lavoro che cambia e si espande per ragioni estranee alla sua finalità primigenie ed essenziali: l’applicazione del diritto del lavoro a quello che era il pubblico impiego è stata disposta non certo per meglio tutelare quelli che ora devono considerarsi (non più pubblici impiegati, ma) lavoratori subordinati alle dipendenze da pubbliche amministrazioni81 , bensì come strumento di contenimento del costo del lavoro e di gestione flessibile del personale pubblico, cioè, per dirla con le parole del legislatore delegante, per “accrescere l’efficienza delle amministrazioni” (art. 1, lett. a), e per “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica” (art. 1, lett. b). È bensì vero che la terza finalità dichiarata nell’originaria stesura del decreto delegato (art. 1, lett. c) era quella di “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico 81 Già un trentennio orsono, la dottrina lavoristica nel proporre una “ipotesi di nuova regolamentazione” idonea a superare la “crisi del modello tradizionale di pubblico impiego”, proponeva che il nuovo modello di rapporto “di quello tradizionale non abbia neppure il nome, nel senso cioè che già il nomen iuris possa chiarire la netta prevalenza del profilo lavoristico del rapporto” (così, RUSCIANO, Il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni…, cit., p. 321. 53 con quella del lavoro privato”82; ma già era stato esattamente rilevato come detta “integrazione” costituisse, in realtà non già un fine, ma piuttosto lo strumento per il perseguimento delle finalità indicate nelle due precedenti lettere dello stesso articolo 83. In seguito, nell’ambito della “seconda privatizzazione”84 , lo stesso legislatore delegato avrebbe preso atto dell’incongruenza è indicato, quale terza finalità, quella di “realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato” (art. 1, lett. c, come sostituita dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80). La tardiva correzione (peraltro a privatizzazione “conclusa”), non sembra aver aggiunto molto alle finalità dichiarate, posto che “la migliore utilizzazione delle risorse umane” è compresa nella più ampia 82 Di “finta privatizzazione […] dichiarata ma non realizzata”, parla CASSESE, Il sofisma della privatizzazione, cit. 299, ss. che osserva che “le norme si iscrivono nella tradizione del pubblico impiego, dove tutto si crea e nulla si distrugge”. Invero, l’A. osserva che “la disciplina che la nuova norma introduce, «integra» quella tradizionale, che resta in vigore, salva la possibilità di derioga e la soppressione con l’adozione del secondo contratto collettivo. La conseguenza di questo pasticcio è che — almeno nei prossimi anni — il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici sarà regolato sia dalle norme privatistiche, sia dalle norme pubblicistiche”. 83 Cfr. il commento di TREU, sull’originario testo dell’art. 1, d.lgs. n. 29 del 1993, nella prima edizione del già citato Commentario, 19 ss.: “le tre formule sintetiche della norma stanno fra loro non in scala di priorità bensì in rapporto tra obiettivi e strumenti”. 84 Con delega a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi su rapporti di lavoro privato nell’impresa” (art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59 del 1997. 54 finalità di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni”, mentre il riferimento alla “formazione ed allo sviluppo professionale dei dipendenti” sembra piuttosto voler riequilibrare a vantaggio del lavoratore lo spettro delle finalità legislative: una sorta di “contentino”, quasi a voler dare ad intendere che la riforma avrebbe considerato anche le esigenze delle “risorse umane”, la cui “migliore utilizzazione” è comunque resa possibile attraverso l’applicazione di “condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato”. Si conferma così che l’applicazione di “condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato” non è un fine (almeno nelle intenzioni dichiarate dal legislatore)85 , ma un mero strumento. 4 – Contrattualizzazione del rapporto e organizzazione della pubblica amministrazione Le finalità dichiarate e quelle più o meno inconfessate (di matrice sindacale) perseguite attraverso la privatizzazione ne hanno poi condizionato in misura assai rilevante il quantum ed il quomodo. Invero, a differenza di ciò che è accaduto per gli enti pubblici “privatizzati” — laddove la trasformazione della natura giuridica del soggetto datore di lavoro ha comportato 85 Riaffiora sempre, però, nei contributi della prevalente dottrina giuslavoristica, dichiaratamente “schierata dalla parte della riforma”, secondo la fortunata espressione di CARINCI (in “Una riforma «conclusa», cit.) l’idea che “la ratio della riforma è e resta quella di omogeneizzare la disciplina dell’uno e dell’altro lavoro, in vista e funzione di esigenze etiche di uguaglianza ed economico–sociali di equiparazione e di mobilità”, così, CARINCI, La dirigenza nelle amministrazioni dello stato ex capo II, titolo II, d.lgs. n. 29 del 1993 (il modello «universale»), in Arg. dir. lav. 2001, 38. 55 la integrale ed automatica applicazione della medesima disciplina applicabile ai dipendenti privati, cosicché ben può parlarsi, in tal caso, di un autentico “diritto comune del lavoro” e di una vera privatizzazione86 — l’estensione del diritto “comune” del lavoro ai dipendenti da pubbliche amministrazioni (la “finta privatizzazione” di cui parla autorevole dottrina amministrativista87), bandito pregiudizialmente ogni automatismo, è stata attentamente “dosata” dal legislatore, sottoposta ad un accurato filtraggio che non lasciasse sfuggire nulla che potesse contaminare la ricetta elaborata per accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, e mescolata con rimasugli di diritto amministrativo 88 . Del resto, la natura contrattuale del rapporto ben può convivere con la natura pubblica del datore di lavoro, come sarebbe dimostrato proprio dalla vicenda degli enti pubblici economici, e la privatizzazione del pubblico impiego è “innanzitutto, ed essenzialmente, una «contrattualizzazione» dei rapporti individuali di lavoro”; il contratto di lavoro — posto ora a (invero un po’ surrettizio) fondamento del rapporto — in quanto “contratto di organizzazione”, può ben sottrarre al diritto amministrativo (ed al principio di autorità) l’attività organizzativa della pubblica amministrazione, non solo nei profili inerenti alla gestione del rapporto di la86 Cfr. GHERA, Intervento, in Atti Giornate Aidlass 1996, cit., 225, secondo cui la “privatizzazione comporterebbe non tanto e non soltanto la contrattualizzazione della disciplina del rapporto, ma la attrazione dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni — e quindi del rapporto di lavoro pubblico — nel mercato”. Sul tema si veda AA.VV., Privatizzazioni e rapporti di lavoro, in Quaderni dir.lav.rel.ind., 1996. 87 CASSESE, Il sofisma della privatizzazione, cit., 88 Insomma, un “autentico pasticcio” secondo CASSESE, op. cit., 317. 56 voro, ma anche in quelli inerenti all’organizzazione degli uffici, come sarebbe avvenuto con la seconda privatizzazione: un’attività, quella organizzativa, ritenuta “di per sé non autoritativa e neutra rispetto ai fini pubblici” 89. Si è così riposto cieco affidamento sulla tenuta del “matrimonio” — celebrato sull’altare dell’efficienza della pubblica amministrazione — tra “datori di lavoro pubblici e lavoratori privati”90, con scardinamento della nozione tradizionale di pubblico impiego 91, essendo fortemente avver89 D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni”, in Arg.dir.lav., 1997, 35 ss., il quale osserva, citando PERSIANI, Contratto di lavoro ed organizzaizone, Cedam, Padova, 1965, e GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1963 che “tra il contratto di lavoro e l’incorporazione nell’organizzazione del datore di lavoro vi è una incompatibilità teorica la cui dimostrazione è patrimonio del diritto del lavoro italiano”. Quanto al carattere neutro dell’attività organizzativa della pubblica amministrazione la citazione è a GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1993, 351. 90 CARINCI, Il fascino indiscreto del diritto privato…, cit., p. 33. Si veda in particolare ALLEVA, in sede di illustrazione della Bozza di articolato CGIL–CISL–UIL per la riconduzione al diritto privato del rapporto di pubblico impiego, in Riv.giur.lav., 1991, I, 354, ss. secondo cui “riportare il rapporto di la voro alle dipendenze dello Stato e degli enti pubblici sotto l’ambito di applicazione del diritto privato (in sintesi:«privatizzare» in rapporto) non significa affatto mutare la natura degli enti datori di lavoro e privatizzarne in tutto o in parte la gestione”. 91 G. U. RESCIGNO, La nuova disciplina del pubblico impiego. Rapporto di diritto privato speciale o rapporto di diritto pubblico speciale? in Lav. dir., 1993, 553, che osserva come prima della riforma “per «pubblico impiego» si intendeva il rapporto di lavoro alle dipendenze dagli enti pubblici disciplinato dal diritto pubblico (tanto è vero che non rientrava, e non rientra, nel pubblico impiego, ma nell’impiego privato, il rapporto con gli enti pubblici economici…) […] con la nuova normativa profilo soggettivo e profilo oggettivo si scondono […]: il rapporto è con enti pubblici ma è disciplinato (prevalentemente) dal diritto privato”. 57 sata dai riformisti (privatizzatori a metà, cioè del solo rapporto di impiego) una ulteriore “privatizzazione di «pezzi» della pubblica amministrazione” 92. Ed anzi, la privatizzazione del rapporto è stata giocata come ultima carta per vincere la scommessa dell’efficienza93, senza “dover essere costretti prima o poi a privatizzare il datore”94. Sono state così travolte le posizioni — invero più avanzate e moderne sulla strada di un’autentica ed integrale 92 GHEZZI, La legge delega…, cit., p. 332. L’A., peraltro, in base al rilievo che “l’amministrazione […] continua ad essere tenuta […] .a perseguire, anche attraverso l’instaurazione strumentale di rapporti contrattuali individuali e collettivi con i suoi dipendenti, un interesse finale di carattere pubblico”, si dmanda se “non si sarebbe potuto, ad esempio, procedere ad (e, in taluni casi, completare una) più estesa e tendenzialmente generale contrattualizzazione dei soli rapporto di pubblico impiego tramite i quali vengono erogati servizi pubblici”. 93 TREU, Prefazione, cit. 11: “chi crede nella perdurante importanza del pubblico nella gestione della società e delle economie moderne ha l’onere di dimostrare che esso può essere all’altezza del compito e quindi efficiente: la funzionalità del pubblico impiego ne è una componente essenziale”. 94 CARINCI, op. ult. cit., 33 58 privatizzazione 95 — di chi riteneva che — se proprio si doveva privatizzare — allora tanto valesse iniziare da quegli “apparati e strutture” che, per il fatto di erogare servizi, 95 La spia che si tratti di una privatizzazione del tutto parziale emerge proprio dal raffronto con i dipendenti degli enti pubblici economici, che “restano dipendenti privati, in nulla distinguibili (per quanto riguarda il rapporti di lavoro) dai dipendenti di imprese private similari” (così, G. U. RESCIGNO, La nuova disciplina del pubblico impiego…, cit., p. 555, che non a caso parla di “impiego pubblico di diritto privato o di impiego pubblico di diritto pubblico”). Ma in tal modo, non solo si evidenzia la parzialità (ed in carattere “ibrido”) della privatizzazione, ma si creano i presupposti per nuove disparità. In tal senso, CASSESE, Il sofisma della privatizzazione, cit., 309, che ineccepibilmente osservava: “se il «pubblico impiego» è stato attratto, con la nuova norma, nell’ambito della disciplina privata, che bisogno c’è di tenerlo separato dall’analoga disciplina privata a cui sono sottoposti i dipendenti — anch’essi privati — di organismi pubblici e privati, ma in pubblico controllo? Non si stabiliscono — così — nuove disparità?”. Avremo modo di sottolineare nel corso dell’indagine alcune di queste nuove disparità, che, ironia della sorte, sono state ritenute ragionevoli proprio argomentando da quell’interesse pubblico che, secondo i privatizzatori, dovrebbe restare fuori dalla gestione del rapporto e dall’organizzazione degli uffici, in quanto ritenuti “neutri” rispetto all’interesse pubblico! 59 possono essere assimilati alle imprese private, e suggeriva di privatizzare anche i servizi sanitari e scolastici96. E se proprio si volevano privatizzare i soli rapporti di impiego, mantenendo ferma la natura pubblica del datore di lavoro, occorresse allora limitarsi ad una “privatizzazione selettiva […] con riferimento a quelle fasce di personale le cui mansioni non possono essere ricondotte all’esercizio di 96 È il suggerimento — blasfemo per i sostenitori della privatizzazione del pubblico impiego, che sono, però, anche i più convinti sostenitori della scuola e della sanità pubbliche — espresso dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato nel noto parere (in Riv.it.dir.lav., III, 37): “Non vi sarebbero, infatti, obiezioni di principio […] se la «privatizzazione» riguardasse innanzitutto singoli apparati e strutture sicché in tal caso, la «privatizzazione» del rapporto di impiego sarebbe effettivamente consequenziale e sicuramente globale. Ci si riferisce a quegli apparati e a quelle strutture che […] non svolgono pubbliche funzioni, ma soltanto erogano servizi […] si tratterebbe di estendere ad altri apparati (ad esempio, le poste e telecomunicazioni, oppure, nel settore parastatale. Gli istituti di assicurazione sociale) quella «privatizzazione» che è già in atto per le Ferrovie dello Stato […] ciò equivarrebbe a prendere atto del fatto che queste attività sono svolte dalla P.A. in veste di imprenditore […] una soluzione analoga potrebbe avere una oggettiva giustificazione, e dunque essere praticata, anche per i servizi sanitari e per quelli scolastici, vale a dire per una parte quantitativamente molto rilevante per il pubblico impiego”. Per analoghe considerazioni, cfr. CASSESE, Il sofisma della privatizzazione, cit., 292, secondo cui “la decisione di porre in primo piano i problemi del pubblico impiego è stata certamente erronea. Come osservato più volte da Massimo Severo GIANNINI (da ultimo nel noto «Rapporto» del 1979), quelli del personale sono problemi seguaci, nel senso che debbono adattarsi al tipo di funzioni ed organizzazioni prescelti. Invece, in questo caso, si è proceduto come se l’assetto del personale fosse una variabile indipendente dalla distribuzione delle funzioni e dai modelli organizzativi prescelti”. 60 una pubblica funzione, ma hanno carattere meramente ausiliario, tecnico, esecutivo”97. Ma quelle parole — di una lingua parlata non solo dai “poteri forti della comunicazione giuridica del pubblico impiego” 98, ma anche da autorevole dottrina giuslavorista99 — sono rimaste inascoltate, e considerate espressione di bieche nostalgie pubblicistiche, cosicché la scelta “ipocrita”100 di privatizzare soltanto il rapporto di impiego, non ha consentito che operasse l’automatismo del trapasso integra97 Così ancora il parere del Consiglio di Stato, p. 38, che allude ad un sistema di tipo tedesco, sui cui cfr. da ultimo TREU, Le finalità della riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 13 (“il sistema tedesco ha mantenuto la sua impostazione dualistica […] per cui una parte dei dipendenti delle amministrazioni sono da sempre assoggettati alla medesima disciplina individuale e collettiva applicata al settore privato e un’altra parte rimane viceversa assoggettata allo statuto giuridico pubblico”). 98 Secondo la nota espressione di D’ANTONA, La neolingua del pubblico impiego riformato, in Lav.dir., 1996, 237, ed ora in Massimo D’Antona. Opere, cit., 84. 99 Ad esempio, NAPOLI, La privatizzazione del pubblico impiego: le prospettive aperte dal d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni, in NAPOLI (a cura di) Riforma del pubblico impiego ed efficienza della pubblica amministrazione. Una riflessione a più voci. Giappichelli, Torino, 1996, 3 ss., che, riprende le critiche di CASSESE ed i rilievi del parere del Consiglio di Stato, citati nelle note che precedono, anche se l’A respinge l’atteggiamento di chi “a destra […] dice che, per principio, il pubblico non può essere regolato con norme privatistiche […] in nome della conservazione dell’esistente”. L’A. preferisce parlare di contrattualizzazione e di deamministrativizzazione della gestione del rapporto di lavoro e non di privatizzazione per sottolineare l’aspetto centrale del “mutamento del paradigma relazionale”, laddove le discipline rimangono sensibilmente differenziate e quello di lavoro pubblico è comunque un “contratto di lavoro speciale”. 100 NAPOLI, La privatizzazione del pubblico impiego…, cit., p. 9, che richiama la critica condensata nell’espressione “sofisma della privatizzazione”. 61 le ed assoluto dell’impiego pubblico al diritto “comune” del lavoro (ed alla relativa giurisdizione), che sarebbe conseguito alla scelta (negletta, ma certamente meno ipocrita), di privatizzare ulteriori “pezzi” di pubblica amministrazione. Ciò che ha posto le premesse non solo perché fosse ben più arduo l’approdo ad un autentico diritto “comune” del lavoro, ma anche perché si creassero “nuove disparità” tra dipendenti di enti privatizzati e dipendenti privatizzati di enti non privatizzati101 . Invero, il legislatore — disinnescato, come detto, qualsiasi pernicioso automatismo, che, determinando l’integrale applicazione dei principi di tutela del lavoratore privato, potesse contraddire le finalità di risanamento finanziario — ha infatti potuto scegliere a proprio piacimento quanta e quale parte del diritto “comune” del lavoro applicare ai dipendenti da pubbliche amministrazioni, ad integrazione della vecchia disciplina del diritto amministrativo, da sostituire gradualmente. In tal modo, il legislatore ha potuto creare per i dipendenti pubblici un diritto del lavoro ad hoc (ma sarebbe 101 NAPOLI, op. ult. cit., p. 8: “Io avrei preferito una soluzione più radicale. Avrei preferito l’adozione generalizzata del modello degli enti pubblici economici (o delle aziende pubbliche) per tutte le quelle realtà organizzative che erogano servizi pubblici. Non è contraddittorio considerare le poste ente pubblico economico e conservare la visione tradizionale di ente pubblico non economico per l’Inps? Perché l’azienda dei trasporti è una vera azienda e l’ospedal deve essere considerato un’amministrazione pubblica anche nella relazione con il personale?”. Riprendendo le posizioni del parere del Consiglio di Stato l’A. osserva che “forse sarebbe stato più congruo adottare la distinzione, tipica della tradizione tedesca, tra rapporto totalmente privatizzato per l’area dei servizi e rapporto di pubblico impiego per le vere e proprie amministrazioni pubbliche”. 62 meglio parlare di un diritto dell’organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni), connotato da rilevantissimi elementi di specialità, perché tarato non già sulle esigenze di tutela del pubblico impiegato come lavoratore subordinato, bensì sulle esigenze organizzative della pubblica amministrazione. Ed anche la fonte contrattuale che “regola” i rapporti individuali di lavoro (art. 2, comma 3) è stata assoggettata ad una disciplina assolutamente peculiare — finalizzata al contenimento del costo del lavoro pubblico ed alla razionalizzazione della spesa per il personale — cui è estranea qualsiasi funzione di garanzia di “minimi di trattamento”; una disciplina speciale che — già per il solo fatto di “esserci” — non sembra in alcun modo comparabile con il “diritto comune” applicabile al vero ed unico contratto collettivo di diritto comune, che è quello del settore privato. Ma proprio per il suo essere funzionale all’efficienza delle pubbliche amministrazioni il diritto del lavoro pubblico (o dell’organizzazione del lavoro pubblico) ha assunto all’interno del diritto “comune” del lavoro una peculiare e separata collocazione, quasi fosse un corpo a se stante, per quanto la dottrina giuslavoristica faccia di tutto per farlo sentire di casa, con il proprio continuo ed inesausto interessamento. Non a caso, la disciplina del lavoro pubblico (nei suoi profili di diritto sindacale e di diritto del lavoro) pur se è ormai entrata stabilmente a far parte dei manuali di diritto del lavoro e di diritto sindacale, vi occupa specifici e separati capitoli. Più che di un “diritto comune del lavoro pubblico e privato”, sembra doversi parlare allora di due sotto–sistemi 63 del diritto del lavoro, l’uno avente come finalità essenziale l’efficienza della pubblica amministrazione, l’altro la tutela dell’uomo che lavora, per quanto, detta tutela non ne esaurisca la funzione. Invero, del diritto del lavoro “tradizionale” il legislatore della privatizzazione ha “scartato” o “rivisto”, come meglio vedremo, tutto quanto potesse essere di ostacolo al conseguimento delle sopra indicate finalità di accrescimento dell’efficienza delle amministrazioni, di razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, di contenimento della spesa per il personale. Ed anzi, le “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni”, regolano il rapporto di lavoro nella prospettiva organizzativa della “gestione del personale” (e non già in quella lavoristica della protezione del lavoro), quale profilo strumentale, del più generale processo di riforma organizzativa della pubblica amministrazione, e, dunque, non già dall’angolo visuale del lavoratore, e delle sue esigenze di tutela, bensì dall’opposto angolo visuale (inconsueto per il diritto del lavoro) del datore di lavoro pubblico, e delle sue esigenze di riorganizzazione per finalità pubblicistiche di efficienza e di contenimento del costo del lavoro 102. 102 Sui nessi tra Riforma amministrativa e riforma del lavoro pubblico, cfr. tra i tanti D’AURIA, in Lav. pubbl. amm., 1998, 6, 1267. Rileva giustamente IARIA, Organizzazione, uffici e piante organiche nel d.lgs. n. 29 del 1993, in Quaderni della Spisa, Organizzazione Amministrativa e Pubblico Impiego, Maggioli, Bologna, 1995, che “la privatizzazione del rapporto di lavoor è stata inserita in un quadro di riforma complessiva dei pubblici apparati ed è stata per così dire «strumentalizzata» dal legislatore, il quale, infatti, perseguendo l’obiettivo dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa, ha valorizzato altri aspetti insiti nella privatizzazione”. 64 Se, pertanto, nel settore privato il diritto del lavoro ha tradizionalmente assolto alla funzione essenziale di limitare, sostanzialmente e formalmente, il potere organizzativo del datore di lavoro, nel settore pubblico lo stesso diritto del lavoro è stato strumentalmente utilizzato in una direzione diametralmente opposta, cioè per potenziare il potere organizzativo della dirigenza, consentire una “migliore utilizzazione delle risorse umane” ed accrescere l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Solo se si considera il punto di vista “datoriale” (“aziendale”, potrebbe dirsi) da cui il riformatore guarda all’organizzazione e (soltanto nell’ambito di questa) al rapporto di lavoro, non appare frutto di causalità o di distrazione che tra le disposizioni del titolo II, del libro V quinto del codice civile richiamate tra le “fonti” di disciplina del rapporto medesimo (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001), siano state comprese, con apposita correzione 103, anche quelle (di cui alla sezione I) relative all’imprenditore come “capo dell’impresa”, non richiamate dal testo originario dell’allora art. 2, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993. Ciò che potrebbe lasciar supporre che, quanto almeno alla ge- 103 Art. 2, d.lgs. n. 546 del 1993, cioè del secondo decreto correttivo che, probabilmente, intendeva richiamare l’art. 2087 cod. civ., contenuto, per l’appunto, nella sezione I, originariamente non richiamata. 65 stione dei rapporti di lavoro privatizzati, le pubbliche amministrazioni siano state “imprenditorializzate”104. Non a caso il d. lgs. n. 165 del 2001 è soprattutto un provvedimento in materia di “razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche”105, nel quadro di una più complessiva riforma delle stesse. Una “sorta di «Zibaldone», composto di cinque corpi normativi diversi”, nato dalla confluenza repentina di “tre proposte giacenti da tempo nei cassetti”, e riguardanti la privatizzazione del rapporto (di matrice sindacale), la riforma della dirigenza, e la disciplina della mobilità del personale pubblico, come avevano osservato, agli esordi della privatizzazione, i più critici106. I primi due titoli del decreto sono infatti diretti, rispettivamente, a fissare i “principi generali” di una siffatta “razionalizzazione organizzativa” (artt. da 1 a 10), ed a dettare specifiche disposizioni in tema di “organizzazione” (così la 104 Per interessanti spunti in tal senso, cfr. ROMANO, Un (eterodosso) auspicio di una almeno parziale controriforma, in Lav. pubbl.amm., 2003, 265, secondo cui dalla “correzione” normativa citata nel testo dovrebbe trarsi la deduzione che “l’amministrazione […] non è più solo un soggetto pubblico che gestisce i rapporti di lavoro con la sua capacità di diritto privato. È diventata, parrebbe, un vero e proprio imprenditore, almeno nei confronti di tali rapporti. Vorrei permettermi di dire che mi sembra proprio una aberrazione”. Ed in tal senso, infatti, ALES, La pubblica amministrazione quale imprenditore e datore di lavoro. Un’interpretazione giuslavoristica del rapporto tra indirizzo e gestione, Giuffrè, Milano, 2002. 105 “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego” era infatti il titolo del d.lgs. n. 29 del 1993, più idoneo a descrivere la ratio della privatizzazione di quanto non lo sia il più anodino titolo del “testo unico” di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. 106 CASSESE, Il Sofisma della privatizzazione…, cit., p. 289. 66 rubrica del titolo II): disposizioni che, complessivamente, coprono circa i due terzi delle “norme sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni” (secondo la rubrica un po’ fuorviante e posticcia del cd. testo unico). Ed attiene all’organizzazione delle pubbliche amministrazioni soprattutto la “tormentata” disciplina della dirigenza pubblica, cui è dedicato il capo II, di gran lunga il più corposo dell’intero decreto. Poco a che vedere con l’ordinamento del personale hanno poi le disposizioni relative alle “relazioni con il pubblico” (cui è intitolato il capo I del suddetto titolo II), e precisamente alla “trasparenza delle amministrazioni pubbliche” (art. 11) ed all’istituzione dell’“ufficio relazioni con il pubblico” (art. 12), lungo un’evidente linea di continuità con la l. n. 241 del 1990, entro cui troverebbero più opportuna collocazione. Nel medesimo titolo II, intitolato alla “organizzazione”, e non già nel titolo IV, relativo al “rapporto di lavoro”, e precisamente nel capo III (“Uffici, piante organiche, mobilità e accessi”) sono infine inserite quelle poche disposizioni relative all’assunzione (anzi, al “reclutamento del personale”107) ed alla gestione delle eccedenze di personale, a conferma dell’opposta prospettiva (organizzativa e datoriale) da cui il legislatore della privatizzazione guarda alle suddette vicende rispetto alla tradizionale prospettiva di tutela assunta dal diritto del lavoro. 107 In una prospettiva pubblicistica che allude più al rapporto d’ufficio che a quello di servizio. In generale, per la critica alla tendenza alla “sottovalutazione della distinzione, e della relativa autonomia, dei due diversi profili da cui risulta composta la relazione fra l’impiegato e l’amministrazione, vale a dire il rapporto di ufficio e il rapporto di servizio”, cfr. BATTINI, Il rapporto di lavoro…, cit., p. 397. 67 Quanto alla scarna disciplina del “rapporto di lavoro” (tit. IV), liquidata in appena sette articoli, di contenuto in gran parte derogatorio (in peius) rispetto alla disciplina “comune” del diritto del lavoro, appare evidente come il legislatore non abbia minimamente inteso tutelare “meglio” la persona del lavoratore pubblico secondo un modello di importazione (quello proprio del diritto del lavoro tradizionale), quanto, piuttosto, preservare l’organizzazione pubblica dagli indesiderati effetti collaterali della privatizzazione, al fine di assicurare la più proficua, sicura ed efficiente “gestione delle risorse umane”108 nell’interesse della pubblica amministrazione. Il modello di tutela del lavoratore privato, “esteso” a quello pubblico, è stato infatti reso pressocché inoffensivo, come vedremo, mediante il disinnesco dell’arma più efficace: quella che piega l’organizzazione del datore di lavoro privato all’esigenza di assicurare al lavoratore una tutela effettiva. L’organizzazione del datore di lavoro pubblico è invece a prova di qualsiasi violazione in danno del lavoratore, tutelata com’è da una sorta di principio di intangibilità della dotazione organica. Ed è nella prospettiva, squisitamente datoriale, di rafforzare il potere organizzativo del datore di lavoro pubblico che il legislatore della seconda privatizzazione ha introdotto il fondamentale principio organizzativo secondo cui “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2), sia pure “nell’ambito”, ma con netta distinzione rispetto agli “atti organizzativi” (cd. macro organizzazione) che “definiscono 108 Così la rubrica dell’art. 7. 68 […] le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive” (art. 2, comma 1). Ma nel prevedere (con parole pesanti, di quelle destinate a riempire, più che a svuotare, intere biblioteche, tanto di diritto del lavoro, quanto di diritto amministrativo) che non solo la gestione dei rapporti di lavoro, ma anche le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici” (cd. micro organizzazione), sono assunte dagli organi preposti alla gestione con “la capacità e i poteri del datore di lavoro”, e, dunque, non più con atti amministrativi, nell’esercizio di un potere di supremazia speciale, il legislatore ha avuto cura di premettere e di precisare (art. 5, comma 1) che “ogni determinazione organizzativa” deve rispondere “al fine di assicurare l’attuazione dei principi” ai quali la pubblica amministrazione “ispira” la propria organizzazione ai sensi dell’art. 2, comma 1109 , e deve assicurare “la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”. L’interpretazione della norma è però ben più “difficile” di quanto non appaia dalla sua collocazione a far “da cappello”, alle norme successive, soprattutto perché fortemente 109 I “criteri” cui le pubbliche amministrazioni devono ispirare la propria organizzazione sono: “a) funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità […]; b) ampia flessibilità, garantendo adeguati margini alle determinazioni operative e gestionali da assumersi ai sensi dell’articolo 5, comma 2; c) collegamento delle attività degli uffici, adeguandosi al dovere di comunicazione interna ed esterna, ed interconnessione mediante sistemi informatici e statistici pubblici; d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa […]; e) armonizzazione degli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e con gli orari delle amministrazioni pubbliche dei Paesi dell’Unione europea. 69 condizionata “dall’intento di politica del diritto perseguito dall’interprete” 110. Si tratta di capire se, per realizzare la finalità di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, i poteri organizzativi privatizzati debbano “accettare” di essere funzionalizzati all’interesse pubblico (e dunque di essere per ciò stesso “diversi” da quelli propri del privato datore di lavoro), o se, viceversa, alla privatizzazione di quei poteri (da esercitarsi come se davvero la circostanza che datore di lavoro è una pubblica amministrazione significasse poco o nulla) il legislatore si sia affidato incondizionatamente, con una sorta di delega in bianco, sul presupposto che l’esercizio “libero” di quei poteri sia di per sé idoneo ad accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione. È, questo, un nodo nevralgico del discorso, che, come meglio vedremo 111, sembra essere stato sciolto nell’unico 110 Così CARINCI, Una riforma conclusa…, cit., p. XLIX, che ritiene possibili tre interpretazioni del primo comma del citato art. 5: quella diretta ad “azzerarlo” (riferendolo agli atti di macro organizzazione); quella (a nostro avviso corretta) diretta a fargli fare da “cappello” del secondo comma (funzionalizzazione delle determinazioni per l’organizzazione degli uffici); quella diretta ad isolarlo (facendogli assumere un significato incerto e vago, in quanto riferibile ad altri e non meglio precisati atti organizzativi che non sarebbero però quelli privatizzati di cui al comma 2 dell’art. 5). Per la prima interpretazione, da noi condivisa, cfr. DELL’OLIO, La tutela dei diritti del dipendente pubblico dinanzi al giudice ordinario, in Arg.dir.lav., 1999, 134. 111 Si veda, da ultimo, Cass. 20 marzo 2004, n. 5659, secondo cui “gli obiettivi complessivi della riforma resterebbero sostanzialmente vanificati, ove il suo esito dovesse consistere nell’occupazione, da parte del giudice ordinario, degli spazi sottratti al giudice amministrativo, mediante il controllo di tutti gli atti organizzativi che l’amministrazione pone in essere con la capacità del datore di lavoro privato secondo i moduli di verifica della legittimità degli atti amministrativi, perpetuando così la separatezza tra l’area del lavoro pubblico e quello del lavoro privato”. 70 modo che, evidentemente, è parso coerente sia con la finalità ideale di preservare e custodire il valore della privatizzazione (mediante unificazione “vera” dei poteri organizzativi del datore di lavoro pubblico e privato), sia con la finalità di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione: efficienza che, secondo l’opinione recepita dalla più recente giurisprudenza, non sarebbe affatto “accresciuta” se al giudice ordinario fosse affidato lo stesso controllo già affidato a quello amministrativo, circa la rispondenza di ogni singolo atto organizzativo al “fine di assicurare la economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”112. 5 – Efficienza della pubblica amministrazione e costituzionalizzazione della riforma Ma se, attraverso l’uso strumentale del diritto del lavoro e delle sue fonti, si è inteso disciplinare il lavoro pubblico (non per ragioni di tutela del lavoratore, ma) per una più efficiente organizzazione della pubblica amministrazione, era inevitabile, per una privatizzazione a costituzione 112 Secondo quanto disponeva l’art. 4, primo comma, d.lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 5, d.lgs. n. 165 del 2001) nel testo anteriore alla seconda privatizzazione. 71 invariata 113, dover fare i conti con la “spada di Damocle” dell’art. 97114 , ed in particolare con il principio secondo cui i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Un principio ampiamente “rivisitato”, e reso, per così dire, più tollerante e permissivo, da una dottrina alla prese con i problemi di costituzionalità derivanti dalla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego115. 113 Il progetto elaborato dalla commissione bicamerale per le riforme istituzionali prevedeva, come è noto, la integrale sostituzione dell’art. 97, con un nuovo articolo (107) dedicato ai “dipendenti della pubblica amministrazione”, ove si prevedeva espressamente (comma 4) che “ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni si applicano, salvo che per determinate categorie indicate dalla legge, le leggi generali sul rapporto di lavoro, sulla rappresentanza sindacale e la contrattazione collettiva e sulla tutela giurisdizionale. Promozioni e retribuzioni sono stabilite anche in base al merito e alla produttività individuali”. 114 L’immagine mitologica è di CARINCI, «Costituzionalizzazione» ed «autocorrezione» di una riforma (la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego pubblico”, in Arg.dir.lav., 1998, 35. 115 Per un sintetico, ma efficace, riepilogo dei termini del dibattito dottrinale, cfr., da ultimo, BELLAVISTA, Fonti del rapporto…, cit., pp. 78 ss. Per una analisi approfondita dei problemi di costituzionalità in relazione sia all’art. 97 Cost., che all’art. 39 Cost., con un’impostazione accentuatamente privatistica, cfr. BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, Cacucci, Bari, 1997. Tra i primi contributi dottrinali diretti a “costituzionalizzare” la privatizzazione in relazione all’art. 97 Cost., ed a confutare gli argomenti di cui al più volte citato parere del Consiglio di Stato cfr. ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in Giornale.dir.lav.rel.ind., 1993, 461 ss. e D’AURIA, Il «nuovo» pubblico impiego tra giudice ordinario e giudici amministrativi, in CECORA e D’ORTA (a cura di), La riforma del pubblico impiego, Il Mulino, Bologna, 1994, 115, che riprende sostanzialmente le tesi del primo. 72 La prima volta 116, la questione di costituzionalità non ha per la verità investito la privatizzazione in sé, ma solo il coinvolgimento nella stessa della dirigenza non generale, comunque titolare di pubbliche funzioni117 il cui esercizio imparziale, al riparo dai condizionamenti della politica, sarebbe gravemente compromesso, secondo i giudici remittenti, dalla sostituzione dello spauracchio del recesso priva- 116 Corte cost. 25 luglio 1996, n. 313, in Foro it. 1997, I, 34, con nota di FALCONE, La «mezza» privatizzazione della dirigenza al vaglio della Corte Costituzionale, nonché in Riv.it.dir.lav., 1997, II, 36, con nota di GRAGNOLI, Imparzialità del dipendente pubblico e privatizzazione del rapporto; in Giur.cost. 1996, 2584, con nota di PINELLI, Imparzialità, buon andamento e disciplina differenziata del rapporto di lavoro dirigenziale . 117 Il cd. “rapporto Giannini” (in Dir.lav., 1980, I, 148), escludeva non solo la dirigenza, ma anche il personale direttivo dalla privatizzazione proprio in base al rilievo della compresenza di un rapporto d’ufficio accanto a quello di servizio: “i rapporti di servizio, nell’impiego pubblico e in quello privato sono gli stessi […]. La differenza sta in ciò: che alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono al rapporto di servizio un rapporto d’ufficio, quando divengono titolari di un organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con atti autoritativi di pubblico potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche. C’è allora da chiedersi se un’altra strada non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti”. Non si è però evidentemente tenuto conto di queste indicazioni, pur contenute in un documento che viene considerato una “pietra miliare” sulla strada della privatizzazione (l’espressione è di GARILLI, Profili dell’organizzazione e tutela della professionalità nelle pubbliche amministrazioni, in Giorn.dir.lav.rel.ind., 2004…), e considerato in termini di valore l’esatto opposto del “famigerato” parere dell’Adunanza plenaria del 31 agosto 1992. 73 tistico alle garanzie pubblicistiche di status118, a parte l’irragionevole “differenziazione” rispetto alla dirigenza generale, scampata (ma ancora per poco) alla prima privatizzazione. La seconda volta 119, la questione di costituzionalità 120 ha investito invece la privatizzazione in sé, cioè “la trasformazione del rapporto dei pubblici dipendenti”, ad onta della riserva di legge, prendendo in prestito gli argomenti del “tristemente noto” parere dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, e cioè, secondo la sintesi della Corte, “l’asserita incompatibilità tra il pubblico impiego, in quanto volto al conseguimento di finalità di interesse generale, 118 Secondo il remittente TAR del Lazio “La privatizzazione dei dirigenti (diversi da quelli generali) si porrebbe in contrasto con l’art. 97 della Costituzione nella parte in cui quest’ultimo demandando alla legge la determinazione delle sfere di competenza, delle attribuzioni, e delle responsabilità dei funzionari, sarebbe volto a garantire sia l’autonomia dei funzionari stessi, sia l’imparzialità dell’amministrazione, per il fatto di sottrarre in tal modo l’azione amministrativa alle indebite influenze dei contingenti indirizzi politici degli organi di governo”: autonomia ed imparzialità non garantite da “un regime di recesso dal rapporto di lavoro, incentrato nell’area contrattualistica privata, sul venir meno del rapporto di fiducia nei confronti del dirigente” . 119 Corte cost. 16 ottobre 1997 n. 309, in Riv.it.dir.lav. 1998, II, 33, con note di PERA, La contrattazione collettiva a dominio confederale per il pubblico impiego e di VALLEBONA, Alchimie del legislatore e occhiali del giurista nella riforma della contrattazione collettiva con le pubbliche amministrazioni; in Dir.lav., 1998, II, 206, con nota di ARPANO, Legittimità costituzionale della privatizzazione del pubblico impiego; in Lav. pubb. amm., 1998… con nota di BARBIERI, Corte costituzionale e lavoro pubblico: un passo avanti e uno a lato; in Mass.giur.lav., 1998, 9, con nota di DE MARINIS, La «costituzionalizzazione» del lavoro pubblico privatizzato. 120 Individuata dai giudici remittenti con riferimento alle testuali argomentazioni dello scritto più indigesto per la dottrina giuslavorista schierata dalla parte della privatizzazione, e cioè del parere dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 31 agosto 1992, n. 146, in Riv.dir.lav., 1993, III, 20. 74 ed il modulo strutturale del lavoro subordinato privato improntato a logiche di mercato”. La Corte ha “costituzionalizzato” — sulla base di premesse comuni alle due sentenze di rigetto — sia la privatizzazione della dirigenza non generale, sia (a maggior ragione) la privatizzazione in sé, facendo leva sul “valore dell’efficienza” (variante moderna del buon andamento), opposto in un duello vincente al valore della imparzialità (che si assumeva leso dalla prospettiva poco incoraggiante del recesso privatistico), e brandito per relegare la riserva di legge al solo profilo dell’organizzazione degli uffici, “nel suo nucleo essenziale”, ed aprire al privato. Anzi, la privatizzazione consente addirittura una migliore attuazione del precetto costituzionale perché con essa si è “inteso garantire il valore dell’efficienza”, attraverso l’utilizzo strumentale della “regola del rapporto di lavoro subordinato privato”, ritenuta “più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma”, nel quadro di un più generale processo di “decentramento, snellimento e semplificazione di apparati e procedure”. Invero, “quel rapporto sempre più si va configurando nella sua propria essenza di erogazione di energie lavorative, che, assunta tra le diverse componenti necessarie all’organizzazione della pubblica amministrazione, deve essere funzionalizzata al raggiungimento delle finalità istituzionali di questa”. Proprio la funzionalizzazione della privatizzazione al principio di buon andamento dell’amministrazione (riconducibile alla stessa disposizione costituzionale che si assumeva lesa) legittima la scelta di “abbandonare il tradiziona75 le statuto del pubblico impiego”, costituzionalmente non imposto, e di far ricorso ad un “equilibrato dosaggio di fonti regolatrici”: legge e regolamento per l’organizzazione (“nel suo nucleo essenziale”); codice civile e contratto per il rapporto di lavoro (“per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa”)121. Il combinato disposto delle due sentenze gemelle (la seconda con l’ambiguità del riferimento al “nucleo essenziale” dell’organizzazione, che, come vedremo, avrebbe aperto una breccia nel muro del regime pubblicistico in cui si sarebbe infilata la seconda privatizzazione) sembrava avere puntellato la “tellurica linea di confine” tra pubblico e privato, fornendo una risposta ai seguenti cruciali interrogativi sollevati dalla giurisprudenza costituzionale anteriore alla privatizzazione: “È cioè da chiedersi (non facendo differenza la collaborazione del dipendente in sé, come prestazione retribuita di un’attività manuale e intellettuale) fino a che punto ed in quale ambito soggettivo produca diversità l’inserimento del lavoro in un’amministrazione retta 121 Nella seconda sentenza si legge che “l’organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge, mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa”. Nella prima sentenza non compariva invece l’inciso “nel suo nucleo essenziale”, utilizzato interpretativamente per ritenere costituzionalizzata preventivamente la seconda privatizzazione, che, come è noto, ha interessato anche l’organizzazione nel suo nucleo non essenziale (ripercorre la vicenda da ultimo, CARINCI, Una riforma conclusa…, cit. 76 dal principio, costituzionalmente prescritto, del buon andamento” 122. Al primo interrogativo (“fino a che punto”) la Corte ha dato una risposta coerente con la propria precedente giurisprudenza, che aveva risposto alla domanda da essa medesima posta nei seguenti termini testuali: “tale principio, enunciato nell’art. 97 Cost., non riguarda esclusivamente l’organizzazione interna dei pubblici uffici, ma si estende alla disciplina del pubblico impiego in quanto possa influire sull’andamento dell’amministrazione” 123, che equivale, più o meno, a dire, sedici anni dopo, che la riserva di legge opera “per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa” (profili che, per inciso, trovavano riscontro nelle sette materie “scomparse”, elencate nella delega originaria124). Al secondo interrogativo (“in quale ambito soggettivo”) la Corte ha invece dato, con la prima sentenza, riguar122 Così, Corte cost. 5 maggio 1980, n. 68, in Foro it., 1980, I, 1105, che — nel respingere una raffica di questioni di costituzionalità sollevate in giudizi promossi dalle confederazioni sindacali in controversie contro l’amministrazione statale nelle quali, in difetto di accoglimento della questione, sarebbe stata negata la giurisdizione del giudice ordinario su ricorsi ex art. 28, l. n. 300 del 1970 — rilevava altresì “essere innegabile che la disciplina del rapporto di lavoro è pur sempre strumentale, mediatamente o immediatamente, rispetto alle finalità istituzionali assegnate agli uffici in cui si articola la pubblica amministrazione”. I sindacati confederali (che l’hanno non disinteressatamente patrocinata) hanno poi voluto fornire un contributo al consolidarsi della privatizzazione, costituendosi in entrambi i giudizi definiti da Corte cost. n. 313 del 1996 e da Corte Cost. 309 nel 1997 (ma nel primo caso la costituzione è stata ritenuta inammissibile). 123 Corte cost. n. 68 del 1980, che a sua volta si richiama a Cort. cost. 17 gennaio 1968, n. 124, Foro it., 1969, I, 7. 124 Art. 2, comma 2, lett. c), l. n. 421 del 1992. 77 dante la privatizzazione della dirigenza non generale, una risposta di evidente rottura rispetto alla propria precedente tradizione giurisprudenziale (che tuttavia non ha ritenuto di ricordare), smentendone seccamente la profezia nel senso che “anche se si intendesse privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio di potestà pubbliche, dovrebbero pur sempre essere conservati come rapporti di diritto pubblico quelli dei dipendenti, cui tale esercizio è o potrebbe essere affidato” 125. Una profezia, peraltro, perfettamente coerente con quella del precursore per antonomasia della privatizzazione, autore di quel “rapporto” che ne costituisce un po’ il “libro bianco”: “C’è allora chiedersi se un’altra strada non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti” 126. 125 I precursori della sostituzione dello “schema elementare del contratto di lavoro” al “modello tradizionale di pubblico impiego”, causa di inefficienza, precisavano che detto schema “non dovrebbe riguardare — almeno per il momento — i gradi più elevati della burocrazia, per i quali ho già detto che si può anche giustificare una disciplina pubblicistica” (così, nel 1974, RUSCIANO, Il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni…, cit., p. 321. 126 GIANNINI, “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”, meglio noto come “Rapporto Giannini” (se ne veda l’estratto sul pubblico impiego in Dir.lav.,1980, I, 148). Appare evidente il dialogo tra dottrina e giurisprudenza nel brano della motivazione di Corte cost. n. 68 del 1980 ove si rileva che “è stato senza dubbio meritorio, grazie anche a recenti contributi dottrinali, «liberare» il rapporto di lavoro nell’impiego pubblico dalla prevaricante sovrapposizione del rapporto c.d. organico o di ufficio, distinguendo nettamente tra i due tipi di relazione per ciò che riguarda la loro disciplina e accentuando le sostanziali analogie tra lavoro alle dipendenze da privati e lavoro prestato agli enti pubblici non economici e allo Stato”. 78 Ma, come detto, una ricetta magica (“equilibrato dosaggio di fonti regolatrici”), ha consentito di “costituzionalizzare” sia la privatizzazione della dirigenza non generale, sia la privatizzazione tout court. Confortata ed incoraggiata dalla benedizione costituzionale la privatizzazione ha rilanciato se stessa, e, nel secondo tempo, è scesa in campo con maggiore convinzione, “autocorreggendosi” e contrattaccando. La seconda privatizzazione ha così “affrancato” dal regime di diritto pubblico persino la dirigenza generale (che, per la verità, non si sentiva particolarmente oppressa e non ha ringraziato)127 ; e, sullo slancio, ha scavalcato il recinto del rapporto di lavoro, entro cui la stessa Corte costituzionale sembrava averla confinata, per penetrare a sorpresa nella sfera (sino ad allora interamente pubblicistica) dell’organizzazione 128. Anche la seconda privatizzazione è stata un po’ sbrigativamente “costituzionalizzata” dal giudice delle leggi, con riferimento, in particolare, ai dirigenti generali (indeboliti e precarizzati al punto da non garantire più la propria imparzialità, come si lamentava nell’ordinanza di rimessio127 L’art. 3, d. lgs. n. 165 del 2001 (Personale in regime di diritto pubblico), come modificato dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 80 del 1998, su espressa delega dell’art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59 del 1997, non menziona più i dirigenti generali tra il personale in regime di diritto pubblico, come invece faceva il vecchio art. 2, comma 4, d.lgs. n. 29 del 1993. Corte cost. n. 313 del 1996 aveva però lasciato in qualche modo supporre che la dirigenza generale dovesse essere mantenuta in regime pubblicistico, laddove aveva ritenuto ragionevole la censurata differenziazione di regimi sottolineando il “distacco” rispetto alla dirigenza minore, “notevolmente accentuatosi”, e la “contiguità all’Esecutivo”. 128 Cfr. CARINCI F., «Costituzionalizzazione» ed «autocorrezione» di una riforma (la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego pubblico”, in Arg.dir.lav., 1998, 35. 79 ne): dirigenti generali che, invece, secondo la Corte, sono “posti in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto del principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione”, stante l’accentuazione, imputabile meritoriamente proprio alla seconda privatizzazione, del “principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico–amministrativo degli organi di governo e attuazione amministrativa dei dirigenti”129. Resta dunque confermato — proprio alla stregua delle dichiarate ragioni che ne hanno consentito la costituzionalizzazione — come la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico (l’integrazione della sua disciplina con quella del lavoro privato, anche sotto il profilo del regime delle fonti) non sia affatto il fine della riforma (come talora si continua a supporre), ma uno strumento per accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, ed assicurarne il buon andamento, per quanto, sovente, sia proprio il “valore dell’efficienza” ad essere strumentalizzato per il perseguimento del “valore in sé” della privatizzazione. Di conseguenza, stante la strumentalità della privatizzazione rispetto alle rilevate finalità pubblicistiche, riteniamo che non possa assegnarsi autonoma rilevanza interpretativa al “principio della privatizzazione”, così da attri- 129 Corte cost. ord. 30 gennaio 2002, n. 11, in Lav. pubbl.amm., 2002, 293, con nota di BOSCATI, La privatizzazione della dirigenza generale promossa a pieni voti dalla Consulta. Sulla questione di costituzionalità, si veda CARINCI F., La privatizzazione d ella dirigenza generale alla prova della Consulta, ivi, 2000, pp. 707 ss. 80 buire carattere di eccezionalità alle deroghe a siffatto principio, o da preferire interpretazioni con esso coerenti130. 6 – Efficienza della pubblica amministrazione e riforma della dirigenza. 6.1 – La dirigenza come categoria chiave della riforma organizzativa della pubblica amministrazione. Nella logica di un “ordinamento del lavoro” funzionale alle esigenze organizzative della pubblica amministrazione, e finalizzato ad accrescerne l’efficienza, ben si comprende come l’unica categoria di dipendente pubblico fatta oggetto di una specifica regolamentazione sia quella dirigenziale: e cioè proprio la categoria che, secondo gli stessi ispiratori del processo di privatizzazione, ne sarebbe dovuta restare fuori, perché investita di pubbliche funzioni afferenti ad un rapporto d’ufficio “aggiuntivo” rispetto al rapporto 130 Nel senso invece che “oggi la dottrina, dopo la seconda privatizzazione, non può che appoggiare le tesi dirette a facilitare, su tutti i versanti di disciplina (sia individuale che collettiva), il «maximun di percorso omologativo dal pubblico al privato compatibile con la necessità di tener conto di talune imprescindibili peculiarità del lavoro presso la P.A.»”, cfr. LUNARDON, Specialità del rapporto di lavoro e giurisdizione del giudice ordinario, in Lav.pubbl.amm., 2003, 314, con citazione relativa a TOSI, Dirigenze pubbliche e private, in Arg.dir.lav., 2001, 59, che, tuttavia, osserva in apertura, e verifica in chiusura, come con riferimento alla dirigenza quel percorso omologativo presenti ostacoli significativi. 81 di servizio131; proprio la categoria più “trascurata”, per così dire, dal diritto “comune” del lavoro, perché (meno debole e perciò) meno meritevole di tutele, e più “compromessa”, per così dire, con la “proprietà”, di cui, anzi, esprime la volontà ed esercita i poteri, e, dunque, degna di specifica menzione solo agli effetti dell’esclusione dalle tutele del diritto del lavoro. La dirigenza è, invece, la categoria–chiave della privatizzazione, in quanto riforma organizzativa della pubblica amministrazione. Alla “dirigenza” 132 la riforma dedica l’intero capo II, del titolo II (Organizzazione): in tutto una ventina di articoli (il nucleo normativo più corposo del d. lgs. n. 165 del 131 Un esito in origine imprevedibile e, come già osservato, non previsto nemmeno nel famoso “Rapporto Giannini” che sul punto osservava: “I rapporti di servizio nell’impiego pubblico e in quello privato, sono gli stessi […]. La differenza sta in ciò: che alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono al rapporto di servizio un rapporto d’ufficio, quando divengono titolari di un organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con atti autoritativi di pubblico potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche […]. C’è allora da chiedersi se un’altra strada percorribile non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservano come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti”. 132 I “principi dell’articolo 4 e del presente capo” (cioè del capo II, del titolo II), sono dedicati alla dirigenza statale, ma ad essi si adeguano le amministrazioni non statali, sulla base dei “criteri” stabiliti dall’art. 27, d. lgs. n. 165 del 2001. Sottolinea “l’utilità di una prospettiva metodologica articolata” in sede di “approccio” al “tema della dirigenza pubblica”, RUSCIANO, La dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, in Lav. pubbl. amm., 2001, 499 ss., criticando la tendenza legislativa “a guardare il lavoro dirigenziale in maniera indistinta, senza tenere nel debito conto le differenze che appunto si riscontrano nell’area della dirigenza pubblica”, tendenza “il cui primo e più evidente vizio è quello di configurare il dirigente pubblico dando poca importanza all’effettivo contenuto della sua prestazione”. 82 2001), che fanno capo a taluni “principi generali” (come tali contenuti nel titolo I), cui viene taumaturgicamente affidato il conseguimento delle finalità pubblicistiche della privatizzazione 133. Ci riferiamo innanzitutto alla “summa divisio”134 tra “funzioni di indirizzo politico–amministrativo”, esercitate dagli organi di governo, ed “adozione degli atti e provvedimenti amministrativi”, che “spetta” ai dirigenti (art. 4)135 . Ma anche ai “principi” inerenti al “potere di organizzazione” (art. 5), da esercitarsi “con le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro” (comma 2), sia quanto al profilo relativo all’organizzazione degli uffici, sia quanto al profilo 133 Non c’è commento che non sottolinei il ruolo cenrale della riforma della dirigenza nel conseguimento degli obiettivi della privatizzazione. Cfr., da ultimo, MAZZOTTA, Attribuzioni e poteri del dirigente sanitario, in Lav. pubbl.amm., 2003, 471 ss., secondo cui “all’esito delle riforme degli anni novanta la centralità del dirigente pubblico è resa plasticamente dalla constatazione secondo cui è a quest’ultimo che la legge affida la penetrazione nel contesto della pubblica amministrazione delle logiche che presiedono al governo delle imprese private, allo scopo di garantirne efficienza e produttività”. 134 Così CARINCI, da ultimo in Una riforma “conclusa”…, cit., p. 17, che osserva come gli sforzi del legislatore siano stati tesi unicamente a “blindare lo spazio gestionale della dirigenza”, attraverso una “bel fuoco di sbarramento” normativo. 135 L’art. 2, comma 1, lett. g), l. n. 421 del 1992, prevedeva “la separazione dei compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa; l’affidamento ai dirigenti […] di autonomi poteri di direzione, di vigilanza e di controllo, in particolare la gestione di risorse finanziarie […] delle risorse umane e la gestione di risorse strumentali; ciò al fine di assicurare economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’attività degli uffici dipendenti”. 83 relativo alla gestione dei rapporti di lavoro136: principi riferibili anch’essi essenzialmente ai dirigenti, qui individuati con la più anodina locuzione di “organi preposti alla gestione”. Non v’è certo da stupirsi dell’interesse, spasmodico, messianico e tormentato, che il legislatore della riforma mostra per la dirigenza, nel quadro di una riforma che (a voler fondere l’originario titolo con il nuovo) detta norme sull’ordinamento del lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni per “razionalizzare” l’organizzazione delle stesse. Centro (e fine dichiarato) della riforma non è certo la persona del lavoratore, come è nel codice genetico del diritto del lavoro, ma l’organizzazione più efficiente della pubblica amministrazione. E dell’efficienza dell’organizzazione il dirigente pubblico (trasformato dall’ottimismo delle parole in manager 136 Che anche le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici” (cd. micro–organizzazione) dovessero essere assunte dai dirigenti con “la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”, con conseguente “arretramento” della riserva di regime pubblicistico di cui all’art. 97 cost., è inattesa novità introdotta, come è noto, dall’art. 4, d. lgs. n. 80 del 1998, in difetto di un’espressa delega legislativa (tale non potendo certo considerarsi quella a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”), laddove era stato appena costituzionalizzato il precedente assetto normativo che riservava alle fonti pubblicistiche le famose “sette materie” di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), l. n. 421 del 1992 (attinenti all’organizzazione ed ai profili del rapporto di lavoro connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa): sette materie misteriosamente scomparse nel trapasso alla seconda privatizzazione, ma poi scovate, sia pure in parte, nei meandri della stessa da CARINCI (la soluzione del “giallo delle sette materie” può leggersi in Le fonti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Arg.dir.lav., 2000, 55). 84 pubblico 137) è artefice e garante in quanto titolare del “potere di organizzazione”: potere che viene pertanto regolato in una logica (un po’ illusoria ed ineffettiva) di potenziamento e di “ottimizzazione” nell’interesse delle pubbliche amministrazioni, e non già in un’opposta logica di procedimentalizzazione, limitazione e controllo nell’interesse ed a tutela della persona del lavoratore, come avviene nel diritto del lavoro alle dipendenze da imprese” 138. Oggetto di disciplina non è però tanto il rapporto di servizio (lo scambio lavoro–retribuzione, secondo la consueta logica privatistica), quanto piuttosto il rapporto di ufficio (la funzione dirigenziale), secondo una perdurante logica pubblicistica, cui vengono adattati, non senza forzature 137 Osserva come si sia “troppo insistito” sul ruolo manageriale della dirigenza pubblica TULLINI, La responsabilità del dirigente pubblico (una lettura in chiave giuslavoristica), in Arg.dir.lav., 2000, 591 (ed ivi ampi riferimenti anche alla dottrina pubblicistica ed alla giurisprudenza), nel quadro di un’ampia indagine diretta ad evidenziare come al di là delle parole l’interprete e lo stesso legislatore non abbiano attuato, quanto alla disciplina della responsabilità dirigenziale, l’auspicata integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”. 138 È la logica propria dello statuto dei lavoratori che ad ogni modo “si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”, come previsto espressamente, quanto inutilmente, dall’art. 51, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001, avente una funzione più che altro simbolica e di facciata. Invero, che lo statuto dei lavoratori si applichi alle pubbliche amministrazioni si ricava già dal primo comma dell’art. 51 (Disciplina del rapporto di lavoro), inutile anch’esso, perché di mero richiamo all’art. 2, comma 2, che, a sua volta, richiama le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa. Né ha senso alcuno la previsione di applicabilità della l. n. 300 del 1970 “a prescindere dal numero dei dipendenti”, considerato che la disciplina del rapporto di lavoro contenuta nella suddetta legge è esente da limitazioni dimensionali, mentre la disciplina speciale dei “diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro”, che assorbe quella di cui alla l. n. 300 del 1970, è contenuta nell’art. 42 del d. lgs. n. 165 del 2001. 85 ed ambiguità, moduli gestionali propri dell’impresa privata 139. La materia regolata attiene infatti all’esercizio delle funzioni dirigenziali, ai criteri ed ai modi di conferimento e di revoca degli incarichi di direzione degli uffici, alla responsabilità dirigenziale. Si tratta pertanto di materia che — come è reso evidente dalla collocazione sistematica della relativa disciplina — attiene all’organizzazione della pubblica amministrazione, e, dal punto di vista del dirigente, al rapporto d’ufficio che lo lega all’amministrazione: una materia che l’originaria delega (non modificata sul punto dalla seconda, che anzi ne richiama i criteri direttivi) riservava alla regolamentazione “con legge”140; una materia su cui ad ogni modo la contrattazione collettiva non può (né avrebbe potuto) “svolgersi”141, trattandosi di materia 139 Ritiene invece che la materia relativa al conferimento ed alla revoca degli incarichi dirigenziali sia inerente al “rapporto di lavoro” CORPACI, Il nuovo regime del conferimento, cit., 221, con la conseguenza che la contrattazione collettiva sarebbe legittimata a svolgersi (come peraltro ha fatto) anche su tale materia. 140 Art. 2, comma 1, lett. c, n. 1 l. n. 421 del 1992: “sono regolate con legge, ovvero sulla base della legge o nell’ambito dei principi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi […] gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi”. 141 Per usare l’ambiguo termine di cui all’art. 40, d.lgs. n. 165 del 2001. 86 estranea al rapporto di lavoro (o di servizio)142 . La (pur opportuna143) previsione espressa di inderogabilità assoluta della disciplina legislativa in materia di incarichi dirigenziali, di cui all’ultima versione del rabberciato art. 19144 , appare persino troppo prudente, dovendosi piuttosto parlare di incompetenza della contrattazione collettiva in ordine a materia non relativa al rapporto di lavoro, e ad ogni modo coperta da riserva di legge145. La inedita contrattualizzazione dell’incarico dirigenziale (costretto ora a convivere con l’atto unilaterale di conferimento), introdotta dalla seconda privatizzazione in difetto di delega 146, non inficia le osservazioni sin qui svolte, 142 Ed invece, come diremo in seguito, la materia è stata oggetto di sistematica incursione da parte dei contratti collettivi delle aree dirigenziali, che hanno previsto un diritto all’incarico per tutti i dirigenti, nonché il principio di equivalenza tra successivi incarichi in ipotesi di valutazione non negativa del precedente incarico, in deroga alla deroga legislativa all’art. 2103 cod. civ. Ritiene, sotto tale profilo, nulle le norme contrattuali TALAMO, Lo spoils system all’<<italiana>> tra legge Bassanini e legge Frattini, in Lav.pubbl.amm., 2003, 240 143 Cfr. GARILLI, Profili dell’organizzazione…, cit., che osserva come il comma 12bis introdotto dall’art. 19, l. n. 145 del 2001, sia “una delle poche modifiche condivisibili in un impianto che, per il resto, suscita fortissime perplessità e dubbi di legittimità costituzionale”. 144 Art. 19, comma 12bis, d.lgs. n. 165 del 2001: “le disposizioni del presente articolo costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”. 145 Di “ingordigia contrattuale” parla CARINCI, La dirigenza nelle amministrazioni…, cit., p. 50, a proposito della tendenza della contrattazione collettiva ad ingerirsi sia nella definizione del trattamento accessorio collegato all’incarico dirigenziale, sia negli atti di organizzazione. 146 Non prevista affatto né dalla prima, né dalla seconda legge delega, la quale ultima si limita a delegare al governo l’estensione del “regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati”. 87 circa l’inerenza al rapporto d’ufficio del regime degli incarichi dirigenziali. Ed anzi la contrattualizzazione dell’incarico finisce per svuotate di contenuto identificativo delle mansioni proprio il contratto costitutivo del rapporto di servizio (cioè il contratto di assunzione stipulato all’esito delle procedure di accesso, anch’esse riformate, di cui all’art. 28). È vero che la prima riforma della dirigenza privatizzata (inglobata nella seconda privatizzazione) aveva previsto la definizione contrattuale dell’oggetto, degli obiettivi, della durata, e del trattamento economico di ciascun incarico 147, ma è anche vero che il successivo “riordino” del 2002 ha riservato alla “definizione” contrattuale il solo trattamento economico148, riconducendo al “provvedimento”, posto a monte, obiettivi, oggetto e durata dell’incarico, ed ha decontrattualizzato la materia degli incarichi dirigenziali, regolata da disposizioni che “costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi” 149, ribadendo in 147 Art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 nel testo non ancora modificato dall’art. 3, l. n. 145 del 2002, che appare viziato, come detto, da eccesso di delega. 148 Art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 come sostituito dall’art. 3, l. n. 145 del 2002. 149 Art. 19, comma 12bis, d.lgs. n. 165 del 2001, aggiunto dall’art. 3, l. n. 145 del 2001. 88 tal modo che la materia del conferimento degli incarichi può essere regolata solo “con legge” 150. I rilevi svolti sembrano poter suggerire una prima considerazione. La dottrina giuslavoristica — nell’interessarsi in modo “inesausto” della dirigenza pubblica, e nel commentare quasi “in diretta” le vane imprese di Sisifo riformatore151, in concorrenza con la dottrina pubblicistica 152 — sembra avere esteso il proprio campo di indagine a disciplina — quella relativa all’organizzazione delle pubbliche amministrazioni ed all’esercizio delle funzioni dirigenziali — estranea al diritto del lavoro tradizionalmente inteso, 150 Riteniamo infatti che la disposizione in questione non rientri tanto (o soltanto) tra quelle (di cui all’art. 2, comma 2, ultimo inciso) che prevedono espressamente la non derogabilità delle “leggi la cui applicabilità sia limitata a dipendenti da pubbliche amministrazioni o a categorie di essi”, altrimenti derogabili e non ulteriormente applicabili per la parte derogata, ma ribadisca piuttosto il principio di cui alla originaria legge delega (art. 2, l. 421 del 1992, i cui criteri direttivi sono richiamati dalla seconda legge delega, n. 59 del 1997, art. 11, comma 4), secondo cui è regolata con legge o, sulla base di essa, o dei principi da essa posti “con atti normativi o amministrativi, la materia relativa ai “modi di conferimento della titolarità degli uffici”, non potendosi dubitare che rientri in detta materia la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali. Cfr. nello stesso senso, GARILLI, Profili dell’organizzazione, cit. (pag. 13 del dattiloscritto). 151 Cfr. CARINCI, Sisifo riformatore: la dirigenza, in Lav. pubbl.amm., 2001, 959, in sede di commento critico al d.d.l. n. 1696, poi trasfuso nella l. n. 145 del 2002. 152 È significativo notare come sulla materia degli incarichi dirigenziali (e non solo) si eserciti in condizione di piena reciprocità, e senza alcun confine, la doppia competenza dei cultori del diritto amministrativo e del diritto del lavoro, come risulta anche visivamente dall’esame degli indici della più accreditata rivista dedicata al lavoro pubblico dopo la privatizzazione: cfr. ad es. il numero monografico di Lav.pubbl.amm. 2003, 2, in occasione del “riordino” della dirigenza. 89 avente come fine essenziale, anche se non esclusivo, la tutela dell’uomo che lavora nei confronti di chi detiene i mezzi di produzione. Nondimeno, l’espressa devoluzione delle controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale 153, al giudice del lavoro, nel quadro della seconda privatizzazione154, sembra costituire ragione più che sufficiente per legittimare quell’estensione dei confini di una materia, che, correlativamente, sembra smarrire la propria identità, o assumerne di nuove. 6.2 – Autonomia della dirigenza ed efficienza della pubblica amministrazione Nel quadro della privatizzazione del pubblico impiego, la riforma della dirigenza è il capitolo certamente più 153 Art. 63, d.lgs. n. 165 del 2001. 154 Il colpo è riuscito non già al d.lgs. n. 80 del 1998, il cui art. 29, nel sostituire l’allora art. 68, d.lgs. n. 29 del 1993, non faceva alcun riferimento alla materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali e della responsabilità dirigenziale, bensì all’art. 18 del d.lgs. n. 387 del 1998. 90 controverso, sofferto e tormentato 155, un cantiere perennemente aperto nella costruzione dell’edificio, già pericolante, della privatizzazione. Una riforma permanente che, nel breve volgere di un decennio, ha già conosciuto ben tre stagioni: due stagioni cariche di promesse ed illusioni (prima e seconda privatizzazione), una terza stagione sferzata da una ventata di nostalgia pubblicistica che i fautori della privatizzazione vivono come un cupo inverno 156. Ma un motivo di fondo attraversa le diverse stagioni di riforma: la valenza quasi psicoterapeutica dell’intervento legislativo, in quanto diretto consapevolmente a turbare la proverbiale “tranquillità psicofisica del funzionario” (demotivato proprio dal suo status, posto, in origine, a garanzia dell’imparzialità della funzione), destandolo da un lun- 155 Cfr. D’AURIA, La tormentata riforma della dirigenza pubblica, in Lav. pubbl. amm.,2001, 29 ss., che, prima ancora che la dose fosse rincarata dall’ulteriore riforma del 2002, notava che “la riforma della dirigenza pubblica […] è tuttora esposta ad una serie praticamente sterminata di obiezioni e incertezze, sia sul piano della sua interna coerenza teorica, sia sul piano della sua pratica attuazione”. Il numero della rivista raccoglie gli atti del “Forum di LPA”, su “La riforma della dirigenza pubblica: attuazione e problemi applicativi,con editoriale di CARINCI, Una riforma a passo di gambero, 3 ss., e saggi di D’ALESSIO, La riforma della dirigenza pubblica nella prima elaborazione giurisprudenziale (1998–2000), DENTE, Verso una dirigenza pubblica responsabile: il nodo della riforma organizzativa, e D’ORTA, La nuova disciplina della dirigenza pubblica alla prova dei fatti: un’attuazione strabica. 156 In dottrina si è sovente parlato di “controriforma” o di “ripubblicizzazione” della dirigenza, cfr., tra gli altri, D’ALESSIO, La legge di riordino della dirigenza: nostalgie, antilogie ed amnesie, in Lav. pubbl.amm., 2002, 213. 91 go torpore 157 e trasformandolo in un manager ansioso e stressato. Intenzione del legislatore–psicoterapeuta è di provocare — in un malato che, però, è refrattario al “trattamento sanitario” imposto per legge158, e boicotta la cura159 — un “cambio di mentalità”. L’idea è di motivare, scuotere, responsabilizzare, incentivare, “sburocratizzare” i dirigenti, affinché facciano le veci ed assumano il volto vigile, ed un po’ arcigno, di quel “privato datore di lavoro” a lungo considerato individuo sospetto, se non “socialmente pericolo- 157 Cfr. sul punto RUSCIANO, La dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, cit., 509, secondo cui “la «contrattualizzazione» della dirigenza statale costituisce senza dubbio una rottura storica di straordinaria portata: se non altro perché, almeno a prima vista, spezza quell’asse tra «interesse generale» e status del funzionario, base solidissima della teoria giuridica dell’impiego pubblico”. Per un’attenta analisi storica BATTINI… 158 Le questioni di costituzionalità relative alla privatizzazione della dirigenza di base e di quella generale (rigettata la prima da Corte cost. n. 313 del 1996, dichiarata inammissibile la seconda da Corte Cost. n. 11 del 2002) sono state sollevate, come già ricordato, su “sollecitazione” dei dirigenti. 159 Con particolare durezza, CARUSO, La storia interna della riforma…, cit., p. 978, che cita come esempio di “contaminazione della prassi” idoneo a macchiare “l’illuminismo del progetto”, anche per colpa di “un eccesso di garantismo legislativo”, l’atteggiamento della dirigenza: “Il mancato innesco del circuito virtuoso separazione tra indirizzo e gestione, controllo dei risultati e responsabilità dirigenziale ha così costituito una opportunità (si fa per dire) colta al volo per atteggiamenti corporativi di una dirigenza che si atteggia spesso a vittima della straripante volontà della classe politica di invadere le competenze tecniche, ma che non infrequentemente rappresenta il vero carnefice delle richieste di buon andamento della p.a. provenienti dai cittadini”. 92 so” 160, dal diritto del lavoro tradizionale, ed invece improvvisamente assurto a modello da imitare per una migliore e più flessibile utilizzazione delle risorse umane e per accrescere l’efficienza della macchina amministrativa. La dirigenza, cui “era e resta affidata la scommessa della privatizzazione”161, è così chiamata a smuovere le acque stagnanti del lassismo, della connivenza, del quieto vivere, ed a perseguire obiettivi e risultati, da sottoporre a puntuale verifica, sulla base di un sistema di controlli previsti da una disciplina tanto dettagliata e pretenziosa, quanto ineffettiva162, così da garantire una gestione flessibile, ma anche inflessibile (cioè rigorosa), delle “risorse umane”, interpretando un ruolo fin qui assente dal copione del pubblico impiego, o comunque poco ambito: quello, per l’appunto, di alter ego del datore di lavoro pubblico, ed anzi, 160 LISO, Autonomia collettiva e occupazione, 1998, 2, 193, che parla di “rigidità eccessiva di alcune normative […] che avevano interiorizzato una concezione dell’imprenditore (certamente radicata nella storia) come soggetto socilamente pericoloso”. 161 Così CARINCI, Una riforma “conclusa”…, cit., p. 18. 162 La “logica” della razionalizzazione organizzativa e la prospettiva datoriale assunta dal legislatore della privatizzazione spiegano la particolare attenzione riservata al potere di controllo: potere che, così come quello di organizzazione, viene regolato in una prospettiva del tutto estranea rispetto a quella assunta dal diritto del lavoro tradizionale, e cioè non già nella prospettiva della limitazione e della procedimentalizzazione per ragioni di tutela del lavoratore, ma, al contrario, per ragioni pubblicistiche di intensificazione e di ottimizzazione dei controlli, ai fini della “verifica dei risultati” della gestione dirigenziali, demandata ad appositi “nuclei di valutazione” (art. 20 e 21). Il capitolo dei controlli ha formato oggetto, come è noto, del d. lgs. n. 286 del 1999, per il “riordino e il potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche”, in attuazione della medesima delega (art. 11, l. n. 59 del 1997), con cui è stata avviata la seconda privatizzazione. 93 stante l’immedesimazione organica con la “proprietà”, di “alter ego di se stessa”163. Ma per essere pienamente responsabili della gestione, e poter rispondere dei risultati (oggetto di valutazione da parte di appositi organismi), in relazione a precisi obiettivi164 , i dirigenti non devono potersi nascondere dietro “l’alibi deresponsabilizzante” 165 dell’interferenza della politica166, ma vedersi riconosciuto e garantito un ambito di 163 CARINCI, La c.d. privatizzazione…, cit., p. 21. 164 Rileva esattamente D’ORTA, La nuova disciplina della dirigenza pubblica alla prova dei fatti: un’attuazione strabica, in Lav. pubbl.amm. 2001, 103, che “ le nuove norme sulla dirigenza pubblica avrebbero ben poco senso se non collegate alle contestuali riforme che hanno interessato la struttura dei bilanci delle pubbliche amministrazioni e i controlli sull’attività amministrativa”. Segue una impietosa analisi dell’ineffettività del modello nella prassi applicativa. Sul punto cfr. da ultimo CARINCI, Una riforma conclusa, cit., il quale osserva come per funzionare il meccanismo virtuoso “autonomia–responsabilità” avesse bisogno di tutta una legislazione servente che però “non ha trovato troppa fortuna nella prassi applicativa”, come risulta dalle desolanti conclusioni della Corte dei Conti nell’ultima Relazione sul costo del lavoro pubblico relativa all’anno 2000, confermate in sintesi dalle Relazioni sul rendiconto generale dello Stato degli anni 2001 e 2002. 165 L’espressione è di D’ANTONA, Rappresentatività e contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni, in La legge delega, il decreto legislativo, i commenti, Ediesse, Roma, 1993, 79, ed ora in Opere cit., 25: “il nuovo impianto normativo cancella l’alibi deresponsabilizzante della dirigenza amministrativa subordinata alla direzione politica e soffocata dai controlli preventivi”. 166 Così, Per tutti, tra gli innumerevoli contributi, D’ORTA, Politica e amministrazione in Commentario CARINCI–D’ANTONA, 2000, 391. Per una sintetica, ma efficace, ricostruzione dell’evoluzione normativa della dirigenza pubblica dal modello burocratico–accentratore al principio di separazione tra politica e amministrazione, cfr. MEZZACAPO, L’alta dirigenza statale tra politica e amministrazioni (osservazioni sullo “spoils system all’italiana”), in Arg. dir. lav., 2003, 709 ss. 94 autonomia che il legislatore della privatizzazione si è sforzato di puntellare e di “blindare” incessantemente 167. 6.3 – Stabilità del posto ed instabilità dell’incarico: la privatizzazione “all’italiana”. Ma una volta al riparo dalle indebite interferenze della politica, perché possa attivarsi quel “circolo virtuoso autonomia–responsabilità”168 che garantisce un efficiente esercizio del potere organizzativo, è però ancora necessario che il dirigente sia opportunamente “motivato” a conseguire gli obiettivi ed i risultati definiti dai vertici politici, oggetto di valutazione e di verifica, senza che a ciò sia di ostacolo la 167 La versione iniziale dell’art. 14, comma 3, d. lgs. n. 29 del 1993 prevedeva ancora che “gli atti di competenza dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da parte del Ministro se non per particolari motivi di necessità ed urgenza”, nel quadro del non integralmente abrogato regime pubblicistico di cui al d.p.r. n. 748 del 1972. L’attuale versione dell’art. 14, comma 3, d. lgs. n. 165 del 2001 prevede invece che “Il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti”, ma “in caso di inerzia o ritardo […] può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti”, mentre “qualora l’inerzia permanga o in caso di grave inosservanza delle direttive generali […] che determinino pregiudizio per l’interesse pubblico, il Ministro può nominare un commissario ad acta”. Rimane però salvo, ultimo residuo pubblicistico “aggrappato” alle ultime parole dell’art. 14, “il potere di annullamento ministeriale per motivi di legittimità”. 168 Locuzione emblematica assai cara a CARINCI: si veda da ultimo in Una riforma conclusa, cit., 23, ove è ripresa anche la suggestiva immagine della dirigenza come un “Giano bifronte con una faccia rivolta verso il vertice e l’altra verso l’apparato, due facce che è però “difficile far convivere in base ad una mera formula giuridica, tale da garantire, da un lato, la capacità “costituzionale” del vertice politico istituzionale di rispettare il mandato di cui è stato investito, specie se ed in quanto lo sia stato da un corpo elettorale; dall’altro, la capacità “manageriale” del corpo dirigenziale di operare secondo il circuito virtuoso autonomia/responsabilità”. 95 tranquillizzante stabilità, assicurata da un rapporto di servizio basato non già sullo spiccato vincolo fiduciario che, sulla base di un contratto, lega “dissolubilmente” il datore di lavoro privato al suo alter ego, ma su di una impersonale vittoria concorsuale che garantisce il “posto fisso” (e poi da dirigente) ed una sistemazione per tutta la vita169. 169 Per un’acuta analisi dei profili di differenziazione ed omologazione della dirigenza pubblica e privata, con riferimento sia all’accesso al rapporto dirigenziale che all’uscita dallo stesso, si veda TOSI, Dirigenze pubbliche e private, in Arg.dir.lav. 2001, 59. 96 Non volendo o non potendo incidere sulla stabilità del posto di lavoro del dirigente pubblico170, nonostante la di- 170 Nel settore privato, come è noto, si può ottenere il riconoscimento giudiziale della dirigenza anche in difetto di riconoscimento formale da parte del datore di lavoro. Invero, secondo una consolidata massima “la qualifica di dirigente spetta al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, o di una branca o settore autonomo di essa, e sia in concreto investito di attribuzioni che,per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentano, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro,di imprimere un indirizzo e un orientamento, con le corrispondenti responsabilità ad elevato livello, al governo complessivo dell’azienda e alla scelta dei mezzi produttivi di essa” (per tutte, da ultima, Cass. 9 settembre 2003, n. 13191). Nel settore pubblico non opera il fondamentale principio di effettività a tutela del lavoro, tipico di quello che dovrebbe essere il diritto “comune” del lavoro, ma piuttosto il principio di intangibilità delle dotazioni organiche a tutela dell’efficienza organizzativa della pubblica amministrazione, cosicché “l’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e negli enti pubblici non economici, avviene per concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni, ovvero per corso–concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione” (art. 28, d. lgs. n. 165 del 2001). È poi possibile il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali alle “persone di particolare e qualificata qualificazione professionale” di cui all’art. 19, comma 6, d. lgs. n. 165 del 2001. Non è ovviamente mai possibile il conseguimento della qualifica dirigenziale per esercizio di fatto delle relative funzioni. Cfr. TOSI, Dirigenze pubbliche e private, cit., 69, che registra “la radicale diversità e sostanziale incomunicabilità delle due aree, dirigenza privata e pubblica, con riguardo al profilo dell’accesso alla qualifica dirigenziale”, e conclude nel senso che “sono scarsamente prospettabili percorsi omologativi nell’una come nell’altra direzione”. 97 sposta contrattualizzazione del rapporto 171, il legislatore ha pensato bene di incidere sulla stabilità degli incarichi dirigenziali (e dei correlati trattamenti economici di posizione), evocando, a fini motivazionali, prospettive premiali (ottenere o conservare un incarico) o afflittive (perderlo o non mantenerlo). Ed ecco l’idea di fondo: se il dirigente pubblico, pur contrattualizzato, non deve poter mai, o quasi mai, rischiare di perdere il posto di lavoro per inefficiente gestione 172, quel medesimo dirigente deve, però, quantomeno accettare l’idea di poter essere rimosso dalle funzioni e collocato “a disposizione” in caso di “mancato conseguimento degli obiettivi prestabiliti della gestione” 173, cioè di subire quello che — nel settore privato — verrebbe considerato un vero e proprio declassamento o “accantonamento”, per giunta pu- 171 Ricordiamo che la questione di legittimità costituzionale rigettata da Corte cost. n. 313 del 1996, era stata sollevata dal TAR del Lazio, nel corso di un giudizio promosso da dirigenti non generali per l’annullamento di una circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri recante indirizzi per la prima attuazione della riforma della dirigenza, sotto il profilo della lesione del principio di imparzialità conseguente alla introduzione del principio civilistico del recesso per venir meno del rapporto fiduciario che la contrattualizzazione del rapporto dirigenziale avrebbe comportato. 172 Osserva RUSCIANO, La dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, cit., 511, nell’evidenziare la rottura “con l’antica filosofia dell’impiego pubblico”, che “alla posizione di «parte contrattuale» è legata l’idea della precarietà, dell’antagonismo degli interessi, del rischio del lavoro, di una maggiore responsabilità delle scelte e dei risultati, della «parte contrattuale competizione di mercato», della «creatività rampante»: tutti elementi ritenuti poco coerenti con l’esercizio di una funzione pubblica, in cui è appunto in gioco l’interesse generale, da perseguire con imparzialità sotto la maestà della legge”. 173 Art.2, comma 1, lett. g), n. 3, l. n. 421 del 1992. 98 nitivo 174, senza che a ciò siano di ostacolo i fondamentali principi di tutela della professionalità e di irriducibilità della retribuzione propri di quello che pure dovrebbe essere il diritto “comune” del lavoro: principi applicabili senza riserve ai dirigenti privati175 (pur privi di garanzie legali di stabilità del rapporto, e dunque certamente licenziabili per inefficienza nella gestione), che vengono invece espressamente accantonati nei confronti dei dirigenti pubblici, con una doppia deroga espressa all’art. 2103 cod. civ.176. Alla sicurezza del posto fisso (motivo di inefficienza accettato con rassegnazione dal legislatore della privatizzazione) deve quantomeno corrispondere l’insicurezza dell’incarico, con conseguente precarietà della posizione pro174 L’art. 2, comma 1, lett. g), n. 3, l. n. 421 del 1992 delegava il governo a prevedere “la mobilità, anche temporanea, dei dirigenti, nonché la rimozione delle funzioni e il collocamento a disposizione in caso di mancato conseguimento degli obiettivi prestabiliti della gestione”. 175 Ed anzi, come è noto, il più elevato livello di responsabilità e professionalità richiesto per le prestazioni dirigenziali rende più agevolmente configurabile e più grave il danno da declassamento. 176 La deroga all’art. 2103 c.c. riguarda sia il profilo negativo della tutela della professionalità, e cioè il divieto di adibizione a funzioni inferiori, sia il profilo positivo inerente alla corrispondenza tra funzioni ed inquadramento. Sotto il primo profilo, si esclude che la delega da parte del dirigente di talune funzioni dirigenziali “ai dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati” possa far sorgere il diritto ad un superiore inquadramento nella categoria dirigenziale o anche solo alle relative differenze retributive (sembra questo il significato dell’ultimo inciso dell’art. 16, comma 1bis, aggiunto dall’art. 2, l. n. 145 del 2002, di riforma della dirigenza statale, che dunque, con riferimento alla specifica fattispecie regolata, sembra avere portata derogatoria più ampia rispetto alla deroga generale all’art. 2103 c.c. di cui all’art. 52 d. lgs. n. 165 del 2001). Sotto il secondo profilo, l’art. 19 (Incarichi di funzioni dirigenziali) dispone, come è noto, che “al conferimento degli incarichi ed al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 del codice civile”. 99 fessionale e retributiva acquisita, sì da stimolare i dirigenti a competere tra di loro, a raggiungere gli obiettivi assegnati dai vertici politici o dai dirigenti generali ed a rispettarne le direttive. Vengono così immessi in dosi sempre più massicce 177, nella disciplina degli incarichi dirigenziali, fattori di precarietà, di instabilità e di insicurezza (sia pure “all’italiana”, cioè con il paracadute di un rapporto di servizio mai messo in discussione), in uno sforzo di emulazione del rapporto dei dirigenti di imprese private, laddove, tuttavia, l’inefficienza della gestione mette seriamente a rischio il posto di lavoro e non solo l’incarico. Ma proprio perché qui non è mai (o quasi mai) in discussione il posto di lavoro (come si direbbe in gergo privatistico), teatro della competizione non è il mercato del lavoro “esterno” (cui, se mai, la pubblica amministrazione può attingere entro determinati limiti percentuali, per il conferimento degli incarichi, così da allargare il bacino dei competitori, e motivare ulteriormente i dirigenti interni) e, dunque, l’emblema della vittoria non è l’assunzione (conseguente ad una selezione concorsuale e non già ad una scelta fiduciaria)178. 177 Si parte dalla “variabilità” prevista dalla prima privatizzazione, alla necessaria “temporaneità”, prevista dalla seconda, alla asserita “precarietà” prevista dalla riforma Frattini. 178 Osserva efficacemente MAZZOTTA, Attribuzioni e poteri del dirigente sanitario, cit., 487, che “nessuno è tanto ingenuo da pensare […] che la semplice apertura all’autonomia privata possa d’incanto produrre efficienza e elasticità […]. Il contratto infatti non crea il mercato, ma lo presuppone e senza le dure leggi di quest’ultimo le regole gestionali rischiano di vivere in un’atmosfera del tutto innaturale”; ma si veda già in Privatizzazioni e diritto del lavoro, in Privatizzazioni e rapporto di lavoro, Quaderni dir.lav.rel.ind., 1995, n. 18, 9, ss. 100 Teatro della competizione, tra dirigenti già stabilmente incardinati e sicuri di non perdere il posto, è invece una sorta di mercato interno alle amministrazioni dello Stato (pur aperto ad un contingente di professionalità esterne), appositamente creato dal legislatore per favorire la mobilità e la gestione “variabile” e “flessibile” dei dirigenti, e l’emblema della vittoria nella competizione è (non già il posto, cui il dirigente resta comunque saldamente ancorato a vita, ma) l’attribuzione di un incarico di direzione 179, la cui necessaria temporaneità180 persegue proprio il fine di perpetuare le condizioni di competitività, tenendo sotto tensione il dirigente. E poiché le parole giocano un ruolo importante nello stimolare l’auspicato cambio di mentalità del dirigente 179 I contratti collettivi delle Aree dirigenziali, quadriennio 1998–2001 specificano però che “tutti i dirigenti hanno diritto ad un incarico”, anche se non necessariamente di direzione di uffici dirigenziali (cfr. art. 13, ccnl Area 1; art. 13 ccnl Regioni — autonomie locali; art. 28 ccnl. Area della dirigenza medica e veterinaria, che però prevede che al dirigente all’atto dell’assunzione possano essere conferiti solo “incarichi professionali”). I medesimi contratti stabiliscono che le amministrazioni, nel caso in cui non intendano confermare l’incarico in precedenza ricoperto, e non vi sia una espressa valutazione negativa, devono conferire al dirigente un incarico di livello almeno equivalente (ad es. art. 13, comma 4, ccnl Area 1; art. 33 ccnl Area dirigenza medica e sanitaria, che prevede in caso di valutazione positiva la conferma dell’incarico o il conferimento di incarichi di “maggior rilievo professionali o gestionali”). 180 La necessaria temporaneità dell’incarico è stata prevista dall’art. 19, dell’allora d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo modificato dall’art. 13, d.lgs. n. 80 del 1998. In precedenza, la norma prevedeva l’ipotesi del “passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse”, e l’applicazione “di norma” del “criterio della rotazione degli incarichi” (art. 19, d. lgs. n. 29 del 1993). I contratti collettivi per la dirigenza pubblica all’epoca vigenti prevedevano comunque che gli incarichi dirigenziali fossero “di norma” a tempo determinato (cfr. ad es. art. 22, comma 4, ccnl. 9 gennaio 1997 dirigenti ministeri). 101 pubblico ecco che, a sorpresa181, il legislatore associa un po’ surrettiziamente all’incarico di funzioni dirigenziali, atto unilaterale dell’amministrazione, un contratto (che si aggiunge e sovrappone al contratto “base”, svuotato correlativamente di qualsiasi contenuto identificativo delle funzioni), quasi a voler sottolineare il ruolo della volontà del dirigente, e renderlo edotto della sua “forza contrattuale” nei confronti dell’amministrazione, conquistata con il conseguimento degli obiettivi e l’osservanza delle direttive (i due profili della responsabilità dirigenziale). L’unica categoria (quella dirigenziale) che sarebbe dovuta restare fuori dalla auspicata privatizzazione, stante la configurabilità del rapporto d’ufficio accanto a quello di servizio, è stata invece l’unica ad essere destinataria non solo di una specifica disciplina, ma anche di una doppia contrattualizzazione: al momento dell’assunzione, ed in occasione dell’attribuzione degli incarichi temporanei di funzioni dirigenziali. Ciò che, di certo, segna un ulteriore irriducibile scarto rispetto al regime di diritto (pretesamente) comune proprio della dirigenza privata, laddove l’adibizione a nuove mansioni non è oggetto di un nuovo contratto, ma di un provvedimento unilaterale del datore di lavoro, sottoposto all’unico limite (inoperante per la dirigenza pubblica) dell’equivalenza delle nuove mansioni: provvedimento cui il dirigente può reagire solo dimettendosi per una sorta di giusta causa convenzionalmente tipizzata, in 181 Per non dire con eccesso di delega, non essendo in alcun modo prevista dall’art. 11, comma 4, l. n. 58 del 1997 alcuna contrattualizzazione dell’incarico, né potendosi essa desumere dalla delega a completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato. 102 caso di modifica sostanziale della sua posizione, e salva l’impugnativa di un eventuale declassamento182. 6.4 – La prima riforma della dirigenza privatizzata: dalla variabilità alla temporaneità degli incarichi Muovendosi più decisamente nella descritta logica di responsabilizzazione della dirigenza, il legislatore della seconda privatizzazione ha arruolato anche la dirigenza generale, renitente alla leva della prima; ha soppresso le due vecchie qualifiche dirigenziali e previsto l’istituzione di un ruolo unico dei dirigenti statali, articolato in due fasce, concepito come una sorta di “succedaneo del mercato”, cui attingere flessibilmente per il conferimento degli incarichi183 ; ha affidato ad un contratto, distinto da quello di lavoro (o di prima assunzione), la “definizione” dell’oggetto, degli obiettivi, della durata dell’incarico e del “corrispon- 182 Art. 25 CCNL 26 aprile 1995, per i dirigenti di aziende commerciali; art. 16 CCNL 27 aprile 1995, per i dirigenti di aziende industriali; art. 28 CCNL 22 luglio 1996 per i dirigente di imprese assicurative. Al dirigente che si dimetta adducendo a motivo il mutamento delle mansioni (o dell’attività) sostanzialmente incidente sulla sua posizione entro il termine di […] compete l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento. 183 Art. 23, d. lgs. n. 165 del 2001, come sostituito dall’art. 15, d. lgs. n. 165 e prima di essere sostituito dall’art. 3, l. n. 145 del 2002. L’espressione virgolettata nel testo e di D’ORTA, Evidenzia profili di incostituzionalità per eccesso di delega cfr. CARINCI, La dirigenza nelle amministrazioni dello Stato…, cit., p. 28. 103 dente trattamento economico”184, creando così una difficile ed artificiosa convivenza con il correlato atto di conferimento dell’incarico, di incerta natura e collocazione rispetto al contratto185; ha previsto criteri oggettivi e soggettivi per un più efficiente conferimento degli incarichi, con discussa applicazione (sia pure “di norma”) del criterio della rotazione 186; ha introdotto un principio di necessaria temporaneità degli incarichi di direzione (e solo di essi e non anche di quelli di staff) fissandone una durata minima (non troppo breve) ed una massima (sufficientemente lunga da “scavalcare” una legislatura a garanzia dell’imparzialità del dirigente)187 ; ha stimolato la concorrenza dall’esterno (ampliando nel contempo la scelta dell’amministrazione), me184 Di “ibrido tra pubblico e privato”, di “difficile interpretazione e qualificazione”, al punto da “costituire un autentico punctum dolens parla CARINCI, La dirigenza nelle amministrazioni dello Stato…, cit., p. 38. Rileva una “intrinseca contraddizione” tra la contrattualizzazione degli incarichi e l’altra “scelta di fondo della riforma” di separare la politica dall’amministrazione, RUSCIANO, La dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, cit., pag. 515, il quale osserva che “rimettere all’autonomia negoziale dei soggetti del contratto la determinazione anche solo di taluni profili del rapporto significa far rientrare dalla finestra ciò che si è fatto uscire dalla porta”. 185 La tribolazione di dottrina e giurisprudenza sul punto è stata resa pressoché vana (ed è iniziare daccapo) per effetto delle seguenti parole immesse nell’art. 19, comma 2, dall’art. 3, l. n. 145 del 2002: “Al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico”. 186 Art. 19, comma 1, d. lgs. n. 165 del 2001, vecchio testo, che prescriveva doversi tener conto “della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza”. 187 Art. 19, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001 vecchio testo, che prevedeva una durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo. 104 diante affidamento di incarichi di direzione a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale”, e dall’interno, mediante affidamento dei più alti incarichi anche a dirigenti di seconda fascia, sia pure, in entrambi i casi, entro ben definiti limiti percentuali188 ; ha introdotto uno “spoils system all’italiana” per i dirigenti apicali189; ha regolato la responsabilità dirigenziale di tipo gestionale (pur se non ben distinta dalla responsabilità disciplinare)190 , sanzionata — all’esito di valutazioni oggettive regolate per legge191 — da misure progressive quali la revoca dell’incarico e la destinazione “interlocutoria” ad altro incarico, anche non di direzione, o di staff (di tipo ispettivo, o di consulenza, studio o ricerca), in caso di “risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o di mancato rag188 Art. 19, commi 4 e 6, d.lgs. n. 165 del 2001. 189 Art. 19, comma 8, d.lgs. n. 165 del 2001 vecchio testo, secondo cui “Gli incarichi di direzione degli uffici dirigenziali di cui al comma 3 possono essere confermati, revocati, modificati o rinnovati entro novanta giorni dal voto di fiducia al Governo. Decorso tale termine si intendono confermati fino alla loro naturale scadenza”. Il riferimento all’italianità della misura (grave, ma non seria) allude alla circostanza che il dirigente può perdere l’incarico, ma assai difficilmente perderà il posto. 190 Cfr. sul punto TULLINI, La responsabilità del dirigente pubblico, cit. 593, che rileva come la logica della omogeneizzazione con la dirigenza privata imporrebbe di non distinguere tra responsabilità gestionale e quella disciplinare, mentre, anche dopo la privatizzazione, sembra riprodursi, per la dirigenza pubblica, “la separazione ontologica e concettuale tra la responsabilità dirigenziale e l’ordinaria colpa disciplinare”, per effetto di un “equivoco sulla natura giuridica della responsabilità dirigenziale […] alimentato dal recupero presocché integrale, compiuto dalla dottrina giuslavoristica (oltre che da quella pubblicistica), dell’elaborazione giurisprudenziale […] intorno alla disposizione dell’art. 19 del d.p.r. n. 748 del 1972, che aveva già introdotto una forma di responsabilità gestionale a carico della dirigenza statale”. 191 Art. 5, d.lgs. n. 286 del 1999. 105 giungimento degli obiettivi”192, ovvero, previo conforme parere di un comitato di garanti, l’esclusione “dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato per un periodo non inferiore a due anni”, in caso di “grave inosservanza delle direttive o di ripetuta valutazione negativa”, mentre solo nei casi di “maggiore gravita” (riferita pur sempre ad ipotesi che sono comunque già di “grave inosservanza delle direttive e di ripetuta valutazione negativa”, e dunque appaiono di per sé molto gravi) il legislatore della privatizzazione osa infran- 192 Cfr. sul punto TALAMO, I dirigenti di staff, in Lav. pubb.amm., 2003, 797, ed ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza, ordinaria ed amministrativa sulla questione relativa alla “minorità” degli incarichi di staff rispetto a quelli di direzione. L’A., pur osservando in linea teorica che “non pare possibile sostenere a livello ordinamentale l’esistenza di un trattamento deteriore per le funzioni diverse dalla direzione di un ufficio”, deve in concreto rilevare che “sotto la species del conferimento dell’incarico non di struttura, al di là del nomen iuris, potrebbe essere riconosciuta, volta per volta, un’obiettiva intentio affittiva, e ciò anche in relazione al nuovo regime di conferimento degli incarichi dirigenziali che presente in nuce il carattere di una nuova precarietà per il dirigente” 106 gere un tabù, utilizzando, per la prima ed unica volta, il verbo “recedere” 193. Nell’ultima stesura, all’esito della seconda riforma della dirigenza privatizzata, i poteri dell’amministrazione sembrano essere stati rafforzati con qualche aggiustamento lessicale, potendo essa disporre in caso di “mancato raggiungimento degli obiettivi”, o di “inosservanza delle direttive” (che comunque comporta, allo scadere, “ferma re193 Art. 21, d.lgs. n. 165 del 2001 vecchio testo. I contratti collettivi delle Aree dirigenziali, hanno mantenuto ferma la disciplina relativa al “collegio di conciliazione”, competente a decidere sui ricorsi proposti dal dirigente che “non ritenga giustificata la motivazione posta a base del recesso dell’amministrazione”, prevista dai precedenti contratti collettivi dirigenziali (ad es. art. 30 ccnl. 9 gennaio 1997, dirigenti comparto ministeri implicitamente richiamato dall’art. 36 del ccnl. per il personale dirigente dell’AREA 1, quadriennio 1998–2001; art. 30 ccnl. 10 aprile 1996, dirigenti Regioni– autonomie locali, come modificato dall’art. 18 del successivo ccnl. 1998–2001): disciplina che, come è noto, è modellata su quella prevista dai contratti collettivi per i dirigenti del settore privato, con riconoscimento di una “indennità supplementare” in caso di accoglimento del ricorso. Il differenziale rispetto alla dirigenza privata non è tanto nel tipo di tutela (che comunque, per il dirigente pubblico, appare fortemente orientata alla reintegrazione, posto che, ad es., “in caso di accoglimento del ricorso l’amministrazione non può assumere altro dirigente nel posto precedentemente coperto dal ricorrente, per un periodo corrispondente al numero di mensilità riconosciute al medesimo”), quanto nella gravità del motivo che giustifica il licenziamento. Ed invero, per il dirigente pubblico il recesso è misura estrema che può essere irrogata solo nei casi di responsabilità dirigenziale (mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero inosservanza delle direttive) connotati da maggiore gravità, previa valutazione con i sistemi e le garanzie di cui all’art. 5, n. 286 del 1999 (art. 21, d.lgs. n. 165 del 2001). Si pensi solo che, prima che possa prendere in considerazione l’idea del recesso, l’amministrazione terrà conto del fatto che il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive possono comportare — secondo la gravità dei casi — l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale (responsabilità “lieve”) o la revoca anticipata dello stesso ed il collocamento a disposizione (responsabilità grave). Solo in caso di responsabilità gravissima sarà pertanto possibile il recesso. I contratti collettivi prevedono ovviamente 107 stando la responsabilità disciplinare, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico”), la revoca dell’incarico medesimo con collocamento del dirigente “a disposizione dei ruoli”, ovvero “il recesso dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”, “in relazione alla gravità dei casi”194. Tutti provvedimenti, quelli ora ricordati, che possono essere adottati solo “previo conforme parere di un “comitato di garanti”. Certo, a parte l’isolata apparizione del temuto sostantivo “recesso” nel rinnovato lessico lavoro pubblico privatizzato, non v’è nulla di nemmeno lontanamente paragonabile rispetto al “rischio” che incombe sul dirigente privato, escluso dalla stabilità legale, e “protetto” da una stabilità convenzionale sostanzialmente disinnescata, o, quantomeno, depotenziata, per effetto di interpretazioni giurisprudenziali (orientate da un giudice di legittimità che sembra essersi voluto riservare, nel caso, la diretta interpretazione dei contratti collettivi195), tendenti a far coincidere la nozione convenzionale di giustificatezza del licenziamento 194 Art. 21 d.lgs. n. 165 del 2001 come sostituito dall’art. 3, comma 2, l. n. 145 del 2002, che, a ben vedere, contempla due ipotesi trattate unitariamente (mancato raggiungimento degli obiettivi ed inosservanza delle direttive), la cui ricorrenza — oggetto di valutazione — comporta, in relazione alla gravità dei casi, l’impossibilità di rinnovo dell’incarico (che appare in qualche modo vincolata), la revoca dell’incarico ed il collocamento a disposizione, il recesso. 195 Sia consentito il rinvio, per i riferimenti, a PILEGGI, Sulla pretesa inapplicabilità dell’art. 2106 c.c. al dirigente e sul preteso divieto di omologarlo alle altre categorie di lavoratori subordinati, nota a Cass. 12 ottobre 1996, n. 8934 ed a Cass. 25 novembre 1996, n. 10455, in Dir.lav., 1997, II, 153. L’orientamento criticato si è poi consolidato. 108 con quella di non arbitrarietà196. Al punto che a rendere giustificato il licenziamento del dirigente privato, basta “essenzialmente” la mera “perdita di fiducia”, anche se non ricollegabile a specifiche mancanze, ma ad una “globale valutazione che ne escluda, per l’appunto, l’arbitrarietà” 197. E la rilevanza del vincolo fiduciario (percepito soggettivamente dalla proprietà, e non valutato oggettivamente da organismi terzi e competenti, come è nel caso della diri196 Cfr., per tutte, da ultimo, Cass. 27 agosto 2003, n. 12562: “Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, e la esclusione nel suo ambito di un licenziamento qualificabile come disciplinare, ai fini della giustificatezza del licenziamento stesso può rilevare qualsiasi motivo purché esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, a fronte del quale non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del licenziamento” 197 L’orientamento in questione è stato inaugurato, come è noto, da Cass. S.U. 29 maggio 1995, n. 6041, in Dir.lav., 1995, II, 89, con nota di AMOROSO, Lss.UU. non ammettono il licenziamento disciplinare del dirigente. Si consenta anche il rinvio a PILEGGI, Le sezioni unite promuovono un contrasto di giurisprudenza sul licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir.lav. 1996, I, 196. Si alludeva nel commento alla circostanza che dopo il noto intervento “creativo” della Corte costituzionale (Corte cost. 25 luglio 1989, n. 427, con nota di PERA, Le garanzie procedurali del licenziamento nelle piccole imprese), la giurisprudenza di legittimità si era decisamente orientata (cinque sentenze su cinque) nel senso di ritenere applicabili anche al licenziamento disciplinare del dirigente le garanzie del procedimento disciplinare, cosicché le Sezioni unite, nel sostenere l’orientamento opposto, creavano quel contrasto di giurisprudenza che asserivano di voler comporre. La giurisprudenza di legittimità successiva si è tuttavia adeguata all’orientamento delle Sezioni unite, sia pure con applicazione limitata alla dirigenza di vertice, e salva qualche recente “ribellione” (cfr. ad es. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, secondo cui “le garanzie procedimentali […] ai fini della irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole”). 109 genza pubblica) sarebbe talmente “spiccata”, secondo la costante giurisprudenza, da rendere addirittura non configurabile un potere (ed una responsabilità) disciplinare nei confronti del dirigente privato in posizione apicale198, con conseguente non operatività delle garanzie dirette a limitare quel potere. Alla base dell’orientamento ricordato v’è forse la considerazione empirica che il dirigente privato apicale se gestisce in modo efficiente l’impresa è comunque “protetto”, sul piano delle convenienze, dall’interesse privato del datore di lavoro al “buon andamento” della sua impresa: interesse che alimenta quella fiducia che, secondo la Suprema 198 Invece, per la dirigenza pubblica, l’art. 21, d.lgs. n. 165 del 2001 mantiene espressamente ferma la “eventuale responsabilità disciplinare prevista dai contratti collettivi”. Questi ultimi, dal canto loro, pur non dettando specifiche norme sulla responsabilità disciplinare del dirigente, prevedono comunque una procedura disciplinare modellata sull’art. 7, l. n. 300 del 1970 in caso di recesso per giusta causa (ad es. art. 27, comma 3, ccnl. dirigenti ministeri, implicitamente richiamato dal successivo contratto collettivo dell’Area 1, ove si dispone che “prima di formalizzare il recesso, l’amministrazione contesta per iscritto l’addebito convocando l’interessato, per una data non anteriore al quinto giorno dal ricevimento della contestazione, per essere sentito a sua difesa. Il dirigente può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un legale di sua fiducia”). I contratti collettivi prevedono inoltre garanzie procedimentali anche nell’ambito del procedimento di valutazione, assicurando comunque il contraddittorio prima di una valutazione negativa (ad es. art. 35 ccnl Area 1, che dispone sia “osservato il principio della partecipazione al procedimento del valutato, anche attraverso la comunicazione ed il contraddittorio da realizzare in tempi certi e congrui”. Inoltre per l’intera dirigenza pubblica i provvedimenti inerenti alla responsabilità dirigenziale possono essere adottati soltanto previo conforme parere del comitato dei garanti di cui all’art. 22, d .lgs. n. 165 del 2001. È evidente lo scarto rispetto alla dirigenza apicale del settore privato laddove innanzitutto la giurisprudenza configura esclusivamente una responsabilità gestionale che comporta il venir meno della fiducia, e che può essere fatta valere direttamente attraverso il licenziamento, senza l’osservanza delle garanzie del procedimento disciplinare. 110 Corte, deve sempre sostenere il rapporto dirigenziale, ad onta di regimi di stabilità convenzionale che non possono non tenerne conto 199. L’ondata di ritorno provocata da un orientamento giurisprudenziale tendente a salvaguardare il valore della fiducia che l’impresa deve sempre riporre nella dirigenza apicale, ha però scavato un profondo solco con la dirigenza minore, che ha così finito per essere “risucchiata” dalla risacca nel regime di tutela applicabile alle altre categorie di dipendenti, con riferimento non solo alle garanzie del procedimento disciplinare, ma anche alla stabilità legale del rapporto 200. Per il dirigente pubblico (anche se apicale) i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il 199 Secondo l’antesignana Cass. S.U. 29 maggio 1995, n. 6041, secondo cui per considerare giustificato un licenziamento “è sufficiente pensare, ad e sempio, alla ripetuta perdita di importanti forniture, ai risultati di bilancio non riferibili alla congiuntura ecc.; è infatti evidente che la fiducia a livello dirigenziale si esprime innanzi tutto con riguardo alla valutazione complessiva dell’attività svolta e dei risultati ottenuti”. Per il dirigente pubblico una valutazione negativa può comportare soltanto l’impossibilità di conferma dello stesso incarico. 200 Secondo un orientamento ancora minoritario, ma in via di ripresa, “La regola della licenziabilità "ad nutum" dei dirigenti, prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966, è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, le cui effettive mansioni, nell’ambito dell’azienda, siano caratterizzate dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi” (così, Cass. 9 aprile 2003, n. 5526, in Arg.dir.lav. 2003, 861, ed in Mass. giur.lav.,2003, 676, con nota di DEL PUNTA, Il valzer delle tutele: ancora su art. 7 St. Lav., recesso ad nutum e licenziamento del dirigente e Cass. 28 maggio 2003, n. 8486, in Notiz.giur.lav. 2003, 594). 111 mancato raggiungimento degli obiettivi, e persino la grave inosservanza delle direttive o la ripetuta valutazione negativa sono invece inidonei a scalfire il dogma pubblicistico della stabilità del rapporto di servizio: rapporto che resiste strenuamente a qualsiasi inefficienza (o quasi), pur se esposto a modifiche peggiorative (revoca dell’incarico e collocamento a disposizione), sulla granitica base del contratto di assunzione: contratto che, dunque, non prevede l’assegnazione di specifiche funzioni, ma “in singolare sintonia con la tradizione del pubblico impiego […] assicura al funzionario una data posizione professionale e giuridica per la sua sola «appartenenza» al ceto burocratico, ora tradotto giuridicamente nel «ruolo unico»”201. Gli effetti della gestione inefficiente — valutata secondo i criteri e le garanzie di legge — si “scaricano” invece quasi interamente sul rapporto d’ufficio (essendo contrario all’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione il mantenimento di funzioni il cui svolgimento sia stato negativamente valutato), e, di riflesso, sulla professionalità del dirigente, come reso possibile dalla “deroga” all’art. 2103 cod. civ.: una deroga che appare quasi costituzionalmente necessitata a salvaguardia dell’efficienza della pubblica amministrazione, una volta confermata la scelta di garantire comunque al dirigente inefficiente la conservazione del rapporto di servizio, attraverso una sorta di versione contrattualizzata delle garanzie di status. 201 Così, RUSCIANO, La dirigenza nell’amministrazione centrale dello Stato, cit., pag. 516, che parla di un “ibrido” tra la logica del contratto e la logica dello status con il “rischio che questo ibrido produca gravi complicazioni nella gestione dello status dirigenziale”. 112 Ed anche la perdita di fiducia presunta, conseguente a quella sorta di trasferimento della proprietà aziendale”202 rappresentato dal “voto sulla fiducia al governo”, produce effetti (tipicamente “italiani”, cioè) solo sul rapporto d’ufficio, determinando la cessazione dell’incarico “decorsi novanta giorni” da quel voto203, fermo restando il rapporto di servizio. Ora v’è da dubitare seriamente che la disciplina contrattualizzata degli incarichi dirigenziali, con il prevedere espressamente, quale sanzione dell’inefficienza della gestione, che il dirigente — pur mantenendo tutti i trattamenti collegati al proprio “status contrattualizzato — possa essere lasciato inattivo o sotto–utilizzato (con i consueti effetti di conflittualità, di demotivazione, di dispersione del bagaglio professionale acquisito, che non risentono certo della natura pubblica del rapporto), sia coerente con le finalità di contenimento del costo del lavoro pubblico, di accrescimento 202 Come è noto i contratti collettivi per la dirigenza privata tengono conto “delle particolari caratteristiche del rapporto dirigenziale”, in caso di “trasferimento di proprietà dell’azienda, ivi compresi i casi di concentrazioni, fusioni, scorpori”, consentendo al dirigente “che non intenda proseguire nel rapporto” di recedere senza preavviso con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso o ad una parte di essa (ad es. art. 13 ccnl dirigenti di aziende industriali 27 aprile 1995 art. 22, ccnl. dirigenti di aziende commerciali 26 aprile 1995). 203 Art. 19 , comma 8, d. lgs. n. 165 del 2001 con riferimento agli incarichi di cui al comma 3 del medesimo articolo. Il vecchio testo prevedeva invece che gli incarichi de quibus potessero essere “confermati, revocati, modificati o rinnovati” entro lo stesso termine, sulla base di apposito provvedimento, in difetto del quale “si intendono confermati fino alla loro naturale scadenza”. 113 dell’efficienza della pubblica amministrazione, di realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane204. Ed invero la “sanzione”, senza sbocchi, dell’assegnazione a funzioni inferiori o generiche non colpisce solo il dirigente inefficiente, o ritenuto tale, ma la stessa pubblica amministrazione, e l’intera collettività, costretta a sopportare sine die un costo improduttivo. Il legislatore sembra dunque tradurre in precetto quanto è frutto di evidenza empirica, attraverso l’esame della giurisprudenza: la forte stabilità (che nel caso della dirigenza pubblica non è messa in discussione neanche da una gestione gravemente inefficiente) tende inevitabilmente a favorire, quale unica alternativa al recesso, misure” organizzative comportanti (per dirla con le parole del diritto “comune” del lavoro) l’adibizione a mansioni inferiori o addirittura la costrizione in stato di inattività, lesive della professionalità, dell’integrità psico–fisica e della personalità morale del dipendente ritenuto, a torto o a ragione, inefficiente o incapace 205. Gli strumenti di tutela del dirigente pubblico sono però “spuntati” per effetto della prevalenza dell’interesse organizzativo della pubblica amministrazione a non conferire 204 Se non si tratta di un sorta di istituzionalizzazione e legittimazione del declassamento e del mobbing poco ci manca. 205 Si veda il volume sul Mobbing curato dal Formez, nell’ambito della rivista Gestione delle risorse umane. Strumenti e orientamenti, 2003, ed in particolare VERBARO, Le condizioni di lavoro del pubblico impiego in Italia, 49, ed il quesito dallo stesso posto: “Riferisce, giustamente, la Risoluzione del Parlamento Europeo del settembre 2001 la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza dei suddetti fenomeni. Eppure l’impiego pubblico viene considerato come il lavoro più stabile, più sicuro, il famoso «posto fisso». Perché, allora, secondo l’ISPELS, il 71% del fenomeno del mobbing avviene presso il settore pubblico?”. 114 incarichi di direzione a dirigenti inefficienti, sull’interesse del dirigente alla salvaguardia della propria professionalità: interesse, quello dell’organizzazione, che si traduce — previa deroga espressa al principio dell’equivalenza delle mansioni — nel potere (se non nel dovere) di revocare l’incarico di direzione, e di adibire il ricorrente ad altro incarico ovvero, “in relazione alla gravità dei casi”, di collocare il dirigente “a disposizione”, come dispone ora l’art. 21, d. lgs. n. 165 del 2001. Anche sotto un simile profilo appare davvero arduo parlare di un diritto “comune” del lavoro pubblico e privato con riferimento alla dirigenza. 6.5 – La seconda riforma della dirigenza privatizzata: dalla temporaneità alla “precarietà” degli incarichi La seconda riforma della dirigenza privatizzata (a distanza di appena quattro anni dalla prima206) — per quanto valutata perlopiù in termini di controriforma 207 e di “arre- 206 L’imponente produzione dottrinale che la prima riforma della dirigenza privatizzata aveva stimolato nei suoi appena quattro anni di vita intensa, è improvvisamente “invecchiata” e gli A. sono stati così costretti ad un profondo maquillage dei loro scritti per effetto del “riordino” del 2002. Per un commento monografico alla riforma cfr. VALENSISE, La dirigenza statale, Torino, 2002. 207 COLAPIETRO, La “controriforma” del rapporto di pubblico impiego, in Nuove leggi civ.comm. 2002, 639. 115 tramento” sulla strada della privatizzazione208 — sembra collocarsi piuttosto nel solco della prima209, che tuttavia traccia ancor più in profondità, con l’accentuare l’instabilità degli incarichi, così da arrecare un più accentuato turbamento alla “tranquillità psicofisica” dei dirigenti pubblici, e spronarli ad una gestione più efficiente, ma (ed è questo il pericolo paventato) meno autonoma dalla politica e quindi imparziale. Ed invero, l’ultimo “stato di avanzamento” nei lavori in corso su quella sorta di “Sa–RC” che è il regime della dirigenza pubblica, sembra voler valorizzare un peculiare profilo di efficienza della gestione amministrativa: quello relativo alla coerenza o consentaneità della gestione con l’indirizzo politico–amministrativo definito dagli organi di governo. Se è vero, infatti, che l’autonomia dalla politica è condizione per una gestione efficiente, perché responsabile dei risultati (in quanto effettivamente imputabili al dirigente, non “scaricabili” sul ministro di turno e, dunque, idonei a fondare la responsabilità dirigenziale), è anche vero che una gestione efficiente è anche quella coerente con gli atti 208 “Il provvedimento sembra attraversato da una sindrome nostalgica, manifestando in diversi momenti la tendenza a richiamare in via la vecchia realtà del pubblico impiego, caratterizzata da forme di ingerenza politica nella gestione del personale, dall’uso di atti pubblicistici, dalla utilizzazione di modelli strutturali e schemi operativi rigidi e di impronta formalistica, dalla interlocuzione privilegiata di istanze settoriali (se non clientelari), dalla scissione degli interventi sul personale rispetto a quelli sull’organizzazione e sulle funzioni degli uffici” (così, D’ALESSIO, La legge di riordino, cit., 235). 209 Cfr. ad esempio, nel quadro di una interpretazione tendente a minimizzare la portata della riforma e ricondurla a sistema, CORPACI, Il nuovo regime del conferimento degli incarichi dirigenziali: la giurisdizione sugli incarichi dirigenziali, in Lav.pubbl.amm., 2003, 217 116 di indirizzo definiti dagli organi di governo (vincolati, a loro volta all’attuazione del programma nei confronti del corpo elettorale, specie in un sistema maggioritario), e che si basi sulla fiducia nel (e sulla “fedeltà” del) dirigente, per dirla con lessico proprio del diritto “comune” del lavoro. Ma si tratta di semplici assonanze. Ed invero, nell’impresa privata interesse (privato) al buon andamento della medesima impresa e fiducia nel dirigente si saldano, né l’impresa è tenuta all’imparzialità: la fiducia nel dirigente trae alimento proprio dalla convinzione che lo stesso gestisca in modo efficiente l’impresa e ne faccia gli interessi. La perdita di fiducia, purché comprovabile quel tanto che basti da non risultare pretestuosa, giustifica il licenziamento. Nelle pubbliche amministrazioni l’interesse pubblico al buon andamento dell’amministrazione non necessariamente coincide con l’interesse degli organi di governo ad avvalersi di dirigenti fidati210: la fiducia nel dirigente potrebbe dipendere non dalla idoneità dello stesso a realizzare l’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione, ma dall’attitudine del medesimo a piegarsi 210 Cfr. CERRI, Imparzialità ed indirizzo politico nella Pubblica amministrazione, PADOVA, 1973, 190: “la causa più nota che induce la Pubblica Amministrazione a deviare dai suoi compiti istituzionali è l’influenza che i partiti esercitano su di essa attraverso i ministri”. 117 “alle esigenze contingenti degli indirizzi politici di una maggioranza espressione degli organi di governo”211. Il legislatore, avendo evidentemente ritenuto che la dirigenza “guardasse troppo verso l’apparato e poco verso la politica”212 (essendo prevalso in un primo tempo il valore dell’autonomia su quello della fedeltà alla linea politica del governo), ha ritenuto di attirarne decisamente lo sguardo verso la seconda, utilizzando lo specchietto per le allodole degli incarichi di direzione, nel tentativo di trovare una “formula giuridica” che facesse quadrare il cerchio, e combinasse autonomia e fedeltà, senza provocare strabismo. Del resto, non è detto che i due valori non possano coesistere in un instabile e difficile equilibrio: gli organi di governo hanno minor necessità di interferire con la gestione, se essa è affidata ad un apparato burocratico che collabori e non boicotti l’azione di governo213, a dirigenti fidati e fidelizzati. E, d’altra parte, stante il rilevato inceppamento del meccanismo virtuoso autonomia–responsabilità, potrebbe essere garanzia di maggior efficienza l’affidare gli incarichi di direzione in base a valutazioni più spiccatamente fiduciarie. 211 La questione di costituzionalità relativa alla privatizzazione della dirigenza non generale per contrasto con l’art. 97 Cost. (questione rigettata da Corte cost. n. 313 del 1996, cit.) era stata sollevata — in base all’argomento citato nel testo — proprio sotto il profilo della violazione del principio dell’imparzialità, ritenendosi, da parte dei remittenti, che l’assoggettamento del rapporto al recesso privatistico ed alla contrattazione collettiva determinasse una “rottura del nesso tra garanzie di status dei funzionari pubblici e garanzie di imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni”. 212 CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit. 213 Può accadere infatti che gli indirizzi del governo siano “boicottate o frustrate dalla pubblica amministrazione, dalla sua inerzia, dal suo silenzioso ostracismo”, così, ancora, CERRI, Imparzialità, cit., 193. 118 Si comprende così come la novellata disciplina della dirigenza — nel segno di una maggiore flessibilità214 — abbia accentuato la rilevanza dei criteri soggettivi di conferimento degli incarichi, eliminando il riferimento alla normale rotazione degli stessi, dovendosi ora tenere conto non più “della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare” e “delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente”, ma soltanto di dette attitudini e capacità “in relazione alla natura ed alle caratteristiche degli obiettivi prefissati”215; abbia qualificato come “provvedimento” l’atto di conferimento dell’incarico, disponendo che sia solo esso, e non il successivo contratto, a definirne l’oggetto, gli obiettivi e la durata; abbia soppresso la previsione di una durata minima dell’incarico e ridotto la durata massima degli incarichi a tre (per gli incarichi più importanti) e cinque anni, contenendola comunque entro il termine di una legislatura216; abbia elevato la percentuale di diri214 Contraddetta, però, dalla (più garantistica) soppressione del ruolo unico, e dalla istituzione, in ogni amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, del ruolo dei dirigenti (art. 23, d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 4, l. n. 145 del 2002). Per una valutazione fortemente critica, per tutti, GARILLI, Profili dell’organizzazione, cit. 215 Si tratta di piccoli ritocchi delle stesse parole, nei quali il legislatore sembra riporre grandissima fiducia. 216 Art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. Osserva al riguardo CASSEIl rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Lav. pubb. amm., 2003, 231, che per effetto dell’eccessiva brevità dell’incarico “la dirigenza viene posta in una situazione di istituzionale debolezza rispetto al potere politico, perché precarizzata e sostanzialmente <<fidelizzata>>, perché “sa che dovrà essere confermato dalla stessa persona che lo ha nominato, almeno un’altra volta”. L’A. aveva peraltro già criticato la riforma del 1998, in relazione alla previsione di necessaria temporaneità degli incarichi (La riforma della pubblica amministrazione italiana, in Lav.pubb. amm. 2003, 1013). SE, 119 genti di seconda fascia cui possono essere conferiti incarichi di livello generale, e di “esterni” cui possono essere conferite funzioni dirigenziali217 , abbia reso automatico lo spoils system all’italiana, con conseguente non configurabilità di un provvedimento di rimozione da poter impugnare218; abbia pareggiato il conto 219 con lo spoils system una tantum attuato dal precedente governo in occasione del varo del ruolo unico poi soppresso 220; abbia rivisto, nel senso già descritto, la disciplina della “responsabilità disciplinare”, ferma restando la “responsabilità disciplinare eventualmente prevista dai contratti collettivi”; abbia infine “blindato” la disciplina degli incarichi dirigenziali, rendendola impermeabile alle incursioni della contrattazione collettiva, come parimenti già ricordato. Ma tutto non si può avere: l’instabilità dell’incarico se genera motivazioni e giova, dunque, al valore del buon andamento, nuoce, però, a quello dell’imparzialità. La stabilità dell’incarico se genera disimpegno, e dunque nuoce all’efficienza, giova però all’imparzialità (che può degenerare in indolenza). 217 Rispettivamente art. 19, commi 4 e 6, che, secondo GARILLI, Profili dell’organizzazione, cit. stringerebbero “in una morsa” i dirigenti di prima fascia. 218 Art. 19, comma 8: “gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 3 cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia del governo”. Si tratta forse della disposizione più bersagliata dai critici (cfr. CASSESE, Il rapporto tra politica…, cit., p. 234, e MEZZACAPO, L’alta dirigenza statale…, cit., p. 725). 219 Art. 3, comma 6, l. n. 154 del 2002: “gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge” 220 Art. 8 dpr. n. 150 del 1999. 120 Lo stato di riforma permanente della dirigenza è determinato dalla ricerca di questo difficile equilibrio. L’ultimo riordino della dirigenza, nel puntare troppo sulla instabilità degli incarichi (al punto da precarizzarli) avrebbe “indebolito” la dirigenza a vantaggio del potere politico, e creato così l’habitat ideale per un asservimento della prima alla seconda, con conseguente lesione non solo del principio di imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche del principio di buon andamento della stessa, stante la possibile “deviazione” dell’attività di gestione verso il perseguimento di interesse particolari contrastanti con quello pubblico 221. Invero, laddove il rilievo dato ai profili fiduciari dell’incarico consentisse affidamenti basati su vincoli di appartenenza, a nulla sarebbe valso l’aver previsto una serie di strumenti diretti ad impedire l’interferenza della politica sull’amministrazione, a garanzia dell’autonomia della dirigenza: si farebbe “rientrare dalla finestra” ciò che si voleva “tenere fuori dalla porta” 222. Invero, “se un ministro non avesse alcun potere di ingerenza nell’attività amministrativa ma potesse liberamente disporre degli uomini e delle donne che devono assumere le relative decisioni, la sua influenza su questa attività sarebbe massima, esattamente 221 CASSESE, Il rapporto fra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Lav.pubbl.amm., 2003, 231. 222 Così, D’ORTA, La seconda fase di riforma della dirigenza pubblica: verso la fine del guado, cercando di evitare gli scogli, in Lav. pubbl.amm., 1998, 362, ma con riferimento alla riforma Bassanini. 121 come se avesse un infinito potere di avocazione e sostituzione”223. Tuttavia, un insospettato argine alla lamentata precarizzazione degli incarichi dirigenziali potrebbe essere “paradossalmente” rappresentato dalla “ripubblicizzazione” dei medesimi incarichi (conferiti ora con provvedimento e decontrattualizzati, tranne che per i profili economici). Una “ripubblicizzazione” che — se pure aspramente criticata dai sostenitori della privatizzazione, perché in contrasto con i “valori” ad essa sottesi — consentirebbe il “ripescaggio” di tutto l’apparato di garanzie assicurate al dirigente dal diritto amministrativo: garanzie momentaneamente accantonate nel breve intervallo tra la prima e la seconda riforma della dirigenza privatizzata (caratterizzato dalla gestione degli incarichi con i poteri del privato datore di lavoro)224. Invero, alla base dell’incarico v’è ora un “provvedimento”, s’intende (o si sottintende) “amministrativo” (almeno così poteva supporre un ingenuo interprete), ciò che, per l’appunto, avrebbe potuto permettere l’applicazione delle garanzie del procedimento amministrativo e la dedu223 Così, M.G. GAROFALO, La dirigenza pubblica rivisitata, in Lav.Pubbl.Amm., 2002, pag. 880. 224 Cfr. GARILLI, Profili dell’organizzazione, cit., (pag. 32 del dattiloscritto): “paradossalmente è il diritto amministrativo che potrebbe venire in aiuto della professionalità e indipendenza del dirigente. La flessibilizzazione dei termini di durata dell’incarico potrebbe invero trovare ostacoli […] qualora si accedesse alla fondata opinione che, a seguito della riforma, ogni incarico, di qualsiasi livello andrebbe attribuito con provvedimento amministrativo, e quindi il sindacato del giudice potrebbe estendersi a tutti i vizi di legittimità, valutando in particolare, anche per l’ipotesi di non rinnovo dell’incarico, l’adeguatezza della motivazione e la puntualità dell’attività istruttoria”. Nello stesso senso, D’AURIA, La politica alla riconquista dell’amministrazione, in Lav.pubbl.amm. 2002, 856. 122 zione dei vizi di legittimità del provvedimento amministrativo lesivi dell’interesse legittimo del dirigente, davanti al giudice ordinario (competente per materia, per una sorta di giurisdizione esclusiva invertita), ovvero davanti al giudice amministrativo, come pure non si è mancato di sostenere, sul presupposto (o nell’auspicio), invero isolato ed un po’ provocatorio, che la l. n. 145 del 2002 avesse ripubblicizzato la materia225. Tuttavia, tra l’esigenza di tutelare più efficacemente il dirigente di fronte alle prevaricazioni della politica, consentendogli di impugnare il provvedimento amministrativo per vizi di legittimità, e l’esigenza di custodire i “valori” della privatizzazione, salvaguardandone le conquiste senza arretramenti o tentennamenti, è questa seconda esigenza che ha nettamente prevalso, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, essendosi negato che il provvedimento di incarico conferito dall’amministrazione possa essere considerato, senza l’inseparabile aggettivo, un provvedimento amministrativo226. Non è dunque cambiato nulla all’esito del riordino della dirigenza, nonostante l’arretramento del contratto di fronte al provvedimento. 225 È la coraggiosa ed argomentata posizione di ROMANO, ben espressa nel titolo del suo intervento: Un (eterodosso) auspicio di una almeno parziale controriforma, cit., 265. 226 In tal senso, Cass. 20 marzo 2004, n. 5659, già citata, secondo cui “gli obiettivi complessivi della riforma resterebbero sostanzialmente vanificati, ove il suo esito dovesse consistere nell’occupazione, da parte del giudice ordinario, degli spazi sottratti al giudice amministrativo, mediante il controllo di tutti gli atti organizzativi che l’amministrazione pone in essere con la capacità del datore di lavoro privato secondo i moduli di verifica della legittimità degli atti amministrativi, perpetuando così la separatezza tra l’area del lavoro pubblico e quello del lavoro privato”. 123 Piuttosto, colpisce una certa disinvoltura legislativa (che oltre tutto si manifesta nel quadro di riforme dichiaratamente finalizzate alla semplificazione amministrativa) nel fare e nel disfare, nel privatizzare e nel ripubblicizzare, nel contrattualizzare e nel decontrattualizzare, con i prevedibili effetti in termini di certezza del diritto. Colpisce, ad esempio, la “facilità” con cui il legislatore dispone del contratto di incarico, non previsto affatto dalla prima privatizzazione; poi estratto dal cilindro della seconda, per giunta in difetto di delega, e reso competente a definire oggetto, obiettivi, durata e trattamento economico; infine relegato a definire il solo trattamento economico dal riordino della dirigenza del 2002. Se ne ricava l’impressione di un’operazione di facciata, di una sovrastruttura normativa dietro cui non sembra scorgersi alcuna sfera di preventiva autonomia negoziale che il legislatore avrebbe inteso riconoscere al dirigente. Una trovata indubbiamente geniale — quella del contratto di incarico, in simbiosi mutualistica con l’incarico — concepita probabilmente (dal d.lgs. n. 80 del 1998) per giustificare la devoluzione al giudice ordinario della materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, non avendo in origine il d.lgs. n. 80 del 1998 “osato” prevedere espressamente e direttamente detta devoluzione 227. Ma a stroncare ogni ambiguità ed incertezza ha poi provveduto l’art. 18 d.lgs. n. 387 del 1998, attribuendo al giudice ordinario una competenza ritenuta talora “per materia” (sul presupposto della persistente natura pubblicistica dell’atto 227 Cfr. le modifiche originariamente introdotte nell’art. 68, d. lgs. n. 29 del 1993 dall’art. 29 d.lgs. n. 80 del 1998. 124 di conferimento dell’incarico)228, ed altre volte per “situazione giuridica tutelata” (sul presupposto della natura privatistica dell’atto di conferimento dell’incarico)229. L’assetto faticosamente raggiunto rischiava di essere rimesso in discussione a seguito del riordino della dirigenza, per il rilievo esclusivo dato al “provvedimento” agli effetti della definizione del contenuto dell’incarico, nonché per effetto della espressa previsione di non derogabilità della disciplina degli incarichi dirigenziali da parte della contrattazione collettiva (art. 19, comma 12bis, d.lgs. n. 165 del 2001). Ma, come detto, è prevalso un orientamento — suffragato dalla giurisprudenza — schierato a difesa delle conquiste della privatizzazione. Tuttavia, riteniamo che — al di là dell’improprietà terminologica230 — la norma da ultimo richiamata possa contribuire a dar fondamento ad un rilievo già più volte accennato nel corso della trattazione: ed è che la disciplina degli incarichi e delle responsabilità dirigenziali (quasi una trentina di articoli oggetto di ben tre riforme) non riguarda la materia del rapporto di lavoro, ma, se mai, quella dell’organizzazione amministrativa. 228 Tra gli altri, CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit.; GARILLI… 229 Cfr. Cass. 20 marzo 2004, n. 5659, cit. 230 Per avere il legislatore fatto riferimento al concetto di inderogabilità, quasi avesse inteso attivare il meccanismo di blindatura della legge di cui all’art. 2, comma 2, laddove, a nostro avviso, si tratta più radicalmente di incompetenza della contrattazione collettiva a svolgersi su materia non inerente al rapporto di lavoro. 125 7 – I fasti della seconda privatizzazione, ed i germi del declino. 7.1 – Le finalità pubblicistiche della seconda privatizzazione. Anche la “seconda privatizzazione”, che pure — come già ricordato — avrebbe dovuto “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa”231, è stata concepita ed attuata per finalità essenzialmente estranee alla fondamentale (anche se non più esclusiva) funzione di tutela della persona del lavoratore propria del diritto del lavoro, bensì quale capitolo di quella nuova “delega al Governo per il conferimento di funzioni a Regioni e ad Enti locali, per la riforma della pubblica Amministrazione e per la semplifi- 231 Art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59 del 1997, che — come già rilevato nei paragrafi precedenti — contiene pure la delega ad “estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati”, delega poi attuata con la prima riforma della dirigenza privatizzata contenuta nel d.lgs. n. 80 del 1998, destinata ad essere superata dalla nuova riforma di cui alla l. n. 145 del 2002. 126 cazione amministrativa” (così la rubrica della l. n. 59 del 1997)232. Come è stato osservato dal padre indiscusso della seconda privatizzazione (che l’ha anche battezzata) vi è infatti “un nesso esplicito tra le riforme amministrative di orientamento federalista delle leggi Bassanini e il completamento della privatizzazione del pubblico impiego”233. Se, infatti, “la prima privatizzazione assumeva essenzialmente obiettivi interni alla pubblica amministrazione, quali la razionalizzazione organizzativa in base a criteri uniformi e il controllo centrale della spesa per il personale […] la seconda privatizzazione del pubblico impiego tra232 L’art. 11, comma 1, recava delega al governo, tra l’altro, per una serie di interventi di riforma del complessivo apparato pubblico (presidenza del consiglio, ministeri, amministrazioni centrali, enti pubblici nazionali); ovvero per riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche. In tale quadro la delega a dettare ulteriori disposizioni integrative e correttive al d.lgs. n. 29 del 1993 era data “anche al fine di conformare le disposizioni del suddetto decreto legislativo, alle disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi emanati ai sensi del presente capo”. Ed a tal fine era previsto che il Governo si attenesse, oltre che “ai principi contenuti negli artt. 97 e 98 della Costituzione”, anche “ai criteri direttivi di cui all’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, cioè dell’originaria delega, conseguentemente “riaperta”. 233 Cfr., però, L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, in Commentario Utet 2004, cit., 54 ss. ove si osserva come la seconda privatizzazione, nonostante fosse inserita nell’ambito di un più complessivo progetto di decentramento o di “federalismo a costituzione invariata”, abbia lasciato irrisolti i nodi derivanti dal “raccordo tra tecniche e contenuti della riforma del lavoro pubblico ed assetti normativo–istituzionali del sistema regionale italiano”, anche per la concomitanza con i lavori della Commissione Bicamerale. Ed in effetti “nei decreti attuativi della legge–delega n. 59/1997 […] nessuna eco si ritrovava della necessità di coordinare il decentramento amministrativo con le linee della riforma del lavoro pubblico”. 127 scende i temi dell’efficienza dell’amministrazione come apparato, e si collega direttamente ad una riforma che investe il rapporto tra il sistema amministrativo, il sistema politico e la società”234. Con la seconda privatizzazione sembrano dunque accentuarsi, piuttosto che attenuarsi, le finalità pubblicistiche perseguite dal legislatore. 7.2 – La privatizzazione dei poteri micro–organizzativi. Ma si accentua, nel contempo, il già rilevato “gioco delle parti” tra finalità e strumenti, e la seconda privatizzazione sembra voler assumere soprattutto la finalità di difendere le conquiste della prima, consolidando la posizione del diritto del lavoro e debellando le sacche di resistenza, ed i tentativi di restaurazione dei “poteri forti del pubblico im- 234 Così, l’interpretazione “autentica” della ratio della seconda privatizzazione (con riferimento ai principi ed ai criteri direttivi della legge delega, ed al d.lgs. n. 369 del 1997) da parte di D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in Lav. pubbl. amm., 1998, 1, 45 ss. Per il commento ai decreti legislativi attuativi della delega si veda dello stesso A. Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la «seconda privatizzazione» del pubblico impiego (osservazioni sui d.lgs. n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998), in Foro.it., 1999, I, 621 ss. 128 piego”235, con una nuova e più “coraggiosa” avanzata della privatizzazione 236, fortemente sostenuta dalla dottrina lavoristica al gran completo 237. Guidato da un modello ben preciso (quello relativo al rapporto di lavoro alle dipendenze da enti pubblici economici238 ), e confortato da quella illuminata dottrina giuspubblicistica (“disposta a mettere in discussione le proprie certezze” 239) che aveva smascherato il “falso dogma della ri- 235 Così, D’ANTONA, La neolingua del pubblico impiego riformato, cit. ed ivi una aspra critica ai «poteri forti» del dialogo sul pubblico impiego”, inventori di una “neolingua” la cui ascesa è in grado di insidiare la riforma dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Del “circolo esclusivo di coloro che prima della riforma si riservavano la facoltà di «prendere la parola» in quel dialogo” fanno parte “i giudici dei Tar e del Consiglio di Stato, la Corte dei conti, l’alta burocrazia dello Stato […] nonché la parte della cultura giuspubblicistica meno disposta a mettere in discussione le proprie certezze”. 236 Non era stata infatti “troppo coraggiosa, secondo alcuni” la riconduzione dei rapporti di lavoro al diritto del lavoro comune: così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 242. 237 Osserva BELLAVISTA, Fonti del rapporto…, cit., p. 78, che “la sintonia della prevalente dottrina con l’operato del legislatore ha raggiunto un livello assai elevato nel momento in cui diversi giuristi hanno direttamente contribuito alle modifiche ed innovazioni del testo del d.lgs. n. 29/1993, soprattutto a seguito della riapertura della delega avvenuta con la l. n. 59/1997”. 238 D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 256: “Il modello dell’ente pubblico economico costituisce l’espressione più nota di come la fonte primaria possa provvedere direttamente, o mediante rinvio ad una fonte pubblicistica subprimaria, alla configurazione dlel’ente, e lasciare alla capacità di diritto privato dell’ente l’organizzazione dei mezzi e del personale necessari al funzionamento”. 239 D’ANTONA, La neolingua del pubblico impiego…, cit., p. 84. 129 serva di regime pubblicistico” 240, il legislatore della seconda privatizzazione ha preparato il terreno per la discesa in campo, all’alba del 1° luglio 1998, del suo più grande alleato (il giudice del lavoro, naturalmente), cui ha coperto le spalle, difendendolo dalle imboscate dei cecchini (i giudici amministrativi, naturalmente), snidati grazie ad una radicale opera di bonifica del testo normativo dai pericolosi residuati del diritto amministrativo 241. Ed a tal fine, era innanzitutto necessario rompere la “discutibile saldatura concettuale tra l’autonomia organizzativa della pubblica amministrazione, l’esclusione della contrattazione collettiva e il regime pubblicistico degli atti organizzativi” 242, cosicché non potesse più ipotizzarsi che “dove arretra la contrattazione collettiva avanza il giudice amministrativo” 243. 240 D’ANTONA, Stato «diverso», riforma amministrativa e sindacato, in Riv.giur.lav. 1996, I, 213 ss, ed in MASSIMO D’ANTONA. Opere, cit. 120, con espresso riferimento ad ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in Giorn.dir.lav.rel.ind., 1993, 461. 241 Di inevitabile “guerriglia permamente tra Giudici e giurisdizioni” parlava D’ANTONA, op. ult. cit., p. 124, cosicché l’intervento del legislatore era concepito come diretto a scongiurarla in vista del prossimo trapasso di giurisdizione, ed a semplificare drasticamente il problema del riparto di giurisdizioni. 242 Quella “discutibile saldatura concettuale” era, per la verità, avvalorata dal contenuto originario dell’art. 4, comma 1, secondo inciso, d.lgs. n. 29 del 1993, secondo cui le amministrazioni pubbliche potevano operare “con i poteri del privato datore di lavoro” soltanto “nelle materie soggette alla disciplina del codice civile, delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi”, e dell’originario art. 68, che devolveva al giudice ordinario “tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, con esclusione delle materie delle famose “sette materie” di cui all’originaria legge delega. 243 Ancora D’ANTONA, op. ult. cit., p. 241. 130 Contro le inevitabili incursioni del giudice amministrativo in quella sorta di “terra di nessuno” che separa l’organizzazione degli uffici dalla gestione del rapporto di lavoro il rimedio escogitato dal “riformatore della riforma” (rimedio che è il “primo carattere essenziale della seconda privatizzazione”) è stato quello di contrattaccare, facendo penetrare la privatizzazione (qui intesa come estensione dei poteri di gestione dell’impresa propri del “privato datore di lavoro”) fin dentro l’organizzazione, laddove essa è inestricabilmente connessa con la gestione del rapporto di lavoro, previa ulteriore “relativizzazione” della riserva di legge di cui all’art. 97 Cost.244, mentre la prima privatizzazione era stata capace di strappare al diritto amministrativo, ed al potere di supremazia speciale della pubblica amministrazione, soltanto la gestione del rapporto di lavoro, con virtuale sovrapposizione di regimi e di giudici nella zona cruciale dell’organizzazione del lavoro”245. 244 Ben più drastica appare la posizione di TURSI, Libertà sindacale e soggettività negoziale nella contrattazione collettiva del lavoro pubblico, in Lav.dir., 2000, 377, il quale sul presupposto che la riserva di legge riguardi i rapporti tra fonti normative e non il rapporto tra legge e contratto collettivo (che sarebbe atto di autonomia negoziale e non di autonomia normativa), ritiene irrilevante il problema della riserva di legge agli effetti della individuazione degli “spazi” della contrattazione collettiva, e afferma di non comprendere “perché la legge confini la capacità negoziale privatistica alle sole «determinazioni» organizzative attuative delle leggi e degli atti organizzativi generali, riservando al regime pubblicistico” la macro–organizzazione. L’A. propone una radicale opzione nel senso della totale defunzionalizzazione del lavoro pubblico. 245 D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 24, da cui sono tratte le frasi virgolettate nel testo, che rileva “come si fosse riprodotta quella medesima situazione che la riforma del 1924 intese correggere attribuendo la giurisdizione esclusiva al Consiglio di Stato”. 131 La pubblica amministrazione può ora “operare con i poteri del privato datore di lavoro” (per dirla con il vecchio art. 3, d.lgs. n. 29 del 1993), non più, soltanto, nelle “materie soggette alla disciplina del codice civile, delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi”246 , coincidenti, peraltro, con le materie devolute, in origine, alla competenza del giudice ordinario 247. Con la “capacità” e (non solo) con i “poteri” del privato datore di lavoro “gli organi preposti alla gestione” possono ora assumere anche le “determina- 246 In altri termini, la pubblica amministrazione poteva operare con i poteri del privato datore di lavoro soltanto sul rapporto di lavoro, unica materia soggetta al contratto collettivo ai sensi dell’art. 45, d.lgs. n. 29 del 1993 nel testo ante seconda privatizzazione. 247 Con conseguente duplicazione della giurisdizione: del giudice amministrativo, per i provvedimenti organizzativi; del giudice ordinario, per gli atti di gestione del rapporto di lavoro. Cfr. sul punto ancora D’ANTONA, op. ult. cit., p. 241, che paventava i gravi inconvenienti — che sarebbero stati però scongiurati solo in parte dalla seconda privatizzazione — di una “sovrapposizione di regimi e di giudici nella zona cruciale dell’organizzazione del lavoro, dove organizzazione degli uffici e gestione dei rapporti di lavoro inevitabilmente si intersecano”. Invero, “le giurisdizioni risultano separate, non dalla natura del rapporto controverso, ma dalla natura della fonte che ha prodotto la regola applicabile al rapporto controverso, con conseguente duplicazione dei giudici dotati di cognizione sul rapporto di lavoro”. 132 zioni per le organizzazioni degli uffici”248 , sotto l’occhio (auspicabilmente meno) vigile del giudice del lavoro, e, per di più, senza dover scendere a patti con il sindacato (almeno sulla carta). 7.3 – La non negoziabilità dei poteri micro–organizzativi: una privatizzazione senza contrattualizzazione? Invero, l’organizzazione degli uffici (la cosiddetta “micro” o “bassa” organizzazione) è stata sì privatizzata, 248 Nel testo dell’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 29 del 1993 antecedente alla seconda privatizzazione le “determinazioni per l’organizzazioni degli uffici erano assunte dalle pubbliche amministrazioni”, ma “al fine di assicurare la economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”. I poteri del privato datore di lavoro erano richiamati nella proposizione successiva, a proposito della gestione dei rapporti di lavoro, ciò che, ovviamente, confermava come “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici” non fossero assunte con i poteri del privato datore di lavoro. L’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 (già art. 4, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1992 come sostituito dall’art. 4, d.lgs. n. 80 del 1998) accorpa in una medesima frase le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici” e “le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro” prevedendo che entrambe siano assunte con “la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”, mentre sparisce, dal secondo comma, la funzionalizzazione al pubblico interesse, in origine riferita “alle determinazioni per l’organizzazione degli uffici”, per ricomparire, con formula più generica ed ambigua, in un inedito primo comma, riguardante “ogni determinazione organizzativa” assunta dalle amministrazioni pubbliche. 133 ma (secondo autorevole opinione) non contrattualizzata 249, ciò che potrebbe indurre a dubitare che di vera (o completa) privatizzazione si tratti, posto che nel settore privato (di riferimento) la capacità e i poteri del datore di lavoro non incontrano analogo limite: limite cui invece corrisponde, nel settore pubblico, una vera e propria incompetenza per materia della contrattazione collettiva (cd. non negoziabilità dei poteri dirigenziali)250. Ed anzi nel settore privato il potere organizzativo del datore di lavoro può essere “confor249 Insomma, dell’art. 2, primo comma, lett. c), l. n. 421 del 1992 “sopravvive, perciò, solo la parte attinente alla previsione secondo cui le materie indicate richiedono una regolamentazione con legge, ovvero, sulla base della legge, con atti normativi e amministrativi”, e non anche la parte che le stesse materie devolve alla giurisdizione amministrativa (non essendo stata ribadita, dall’allora art. 68, d.lgs. n. 29 del 1993, dopo la cura della seconda privatizzazione, l’esclusione delle materie de quibus), cosicché “cade […] il parallelismo tra tale previsione e l’esclusione della giurisdizione ordinaria”: così, CORPACI e ORSI BATTAGLINI, Sub art. 2, in CORPACI, RUSCIANO, ZOPPOLI L. (a cura di), La riforma dell’organizzazione…, cit., p. 1067. 250 Cfr. CARINCI, Le fonti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Arg.dir.lav., 2000, 77: “ritengo a tutt’oggi che, nell’impiego pubblico privatizzato, restino managerial rights privatizzati, assoggettabili a partecipazione, ma non a contrattazione, anche se sono assolutamente consapevole che questo è un punto rispetto a cui il «diritto» è più che mai esposto allo stavolgimento del «fatto»”. Sulla questione cfr. D’ORTA Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, in F. CARINCI ed L. ZOPPOLI (a cura di) Commentario 2004, cit., 108, che tuttavia sembra ammettere la negoziabilità dei poteri dirigenziali allorché afferma che la natura privatistica degli atti di bassa organizzazione non “significa che detti atti debbano avere necessariamente carattere bilaterale e contrattuale”. Aderisce invece alla tesi di CARINCI (basata sull’interpretazione letterale e logica dell’art. 40 e 9 d.lgs. n. 165 del 2001, in connessione con l’art. 11, comma 4, lett. h, l. n. 59 del 1997) BELLAVISTA, Fonti del rapporto…, cit., p. 83, che ritiene sussistere “una preclusione legale a qualsiasi forma di contrattazione che si estenda nell’area dell’organizzazione sia ancora in regime pubblicistico, sia privatizzata”. 134 mato” da un tipo “particolare” di contratto collettivo, qualificato come “gestionale”251: aggettivo che, con l’aggiunta di un prefisso, evoca, nel pubblico impiego, prassi consociative e clientelari252 che è bene non incoraggiare, come avverrebbe ove si supponesse che privatizzazione e contrattualizzazione siano due facce di una stessa medaglia o addirittura la stessa cosa 253. Con riferimento alla delicata e cruciale materia dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche (laddove “contrattazione” suona “cogestione”) le dichiarate finalità della privatizzazione (accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione), ma anche, giova non dimenticarlo, i vin- 251 Si veda per tutti LISO, Autonomia collettiva e occupazione…, cit., p. 256, nell’ambito di una approfondita analisi dei vari tipi di rinvio legale alla contrattazione collettiva nel settore privato. Come vedremo nel secondo capitolo, la tematica del rinvio legale alla contrattazione collettiva e del contratto “gestionale” non è affatto estranea al pubblico impiego. Il modello di soluzione adottato per giustificare l’efficacia generale di contratti gestionali in forme costituzionalmente compatibili è stato infatti adottato anche per il contratto collettivo del pubblico impiego. 252 Cfr. D’ORTA, La riforma della dirigenza pubblica, in RUSCIANO e L. ZOPPOLI, L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1993, 46 che osserva come nonostante il tentativo della legge quadro di fissare una netta linea di demarcazione dei rispettivi ambiti di competenza tra legge e contrattazione collettiva “quasi sempre..le decisioni dei dirigenti in materia di organizzazione e di gestione del personale erano subordinate al consenso sindacale”. 253 Sui rapporti tra contrattazione collettiva e potere organizzativo dell’amministrazione, da un punto di vista non giuslavoristico, si veda G.B. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, Giuffrè, Milano, 2003, 213, ss. 135 coli costituzionali254 , sembrano avere dunque preso il sopravvento sulle sottese ed ideali finalità della medesima (la privatizzazione come valore in sé), e, pertanto, la privatizzazione è tornata ad essere uno strumento per il perseguimento di finalità pubblicistiche. Ma una privatizzazione senza contrattualizzazione (quella che ha investito il potere micro–organizzativo della pubblica amministrazione) non ha certo scatenato entusiasmo tra coloro che hanno a cuore il valore ideale della privatizzazione, convinti che — al di là di espresse attribuzioni di competenza (ritenute non necessarie) — debba pur 254 Già nel lontano 1975 rilevava GHERA, Il pubblico impiego…, cit., p. 57, che se la riservadi legge sancita d all’art. 97 Cost. concerne l’ordinamento degli uffici e non il trattamento economico e normativo del personale…vi è tuttavia un limite, costituzionalmente garantito, al suo contenuto […] ciò significa che l’area della contrattazione collettiva deve limitarsi alla determinazione delle condizioni di impiego della forza di la/voro sul piano tariffario–salariale, senza potere investire l’organizzazione amministrativa del lavoro e cioè le strutture burocratiche degli apparati pubblici”. 136 esservi uno spazio negoziale, magari di tipo gestionale, che si autolegittimi ai sensi dell’art. 39 Cost.255. 7.4 – Il “fantasma della funzionalizzazione” dei poteri organizzativi privatizzati. E genera altresì inquietudine il “fantasma della funzionalizzazione”, che entra dalla porta lasciata aperta dal giudice delle leggi (inascoltato sul punto, nonostante la me255 Cfr., ad esempio, BARBIERI e SPINELLI, La contrattazione collettiva e il contratto nazionale, in F. CARINCI e L. ZOPPOLI (a cura di), Commentario Utet, 2004, cit., 374, secondo cui non sarebbero preclusi accordi gestionali come nel settore privato, una volta che il fondamento della contrattazione collettiva pubblica sia stato ricondotto all’art. 39, primo comma, Cost. E trattandosi di accordi gestionali non varrebbe il limite per materia desumibile dall’art. 40 d.lgs. n. 165 del 2001 che si riferirebbe unicamente ai contratti normativi. La tesi in questione è stata proposta inizialmente, già con riferimento alla prima privatizzazione, da D’ANTONA, La contrattazione collettiva privatistica nelle amministrazioni pubbliche, in ALLEVA, D’ALESSIO, D’ANTONA (a cura di), Nuovo rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Roma, Ediesse, 71, ed ora in Opere, cit., 55 (“il contratto collettivo gestionale, distinto dal normale contratto collettivo normativo, non è precluso dal sistema delle fonti delineato dal decreto legislativo n. 29/1993”), nonché in Privati contratti collettivi per pubbliche amministrazioni, ovvero l’arte di quadrare il cerchio e come impararla in fretta”, in Quale Stato, 1996, 117 ss., nonché in Opere, cit., 106: “il fatto che la «nuova» contrattazione collettiva non garantisca ex ante margini di condivisione dei poteri dirigenziali non significa affatto che non li possa creare ex post, né tantomeno che informazione ed esame congiunto siano condannati a essere esercizi a sé stanti, privi di sbocco contrattuale”. Il titolo del paragrafo da cui è tratta la frase è poi assai significativo: “sull’organizzazione del lavoro contrattare è possibile ed è utile (anche ai cittadini utenti)”. Ritiene che al restringimento dell’area pubblicistica non possa non corrispondere una correlativo ampliamento dell’area della contrattazione, ma da una prospettiva amministrativistica ed in termini estremamente critici, nell’ambito di un’indagine volta ad evidenziare criticamente l’espansione dei poteri pubblicistici esercitati dai sindacati, senza un adeguato sistema di regole e controlli, G.B. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, cit., 221. 137 ritoria costituzionalizzazione della riforma) 256 . Si poteva infatti supporre che i poteri organizzativi del privato datore di lavoro, esercitati dai dirigenti pubblici in sostituzione dei vecchi poteri autoritativi, dovessero ritenersi anch’essi funzionalizzati al perseguimento dell’interesse pubblico, e non fossero, dunque, altrettanto “liberi” come quelli del privato datore di lavoro. Ma qui la finalità dichiarata di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione e la finalità (che aleggia ovunque) di privatizzare il rapporto hanno trovato il modo di convivere in piena armonia, scacciando, per un interesse comune, il fantasma della funzionalizzazione. Invero, la funzionalizzazione non solo è parsa incompatibile con i valori della privatizzazione, posto che “l’attività di diritto privato è libera nei fini e non può essere funzionalizzata”257, ma è parsa (o è stata fatta apparire) incompatibile anche con il fine di rendere più efficiente la pubblica amministrazione, perché un potere non funzionalizzato è un potere più libero e più forte, perché meno sindacabile, anche se ciò può comportare l’accidentale inconveniente di una minor tutela per i pubblici dipendenti. Ma poco importa. Non sono certo costoro i beneficiari della privatizzazione del pubblico impiego. 256 Cfr. CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. 67. 257 D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità…, cit., p. 36. 138 È così prevalsa, anche in giurisprudenza 258, un’idea assai debole, se non inesistente, di funzionalizzazione, rife- 258 Secondo la già citata Cass. 20 marzo 2004, n. 5659 (si veda in nota…), deve dunque operare “il principio fondamentale secondo cui l’atto privato è tale proprio perché non può essere funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico senza contraddirne l’intima essenza di espressione dell’autonomia dell’autore, non avendo il legislatore derogato specificamente a tale principio”. La sentenza risolve la “apparente contraddizione tra primo e secondo comma dell’art. 5” d.lgs. n. 165 del 2001 (per la questione interpretativa si veda nota…), con il rilevare che “se gli atti sono ascritti al diritto privato, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell’autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi; e proprio in tal senso si esprime il comma 3 dello stesso art. 5, laddove prevede che gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai principi di cui all’art. 2, c. 1, anche al fine dell’adozione di misure correttive e di sanzioni nei confronti dei responsabili della gestione. Il controllo, quindi, è disciplinato come esclusivamente interno all’organizzazione del soggetto agente; la funzionalizzazione è rilevante soltanto a questi fini, senza influenzare la disciplina dell’atto”. È evidente l’influenza del pensiero di D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità…, cit.: “il vincolo di scopo, che non emerge giuridicamente negli atti organizzativi di diritto privato, trova in conclusione la sua strumentazione nel momento della valutazione dei risultati dell’attività, e si concretizza nella corrispondente responsabilità dei dirigenti, riflettendosi sulle vicende del relativo rapporto di lavoro fino al limite del licenziamento”. 139 rita non già al singolo atto di organizzazione o di gestione, 140 ma all’attività ed ai risultati complessivi della stessa259. 259 D’ANTONA, Stato «diverso», riforma amministrativa e sindacato, in Riv.giur.lav., 1996, I, 218, e in MASSIMO D’ANTONA. Opere, cit., 127, che, nel proporre di “riformare la riforma” secondo quelli che sarebbero poi diventati i caratteri della seconda privatizzazione, ed in particolare mediante ampliamento dell’area del potere organizzativo privatizzato con conseguente ampliamento della giurisdizione ordinaria si domandava “cosa garantisce il sindacato del Giudice amministrativo sull’atto non autoritativo se non una focalizzazione del momento della garanzia sulla legalità formale, a scapito dell’efficienza sostanziale dell’azione amministrativa?”. In altro scritto del 1997 (Autonomia negoziale, discrezionalità e vincolo di scopo…, cit., p. 36), l’A. sosteneva che “il potere organizzativo della Pubbliche amministrazioni non è funzionalizzato per la parte che attiene alla gestione dei rapporti di lavoro e per questa parte il buon andamento viene assicurato, anziché dal controllo sui singoli atti, dai controlli sull’attività, dalla connessa responsabilità della dirigenza”. Ciò poteva lasciar supporre che quantomeno gli atti di micro organizzazione (la cui privatizzazione è stata fortemente voluta da D’Antona) dovessero ritenersi funzionalizzati, Senonché, la funzionalizzazione degli atti in questione viene esclusa perché “qui vi è esercizio di un potere neutro rispetto all’eventuale vincolo di scopo, strutturalmente invariante nel pubblico e nel privato, perché l’efficienza di un’organizzazione prescinde dalla natura giuridica del soggetto che ne è titolare” (op. ult. cit., 44). Condivide questa impostazione BARBIERI, Problemi costituzionali…, cit., pp. 128 ss. (ed ivi ampi riferimenti) che cita CALANDRA (Il buon andamento dell’amministrazione pubblica in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, Giuffrè, Milano, 1987): “l’efficienza la si può cogliere come valore della funzione solo a livello dell’attività e non dell’atto”). Cfr. anche D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni…, cit., p. 119, secondo cui “il potere organizzativo delle amministrazioni pubbliche è un potere finalizzato ad uno scopo giuridicamente rilevante ed esterno al titolare del potere”, anche se “il controllo non deve essere puntuale e analitico sui singoli atti, ma può essere configurato come sintetico e riferito solo al risultato dell’attività complessiva o a singole fasi di essa”. In senso contrario GHERA, Diritto del lavoro, Cacucci, Bari, 2002, 496, secondo cui “nel contratto di lavoro pubblico la prestazione è inserita in un sinallagma finalizzato all’esercizio del servizio o della funzione pubblica e tale da influire sulla stessa causa del contratto: la collaborazione del lavoratore è infatti qualificata dalla sua destinazione al soddisfacimento dell’interesse pubblico tipico del potere di organizzazione”. 141 Il diritto del lavoro per l’efficienza (ed a tutela) della pubblica amministrazione) mostra qui una ratio che di comune, rispetto a quella del diritto “comune” del lavoro, ha davvero ben poco. 142 7.5 – Dall’unificazione normativa del lavoro pubblico e privato alla parificazione dei poteri del datore di lavoro pubblico e privato. Avanza, dunque, la privatizzazione, ma non la contrattualizzazione” 260 (che può svolgersi soltanto sulle “materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali” 261), mentre arretra il giudice amministrativo, privo ora di giurisdizione sulla materia (privatizzata) della bassa organizzazione. Un mancato avanzamento, ed un arretramento, convergenti in un’unica direzione: quella che conduce a raffor- 260 D’ANTONA, op. ult. cit., p. 241. 261 Art. 40, d.lgs. n. 165 del 2001, mentre l’art. 9 (“partecipazione sindacale”) dispone che “i contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro”. Sebbene non sia stata espressamente riprodotta la “clausola di salvaguardia” di cui all’art. 10, comma 1, ultimo inciso, d.lgs. n. 29 del 1993 nel testo anteriore alla seconda privatizzazione (“ferme restando l’autonoma determinazione definitiva e la responsabilità dei dirigenti nelle stesse materie”, cioè nelle materie “ambiene di lavoro e misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro”), la dottrina prevalente ritiene preclusa la negoziabilità dei poteri dirigenziali anche nel nuovo quadro normativo. Ma si tratta di “querelle interpretativa tuttora ben aperta”: così, CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., p. L. 143 zare i poteri della dirigenza262, e, correlativamente, ad attenuare le garanzie dei dipendenti pubblici (ritenute evidentemente eccessive o privilegiate rispetto a quelle dei dipendenti privati)263, al fine di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione264. La seconda fase di quella che giustamente è stata definita “una riforma in itinere” 265, costretta ad evitare, durante una “navigazione a vista”, scogli, iceberg ed altri natan- 262 Cfr. da ultimo D’ORTA, op. ult. cit., pp. 96 ss., ed ivi ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali) per un raffronto del potere organizzativo pubblicistico e privatistico, sotto sei diversi aspetti. Dal raffronto emerge una ben minor tutela del dipendente pubblico assoggettato al potere organizzativo privatizzato, soprattutto per il venir meno delle garanzie del procedimento amministrativo (ad es. inapplicabilità della l. n. 241 del 1990); per l’impossibilità di far valere i vizi dell’atto amministrativo (in particolare, l’eccesso di potere), connessi al vincolo di scopo; per l’insussistenza di situazioni giuridicamente tutelate in molti casi in cui è venuta meno la tutela dell’interesse legittimo, (mentre in altri casi all’interesse legittimo si è sostituito il diritto soggettivo (senza che tuttavia ciò comporti necessariamente una maggiore tutela). 263 Nel senso, invece, che “le istanze di tutela dei dipendenti toccati dal potere organizzativo si atteggiano in modo uniforme nel pubblico e nel privato”, cfr. D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità…, cit., p. 45. Ma la conclusione viene argomentata suggerendo la riesumazione, anche per i dipendenti privati, la tutela dell’interesse legittimo di diritto privato (cfr. nt. 36): suggerimento che, quanto ai dipendenti pubblici privatizzati la giurisprudenza sembra avere accolto. 264 Si veda LISO, La privatizzazione dei rapporti di lavoro…, cit., p. 177: che con riferimento alle materie non contrattualizzare osserva che “la loro disciplina è stata concepita non in funzione protettiva degli interessi del lavoratore, bensì di determinati interessi pubblici appunto garantiti dall’esistenza di quei particolari assetti organizzativi”. 265 L’espressione è, come già ricordato, di CARINCI (citazioni in nota…). 144 ti266 , mostra dunque, meglio della prima, la prospettiva esclusivamente “datoriale” della privatizzazione, il suo essere funzionale ad un rafforzamento dei poteri del datore di lavoro per una più proficua utilizzazione delle “risorse umane” (specularmente opposta alla prospettiva di limitazione del potere datoriale propria del diritto “comune” del lavoro). Ed invero la delega a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” è stata intesa, forse con troppa libertà e qualche eccesso (di delega)267, come delega a completare l’integrazione dei poteri del datore di lavoro pubblico con quelli del datore di lavoro privato, con riferimento alle “determinazioni per l’organizzazione degli uffici” 268. Certo, si trattava di ovviare all’emergenza derivante dalla “virtuale sovrapposizione di giudici nella zona cruciale dell’organizzazione del lavoro”, nell’imminenza del tra- 266 Di “logica problem solving parla CARINCI, Le fonti della disciplina del lavoro…, cit., p. 62. 267 Ritiene la delega alla “espansione dell’attività privatistica […] occultata fino a riuscir onestamente illeggibile” F. CARINCI, La dirigenza nelle amministriazioni dello Stato ex capo II, titolo II, d.lgs. n. 29/1993 (il modello “universale”), in Arg.dir.lav., 2001, 28. In senso contrario sembra però orientata la prevalente dottrina: per tutti, GARILLI, Il riparto di giurisdizione tra organizzazione amministrativa e rapporto di lavoro, in Lav.pubbl.amm., 2000, 715. 268 Cfr. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 256: “Il principio del completamento dell’unificazione normativa del lavoro pubblico e privato, implica […] non solo la parità dei diritti dei dipendenti pubblici rispetto ai privati, ma anche la parificazione degli strumenti di gestione del personale a disposizione dei dirigenti pubblici”. 145 passo di giurisdizione269, da parte di un legislatore, quello della seconda privatizzazione, “rinsavito” rispetto a quello della prima, cui era imputabile la “complicazione terrificante” del “folle sistema di riparto” concepito originariamente 270. Ma è anche certo che il “completamento” della privatizzazione, si è tradotto in una paraficazione al ribasso dei dipendenti pubblici a quelli privati: invero i primi — trasformati dall’oggi al domani in parti di un rapporto contrattuale, e, dunque, paritario — sono sottoposti, ora, ad un potere più forte e meno sindacabile del potere di supremazia cui erano assoggettati nell’ambito di un rapporto non paritario, e basato sul principio di autorità 271. Si tratta, ovviamente, di opzione legislativa assolutamente legittima, che ha, però, il solo torto di non essere stata chiaramente esplicitata nella legge delega, e di essere “saltata fuori” per l’impellente necessità di sloggiare dalla “materia” micro–organizzativa il giudice amministrativo in concorso–conflitto con il giudice del lavoro, secondo gli originari, incerti, criteri di riparto di cui alla prima privatiz- 269 D’ANTONA, op. ult. cit., p. 241, laddove è evidente come la parificazione dei poteri del datore di lavoro pubblico a quelli del datore di lavoro privato sia soprattutto strumentale alla soluzione della questione di giurisdizione. 270 Così, SUPPIEJ, Nove anni di travaglio…, cit., p. 311. 271 Cfr. ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico…, cit., p. 472, secondo cui obiettivo della privatizzazione era quello di “rendere più intensa la posizione di supremazia speciale del datore di lavoro pubblico”. 146 zazione: criteri di riparto sensibilmente “ritoccati” dalla seconda, in apparente difetto di delega272. Invero, il più esteso ambito di esercizio dei poteri datoriali coincide con un più esteso ambito della giurisdizione ordinaria, reso possibile grazie alla (non prematura) scomparsa, entro il medesimo ambito, dell’interesse legittimo, in conseguenza della de–amministrativizzazione dei poteri dirigenziali. Una scomparsa non rimpianta affatto dalla dottrina lavoristica sensibile ai valori della privatizzazione (anche se la loro attuazione richieda qualche sacrificio in termini di tutela), ma sovente rimpianta dai diretti interessati, cioè da coloro che ne erano titolari, costretti ora ad arrangiarsi con la ben più fumosa ed incerta categoria dell’interesse legittimo di diritto privato, riesumata ora dalla giurisprudenza quale surrogato dell’interesse legittimo di diritto pubblico. Una categoria, quella dell’interesse legittimo di diritto privato, che ha vissuto una storia singolare: evocata da una nota sentenza affinché i dipendenti privati, a fronte dell’esercizio di un potere “altrimenti libero”, del datore di lavoro, ricevessero un surrogato della tutela di diritto amministrativo spettante ai dipendenti pubblici; poi accantonata per circa un ventennio (e sostituita dalla tutela delle clausole generali di correttezza e buona fede), ed infine tornata in auge per non far rimpiangere troppo le tutele 272 Apparente, perché l’art. 11, comma 4, lett. g), l. n. 59 del 1997, prevedeva la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni “tenuto conto di quanto previsto dalla lettera a)”, tenuto conto, cioè, del “completamento della integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”: completamento realizzato, come detto, attraverso una parificazione dei poteri di gestione del rapporto. 147 perdute ai dipendenti privatizzati delle pubbliche amministrazioni. 7.6 – L’identificazione dell’ambito dei poteri micro–organizzativi privatizzati: il dialogo tra dottrina e giurisprudenza. Quanto all’identificazione delle determinazioni per l’organizzazione degli uffici da assumersi con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro ha fatto scuola l’insegnamento autorevole del rimpianto padre della seconda privatizzazione. Al punto che le sue testuali parole di commento alla seconda privatizzazione vivono ora in una massima giurisprudenziale della Suprema Corte, che vale la pena riportare: “l’unificazione normativa dei poteri di gestione del personale comporta che siano definitivamente ricondotte alla capacità di diritto privato le determinazioni riguardanti il funzionamento degli apparati, che si collocano al di sotto della configurazione strutturale degli uffici pubblici, la quale rimane riservata a fonti normative prima- 148 rie o secondarie o atti organizzativi in regime pubblicistico”273. 7.7 – Gli interventi sul sistema di contrattazione collettiva in funzione deflattiva del contenzioso e gli altri “caratteri essenziali” della seconda privatizzazione (rinvio). Il primo carattere essenziale della seconda privatizzazione è dunque, se così si può dire, la “datorializzazione” della micro organizzazione, avendo il legislatore assunto la prospettiva dell’efficienza dell’organizzazione e non quella (irrilevante nella logica della riforma) della tutela del lavoro, nell’estendere l’ambito della privatizzazione. Del secondo “carattere essenziale” della seconda privatizzazione (peraltro indissolubilmente legato al primo), relativo alla privatizzazione della dirigenza generale, abbiamo già detto274. Del “terzo carattere della privatizzazione”, e cioè del “riconoscimento della soggettività delle pubbliche ammini273 La frase di D’ANTONA, in, Lavoro pubblico e diritto del lavoro, cit, 256, è ripresa testualmente da numerose ordinanze delle Sezioni unite della Cassazione in sede di regolamento di giurisdizione, nonché in alcune sentenze delle sezioni semplici. Ad es., Cass. 15 maggio 2003, n. 7621, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali nel settore sanitario: “la disciplina dei rapporti di pubblico impiego […] si impernia sul principio per cui gli atti che si collocano al di sotto della soglia di configurazione strutturale degli uffici pubblici e che riguardano il funzionamento degli apparati sono espressione della capacità di diritto privato e, correlativamente, i poteri di gestione del personale rispondono nel lavoro pubblico, come in quello privato, ad uno schema normativamente unificato, che non è quello del potere pubblico ma quello dei poteri privati”; nello stesso senso, Cass. S.U. ord. 15 maggio 2003, n. 7623; Cass, S.U. ord. 27 giugno 2003, n. 10288; Cass. 20 marzo 2004, n. 5659. 274 Si veda ancora D’ANTONA, op. ult. cit., p. 245. 149 strazioni ai fini della contrattazione collettiva […] in coerenza con gli obiettivi di decentramento, deconcentrazione e semplificazione portati dalla riforma amministrativa” 275, parleremo, unitamente al “quarto carattere 276, a proposito del regime delle fonti. All’esito dell’esame dei caratteri della seconda privatizzazione (“guidato” dall’interpretazione, che abbiamo definito “autentica”, di chi ne fu l’autorevolissimo artefice) appare possibile constatare come nessuno dei “quattro caratteri” della seconda privatizzazione sembri avere alcuna attinenza con quello che (evidentemente più a torto che a ragione) viene tuttora considerato “il principio ordinatore, determinante ed esclusivo, del diritto del lavoro”, e cioè il 275 Così, D’ANTONA, op. ult. cit., p. 246. Nello stesso senso, per tutti, LISO, La privatizzazione…, cit., spec. pp. 204 ss.. Su un quarto carattere della privatizzazione, come terreno di sperimentazione di riforme da esportare nel settore privato si dirà in seguito. 276 Il “quarto carattere è la transattività della riforma, che non si risolve nella «pars destruens» dell’abrogazione di norme ed istituti dell’ordinamento speciale del pubblico impiego per consentire l’espansione della legislazione lavoristica”, così, D’ANTONA, op. ult. cit., p. 246, con riferimento alla programmata ed anzi annunciata esportazione nel settore privato del modello di contrattazione collettiva del settore pubblico, incoraggiata dalla tenuta costituzionale del modello, e preparata anche attraverso la teorizzazione di un depotenziamento dell’efficacia impeditiva del quarto comma dell’art. 39 Cost., come meglio vedremo nel prossimo capitolo. 150 principio della “tutela di chi lavora nei confronti di chi detiene i mezzi di produzione” 277. Tuttavia, se è vero che la seconda privatizzazione, ancor più della prima, appare funzionale (e comunque inscindibilmente collegata) ad esigenze di riforma organizzativa della pubblica amministrazione, nel più ampio quadro della riforma dello Stato, con conseguente sostanziale estraneità del processo di integrazione delle discipline del lavoro pubblico e del lavoro privato alle esigenze di tutela “paritaria” del primo278, è anche vero che essa, più della prima, accredita l’idea della privatizzazione come valore in sé, come “obiettivo di fondo” della riforma. Non a caso, come diremo nel secondo capitolo, il regime delle fonti del rapporto di pubblico impiego è stato interpretato più che alla luce delle finalità dichiarate dal le277 PERSIANI, Diritto del lavoro e autorità…, cit., peraltro proprio in un saggio (già citato in nota…) destinato agli Studi in memoria di Massimo D’Antona, nell’ambito di una riflessione sui “problemi di metodo posti dalla particolarità della dottrina giuslavoristica”, che muove proprio da D’ANTONA (L’anomalia postpositivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, in Riv.crit.dir.priv., 1990, 207 ss.), cui l’A. ascrive, tra gli altri, il merito di avere interrotto “il silenzio metodologico dei cultori del diritto del lavoro”, sottolineando le anomalie di un metodo inficiato (come ricordato da D’Antona) da “eclettismo” nonché dalla “contingenza e della strumentalità dell’elaborazione giuridica” (da parte di una “comunità scientifica” tendente a porsi come “interlocutore collettivo nella discussione politico–sindacale sulla progettazione e sulla valutazione strategica dei modelli di regolazione”). Le conseguenti “impressioni” circa la “perdita di autorità del punto di vista giuridico”, costituiscono la premessa, condivisa, delle riflessioni di PERSIANI. 278 Già con riferimento alla prima privatizzazione si era “constatato”, quanto sarebbe stato ancora più evidente con la seconda, e cioè che “l’attuazione della riforma del rapporto di lavoro e dei rapporti sindacali è inscindibilmente connessa all’attuazione della riforma della pubblica amministrazione, tanto che è ben difficile immaginare che i due momenti possano procedere con velocità diverse”: così VENTURA, Lavoro pubblico, cit., p. 209. 151 gislatore, in senso conforme alla finalità ideale di non sconfessare, o non rinnegare, il “valore” intrinseco della privatizzazione, attraverso una ricostruzione in chiave pubblicistica di quel medesimo regime. Ma l’interpretazione in chiave forzatamente privatistica del regime delle fonti, pur raccomandata fortemente dal legislatore della seconda privatizzazione (chiamata a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” 279 ed a “semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva” 280, così da renderle più “coerenti con il settore privato”281, anche attraverso il riconoscimento dell’autonoma contrattuale della pubblica amministrazione) ha trovato, nell’ambito della stessa, forti elementi di disturbo. Invero, la “seconda privatizzazione” è stata foriera di un ulteriore allontanamento tra lavoro pubblico e lavoro privato all’atto stesso in cui disponeva il più imponente e macroscopico effetto della privatizzazione: la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie di lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni. Ed invero, come meglio vedremo, ragioni squisitamente pubblicistiche di contenimento e di controllo del contenzioso del lavoro pubblico (e del costo del lavoro pubblico conseguente al contenzioso), hanno ispirato scelte di stabilizzazione e di irrigidimento del sistema contrattuale del lavoro pubblico, in palese contraddizione con l’auspicio 279 Art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59 del 1997. 280 Art. 11, comma 4, lett. b), l. n. 59 del 1997. 281 Il riferimento alla “coerenza con il settore privato” non è nella legge delega, ma nell’art. 40, terzo comma, dell’odierno art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 152 di una maggiore coerenza con il sistema contrattuale del lavoro privato: auspicio tradottosi in interventi di maquillage ispirati dall’idea dominante della privatizzazione come valore in sé: il valore etico della riconduzione del lavoro pubblico al “diritto comune del lavoro”. Si è così sovente dimenticato che la privatizzazione costituisce, quantomeno per il legislatore, non già un fine, ma uno strumento, e si è bollata come eretica, riduttiva o affetta da nostalgie pubblicistiche (quando la si è presa in considerazione) qualsiasi lettura diretta, all’opposto, ad evidenziare le rilevanti divergenze di tutela del lavoro privato e di quello privatizzato, e lo snaturamento che il diritto del lavoro subisce in quanto adattato all’esigenze dell’organizzazione pubblica e finalizzato ad accrescerne l’efficienza. 153 Capitolo 2 LA CRISI DELLA PRIVATIZZAZIONE 1 – Le prime avvisaglie: il nuovo parere del Consiglio di Stato. L’atteggiamento della dottrina giuslavoristica dominante, di forte adesione e partecipazione, non solo ideale, alle scelte di politica del diritto sottese alla privatizzazione del pubblico impiego1, spiega il generale senso di rivolta, avversione, frustrazione, smarrimento (secondo i casi) a fronte di indugi, arretramenti, ripensamenti, o vere e proprie inversioni di rotta sulla strada del completamento del processo di privatizzazione e della costruzione di un diritto comune del lavoro. L’idea della privatizzazione come valore in sé, come fine di se stessa, ha sovente impedito una distaccata interpretazione di evenienze, legislative e giurisprudenziali, che si assumevano incoerenti con quel valore, pur se, in ipotesi, coerenti con le dichiarate finalità pubblicistiche della privatizzazione. Territori contesti al diritto amministrativo e faticosamente conquistati dal diritto del lavoro, sono stati oggetto di “ripubblicizzazione” all’esito di quella che viene considerata come una sorta di controffensiva o di rivincita del diritto amministrativo, per (colpi di) mano giurisprudenziale o legislativa: una specie di “terza fase” della riforma, ca- 1 BELLAVISTA, Fonti del rapporto…, cit., p. 77. 154 ratterizzata da “elementi di ritorno al passato” 2. Ed anche il Consiglio di Stato ha rialzato la testa. Invero, la prima controffensiva pubblicistica, “alla riconquista dei territori perduti”3, è stata “sferrata”, proprio all’indomani del completamento della seconda privatizzazione (che pure era stata concepita per frenare “pulsioni interventiste” dei “poteri forti” del pubblico impiego) dagli “irriducibili” asserragliati all’interno dell’adunanza generale del Consiglio di Stato (il nemico numero uno della privatizzazione), con un nuovo parere4, dopo quello “celebre” 5 (o “famigerato”), reso, con scarso seguito, sull’allora “schema di disegno di legge delega per la riforma del pubblico impiego”6. Il nuovo parere, però, non è l’aggiornamento del vecchio, né esprime auspici di ritorno al passato, o rivincite morali nei confronti dei fautori della privatizzazione Si tratta di un parere tecnico, in apparenza misurato, su una serie di complessi quesiti interpretativi posti dalla privatizzazione (della quale ormai si prende atto senza ste2 Così, BARBIERI, La contrattazione collettiva, in Commentario Utet, 2004, cit., 357, sia pure con specifico riferimento agli interventi di accentramento del sistema di contrattazione collettiva per ragioni di controllo della spesa, ispirati da “diffidenza”. 3 Si veda CORPACI, Controversie in materia di lavoro pubblico e ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: il Consiglio di Stato alla riconquista dei territori perduti, in Lav. pubbl.amm., 2000, 461. 4 Cons. Stato Ad. Gen. 10 giugno 1999, n. 9, in Foro amm., 1999, 2160, con note di TENORE ed APICELLA. 5 Così lo definisce SUPPIEJ, Nove anni di travaglio del trapasso di giurisdizione…, p. 309. 6 Cons. Stato Ad. Gen. 31 agosto 1992, n. 146, cit. 155 rili polemiche) in relazione ad irrisolte sovrapposizioni con il precedente regime pubblicistico 7. Ed ai quesiti viene data risposta articolata, senza apparenti pregiudizi pubblicistici, ma senza che nemmeno sia dato spazio ad una inesistente ratio di favore per interpretazioni “privatizzanti” o “depubblicizzanti”. In particolare, quanto ai quesiti a maggior tasso di incidenza sui valori della privatizzazione, il Consiglio di Stato dopo aver ripetutamente sottolineato le innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 80 del 1998, e cioè la “più accentuata scissione tra le competenze dell’organo di direzione politica e le attribuzioni, vieppiù incrementate, della dirigenza amministrativa”, ha motivatamente opinato nel senso della “sopravvivenza in capo al Ministro di un preciso potere — in qualche modo extra ordinem e come tale non puntualmente disciplinato — di annullamento in ogni tempo degli atti dirigenziali per motivi di legittimità, potere che evidentemente il Legislatore correla alle responsabilità politiche e costituzionali (art. 95 comma terzo Cost.) di tale Organo”; nonché nel senso del carattere concorrente e non alternativo del ricorso straordina- 7 I quesiti, posti dal Ministero dell’interno, erano “se il conferimento ai dirigenti di attribuzioni innanzi riferite agli organi di direzione politica investe anche provvedimenti la cui adozione implica valutazioni di carattere ampiamente discrezionale o aventi riflessi di natura anche politica: è questo, in particolare, il caso dei provvedimenti di rimozione degli amministratori degli enti locali, degli atti di concessione della cittadinanza italiana nonché delle autorizzazioni alla consultazione dei documenti d’archivio di carattere riservato”. Ulteriori quesiti investivano la la “precisa connotazione e alla latitudine del potere ministeriale di annullamento per motivi di legittimità, espressamente fatto salvo dall’art. 14, comma 3, del d. l.vo n. 29”; nonché la persistente ammissibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso gli atti con i quali gli organi preposti provvedono alla gestione dei rapporti di lavoro”. 156 rio al Presidente della Repubblica rispetto all’azione di accertamento del diritto davanti al giudice ordinario. Tanto è bastato per urtare la suscettibilità dei fautori della privatizzazione che, per la verità, in gran parte hanno ignorato il nuovo parere8. 2 – La sofferta restituzione al giudice amministrativo di ambiti di giurisdizione “conquistati” dal diritto del lavoro. Ma se dal Consiglio di Stato non ci si attendeva certo sostegno incondizionato alla privatizzazione, dalla Corte costituzionale forse sì. Invece a “tradire” inaspettatamente la privatizzazione è stata proprio quella Corte costituzionale, che pure aveva certificato la “compatibilità costituzionale” complessiva della riforma, scacciando i fantasmi del passato agitati dal Consiglio di Stato, ed ergendosi al ruolo di più affidabile alleato ed interlocutore della privatizzazione9. Qui l’efficienza della pubblica amministrazione ha avuto buon gioco sulla “custodia” dei valori ideali della privatizzazione. Invero, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, se giustifica la scelta legislativa di affidare alla fonte contrattuale la disciplina del rapporto “attra8 Come rileva SUPPJEI, Nove anni di travaglio del trapasso di giurisdizione…, cit., p. 309, n. 7. 9 Come vedremo gli “argomenti” con cui la Corte costituzionale ha elargito la propria solenne “benedizione” alla riforma, sia ai sensi dell’art. 97, sia ai sensi dell’art. 39, sono tuttora gli “argomenti” della prevalente dottrina. 157 verso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici”, non consente, però, di derogare a principi–cardine del lavoro pubblico, ed in particolare al principio secondo cui ai pubblici uffici, che debbono essere organizzati in modo da assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, debba accedersi mediante concorso. Ed il concorso pubblico, secondo un orientamento del giudice delle leggi anteriore alla stessa privatizzazione10, confermato all’indomani della stessa 11, “costituisce, di norma, la regola generale per l’accesso ad ogni tipo di pubblico impiego, anche a quello inerente ad una fascia funzionale superiore”, essendo “il mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della Pubblica amministrazione”. In tal modo, il giudice delle leggi ha finito per influenzare, ed indurre ad un radicale retromarcia (che per i seguaci della privatizzazione equivale ad un altro “tradimento”), anche il giudice di legittimità, piegato da tanta coerenza, e sollecitato con le buone, o con le cattive di una ventilata pronuncia di incostituzionalità12, a trarne le dovute conseguenze in punto di giurisdizione. 10 Tra le tante, Corte cost. 15 ottobre 1990, n. 453; 27 dicembre 1991, n. 487; 18 aprile 1991, n. 161. 11 Corte cost. 4 gennaio 1999, n. 1; 16 maggio 2002, n. 194; 29 maggio 2002, n. 218; 23 luglio 2002, n. 373; 17 giugno 1997, n. 320. 12 Corte cost. ord. 4 gennaio 2001, n. 2, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’allora art. 68 d.lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 63 d.lgs. n. 165 del 2001), in base all’interpretazione secondo cui la procedura selettiva diretta all’accesso ad una qualifica superiore e riservata sia al personale interno all’amministrazione, sia a candidati esterni, integra “una vera e propria procedura concorsuale di assunzione nella qualifica indicata nel bando”. 158 Invero, la Suprema Corte ha infine dovuto riconoscere che se anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore, “nel quadro di un sistema come quello oggi in vigore che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti”, deve essere attuato mediante una forma di reclutamento che permette “un selettivo accertamento delle attitudini”; se dunque il concorso non può essere riservato esclusivamente ai dipendenti interni, posto che il nuovo assetto creato dal legislatore è preordinato a realizzare “il valore dell’efficienza, grazie a strumenti gestionali che consentono di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua più flessibile utilizzazione”; ne consegue con la perentorietà di un corollario che “il quarto comma dell’articolo 63 decreto legislativo 165/01, quando riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo «le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle Pubbliche amministrazioni», fa riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore: il termine "assunzione", d’altra parte, deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all’ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l’accesso nell’area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un ampliamento della pianta organica”. Sono dunque le finalità stesse della privatizzazione, per l’efficienza e nell’interesse della pubblica amministrazione, a segnarne inesorabilmente i confini. 159 Dovrebbe conseguirne la restituzione, al giudice amministrativo, di assai consistenti ambiti di giurisdizione che il giudice ordinario aveva ritenuto di annettere definitivamente al proprio dominio. Ma già si preannuncia una accanita resistenza giurisprudenziale di merito, sostenuta dalla prevalente dottrina giuslavoristica, schierata a difesa delle conquiste della privatizzazione. Ma non sono in discussione “solo” i confini della giurisdizione. Sono in discussione — con riferimento a vicenda fondamentale del rapporto di lavoro (la progressione di carriera, la selezione delle persone più idonee a ricoprire determinati posti o ruoli negli uffici) — i capisaldi stessi della privatizzazione. Fondamentali determinazioni e misure per l’organizzazione degli uffici e per la gestione dei rapporti di lavoro non sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, e non hanno contenuto negoziale, ma sono conseguenza di procedure pubblicistiche imposte per legge. Il contratto individuale di lavoro — stipulato all’esito delle procedure selettive per il primo accesso ad un pubblico impiego, ovvero per il successivo accesso ad una fascia o area superiore — viene svuotato di contenuto: non esprime la scelta dell’altro contraente, sia esso assunto per la prima volta, o “assunto” per un diverso posto della dotazione organica, e nemmeno regola il contenuto del rapporto di lavoro (predeterminato interamente dai contratti collettivi), e finisce così per diventare il vuoto emblema di una privatizzazione di facciata. 160 161 3 – La “terza fase” della contrattazione collettiva ed i “ripensamenti” del giudice delle leggi sulla natura della stessa (rinvio). La dottrina consentanea alla privatizzazione ha preso atto con insofferenza degli interventi eteronomi di (ulteriore) centralizzazione del sistema di contrattazione collettiva — motivati da esigenze di controllo della spesa pubblica ed ispirati da diffidenza per la contrattazione collettiva integrativa — che hanno fatto seguito alla seconda privatizzazione13, quasi si trattasse di una “terza fase della disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato”, caratterizzata da “elementi di ritorno al passato” 14. Eppure erano trascorsi soltanto un paio di anni dal completamento di quella seconda privatizzazione che, a sua volta, avrebbe dovuto “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”, anche con riferimento alle fonti di disciplina del rapporto; “semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva”; prevedere che “la struttura della contrattazione, le aree di contrattazione, ed il rapporto tra i diversi livelli” fossero definiti “in coerenza con quelli del settore privato” 15. L’uso del condizionale non è causale. 13 Intendiamo riferirci alle leggi finanziarie per il 2002 e per il 2003 citate infra… 14 Per tutti, BARBIERI, SPINELLI, La contrattazione collettiva e il contratto collettivo nazionale, cit., 357. 15 Rispettivamente, art. 11, comma 4, lett. a), art. 11, comma 4, lett. c), art. 11, comma 6, l. n. 59 del 1997. 162 In effetti, la “seconda privatizzazione” — dovendo prioritariamente assicurare la certezza delle norme di contratto collettivo in funzione deflattiva del contenzioso devoluto al giudice ordinario — aveva mancato l’obiettivo di rendere “coerente” la contrattazione collettiva del settore pubblico con quella del settore privato, in vista di una unificazione dei due sistemi. E, del resto, il legislatore mostrava di avere decisamente optato per “l’inversione del modello”, al punto da aver sperimentato in vitro (cioè, nel laboratorio protetto del pubblico impiego) norme sulla rappresentatività sindacale da esportare nel settore privato. L’intendimento era dunque opposto a quello fatto palese dal significato proprio delle parole: non regolare la contrattazione collettiva del pubblico impiego “in coerenza con quella del settore privato”, ma regolare (in un prossimo futuro) quest’ultima “in coerenza” con la regolamentazione eteronoma “sperimentata” nel settore pubblico16. Ed a proposito di incoerenza, la dottrina non ha potuto fare a meno di rilevare quella in cui è incorso un legislatore che, nel momento stesso in cui sollecitava le parti a strutturare autonomamente il sistema di contrattazione collettiva in coerenza con il settore privato, provvedeva egli stesso a strutturarlo eteronomamente. E ciò basta a ridimensionare la portata innovativa dei tanto contestati interventi eteronomi successivi, collocati lungo una linea di continuità, e non di “ritorno al passato”. Piuttosto, il colpo più duro alla tesi dominante del contratto collettivo pubblico come contratto collettivo “privatistico” o “di diritto comune” è stato quello inferto (anco16 DE MARINIS, Rappresentanta e rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva, cit., 420 ss. 163 ra una volta) “a tradimento” dalla Corte costituzionale del 200317: quella stessa Corte costituzionale che pure, appena un lustro prima, aveva, uno actu, costituzionalizzato la riforma e convalidato quella tesi privatistica 18. Ed invero, per poter giustificare sul piano della ragionevolezza le ulteriori gravi incoerenze tra contrattazione collettiva del settore pubblico e contrattazione collettiva del settore privato introdotte dalla seconda privatizzazione la Corte costituzionale non ha potuto far altro che prendere atto della “peculiare natura” della prima rispetto alla seconda, accreditando la tesi che i contratti collettivi pubblici sono fonti del diritto e non atti di autonomia collettiva. Ma la tendenza interpretativa sembra essere nel senso di ridimensionare la portata della suddetta pronuncia, magari facendo passare per un obiter dictum quel riferimento alla “peculiare natura” del contratto collettivo pubblico che, invece, è il cuore della motivazione. A fare scuola è ancora la mitica sentenza del 1997 che benedisse la privatizzazione. 17 Corte cost. 5 giugno 2003, n. 199, in Lav.pubbl.amm., 2003, 885, con nota critica di BORGHESI. 18 Il riferimento è a Corte cost. n. 309 del 1997, cit., ed alla teoria dell’efficacia indiretta del contratto collettivo pubblico sulla quale “esiste ormai una convergenza di opinioni” (come osserva, tra gli altri, NOGLER, Il contratto collettivo nel prisma…, cit., p. 26, n. 129, che sintetizza bene l’atteggiamento della dottrina che quel precedente richiama tralaticiamente ed acriticamente). 164 4 – Le “leggi la cui applicabilità è limitata” al lavoro privato: lo sganciamento del lavoro pubblico dall’evoluzione del diritto “comune” del lavoro. Ma il vulnus più intollerabile alla privatizzazione come “valore in se” è stato quello inferto dal legislatore, e per di più dal legislatore del lavoro privato. La faticosa e per molti versi forzata edificazione di un diritto comune del lavoro, “all’indomani di una riforma promessa”19, lasciava supporre che il legislatore del lavoro fosse ormai divenuto “unico” (così come unico è il giudice del lavoro). Ed era con viva soddisfazione che si annunciava la lieta novella: “d’ora in avanti il legislatore dovrà scrivere leggi applicabili tanto ai dipendenti da imprenditori e datori di lavoro privati quanto ai dipendenti da amministrazioni pubbliche” 20. Le ultime parole famose. Il legislatore (e per di più quello del lavoro privato!) ha inopinatamente “scritto” una legge che “non trova appli- 19 CARINCI, All’indomani di una riforma promessa: la privatizzazione del pubblico impiego, in Commentario diretto da F. CARINCI e M. D’ANTONA, Giuffrè, Milano, 2000. 20 RUSCIANO, Introduzione, in RUSCIANO, ZOPPOLI L., L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1993, XXVII. 165 cazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”21. E non si tratta certo di una “leggina”! Si tratta della notissima riforma del mercato del lavoro (ben 86 articoli22 contro i 72 del d.lgs. n. 165 del 2001!), salutata dai fautori–sostenitori come la più importante degli ultimi decenni, prodromo di svolte epocali, di quello Statuto dei lavori, destinato a soppiantare quello dei lavoratori, 21 Art. 1, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, in attuazione dell’espressa “esclusione” di cui all’art. 6 della legge delega (“Le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”). Sono poi previste nella legge delega altre due espresse e specifiche esclusioni: in materia di riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale “con esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche” (art. 3, comma 1), ed in materia di certificazione dei rapporti di lavoro “al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, con esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche” (art. 5, comma 1). La dottrina si è sforzata di dare un qualche senso all’incomprensibile inciso “ove non siano espressamente richiamate”. Cfr. per due diverse opzioni interpretative ZOPPOLI, Nuovi lavori e pubbliche amministrazioni (ovvero Beowulf versus grendel, atto II), intervento dattiloscritto al Convegno “Sviluppo e occupazione nel mercato globale, svoltosi a Napoli il 4–5 dicembre del 2003 e GRAGNOLI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in M.T. CARINCI (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 245. 22 “Appena 86 articoli” in appena sei mesi di duro lavoro, secondo il commento vagamente adesivo di TIRABOSCHI, in Commentario allo schema di decreto attuativo della legge delega sul mercato del lavoro, curato dallo stesso A. per Guida al Lavoro, suppl. 2003, n. 4. Meno articoli e più tempo per riflettere non avrebbero guastato. Nei successivi commenti adesivi del medesimo A., il riferimento agli “appena 86 articoli” è venuto pudicamente meno. 166 cui pure viene tributato un inutile omaggio23. Eppure un cenno all’intenzione di “proseguire con determinazione verso una maggiore omogeneità non solo nelle norme ma anche nelle relazioni sindacali e nei comportamenti effettivi dei due settori, pubblico e privato” era sfuggito agli estensori del Libro Bianco24. Ed invece, inopinatamente, ecco una “legislazione che dichiaratamente e ingiustificatamente tradisce il processo di avvicinamento tra pubblico e privato”25; una scelta “contraddittoria rispetto al processo di omogeneizzazione tra lavoro pubblico e privato in atto da un decennio”26 , una “pausa di riflessione lungo la strada dell’armonizzazione 23 La smodata ambizione che pervade la riforma, non sorretta, però, da tecnica legislativa adeguata, trapela dal “tono magniloquente” dell’incipit (così, GALANTINO, Le finalità della riforma, in La riforma del mercato del lavoro, GALANTINO (a cura di), Giappichelli, 2004, p. 5), laddove veniamo rassicurati che il fine di aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e stabilità del lavoro verrà realizzato “nel rispetto delle disposizioni relative alla libertà e dignità del lavoratore di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni ed integrazioni”, oltre che “alla parità tra uomini e donne […] e alla pari opportunità tra i sessi”. 24 Uno degli estensori è, tra l’altro, SACCONI, sottosegretario di Stato per le funzioni pubbliche all’epoca della prima privatizzazione e sottosegretario al welfare all’epoca della riforma del mercato del lavoro. Si veda la sua Introduzione alla relazione sullo stato della pubblica amministrazione, per l’anno 1991, in Pubblico impiego, Verso il diritto comune del lavoro, cit., 49, da cui emerge il ruolo importante che ebbe ad assumere nell’avvio della privatizzazione: ruolo sottolineato negativamente da CASSESE (si veda nota…). 25 CHIECO, 2004, 108… 26 ZOLI, Commento all’art. 1, in PEDRAZZOLI (a cura di), Commentario al d.lgs. 276/2003, Utet, Torino, 2004,… 167 del lavoro pubblico e privato”27; una “indiscutibile inversione di tendenza della legislazione lavoristica”28; un inatteso “ritorno al passato”29. Una riforma — quella da cui è escluso il lavoro pubblico — che, peraltro, ha ad oggetto proprio quelle “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, di cui le pubbliche amministrazioni, sia pure nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale, “si avvalgono”, come sembra constatare, più che disporre, quasi fosse la cosa più naturale del mondo, l’art. 36, d. lgs. n. 165 del 200130 . 27 CARABELLI, P.A., contratti di lavoro flessibile, e riforma del mercato del lavoro: una pausa di riflessione lungo la strada dell’armonizzazione del lavoro pubblico e privato?, in, Lavoro pubblico e flessibilità, cit., 54. 28 MAINARDI–SALOMONE, L’esclusione dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Le competenze di regioni a statuto speciale e province autonome, in CARINCI (coordinato da), Commentario al D.L.gs. 10 settembre 2003, n. 276, IPSOA, 2004, 34. 29 CARINCI, Introduzione, in Commentario al D.L.gs. 10 settembre 2003, n. 276, IPSOA, 2004, XCI, secondo cui più che di “ripubblicizzazione” dovrebbe parlarsi di “diversificazione”, motivata “dalla tradizionale diffidenza sindacaleverso qualsiasi strumentazione etichettabile come «precariato» o sostegno al reddito”, nonché dalla “gran fretta”. 30 Ma così evidentemente non doveva essere art. 36, d.lgs. n. 165 del 2001, che poi aggiunge che “i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, in applicazione di quanto previsto dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, dall’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, dall’articolo 3 del decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dalla legge 24 giugno 1997, n. 196, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina”. 168 In realtà, i sintomi che la norma da ultimo citata avesse un significato dimostrativo del procedere inesorabile della privatizzazione (più che realmente attuativo della delega a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa” 31) poteva forse arguirsi da ciò che già era previsto in via generale che “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (fossero) disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”32. Cosicché l’ulteriore pleonastico e ridondante richiamo al codice civile ed alle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, a proposito delle forme contrattuali flessibili di cui le pubbliche amministrazioni “si avvalgono”, sembrava esprimere l’atteggiamento psicologico di chi, sospettando a 31 Art. 11, comma 4, lett. a, l. n. 59 del 1997. 32 Art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 169 ragion veduta di aver detto una cosa poco credibile, la ripete per convincersene33. Ed invero, come è intuitivo rilevare, la flessibilità nel lavoro pubblico ha ben altro significato che nel lavoro privato, perché persegue finalità opposte34, cui è certamente estranea quella di aumentare i tassi di occupazione, saldandosi anzi, la flessibilità nel lavoro pubblico, con il consueto “blocco” delle assunzioni, immancabile in ogni legge finanziaria che si rispetti, e che, certo, costituisce una peculiarità dirigistica propria del lavoro pubblico. Torneremo sul punto. Fatto sta che il legislatore della privatizzazione faceva mostra di credere fermamente nell’unificazione delle fonti di disciplina delle forme contrattuali flessibili di cui si av33 E forse l’enfasi dell’affermazione di principio iniziale serviva a controbilanciare e ad attenuare l’impatto con il contenuto precettivo principale dell’art. 36: quello espresso nel secondo comma secondo cui “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni , non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”. Del resto nel d.lgs. n. 165 del 2001 il metodo della “privatizzazione di facciata” è sovente utilizzato. Si ripetono quasi testualmente formulazioni di norme privatistiche, con variazioni che tuttavia ne stravolgono del tutto il senso ed il contenuto. Di forme contrattuali flessibili non si parlava, come è noto, nell’originario testo dell’art. 36 (“assunzioni”), corrispondente all’attuale art. 35 (“reclutamento del personale”), pur se si faceva riferimento alla disciplina del reclutamento del personale a tempo parziale, richiamando la disciplina pubblicistica speciale (comma 3), e si stabiliva il divieto di costituire rapporto di lavoro a tempo determinato di durata superiore a tre mesi (comma 4), prevedendosi altresì che “le assunzioni anche in forma di contratti d’opera effettuate in violazione del divieto […] sono nulle di pieno diritto”. 34 Si veda in generale DELL’OLIO, Istituti di flessibilità: tempo parziale, tempo determinato, mansioni, in DE MARTIN (a cura di), Il nuovo assetto del lavoro pubblico, Angeli, Milano, 1999, 71. 170 valgono, o dovrebbero avvalersi, allo stesso modo, sia i privati datori di lavoro sia le pubbliche amministrazioni, al punto da rinviare, per la futura disciplina delle forme contrattuali flessibili de quibus, ad “ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina” (art. 36, primo comma, ultimo inciso)35. Ma così non è stato: il legislatore, con la riforma del mercato del lavoro, ha introdotto modificazioni ed integrazioni della “relativa disciplina”, ed in particolare “tipologie contrattuali a orario ridotto, modulato e flessibile”, nuovi contratti formativi, e “tipologie contrattuali a progetto e occasionali”36, da cui, però, sono state espressamente escluse le pubbliche amministrazioni ed il loro personale. L’esclusione, quasi a tradimento, del lavoro pubblico ha traumatizzato la dottrina37, quantomeno quella più aper- 35 Ultimo inciso dell’art. 36 primo comma, d.lgs. n. 165 del 2001. 36 È, come noto, la disciplina dei titoli V, VI, VII, del d.lgs. n. 276 del 2003. 37 Cfr. per un esame delle reazioni della dottrina BORGOGELLI, La nuova disciplina del mercato del lavoro e le pubbliche amministrazioni, in GRAGNOLI–PERULLI (a cura di), La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali. Commentario al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, Cedam, Padova, 2004, 8 ss. la quale osserva che “Il dissenso della dottrina nei confronti della scelta del legislatore di escludere le pubbliche amministrazioni dal campo di applicazione della nuova regolazione del mercato del lavoro è stato unanime”. 171 tamente “schierata a favore della riforma” 38, al punto che persino i più accaniti fautori–commentatori adesivi del d.lgs. n. 276 del 2003 hanno, per una volta, ritenuto di dissociarsi persino con toni di sdegno 39. Superato lo choc iniziale, la dottrina ha reagito, sforzandosi di giustificare e di minimizzare l’impatto, sui valori della privatizzazione, dell’inopinata esclusione del lavoro pubblico, per approdare alla tranquillizzante e consolatoria conclusione che l’inopinata esclusione del lavoro pubblico “non pare in grado di intaccare i principi cardine della pri38 Significativa la posizione di CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.; dall’illuminismo del progetto alla contaminazione della prassi, in Lav. pubbl. amm., 2001, 973 ss., che, in vista della riforma, osservava allarmato che “se il progetto dovesse andare in porto, le lancette della storia sarebbero rimesse al loro posto. Il pubblico impiego, lungi dall’essere unificato sotto l’egida del diritto comune del lavoro (pubblico e privato) che è il filo conduttore della grande riforma progettata e voluta da Massimo D’Antona, verrebbe bruscamente riportato alla sua originaria natura di diritto speciale o quanto meno differenziato; se non di ripubblicizzazione secca si tratta, rimanendo invariato il sistema del d.lgs.n.165/2001, si pongono le condizioni di una rinnovata differenziazione di status e di regimi tra dipendenti pubblici e privati che potrebbe sfociare anche nella reintroduzione di regole, (perché no a questo punto?), di ripubblicizzazione del rapporti”. 39 TIRABOSCHI, Filosofia, impianto generale e impatto della riforma Biagi, in TIRABOSCHI (a cura di), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Giuffrè, 2004, p. 22, commentatore adesivo per antonomasia della riforma, che, però, sullo specifico punto, si dissocia con toni persino aspri, parlando di “opzione fortemente criticabile” dovuta a “difficoltà di ordine politico e sindacale, più che tecniche a portare a definitivo compimento il processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione”, ed auspicando che “l’impegno del Governo […] ad avviare un confronto con le parti sociali per l’eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi di armonizzazione non si traduca in un nulla di fatto”. A parte la fugace dissociazione e l’auspicio il complesso tema dell’esclusione del lavoro pubblico dalla “riforma Biagi” è completamente ignorato nel pur voluminoso commentario a molte mani curato dallo stesso TIRABOSCHI. 172 vatizzazione”40, essendosi trattato soltanto di una sorta di incidente di percorso sulla strada, ormai definitivamente imboccata, della privatizzazione. Ed anzi, non si è mancato di salutare addirittura con soddisfazione la scelta di affidare ad un esame con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti da pubbliche amministrazioni, promosso dal Ministro per la funzione pubblica, l’esame dei “profili di armonizzazione conseguenti all’entrata in vigore del presente decreto legislativo ai fini dell’eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia” (art. 86, comma 8): previsione, questa, che la dottrina ha voluto leggere, non senza evidenti forzature, come “opportuna” riserva alla contrattazione collettiva della disciplina della materia 41. 5 – Le “leggi la cui applicabilità è limitata ai dipendenti pubblici” Se dunque era del tutto inatteso il “ritorno al passato” del legislatore del lavoro privato, che non ha esitato ad introdurre discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità 40 MAINARDI, d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro:l’esclusione del pubblico impiego, in Lav. pubbl. amm. 2003, 1070; MAINARDI–SALOMONE 41 Cfr. ad es. BORGOGELLI, op. cit., p. 15: “Ma ciò non toglie valenza (sia pure un un’ottica connotata dall’ottimismo) ad una lettura che riconduca l’esclusione delle pubbliche amministrazioni alla sfera delle inevitabili differenziazioni tra lavoro pubblico e privato, configurandola non come un vulnus al processo di unificazione, ma come una opportunità che consente di costruire — nel processo di armonizzazione e con l’intervento della contrattazione collettiva — una disciplina migliore di quella si sarebbe avuta con l’estensione diretta e completa delle disposizioni del d.lgs. n.276”. 173 è espressamente limitata ai dipendenti da privati datori di lavoro, l’ipotesi inversa, quella, cioè, relativa a “disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti da pubbliche amministrazioni o a categorie di esse”, è ipotesi del tutto fisiologica espressamente contemplata dall’ordinamento del lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni. La si rinviene nei termini testuali riferiti nell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 200142 . Certamente si tratta di un’ipotesi che il legislatore non intende affatto incoraggiare, preoccupandosi, al contrario, di depotenziare gli effetti delle disposizioni de quibus — a salvaguardia del principio della tendenziale unicità della fonte contrattuale (competente in via preferenziale) — rendendole derogabili da successivi contratti o accordi collettivi, che così possono riappropriarsi della materia oggetto di indesiderata incursione legislativa (o regolamentare o statutaria). Se è certo che l’ipotesi di “leggi separate” per i dipendenti pubblici è vista con sfavore, perché idonea a vulnerare i principi della privatizzazione, è però altrettanto certo che non poteva essere realistico supporre (pur essendo lecito auspicare) che privatizzazione dovesse significare anche unificazione legislativa, e, dunque, dover necessariamente “scrivere leggi applicabili tanto ai dipendenti da imprenditori e datori di lavoro privati quanto ai dipendenti da amministrazioni pubbliche”. E, del resto, come è agevole constatare, sono numerose le leggi “separate” per dipendenti da pubbliche amministrazioni “scritte” dopo la privatizzazione. Tali sono, ad 42 Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 174 esempio, le stesse leggi di revisione permanente del testo del d.lgs. n. 29 del 1993. E tali sono anche le leggi che, di anno in anno, sanciscono il “blocco” delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni. Il tema ispiratore dominante della legislazione separata per i soli dipendenti pubblici, colto criticamente dalla dottrina giuslavoristica, sembra essere quello della “nostalgia”. Di “ripubblicizzazione” e di “sindrome nostalgica”43 si è parlato ad esempio a proposito della legge di riordino della dirigenza, per avere essa, tra l’altro, posto a fondamento dell’incarico dirigenziale un “provvedimento”, e ridimensionato il ruolo del contratto di incarico, ma soprattutto per avere decontrattualizzato la materia degli incarichi dirigenziali, prevedendone espressamente la non derogabilità da parte della contrattazione collettiva. Meno virulenti sono stati gli attacchi della dottrina giuslavoristica nei confronti della disciplina separata del potere disciplinare delle pubbliche amministrazioni, di cui alla legge n. 97 del 2001 (“norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti da pubbliche amministrazioni”): legge che peraltro travalica i confini del pubblico impiego privatizzato, essendo applicabile, oltre che ai dipendenti da pubbliche amministrazioni, anche ai dipendenti “di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”. Eppure qui è davvero vistosa la deroga al principio cardine secondo cui “le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli orga43 D’ALESSIO, La legge di riordino della dirigenza: nostalgie, antilogie ed amnesie, in Lav.pubbl.amm. 2002, 213 175 ni preposti alla gestione con la capacità e o poteri del privato datore di lavoro”. Le draconiane “misure” del trasferimento a seguito di rinvio a giudizio e della sospensione a seguito di condanna non definitiva sono infatti “adottate” dalle pubbliche amministrazioni per imposizione legislativa a salvaguardia dell’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione la cui credibilità ed il cui buon nome sarebbero compromessi dalla permanenza in ufficio di un impiegato “incrinato da un’ombra44”. Ma non è questa la sola deviazione rispetto ai principi della privatizzazione. La rilevanza dell’interesse pubblico è, nel caso, tale che la legge si è, per così dire, autoblindata, prevedendo espressamente (art. 8) non solo che “le disposizioni della presente legge prevalgono sulle disposizioni di natura contrattuale regolanti la materia” (previsione, forse superflua, ma che dimostra l’inusitata forza che la fonte contrattuale eteronomizzata ha assunto nel pubblico impiego), ma anche che “i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dopo la data di entrata in vigore della presente legge non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della presente legge”. Il legislatore ha dunque utilizzato nuovamente il meccanismo di delegittimazione della fonte contrattuale di cui all’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001, sottraendo la materia del potere disciplinare alla contrattazione collettiva. E, del resto, come già ricordato, appena un anno dopo sa- 44 Corte cost. 16 maggio 2002, n. 193, in Lav,pubb.amm., 2002, 558, con nota di CERBO, La responsabilità dirigenziale tra rigore e garanzia. 176 rebbe stata espressamente sottratta alla contrattazione collettiva anche la materia degli incarichi dirigenziali. Si conferma così il ribaltamento di prospettiva nella disciplina dei “poteri” di gestione dei rapporti di lavoro della pubblica amministrazione: poteri ricondotti ed assimilati a quelli del privato datore di lavoro, non già in funzione di una loro limitazione a tutela del lavoratore (come è nel codice genetico del diritto del lavoro tradizionale), ma, al contrario, in funzione di potenziamento di quei medesimi poteri, per una più efficiente organizzazione degli uffici o una migliore realizzazione dell’interesse pubblico. Ma laddove l’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione non possa essere perseguito attraverso l’esercizio dei poteri del privato datore di lavoro (evidentemente ritenuti più efficaci della posizione di supremazia speciale della pubblica amministrazione”), il legislatore non esita ad imporre alle pubbliche amministrazioni l’adozione di determinati provvedimenti di gestione del rapporto 45. Del resto, non è certo un caso se proprio la peculiare natura “politica” del rapporto disciplinare tra la pubblica amministrazione ed il dipendente pubblico qualificasse anche il rapporto principale, cioè il rapporto di pubblico impiego, riconducendolo ad una più generale categoria, propria del diritto pubblico amministrativo, cioè a quella degli status di speciale sudditanza (ROMANO, I poteri disciplinari delle pubbliche amministrazioni, in Giur.it., 1898, IV, pp. 238 ss.). Osserva al riguardo BATTINI, Il rapporto di lavoro…, cit., p. 262, che “con gli studi sui poteri disciplinari di Santi Romano penetrano compiutamente nella scienza giuridica italiana le concezioni tedesche dell’impiego pubblico” cosicché “l’impiego pubblico viene definitivamente inquadrato nella più ampia categoria dei poteri di supremazia speciale, i quali rappresentano in certa misura una replica e specificazione della generale relazione di supremazia–soggezione fra Stato e sudditi”. 45 177 6 – Lo sdoppiamento del diritto “comune” del lavoro Il “diritto comune del lavoro” di “comune”, al lavoro pubblico o privato, ha dunque davvero ben poco, a parte la forzata matrice contrattuale, e la cornice normativa generale di riferimento, destinata ad operare tuttavia in via meramente suppletiva, se non decorativa, stante la coesistenza di discipline speciali che non solo sono differenziate in origine, ma che non cessano di differenziarsi, attraverso la consuetudine delle leggi separate, e cioè delle leggi la cui applicabilità è limitata ai dipendenti da pubbliche amministrazioni e delle leggi la cui applicabilità è limitata ai dipendenti da datori di lavoro privati (o, meglio, è esclusa per i dipendenti da pubbliche amministrazioni). Se lo sdoppiamento conseguente a leggi separate per dipendenti da pubbliche amministrazioni, previsto con rassegnazione dallo stesso legislatore della privatizzazione, preoccupato delle sorti della propria creatura, non ha suscitato particolare scalpore, ben più dirompente, nella prospettiva della prevalente dottrina giuslavoristiva, che, come detto, ha a cuore il valore in sé della privatizzazione del lavoro pubblico, è che il legislatore, muovendo dal versante del lavoro privato, abbia potuto concepire e scrivere leggi la cui applicabilità al lavoro pubblico è espressamente esclusa, come è appunto il caso della riforma del mercato del lavoro46. Le metafore qui si sprecano: si potrebbe parlare di un diritto del lavoro a due velocità; di convergenze parallele di 46 Art. 6, l. 14 febbraio 2003, n. 30. Art. 3, primo comma, delle medesima legge, con riferimento alla riforma del rapporto di lavoro a tempo parziale. Art. 1, comma 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 178 due sotto sistemi di diritto del lavoro non sincronizzati cronologicamente; di omologazione del lavoro pubblico ad un “vecchio” diritto del lavoro; di locomotiva del diritto del lavoro che riparte sganciando il carrozzone del pubblico impiego. Eppure non si era mancato di avvertire, in tempi non sospetti, come fosse in via di dissolvimento, o attraversasse quantomeno una crisi di identità, il modello cui la disciplina del pubblico impiego si sarebbe dovuta “omologare”, secondo i fautori della privatizzazione, cosicché si correva il rischio di un’omologazione ad un “modello” ormai superato 47. La valutazione del dato di diritto positivo inerente alla non applicabilità della riforma del mercato del lavoro al pubblico impiego non deve essere tuttavia condizionata emotivamente dalla costernazione per l’inatteso tradimento della privatizzazione, ma deve possibilmente ancorarsi a quel dato giuridico. Anche se si fà una certa fatica a scovare “l’autorità del punto di vista giuridico” in un testo normativo raffazzonato, approssimativo ed incoerente, di smodata ambizione riformatrice, ma di pessima fattura. 47 Osservava con realismo e una buona dose di preveggenza ROMEO, Riflessioni sulla «effettività» della trasformazione del rapporto di pubblico impiego, in Atti del più volte citato convegno Aidlass del 1996 (137 ss.): “sembra che i sostenitori della privatizzazione non tengano nella dovuta considerazione che il Diritto del Lavoro italiano stia slittando sempre più verso una regoamentazione atipica rispetto a quella del Codice Civile e dello Statuto dei lavoratori, mentre il modello riformato di pubblico impiego sembra ispirarsi essenzialmente a queste fonti”. L’A. concludeva sul punto: “non mi pare, quindi si possa concretamente parlare di omologazione rispetto ad un modello che da tempo ha cessato di essere omogeneo e che dovrà, invece, trovare nuove identità”. 179 E dal punto di vista considerato, è bene domandarsi già sin d’ora se l’esclusione del lavoro pubblico dalla riforma del mercato del lavoro non si colleghi razionalmente alle finalità pubblicistiche della privatizzazione. E se, pertanto, non debba considerarsi eccessiva l’attonita e sbigottita sorpresa che essa ha suscitat, condizionata forse da quell’adesione emotiva ai valori ideali della privatizzazione, più volte rilevati. 7 – Efficienza della pubblica amministrazione e riforma del mercato del lavoro. 7.1 – Estraneità della privatizzazione rispetto alle finalità occupazionali della riforma del mercato del lavoro Da quel punto di vista, la scelta di escludere la disciplina del lavoro pubblico dalla riforma del mercato del lavoro appariva realistica ed anzi obbligata, considerata la “materia” oggetto dell’intervento riformatore (“occupazione e mercato del lavoro”) e le finalità dello stesso (aumentare i tassi di occupazione, promuovere la qualità e la stabilità del lavoro), incompatibili con le finalità della privatizzazione (accrescere l’efficienza delle amministrazioni, razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica, realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni). In particolare, la finalità di aumentare i tassi occupazionali — realizzata, nel settore privato, “attraverso contratti a contenuto formativo e contratti ad orario modulato compa- 180 tibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori” (art. 1, d.lgs. n. 276 del 2003) — è del tutto estranea alle pubbliche amministrazioni48 , che perseguono il fine opposto di contenere la spesa complessiva del personale, attraverso misure di sistema, quali, in particolare, il divieto di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato (cd. “blocco”)49, e l’incondizionata ed automatica soggezione della pubblica amministrazione all’opzione del dipendente per il tempo parziale50. Se sul cd. blocco delle assunzioni — quale ragione di inapplicabilità di una riforma diretta, all’opposto, ad incrementare i tassi di occupazione — non occorre aggiungere altro, qualche ulteriore considerazione merita la disciplina 48 Sia consentito un rinvio a PILEGGI, in Iter legis, 2002… Cfr., nello stesso senso, MIANI CANEVARI, Le forme contrattuali flessibili nel pubblico impiego, in Dir.lav., 2002, I, 296. BELLAVISTA, Alcune osservazioni sulla legge n. 30/2003, in Lav.giur., 2003, n. 8, 705. 49 Art. 3, commi da 53 a 71, l. 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004): “per l’anno 2004, alle amministrazioni di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 […] è fatto divieto di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato […]. Ma il “blocco” delle assunzioni alle dipendenze da pubbliche amministrazioni è una costante di tutte le leggi finanziarie. Per un commento, si veda BIANCO, Dal blocco delle assunzioni al principio di progressiva riduzione della spesa per il personale, in Lavoro pubblico e flessibilità, cit., 46, ss. 50 Cfr., da ultimo, SANTUCCI, Il lavoro part–time, in Commentario Utet 2004, cit., 597, che parla di “un duplice circuito legislativo «privatistico» e «pubblicistico» […] che mantiene il part time in una condizione diversa e ibrida rispetto a quella di buona parte degli altri istituti del contratto di lavoro pubblico”. Pienamente condivisibile appare però soltanto la prima parte dell’osservazione. 181 del part time nel lavoro pubblico e privato, perché emblematica degli opposti significati della flessibilità nei due settori51 . La riforma del mercato del lavoro ha dettato “norme per promuovere il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale, quale tipologia contrattuale idonea a favorire l’incremento del tasso di occupazione”52. Nel pubblico impiego privatizzato sono state invece dettate “norme per ridurre il personale anche mediante l’incremento della quota di personale ad orario ridotto o con altre tipologie contrattuali flessibili”53. Ma a parte l’opposta finalità di riduzione (non di aumento) dell’occupazione, concorre ad incentivare il part–time nel pubblico impiego l’ulteriore finalità di far emergere il doppio lavoro e di “snidare”, e rimuovere, situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi54. Ecco perché — nonostante l’affermazione di principio (o di facciata) che si rinviene nell’art. 10 d.lgs. n. 61 del 2000 51 In generale, da ultimo, FIORILLO, Flessibilità e lavoro pubblico. Le forme contrattuali, Giappichelli, Torino, 2003, ed ivi (p. 9) l’ineccepibile rilievo circa l’esistenza di un “concreto pericolo che, nello stesso ordinamento del diritto del lavoro, vengano a configurarsi due distinte tipologie di flessibilità, la prima, propria del settore privato, che presta scarsa attenzione all’efficienza dell’organizzazione, la seconda, propria del settore pubblico, fortemente condizionata dal rispetto del precetto contenuto nell’art. 97 Cost. e ciò nonostante anche l’organizzazione privata sia oggetto di tutela costituzionale grazie al precetto contenuto nell’art. 41”. 52 Art. 3, comma 1, l. 14 febbraio 3003, n. 30. 53 Art. 39, l 27 dicembre 1997, n. 449 (Disposizioni in materia di assunzioni di personale delle amministrazioni pubbliche e misure di potenziamento e di incentivazione del part–time). 54 Per tutti D’ANTONA, Part– time e secondo lavoro dei dipendenti pubblici (commento alla l. 23 dicembre 1996, n. 662, in Opere…, cit., p. 195. 182 — il part time nell’impiego pubblico poteva considerarsi assoggettato, già prima della riforma del mercato del lavoro, ad una disciplina del tutto specifica e diversa (diretta ad “incentivarlo” ed a “potenziarlo”55 in funzione di riduzione del personale), al punto che la previsione di applicabilità al pubblico impiego del regime privatistico del part time56 rappresentava un inutile fattore di complicazione normativa da parte di un legislatore che, evidentemente, ancora non se la sentiva di “sconfessare” la privatizzazione “scrivendo leggi” la cui applicabilità fosse limitata ai dipendenti del settore privato 57, e preferiva dare ad intendere di voler disciplinare contemporaneamente anche il lavoro pubblico, sia pure con una disciplina in larga parte derogatoria e foriera di ingestibili sovrapposizioni di regimi basati su ratio del tutto incompatibili. Basti pensare, del resto, al regime della trasformazione del rapporto di lavoro da full time in part time, che nel pubblico impiego è regolato come un vero e proprio automatismo (un diritto potestativo) non circondato da alcuna cautela a protezione del dipendente (nei confronti del quale non si ipotizzano coercizioni di sorta), senza che assumano rilievo le esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, che, tuttalpiù, può differire di sei mesi la trasformazione in caso di 55 Art. 20, l. 23 dicembre 1999, n. 488 (Assunzioni di personale e misure di potenziamento del part–time) 56 Art. 10, d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 (Disciplina del part–time nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). 57 A voler mutuare la formula legislativa di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. Che si trattasse di un rituale omaggio formale alla privatizzazione, si evince dalla prolissa e pleonastica formula di apertura dell’art. 10, d.lgs. n. 61 del 2000: “Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, le disposizioni del presente decreto si applicano”. 183 “grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione”58, mentre nel settore privato la medesima vicenda è considerata con grande cautela e diffidenza, essendo necessario un accordo risultante da atto scritto, convalidato dalla direzione provinciale del lavoro 59. Del resto, nell’ambito di un sistema (quale è quello del pubblico impiego) in cui il rapporto di lavoro part time è strumento di riduzione dell’occupazione è evidente come il modo normale (ed incentivato) per costituirlo sia quello “per sottrazione”, cioè mediante trasformazione di un rapporto a tempo pieno già in essere in rapporto a tempo parziale60, laddove, al contrario, nel settore privato, il modo normale (ed incentivato) di costituzione del rapporto di lavoro part–time è quello “per addizione”, cioè tramite una nuova assunzione. Ma il riferimento al part–time è emblematico perché dimostra l’assoluta intangibilità dell’assetto organizzativo (e delle dotazioni organiche complessive) della pubblica amministrazione, se si considera che già prima della riforma del 58 Art. 1, comma 58, l. 23 dicembre 1996, n. 662.: “la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni dalla domanda”. Non deve però pensarsi che in tal modo prevalga l’interesse del pubblico dipendente su quello della pubblica amministrazione, posto che la legge ritiene comunque di realizzare in tal modo un interesse di carattere più generale (o macro–economico), che è quello alla riduzione del personale e della relativa spesa. 59 Art. 5, d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, come sostituito dall’art. 46, d.lgs. n. 276 del 2003. 60 Ed in ogni caso, la legge impone che una certa percentuale di assunzioni avvenga con rapporto part time (art. 39, l. n. 499 del 1997, come modificato dall’art. 20, l. n. 488 del 1999), mostrando così di preferire di gran lunga il part–time al full time, preferenza che certamente non si rinviene affatto nel settore privato. 184 mercato del lavoro 61 si prevedesse l’integrale non applicabilità del regime delle “sanzioni”62, compresa la possibile “dichiarazione della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale”, in caso di omessa indicazione della durata della prestazione lavorativa; ovvero, la “determinazione giudiziale delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale”, in caso di omessa indicazione della collocazione temporale della stessa. Dalla suddetta previsione di inapplicabilità (come detto, preesistente alla riforma del mercato del lavoro), emerge come l’interesse organizzativo della pubblica amministrazione prevale sull’interesse del lavoratore all’applicazione di un regime conforme alle effettive modalità di svolgimento del rapporto (ed anzi lo prevarica) persino in un caso in cui l’intervento giudiziale non sarebbe particolarmente invasivo, e, soprattutto, manterrebbe salvo il principio dell’assunzione mediante procedure selettive (essendo in gioco soltanto la questione della durata o della collocazione oraria della prestazione con riferimento a rapporto già costituito). Ma, evidentemente, anche per un legislatore che non aveva inteso sconfessare apertamente il principio del diritto comune del lavoro (inteso nel senso dinamico di una legislazione “comune” al lavoro pubblico o privato) il principio dell’intangibilità dell’organizzazione delle pubbliche ammini- 61 Si veda l’art. 3, l. n. 30 del 2003, ove si prevede espressamente l’inapplicabilità della riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale ai rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, specificando la più generale esclusione di cui all’art. 6. 62 At. 8, d.lgs. n. 165 del 2001, reso inapplicabile al lavoro pubblico dall’art. 10 del medesimo decreto. 185 strazioni e della sua prevalenza sull’interesse del lavoratore all’effettività della tutela, ha carattere assoluto e sacrale. Ciò che rende ancora meno “comune” il preteso diritto “comune” del lavoro, non solo sotto il profilo della (ben minore) tutela del lavoratore pubblico, ma anche sotto il profilo della ben diversa considerazione per l’interesse organizzativo del datore di lavoro privato, nonostante si teorizzasse il preteso carattere “neutro” dell’interesse in questione (rispetto all’interesse finale perseguito, pubblico o privato che fosse) proprio al fine di giustificare l’assimilazione del potere organizzativo del datore di lavoro pubblico a quello del “privato datore di lavoro”. Ed invece “i poteri del privato datore di lavoro” esercitati dalle pubbliche amministrazioni non corrispondono evidentemente ai “poteri del privato datore di lavoro” esercitati dai datori di lavoro privati. 7.2 – Estraneità della privatizzazione rispetto alla finalità di rendere trasparente il mercato del lavoro. Il fine della “trasparenza”, a tutela della stabilità e della qualità del lavoro, ma, in realtà (e, forse, principalmente), per aumentare il gettito contributivo per le casse dello Stato attraverso la riconduzione forzata di fattispecie 186 di lavoro autonomo al lavoro subordinato 63 — fine che la riforma persegue principalmente attraverso quella sorta di 63 Che il vero fine sia questo è reso esplicito nella “relazione di accompagnamento al decreto attuativo della riforma Biagi”, sotto il paragrafo “i vantaggi della riforma sotto il profilo della finanza pubblica”, laddove si legge chiaramente che “il decreto non solo non pone problemi di copertura per maggiori oneri, ma realizza significative economie e determina maggiori entrate contributive attraverso […] il ricorso a contratti di lavoro dipendente con un effetto anche di passaggio da rapporti a minore contribuzione ad altri a più alta aliquota […]; misure stringenti volte a ridurre il fenomeno delle collaborazioni coordinate e continuative, e a vietare, con incentivi e sanzioni, il ricorso abusivo ad altre tipologie contrattuali che oggi è completamente esente da contribuzione. Un numero rilevantissimo di contratti di collaborazione coordinata e continuativa con aliquota contributiva del 12 per cento saranno convertiti in contratti di lavoro subordinati che, quantunque temporanei o modulati, prevedono una contribuzione al 33 per cento. Una misura volta a contenere le collaborazioni meramente occasionali che sono esenti da contribuzione. È infatti stabilito che ogni attività lavorativa che si protragga per più di 30 giorni e che,in ogni caso, dia luogo ad un reddito di 5000 Euro con uno stesso committente non potrà più essere riconducibile al concetto di occasionalità e dovrà transitare nel nuovo lavoro a progetto ovvero in prestazioni di lavoro dipendente […] il decreto disciplina anche le prestazioni occasionali di natura meramente accessoria che oggi vengono nella quasi totalità effettuate in forme di lavoro nero. In questo caso è introdotta una forma di contribuzione leggera a favore di INAIL e INPS”. Identici concetti, espressi con le medesime frasi della relazione di accompagnamento, ripetute testualmente, si rinvengono in TIRABOSCHI, Finalità e campo di applicazione…, cit., pp. 23 ss. Il quadro della pan–subordinazione per ragioni di aumento del gettito contributivo può essere completato dall’assurda fattispecie di “un job on call privo del tratto saliente dell’obbedienza — nella sua forma più plateale dell’obbligo di risposta alla chiamata dell’imprenditore, ma nonostante ciò, assimilato al lavoro dipendente quanto a trattamento economico e normativo”, così, GALANTINO, Le finalità…, p. 14. 187 fattispecie–trappola che è il “lavoro a progetto”64 — è del tutto estraneo alla disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni, che persegue l’opposto fine di contenere il costo del lavoro pubblico, e di preservare l’organizzazione da assunzioni non programmate, aggirando il cd. “blocco delle assunzioni” attraverso il ricorso a collaborazioni coordinate e continuative ben oltre i limiti di cui all’art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165 del 200165. Ma anche indipendentemente dalla rilevata incompatibilità assoluta di fini economici (aumentare il costo del lavoro privato, da un lato, contenere il costo del lavoro pubblico, dall’altro lato: in entrambi i casi a vantaggio delle pubbliche finanze), la finalità di promuovere la stabilità e la 64 Autorevole dottrina (PROIA, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in Arg.dir.lav., 2003, 665) ha costruttivamente tentato di ricondurre a sistema la nuova figura contrattuale, tentando di dimostrare — da un lato — che “soltanto i rapporti fittizi di collaborazione coordinata e continuativa non sono suscettibili di essere ricondotti ad un progetto o ad un programma (ma allora, anche ad ipotizzare che il giudice la pensi allo stesso modo, vi è da domandarsi a cosa serva ricondurre rapporti non fittizi ad un progetto o ad un programma se non a far scattare la trappola nel caso in cui […] manchi la parola “programma” o “progetto”) e — dall’altro lato — che l’obbligo della riconduzione non sussisterebbe nel caso di lavoro autonomo che non sia coordinato e continuativo (ma, tenuto conto della rigida definizione del lavoro occasionale, appare estremamente rischioso fare affidamento sulla mancanza di coordinamento o di continuità). 65 Cfr., da ultimo, SALOMONE, Rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, in Commentario Utet, 2004, cit., 621. Si veda anche la circolare della funzione pubblica n. 4 del 15 luglio 2004, sulle collaborazioni coordinate e continuative nelle pubbliche amministrazioni, ove si rileva il sensibile aumento di dette collaborazioni, se ne denuncia l’utilizzo “improprio”, e si raccomanda l’osservanza dell’art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001, secondo i principi guida elaborati dalla Corte dei Conti, da cui si evince che il ricorso a detti rapporti “deve costituire un rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari per le quali l’amministrazione necessità dell’apporto di apposite competenze professionali”. 188 qualità del lavoro (ammesso che questo fosse il nobile intento della riforma del mercato del lavoro 66), appare in contrasto con le finalità di accrescere l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e di consentire la migliore utilizzazione delle risorse umane nell’interesse (non tanto delle risorse umane utilizzate, quanto) delle pubbliche amministrazioni utilizzatrici, che è alla base dell’estensione del diritto “comune” del lavoro al pubblico impiego. Ed invero, come già accennato, le pubbliche amministrazioni sopperiscono alle inefficienze derivanti da eventuali carenze di organico (che magari dipendono proprio dalle già ricordate misure di sistema67, volte al contenimento complessivo della spesa per il personale) attraverso il ricorso “sicuro” a forme di lavoro instabile e precario68. 66 Si legge sempre nella citata relazione governativa sotto il paragrafo intitolato “fine dell’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative” che “queste forme non regolate e atipiche sono aumentate soprattutto negli anni novanta ed hanno rappresentato un modo con cui la realtà ha individuato nelle pieghe della legge le strade per superare rigidità e insufficienze delle regole del lavoro. Le misure contenute nel presente provvedimento superano la farisaica accettazione di questa pratica elusiva e riconducono le attuali co.co.co. o al lavoro subordinato o al lavoro a progetto, forma di lavoro autonomo che non può dare luogo alle facili elusioni riscontrate pena la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato […]. Si allargano così le tutele dei dipendenti e le certezze per le imprese, evitando il facile aggiramento dei costi del lavoro subordinato”. 67 Blocco delle assunzioni e trasformazione automatica del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part time. 68 Cfr. ancora PILEGGI, op. cit. Per qualche spunto, più pacato, in tal senso, con riferimento a tutte le forme flessibili (ad eccezione delle collaborazioni coordinate e continuative), MIANI CANEVARI, op. ult. cit., p. 297. 189 La specifica normativa anticonversione — approntata all’atto stesso della privatizzazione, come limite di essa69 — garantisce infatti le pubbliche amministrazioni contro il rischio di una stabilizzazione dei rapporti flessibili, instabili e precari, contraria ai principi pubblicistici dell’accesso ai pubblici uffici per concorso, e di rigida predeterminazione della consistenza e variazione delle dotazioni organiche in funzione delle medesime finalità pubblicistiche poste a fondamento della privatizzazione, ed in coerenza con la programmazione triennale del fabbisogno del personale e con gli strumenti di programmazione economico–finanziaria70. La trasparenza opera, dunque, a salvaguardia non dei lavoratori, ma della pubblica amministrazione, attraverso la riaffermata prevalenza della formalismo giuridico delle dotazioni organiche, sui principi di effettività della tutela del lavoro. L’anima ultrarigida della riforma del mercato del lavoro — quella che, un po’ a sorpresa, ricolloca al centro del mercato del lavoro una subordinazione onnivora e fagoci- 69 Si veda infra cap… 70 Art. 6, d.lgs. n. 165 del 2001, che richiama le finalità di cui all’art. 1, comma 1. Per tutti, da ultimo, BASENGHI, Organizzazione e disciplina degli uffici e dotazioni organiche, in Commentario Utet, 2004, cit., 245. 190 tante71 — non lambisce nemmeno lontanamente i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Il principio di effettività e di indisponibilità dei tipi negoziali che permea il diritto del lavoro — e sanziona la prevalenza della sostanza del lavoro sulla veste formale che assume, più o meno artatamente — viene completamente accantonato con riferimento al lavoro di cui si “avvalgono”, e possono continuare ad avvalersi, le pubbliche amministrazioni: lavoro che ben può non assumere mai una forma corrispondente alla propria vera sostanza. Emblematico è il caso dell’inapplicabilità del nuovo regime del lavoro a progetto, nonostante la consapevolezza legislativa degli abusi, la proclamata volontà “di superare la farisaica accettazione delle pratiche elusive”, la decretata “fine” delle “finte” collaborazioni coordinate e continuative”, tali essendo, secondo la singolare idea legislativa, tutte quelle non riconducibili, o non ricondotte, ad un “proget- 71 Cfr. TIRABOSCHI, op. cit., p. 19: “l’opzione concettuale di considerare il lavoro coordinato e continuativo come una forma di lavoro autonomo genuino, e dunque di prevenire un utilizzo improprio di tale figura, si è piuttosto tradotta in un’operazione di politica legislativa volta a far transitare quanti più rapporti possibili […] dall’incerta area del lavoro c.d. grigio o atipico agli schemi del lavoro dipendente, ora opportunamente ampliati e diversificati”. Appare evidente come il transito coatto riguardi anche rapporti di lavoro coordinato e continuativo “genuini” ai sensi della preesistente disciplina, laddove scatti la fattispecie–trappola del lavoro a progetto, cioè nel caso in cui quei rapporti (definiti come “di collaborazione coordinata e continuativa” dall’incipit dell’art. 69, primo comma d.lgs. n. 165 del 2001, e dunque senz’altro “genuini”, ma cionondimeno “vietati” ove “atipici”) vengano instaurati “senza l’individuzione di uno specifico progetto, programma di lavoro, o fase di esso”; ovvero, se, essendo stati instaurati prima dell’entrata in vigore della legge, non vengano ricondotti ad un progetto o a una fase di esso entro un anno da quella data (art. 86, primo comma, d.lgs. n. 276 del 2003). 191 to”72. Ma l’ossessione antielusiva si placa improvvisamente di fronte a categorie forti ed influenti di fruitori di lavoro precario, instabile e non di qualità. E la giustificazione della deroga alla applicazione della disciplina salvifica e purificatrice del “lavoro a progetto” (che, cioè, per determinati fruitori delle “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative non sarebbe fondato il sospetto di abusi) — è espressione essa stessa di una ancor più farisaica accettazione di quelle medesime pratiche elusive, da parte di un legislatore che ha l’aggravante di ergersi a moralizzatore del mercato del lavoro, proprio attraverso la guerra dichiarata alle collaborazioni coordinate e continuative. Ciò che tuttavia non è agevole spiegare è la ragione per cui alle “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative — esonerate dell’obbligo di essere ricondotte alla nuova fattispecie del lavoro a progetto — ed in particolare a quelle instaurate con le pubbliche amministrazioni non siano state quantomeno estese le (invero “irrisorie”) tutele sostanziali introdotte per il lavoro a progetto. Si tratta di una disparità di trattamento che appare priva di qualsiasi giustificazione razionale, e che, sul piano dei principi, non è attenuata dal rilievo dell’inconsistenza delle tutele (largamente fittizie) applicabili al lavoro a progetto. La presumibile “spiegazione” è che la fattispecie del lavoro a progetto non è stata affatto concepita come un tertium genus individuato in funzione di una rimodulazione delle tutele (tutele che infatti sono assolutamente inconsistenti), ma come una sorta di fattispecie–trappola diretta a 72 Come si evince dalla citata relazione, nonché dai già citati commenti vagamente adesivi di TIRABOSCHI. 192 spingere le mandrie disperse nelle zone grigie del mercato del lavoro, entro il recinto sicuro della subordinazione, ove la mungitura è più redditizia per le casse dello Stato. 7.3 – Estraneità della privatizzazione rispetto alla finalità di sostenere i processi di esternalizzazione. Era poi evidente come non potesse trovare (o fosse inutile che trovasse) applicazione ai rapporti di lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni quella parte della riforma del mercato del lavoro 73 che mira a sostenere i processi di esternalizzazione, ed a proporre quello che è stato definito come “il modello della subordinazione dissociata”74. Si ha come l’impressione, altrove più compiutamente espressa 75, che la disciplina in questione sia stata “tarata” su di una specifica ipotesi (o operazione), che è quella di un “contratto di appalto […] connesso ad una cessione di ramo d’azienda”76. Un’operazione che la riforma ha inteso “sostenere”, neutralizzando in parte gli strumenti di tutela dei lavoratori che — in uscita — contestano l’applicabilità dell’art. 2112 cod.civ., e dunque l’automatismo del passaggio al cessionario (deducendo la mancanza di autonomia del “ramo”, o 73 Tit. III° (Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco) e IV° (Disposizioni in materia di gruppi di impresa e trasferimento d’azienda). 74 È il titolo del Convegno organizzato dalla sezione romana del Centro studi di Diritto del Lavoro D. Napoletano, svoltosi a Roma il 5 luglio 2004, i cui atti sono in corso di pubblicazione. 75 PILEGGI, Relazione…, in Atti…, in corso di pubblicazione. 76 Art. 1, comma 2, lett. p), n. 3, l. n. 30 del 2003. 193 la loro non inerenza al medesimo) e — in entrata — denunciano la violazione del divieto di intermediazione (per essere comunque utilizzati, come prima, dal cedente, già titolare del rapporto, sia pure nella nuova veste di dipendenti del cessionario–appaltatore del servizio esternalizzato)77. A tal fine, il legislatore ha, da un lato, ampliato la fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda (che può essere ora “identificato come tale78 dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”) e, dall’altro lato, “ristretto” la fattispecie dell’intermediazione vietata, mediante l’abrogazione della presunzione iuris et de iure di appalto illecito in caso di utilizzo di capitali, macchine ed attrezzature dell’appaltante, anche a titolo oneroso 79 e la previsione di liceità dell’appalto (sia pure “in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio”), anche soltanto sulla base dell’esercizio, da parte dell’appaltatore, del potere organizzativo e direttivo nei 77 Sia consentito ancora il rinvio, anche per i riferimenti, a PILEGGI… 78 Cioè come “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”: art. 32, d.lgs. n. 276 del 2003. La letteratura sul punto è copiossissima. Si veda da ultimo, anche per i riferimenti, M.T. CARINCI, Commento agli artt. 20–32, in Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 5 ss. 79 Nell’abrogare espressamente la l. 23 ottobre 1960, n. 1369 (art. 85, d.lgs. n. 276 del 2003), il legislatore non ha riprodotto le norme di cui all’art. 1, comma 3 (presunzione assoluta di pseudoappalto) e di cui all’art. 3 della legge medesima (appalto interno di opere o servizi), rendendo in tal modo assai più sicuri (per l’impossibilità per i lavoratori ceduti di avvalersi della suddetta presunzione, specie nell’ipotesi di utilizzo, da parte dell’appaltatore, del ramo cedutogli dall’appaltante) e convenienti (per l’abrogazione della regola di applicazione di un trattamento non inferiore a quello applicabile ai dipendenti dell’appaltante) gli appalti interni, resi ora estramente concorrenziali rispetto al ben più costoso e macchinoso istituto della somministrazione di lavoro. 194 confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto80, laddove nella somministrazione i poteri in questione sono esercitati dall’utilizzatore 81. Ora, come si accennava, non v’è da sorprendersi che tutta questa complessa disciplina (chiara solo negli obiettivi, pregiudicati, però, dalla discutibile tecnica legislativa e dalla scarsa padronanza degli istituti giuridici incautamente maneggiati, con effetti di incertezza che potrebbero vanificare la perseguita flessibilità) non trovi applicazioni alle pubbliche amministrazioni. Invero, per le pubbliche amministrazioni — da un lato — vige una disciplina specifica del “passaggio di dipendenti per effetto del trasferimento di attività” con espressa previsione di applicabilità dell’art. 2112 cod. civ. (ipotesi regolata in termini estremamente ampi, con grande considerazione per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni che intendano riorganizzarsi, e scarsa considerazione per l’interesse dei lavoraratori coinvolti)82 ; e — dall’altro lato — non v’è timore che si possa costituisca ex lege un rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione per effetto della violazione del divieto di intermediazione nelle prestazioni di lavoro, stante la vigenza del generale principio di inviolabilità dell’organizzazione pubblica a salvaguardia dell’efficienza (“in ogni caso la violazione di disposizioni 80 Art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003. 81 Art. 20, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, mentre il primo comma si segnala perché inizia a, ma non finisce di, definire il contratto di somministrazione. 82 Art. 31, d.lgs. n. 165 del 2001. Sul tema, da ultimo, MAINARDI– CASALE, Trasferimento di attività a soggetti pubblici e privati e passaggio di personale, in Commentario Utet, 2004, 726 ss. 195 imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato con le medesime pubbliche amministrazioni”). Quanto, infine, alla non applicabilità della nuova disciplina della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato 83, essa non sembra comportare il benché minimo inconveniente per le pubbliche amministrazioni, sia perché la maggior parte delle ipotesi in cui essa è ammessa sono, in realtà, ipotesi di appalto esterno ai sensi dell’abrogato art. 5, l. n. 1369 del 1960 (ipotesi, cioè, in cui l’utilizzatore non ha certo bisogno della fornitura di mere prestazioni di lavoro, ma di un vero e proprio appalto di opere o di servi- 83 Art. 20, comma 3, d.lgs. n. 276 del 2003. 196 zi)84 ; sia perché è stata generalizzata la somministrazione a tempo determinato 85; sia, comunque, per la non applicabilità, nei confronti delle pubbliche amministrazioni utilizzatrici, della sanzione della costituzione del rapporto con il lavoratore somministrato, con conseguente sostanziale irrilevanza, per esse, dell’ampliamento della fattispecie. 84 Le ipotesi di vero e proprio appalto esterno in cui il legislatore consente la pretesa “somministrazione di lavoro a tempo indeterminato” sono quelle di cui all’art. 20, comma 3, lett. c (“servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci”) e lett. h (costruzioni edilizie all’interno di stabilimenti; installazione o smontaggio di impianti e macchinari, particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e alla cantieristica navale, le quali richiedano in più fasi successive di lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa), ipotesi letteralmente “copiate”, con qualche improprio aggiustamento, dall’art. 5, l. n. 1369 del 1960, che, come è noto, escludeva dal regime degli appalti “interni” di cui all’art. 3, l. n. 1369 del 1960, per l’appunto, i “trasporti esterni da e per lo stabilimento” (lett. d), “gli appalti per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti” (lett. a), “gli appalti per installazione o montaggio di impianti e macchinari” (lett. b), “gli appalti che si riferiscono particolari attività produttive le quali richiedano in più fasi successive di lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa”. Altre ipotesi di pretesa somministrazione di lavoro a tempo indeterminato corrispondono ad ipotesi di appalto interno di servizi ai sensi dell’art. 3, l. n. 1369 del 1960 (gli appalti di pulizia e quelli informatici), con il non indifferente rischio che lo stato confusionale sui fondamentali del diritto del lavoro produca guasti, laddove, ad esempio, qualcuno possa ritenere che un appalto affidato ad un’impresa specializzata avente ad oggetto “la progettazione e manutenzione di reti intranet ed extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo e software applicativo, caricamento dati” in quanto espressamente previsto dal legislatore come ipotesi di sommnistrazioen a tempo indeterminato venga considerato come somministrazione irregolare da parte di soggetto non autorizzato. 85 Art. 20, comma 4, d.lgl. n. 276 del 2003, che l’ammette “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”. 197 7.4 – L’applicazione al lavoro pubblico del “vecchio” diritto del lavoro. Certo non si può dire che la privatizzazione abbia contribuito a semplificare la disciplina applicabile al rapporto di pubblico impiego, nonostante la sua seconda stagione sia stata tenuta a battesimo dalla legge di semplificazione amministrativa per antonomasia86. Ma a rendere pressoché ingestibile la complicazione ha concorso la prassi delle leggi separate (ma anche la prassi delle leggi forzatamente “comuni” 87), soprattutto delle leggi “la cui applicabilità è limitata” al lavoro privato (o è esclusa per il lavoro pubblico). Invero, la espressa previsione di applicabilità “in blocco” al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali sul lavoro nell’impresa (art 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001), ha reso perennemente applicabili al lavoro pubblico disposizioni destinate poi ad essere modificate o abrogate da “leggi separate” destinate a disciplinare il solo lavoro privato, con esclusione di quello pubblico. 86 L. 15 marzo 1997, n. 59, “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”. 87 Tipico esempio di complicazione, come si è detto, è l’art. 10, d.lgs. n. 61 del 2000, sulla (sbandierata) applicabilità della riforma del part time al lavoro pubblico, escluso, poi, dall’ulteriore riforma della riforma. 198 E quando poi il legislatore (del lavoro privato) ha preteso di “rivoluzionare” il mercato del lavoro88, modificando o abrogando specifiche disposizioni o addirittura intere leggi, ma escludendo dall’ambito di applicazione della legge modificatrice o abrogatrice il lavoro pubblico, si è posto il problema se per quest’ultimo dovesse continuare ad applicarsi la legge ormai modificata o “abrogata”, se, cioè, la modifica o l’abrogazione dovessero riferirsi esclusivamente al lavoro privato, con conseguente “sopravvivenza” della disciplina “abrogata”89; oppure se almeno l’abrogazione — se effettivamente tale — dovesse ritenersi integrale e, dunque, con effetto anche nei confronti dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, cui, del resto, le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa dovrebbero ritenersi estese (per effetto di quella sorta di rinvio mobile alle “fonti” del lavoro privato di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001) soltanto in quanto applicabili, per l’appunto, anche ai rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (e fin quando applicabili a detti rapporti). Nella situazione di “grande fretta” in cui (non) è maturata la riforma90 il legislatore delegato — che aveva 88 Ma si vedano i perentori rilievi di VALLEBONA, La riforma dei lavori, Cedam, Padova, 2004, IX: “la riforma del mercato del lavoro […] cambia poco e male. Sono false le accuse di destrutturazione del diritto del lavoro avanzate per ragioni puramente politiche anche da soggetti istituzionalmente tenuti a coltivare la verità”. Vale invece la constatazione opposta sintetizzabile in un secco «tanto rumor per nulla»”. 89 Rimangono applicabili al lavoro pubblico il vecchio regime dell’art. 2112 cod. civ., e dell’art. 409, n. 3 cod.proc.civ., nonché il vecchio regime del rapporto di lavoro a tempo parziale di cui al d.lgs. n. 61 del 2000. 90 CARINCI, Introduzione…, cit., p. IX. 199 abrogato integralmente la legge n. 1369 del 1960 e gli artt. da 1 a 11, l. n. 196 del 1997, ma voleva comunque che la disciplina (fantasma) delle leggi abrogate continuasse ad applicarsi al lavoro pubblico — ha pensato bene di cavarsela in extremis inserendo nel nono comma dell’art. 86, la norma secondo cui “la previsione della trasformazione del rapporto di lavoro di cui all’art. 27, comma 1 (somministrazione irregolare) non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni cui la disciplina della somministrazione trova applicazione solo per quanto attiene alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato”91. E con una simile trovata, ha fatto rivivere un surrogato del precedente regime del lavoro temporaneo, ribadendo, con l’occasione, quel principio di non conversione di rapporti illegittimi in assunzioni definitive a salvaguardia dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, che è uno degli aspetti meno comuni del preteso diritto comune del lavoro. 91 Il legislatore non ha invece abrogato “la vigente disciplina in materia di contratti di formazione e lavoro”, che “trova applicazione esclusivamente nei confronti della pubblica amministrazione” (art. 86, comma 9, secondo periodo). Il legislatore delegato avrebbe potuto probabilmente ripetere la stessa formula con riferimento agli artt. da 1 a 11, l. n. 196 del 1997 (che non era vincolato espressamente ad abrogare), ma era vincolato — da un lato — ad abrogare la l. n. 1369 del 1960, in attuazione della delega, e — dall’altro lato, e soprattutto — dall’ambizione di riscrivere interamente la disciplina dell’utilizzazione del lavoro altrui per la quale si sentiva particolarmente portato. Quando poi ha “realizzato” che l’esclusione delle pubbliche amministrazioni dalla riforma non significava che le leggi da essa abrogate continuassero a trovare applicazione limitata alle pubbliche amministrazioni è corso frettolosamente ai ripari con la già richiamata disposizione transitoria. È questa, a nostro avviso, la ragione del ricorso alla maldestra tecnica della “esclusione–inclusione”, criticata dalla dottrina. 200 201 Capitolo 3 EFFICIENZA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E REGIME DELLE FONTI 1 – Efficienza della pubblica amministrazione ed efficacia generale del contratto collettivo. 1.1 – La difficile convivenza tra l’efficacia generale del contratto collettivo e la sua pretesa natura privatistica. La già rilevata ambigua commistione tra finalità e strumenti1 si riflette sulla ricostruzione dogmatica e sull’interpretazione del sistema di contrattazione collettiva per i dipendenti da pubbliche amministrazioni. Le dichiarate finalità pubblicistiche (“accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione” e “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva del personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica”), hanno infatti imposto inevitabilmente una regolamentazione “forte”, e, con la seconda privatizza- 1 Da un lato, l’efficienza della pubblica amministrazione strumentalizzata per conseguire l’obiettivo di una “contrattualizzazione piena” del rapporto di lavoro; dall’altro lato, la privatizzazione del rapporto strumentalizzata per conseguire l’obiettivo di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione e risanare i conti dello Stato. 202 zione2, ancor più “forte”, del sistema di contrattazione collettiva 3, “in relazione all’esigenza di uniforme regolazione dell’attività negoziale per fini di controllo della spesa pubblica”4, così da “assicurare una disciplina del rapporto il più possibile uniforme”5. 2 Nonostante i dichiarati propositi di delegificazione del sistema contrattuale, solo in parte attuati dal d.lgs. n. 396 del 1996, in attuazione dell’art. 11, comma 4, lett. c), l. n. 59 del 1997. Se pure una delegificazione vi è stata (cfr. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 246), essa è stata però controbilanciata (quantomeno) dall’ulteriore legificazione del contratto collettivo prevista dal d.lgs. n. 80 del 1998 in attuazione, stavolta, dell’art. 11, comma 4, lett. g) della medesima legge delega (sulle misure deflative del contenzioso), diretta a rendere più certi, cogenti e sicuri i contenuti della contrattazione collettiva. 3 CARINCI, Concertazione e rappresentatività sindacale (a proposito di due recenti testi), in Lav.pubbl.amm. 1998, 1023, che, in senso critico rispetto alle prospettive di unificazione del regime delle fonti di disciplina del rapporto pubblico e privato, osserva che “se nel settore pubblico privatizzato c’è un passato di regolazione legislativa, un bisogno di controllabilità globale del sistema un vincolo di relativa uniformità dei trattamenti ciò non vale per il settore privato”. 4 Così, da ultimo, BARBIERI e SPINELLI, La contrattazione collettiva e il contratto nazionale, in Commentario Utet 2004, cit., 359. 5 Così, tra i tanti, M.T. CARINCI, Il contratto collettivo nel settore pubblico fra riserva di regime pubblicistico e riserva di legge, in Riv.it.dir.lav., 1994, I, 584. Di “perseguita uniformità dell’applicazione del contratto collettivo” parla, da ultimo, Corte cost. 5 giugno 2003, n. 199, in Lav.pubbl.amm., 2003, 885 ss. 203 Uniformità, certezza ed effettività sono, dunque, caratteri essenziali ed irrinunciabili delle regole prodotte dalle “fonti” di disciplina del rapporto di pubblico impiego6. Si è così consumato una sorta di paradosso: la legificazione integrale della fonte di delegificazione7. Il contratto collettivo — partorito dal grembo opprimente della fonte normativa eteronoma che ne assicurava, mediandola, l’efficacia esterna — nel muovere da solo i suoi primi passi, ha mostrato di avere ereditato i medesimi 6 Appare, a nostro avviso, innegabile che questa sia proprio una di quelle ipotesi in cui sussiste “l’interesse, comune allo stato ed ai gruppi organizzati riconosciuti dallo stato, di realizzare una regolazione contrattuale uniforme, certa ed effettiva dei rapporti di lavoro nella categorie”: interesse comune che, secondo D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione. Oggi, cit., 671, è alla base di quel “progetto di articolazione nelle organizzazioni sindacali — la cui soggettività viene infatti opportunamente conformata — di un potere normativo riferibile allo stato”, riconducibile alla seconda parte dell’art. 39 Cost. 7 “Non si può, però, fare a meno di notare come, all’interno di una normativa che viene giustamente segnalata come una delle più imponenti opere di delegificazione, le fonti collettive siano sottoposte ad un’operazione inversa di legificazione che non ha pari nel diritto sindacale”, così, MARESCA, Le trasformazioni…, cit., p. 20. Di “iperlegificazione e procedure barocche”, di “abnorme legificazione e grave appesantimento procedurale”, di “legificazione sicuramente sovrabbondante”, ha parlato in vari scritti D’ANTONA (ad es. Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 242; Autonomia negoziale, discrezionalità…cit. 145; Stato «diverso»…, cit., p. 114), sia pure con riferimento alla prima privatizzazione, e nel descrivere i “caratteri” innovativi della seconda privatizzazione che, secondo l’A., con “il d.lgs. n. 369 del 1997 riduce nettamente il grado di legificazione della contrattazione collettiva rispetto al modello del d.lgs. n. 29 del 1993”. Ma anche prima della parziale delegificazione della contrattazione collettiva di cui alla seconda privatizzazione (che D’ANTONA ha anticipato, seguito passo passo e commentato in presa diretta) la natura privatistica del contratto collettivo pubblico non è mai stata minimamente messa in discussione. 204 caratteri forti della fonte che lo aveva portato in grembo: l’efficacia generale e l’inderogabilità assoluta8. Invero, non era concepibile, tenuto conto delle finalità pubblicistiche della riforma, ma anche della matrice sindacale della stessa9, che il contratto collettivo — menzionato tra le “fonti” dallo stesso legislatore 10 (sia pure, come si preferisce credere, per “distrazione” o improprietà termino- 8 PERSIANI, Diritto sindacale, Cedam, Padova, 2003, 157: “la speciale disciplina di legge che regola la contrattazione del pubblico impiego ne risolve, contrariamente a quanto avviene per il contratto collettivo dei lavoratori privati, il problema dell’efficacia generale e dell’inderogabilità”. 9 Nella prima “ipotesi di articolato” della CGIL, nel descrivere la “soluzione 1”, cioè la soluzione basata sulla previsione di veri e propri contratti collettivi “non recepiti in atti della pubblica amministrazione (come invece previsto dalla “soluzione 2”), si osservava che la “immediata vincolatività ed applicabilità dei contratti collettivi […] costituirebbe un bene assai appetibile per i lavoratori e dunque utilmente spendibile da parte del sindacato promotore della riforma”. 10 Ora art. 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 205 logica o comodità lessicale11) — non fosse dotato ex lege della medesima efficacia (generale ed assolutamente inde- 11 La dottrina giuslavoristica di gran lunga prevalente tende a minimizzare, se non a considerare del tutto irrilevante, questo indice normativo, così come tende a minimizzare o a considerare irrilevanti tutti quegli altri numerosi indici normativi (utilizzati comunemente dalla dottrina costituzionalista), idonei a mettere in discussione la natura privatistica del contratto collettivo pubblico, e ad avvalorare il “rischio” che lo stesso venga considerato come fonte del diritto. Emblematico di questo atteggiamento appare la monografia di MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema delle fonti…, cit., laddove l’A. non può fare a meno di rifersi continuamente al contratto collettivo in termini di “fonte” , ma è poi costretto sempre a precisare che il termine è usato “in senso atecnico”, e ciò persino quando rileva che il contratto collettivo (fonte in senso atecnico) prevale sempre su fonti in senso tecnico di livello secondario (p. 81). Ci limitiamo per il momento a considerare come tra i costituzionalisti il criterio “onomastico” costituisca un importante “criterio formale” di individuazione delle fonti. Cfr. ad es. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, V. ed., vol.II, 1984, che ritiene il criterio “onomastico” di per sé sufficiente “quando ricorre la parola «legge» o altra locuzione derivata”. Né coglie nel segno l’obiezione che l’argomento basato sull’“intestazione” dell’art. 2 proverebbe troppo, posto che la disposizione fa riferimento anche ai contratti individuali, laddove “fonti” in senso proprio dovrebbero considerarsi solo quelle di cui ai primi due commi (riferisce di questa ricorrente obiezione, da ultima, RAZZINO, Autonomia collettiva e delegificazione, in Iter legis, 2004, 5 ss.). È agevole replicare che i riferimenti al contratto individuale di cui al terzo comma sono, all’evidenza, diretti a definirne il rapporto con la fonte contrattuale collettiva: rapporto che è di assoluto assoggettamento, posto che i contratti individuali devono “conformarsi ai principi di cui all’articolo 45, comma 2 (che equivale a dire che il contratto collettivo è assolutamente inderogabile dal contratto individuale), come confermato altresì dalla previsione successiva secondo cui la definizione dei trattamenti economici compete “esclusivamente” ai contratti collettivi, e solo alle “condizioni previste” (che però non risultano essere “previste” da alcuna fonte) dai contratti individuali. Appare dunque evidente come l’inciso di apertura del terzo comma (“i rapporti individuali di lavoro sono regolati contrattualmente”) sia riferibile esclusivamente alla “fonte” contratto collettivo, al di là delle volute ambiguità di un legislatore–illusionista. 206 rogabile 12) propria delle fonti che veniva chiamato a sostituire13; non ne condividesse, cioè, la medesima “attitudine ad operare come norma giuridica”14. Ciò che veniva ritenuto imprescindibile anche dall’autorevolissima dottrina che 12 La “constatazione”, per così dire, dell’efficacia generale del contratto collettivo del pubblico impiego è unanime in dottrina ed in giurisprudenza, salva la diversa giustificazione di detta efficacia. Coloro che propendono per la qualificazione privatistica del contratto collettivo, e ne riconducono il fondamento nel primo comma dell’att. 39 Cost. (e si tratta di una maggioranza soverchiante), ritengono, però, si tratti di efficacia generale “indiretta”. E questa è anche — come è noto — la posizione della Corte costituzionale (si veda infra). 13 Operando esso stesso come fonte, come vedremo. Cfr. CRISAFULLI, op. cit., p. 18, il quale — dopo aver osservato che “se e quando […] verrà data attuazione legislativa alla disposizione dell’ultimo comma dell’art. 39 Cost. e vi saranno […] anche contratti collettivi «con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce », questi ultimi troveranno posto, probabilmente nel sistema delle fonti del diritto oggettivo” — si domandava se per caso “non siano da ricomprendere tra le fonti i contratti collettivi disciplinanti il rapporto di pubblico impiego a norma della «legge quadro»” e se “in termini realistici” dava atto che “la disciplina del rapporto trova direttamente fonte nei contratti collettivi”, riteneva “tuttavia” di dover riconoscere che. “sotto il profilo formale […] il fenomeno meglio si configura come un caso di recezione mediante rinvio fisso alle clausole dei contratti stipulati ogni tre anni”. Qualificava invece gli accordi sindacali del pubblico impiego come fonti legali di livello secondario PIZZORUSSO, Fonti (sistema costituzionale delle), in Digesto disc.pubbl., Utet. Torino, 1991, 433, e in Le fonti del diritto del lavoro, in Riv.it.dir.lav, 1990, I, 15, in base alla nota tesi circa l’individuazione delle fonti del diritto nei fatti o atti normativi dotati di efficacia erga omnes. Come è noto l’A. ha proposto, sia pure tendenzialmente, la qualificazione dei contratti collettivi di diritto comune come fonti extra ordinem. 14 D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39…, cit, p. 679: “l’attitudine della norma collettiva ad operare come norma di diritto, senza che vi sia l’abilitazione del contratto collettivo a regolare con efficacia obbligatoria la categoria, ha trovato un clamoroso riscontro nell’ambito delle pubbliche amministrazioni”. 207 — avendo attivamente contribuito a “riformare la riforma”15 — proponeva e promuoveva, con particolare forza, una lettura incontrovertibilmente privatistica del contratto collettivo per il personale pubblico 16, non più condizionata, 15 D’ANTONA, Stato «diverso», riforma amministrativa e sindacato, in Riv.giur.lav., 1996, I, 213, ed ora in Opere, cit., 118, nel rilevare che “a tre anni dalla riforma e con l’esperienza delle due prime tornate contrattuali si può dire che vi sono pesanti fattori di intralcio, tali da mettere a rischio la «tenuta» della riforma”. 16 Come è noto D’ANTONA ha qualificato in vari scritti i contratti collettivi del pubblico impiego come “contratti collettivi di diritto privato ad evidenza pubblica” (la prima volta, a quanto consta, in La contrattazione collettiva privatistica nelle amministrazioni pubbliche, in ALLEVA, D’ALESSIO, D’ANTONA (a cura di) Nuovo rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Ediesse, Roma, 1995, 58 ss. ed ora in Opere, cit., 49. In scritti successivi quella qualificazione è però diventata orientativa, e si parla di “schema non troppo dissimile da quello del contratto ad evidenza pubblica” (così nel primo dei saggi citati in questa nota, p. 242). Negli ultimi scritti quella qualificazione sembra però abbandonata ed “i contratti collettivi delle pubbliche amministrazioni sono contratti privatistici ma «nominati», e non «di diritto comune» poiché la legge ne disciplina soggetti, modalità di formazione ed effetti giuridici”, così, ad es., in Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la «seconda privatizzazione» del pubblico impiego (osservazioni sui d.lgs. n. 369 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998), in Foro it., 1999, I, 621 ss. ed ora in Massimo D’Antona. Opere, cit., 288. Si veda anche BATTINI, Il rapporto di lavoro…, cit, p. 470. Già con riferimento agli accordi sindacali del pubblico impiego prima della legge quadro la figura era stata evocata da ORSI BATTAGLINI, Gli accordi sindacali nel pubblico impiego…, cit., p. 102. Riprende ora quella qualificazione, MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema…, cit., p. 129, che parla di “disciplina speciale dell’evidenza pubblica perché caratterizzata dall’assenza di provvedimenti amministrativi”. Per una critica da una prospettiva iperprivatistica, cfr. BARBIERI, La contrattazione collettiva…, cit., p. 1218. 208 come nella prima privatizzazione 17, dal “peso della tradizione pubblicistica” e dall’incapacità di “dimenticare la legge quadro”18 , cui era imputabile “la concezione della contrattazione collettiva come vincolo del previo consenso sindacale, anziché come libertà negoziale delle pubbliche amministrazioni”19. È, dunque, quello per i dipendenti da pubbliche amministrazioni, un contratto collettivo che nasce, per così dire, con l’efficacia erga omnes cucita addosso come una seconda pelle 20. 17 Anche con riferimento al contratto collettivo disciplinato dalla prima privatizzazione l’opinione dominante, e quasi plebiscitaria, della dottrina giuslavoristica era nel senso della natura privatistica del medesimo. La “iperlegificazione” non era ritenuta d’ostacolo alla qualificazione in termini di contratto collettivo di diritto comune (sia pure con qualche tratto di specialità nella disciplina, dipendente dalla natura pubblica del datore di lavoro), espressione di autonomia privata collettiva riconducibile al primo comma dell’art. 39 Cost. Per un esame panoramico, si vedano ad esempio gli Atti del Convegno Aidlass dell’Aquila del 1996, Le trasformazioni dei rapporto di lavoro pubblico e il sistema delle fonti. 18 “Dimenticare la legge quadro: la contrattazione collettiva da fonte di diritto a fonte di effetti contrattuali” è il titolo–invito di un paragrafo di un saggio di D’ANTONA, Le fonti privatistiche. L’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni in materia di rapporti di lavoro, in La privatizzazione del pubblico impiego alla prova, in Foro.it., 1995, V, 29 ss., ed ora in Massimo D’Antona. Opere, cit., 69. 19 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 241. 20 Dottrina unanime, come già ricordato. Per tutti, da ultimo, CARINCI, Una riforma «conclusa», cit., LIV, “Fin dal concepimento della riforma, non si dava alcuna libertà circa una tale efficacia generalizzata; ci doveva essere e basta, perché tutto congiurava in tal senso, a cominciare dalla tradizione e a finire con la prescrizione costituzionale dell’imparzialità”. Cfr. anche D’ANTONA, op. ult. cit., p. 250: “La cornice legale della contrattazione collettiva pubblica assicura l’applicazione generale e uniforme dei contratti collettivi da parte delle pubbliche amministrazioni”. 209 Ma un contratto collettivo ad efficacia erga omnes non ha, per definizione, la stessa “natura” del contratto collettivo “di diritto comune”21, per la semplice, ma decisiva, ragione che la sua efficacia, in quanto per l’appunto erga omnes, e non inter partes, prescinde dal consenso dei destinatari22 , o, quantomeno, dal consenso dei dipendenti pubblici (stante il “consenso” obbligato delle pubbliche amministrazioni, in quanto legalmente rappresentate dall’ARAN e, comunque, ulteriormente obbligate ad adempiere gli obblighi derivanti dai contratti collettivi e ad assicurarne l’osservanza secondo le norme dei rispettivi ordinamenti)23 . È un’efficacia, dunque, che non si fonda affatto sul “diritto comune” dei contratti (in base al quale il contratto 21 Corte cost. 5 giugno 2003, n. 199, in Lav.pubbl.amm., 2003, 885, con nota di BORGHESI, Il rinvio a titolo pregiudiziale per l’interpretazione dei contratti collettivi del pubblico impiego resiste ai primi controlli della Corte costituzionale, ha sottolineato la “peculiare natura”, rispetto al contratto collettivo di diritto comune, del contratto collettivo pubblico, ma la dottrina tende a ridimensionare, se non ad ignorare, la portata di quello che ritiene, a torto, essere un obier dictum, e continua ad interpretare, in senso privatistico, l’efficiacia del contratto collettivo sulla base degli argomenti (recepiti pedissequamente dalla dottrina giuslavoristica) di Corte Cost. n. 309 del 1997. 22 Non a caso, come meglio vedremo, anche nell’ambito della dottrina (dominante) tendente a ricostruire in termini “iperprivatistici” il contratto collettivo del lavoro pubblico privatizzato (MARESCA, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico…, cit., p. 64) si è prospettata una qualificazione del medesimo come fonte del diritto extra ordinem proprio in base all’indice, decisivo secondo autorevole dottrina costituzionalista, dell’efficacia erga omnes (per tutti PIZZORUSSO, Le fonti del diritto del lavoro,in Riv.it.dir.lav., 1990, I, 15 ss.). 23 La brutta espressione “obbligata ad adempiere gli obblighi” è voluta perché rende bene, crediamo, l’assurdo contenuto dell’art. 40, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001 (recante l’obbligo legale di adempiere agli obblighi contrattuali assunti in nome e per conto delle pubbliche amministrazioni dall’Agenzia che per legge ne ha la rappresentanza legale). 210 ha forza di legge tra le parti)24, e non è dunque affidata — “con esiti non prevedibili quanto agli strumenti di controllo della spesa pubblica” 25 — al mutevole ed eventuale consenso dei destinatari. Il “risultato” dell’efficacia generale del contratto collettivo è stato invece “premeditato”, per così dire, dal legislatore e (più o meno) lucidamente conseguito attraverso “un dispiego eccessivo e sovrabbondante di mezzi e strumenti”: un risultato “che, forse, nel lavoro pubblico non avrebbe richiesto un impegno così massiccio” 26. 24 D’ANTONA, In un primissimo commento a caldo al d.lgs. n. 29 del 1993 (Rappresentatività e contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni, in La riforma del lavoro pubblico: la legge delega, il decreto legislativo delegato, i commenti, Ediesse, Roma, 1993, 79, ed ora in Massimo D’Antona. Opere, cit., 31), osservava, sul presupposto che il contratto collettivo del pubblico impiego fosse davvero un contratto collettivo di diritto comune, come “l’avvento di una contrattazione collettiva con efficacia direttamente normativa” nel pubblico impiego, comportasse, come rilevante conseguenza che “al sindacato non basta più la rappresentatività […] Occorre anche la rappresentanza, ossia un mandato dei lavoratori, non necessariamente in forma di iscrizione, non necessariamente espresso, ma comunque tale da giustificare l’efficiacia normativa del contratto collettivo […] sui singoli rapporti contrattuali che intercorrono tra amministrazioni e lavoratori”. Negli scritti successivi, non viene più riproposta la tesi circa la necessità di “un mandato dei lavoratori”, posto che “mediante i vincoli legali imposti al datore di lavoro pubblico si viene a realizzare indirettamente un risultato paragonabile all’efficacia erga omnes del contratto collettivo nei confronti dei lavoratori”. Il problema della mancata iscrizione ai sindacati stipulanti o del dissenso è completamente superato: “le pubbliche amministrazioni non potrebbero materialmente distinguere tra lavoratori iscritti e non iscritti ai fini dell’applicazione dei trattamenti contrattuali” (così, a partire da La contrattazione collettiva provatistica…, cit., p. 52). 25 Così, MARESCA, op. cit., p. 20, secondo cui la scelta del legislatore “è, probabilmente, frutto di un’esigenza di funzionalità e di controllo del sistema delle fonti collettive e di una difficoltà a liberarsi completamente delle tecniche preesistenti”. 26 MARESCA, op. cit., p. 59. 211 Ed in effetti quell’impegno “così massiccio”, è stato richiesto non già per conseguire quel risultato (sarebbero bastate tre parole27), ma per conseguirlo in una “maniera diversa” da quella descritta nella seconda parte dell’art. 39 Cost., ma nondimento con essa compatibile28: una “maniera diversa” che nel 1962 non esisteva29 e che invece esiste nel 199730. Ed il bello è che invece di denunciare lo spregiudicato ricorso legislativo ad espedienti per conseguire indirettamente un risultato che sarebbe stato estremamente agevole conseguire direttamente, lo si asseconda, dandovi credito 31. 27 Il legislatore non ha voluto far ricorso a formule sperimentate che avrebbero evocato precedenti “scomodi”, come se avesse previsto, ad esempio, che i contratti collettivi sono obbligatori per tutti gli appartenenti al comparto cui essi si riferiscono, e che i contratti individuali di lavoro degli appartenenti ai comparti ai quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo. Il legislatore ha così optato per l’ambiguità, essendo poi costretto, per raggiungere per vie traverse il risultato che avrebbe conseguito con disposizioni chiare e dirette, a far “massiccio” ricorso a mezzi normativi “sovrabbondanti”. 28 Per tutti CARINCI, «Costituzionalizzazione» ed «autocorrezione» di una riforma, cit., 41, secondo cui il legislatore ha inteso “bypassare il blocco costituzionale con una strumentazione ad hoc” attribuendo efficacia generale al contratto collettivo “in un settore dove erga omnes ed imperatività rimangono essenziali”. 29 Come aveva ritenuto Corte cost. 106 del 1962, cit. 30 Come ha ritenuto Corte cost. n. 309 del 1997, cambiando evidentemente idea, sia pure dopo 35 anni. Cfr. PILEGGI, Riflessi sostanziali…, cit. 31 Cfr., da ultimo, RICCI, op. cit., p. 480, che nel rilevare come sia del tutto prevalente in dottrina la tesi della natura privatistica del contratto collettivo, la ritiene preferibile perché altrimenti “non si spiegherebbe l’uso dei diversi meccanismi adoperati dal legislatore per risolvere il problema dell’efficacia: il lotro utilizzo non avrebbe avuto alcun senso, qualora l’atto negoziale fosse stato concepito e strutturato al pari di una fonte del diritto”. 212 Ma quel “risultato” (l’erga omnes), che nel pubblico impiego non è affatto un “risultato”, ma un punto di partenza (e che invece per il lavoro privato è un illusorio traguardo, sovente mancato) è fondamentale: è infatti da questa premessa, ed attorno ad essa, che il legislatore costruisce ex novo, sulle rovine della legge quadro, ma con i materiali recuperati in loco, il sistema delle fonti del pubblico impiego. Torneremo sul punto. Dobbiamo però ora considerare l’incidenza, assai rilevante, dell’altra finalità che aleggia sulla riforma e la impregna di valori ideali, cioè della finalità (non dichiarata espressamente dal legislatore, ma supposta dalla dottrina “migliore” e “prevalente” 32) di privatizzare e contrattualizzare il rapporto, nel segno di un ritorno del lavoro pubblico al “diritto comune del lavoro”, e dell’unificazione delle fonti di disciplina del rapporto pubblico e privato33. Una finalità che sembra aver suggerito alla prevalente dottrina giuslavoristica, specie se dichiaratamente schierata dalla parte della privatizzazione, di non enfatizzare più di tanto la “specialità” del contratto collettivo del settore pubblico34; di spiegarne l’efficacia (generale) in termini squisi- 32 Cfr. BELLAVISTA, Fonti del rapporto…, cit., p. 78. 33 Per tutti, D’ANTONA, Soggetti e struttura della contrattazione collettiva, in Funzione pubblica, 1997, 3, 185, ed ora in Massimo D’Antona. Opere (a cura di CARUSO e SCIARRA), Giuffrè, Milano, 2000, 213, che, nel corso dei lavori per la seconda privatizzazione, individuava cinque fondamentali “obiettivi della legge delega 421/1992”, il primo dei quali era “superare lo statuto di specialità del pubblico impiego, ammettendo la contrattazione collettiva privatistica sulla disciplina del rapporto di lavoro”. 34 Cfr. ad es. MARESCA, op. cit., pp. 40 ss., 213 tamente privatistici35; di ricondurne a tutti i costi il fonda- 35 Come già ricordato, nel senso della natura privatistica del contratto collettivo per il personale pubblico (la stessa propria del contratto collettivo di diritto comune) è schierata, con la ragione, ma anche con il “sentimento” (cfr. RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico, cit. 81) la prevalente dottrina giuslavoristica, in piena conformità, soprattutto, alla posizione ferma, autorevole ed influente di D’ANTONA espressa nei numerosi scritti citati. Si vedano, da ultimo, RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, in Commentario Utet 2004, cit., 472, che parla di “contratti collettivi di diritto comune, il cui iter formativo, parzialmente pubblicistico, resta soltanto un connotato interno, senza alterarne l’essenza”; BARBIERI, La contrattazione collettiva e il contratto 396, secondo cui “rimane un contratto collettivo c.d. di diritto comune — ancorché parzialmente disciplinato dal legislatore –, e come tale non differisce dai contratti collettivi del settore privato” (sia BARBIERI che RICCI sostengono che la specialità riguarderebbe l’attività, cioè la contrattazione collettiva, e non già l’atto, cioè il contratto collettivo); DE MARINIS, Rappresentanza e rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva, ibidem, 420 (che parla di “assoggettamento al medesimo regime di diritto comune” dei contratti collettivi del settore privato, richiamando Corte cost. n. 309 del 1997); SPINELLI, ibidem, 388; GARILLI, Il riparto di giurisdizione…, cit., p. 716, che parla di “contrattazione collettiva di diritto comune anche se tipicizzata”; G. SANTORO PASSARELLI, Prospettive di riforma della rappresentanza sindacale nel lavoro privato, in Arg.dir.lav., 1999, 44, il quale distingue, richiamando Corte cost. n. 309 del 1997, tra natura del contratto collettivo, che sarebbe di diritto comune, e regime degli effetti (efficacia erga omnes conseguita indirettamente); NOGLER e ZOLI, Efficacia del contratto collettivo e parità di trattamento in Commentario Giuffrè 2000, cit., 1427; PALLINI, Contratto collettivo di lavoro alle dipendenze dalle pubbliche amministrazioni: natura, efficacia soggettiva, dissenso, in Riv.giur.lav., 1998, I, 549, che richiama la tesi del contratto collettivo di diritto comune “nominato”; DE MARCHIS, Il contratto collettivo nel nuovo processo del lavoro pubblico (equilibri contrattuali e intervento del giudice), ibidem, 1999, I, 3. Ancora con riferimento alla prima privatizzazione, si vedano, tra i molti, TREU, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego, in Dir.prat.lav., 1993, n. 25, 1651; SCIARRA, Natura e funzioni del contratto collettivo, in Giornale dir.lav.rel.ind., 1993, 485 ss.; GHEZZI, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in Atti del già citato convegno Aidlass del 1996, 91 ss. (secondo cui della contrattazione collettiva di diritto comune resterebbero le 214 mento nel genus dell’autonomia collettiva36; di scongiurare “il rischio di riconduzione surrettizia del contratto colletti- 36 La nozione di autonomia collettiva (sin qui soltanto dottrinale, a quanto consta) è stata disinvoltamente maneggiata dall’imprudente legislatore della riforma del mercato del lavoro che l’ha “battezzata”, senza nemmeno rendersene conto, inserendola nella rubrica di un articolo (art. 40, d.lgs. n. 276 del 2003: “sostegno e valorizzazione della autonomia collettiva”), che sembra piuttosto il titolo di un pretenzioso articolo di dottrina. Peccato che quella “consacrazione” legislativa (che avrebbe portata storica, se non fosse imputabile a titolo di colpa incosciente ad un legislatore–opinionista, autore di una normativa–commentario di “gusto professorale”, ma di taglio decisamente didattico–divulgativo), sia stata “celebrata” in una disposizione che non valorizza affatto, ma deprime l’autonomia collettiva (si vedano sul punto le impietose “lastre” di ROMAGNOLI, Radiografia di una riforma, in Lav.dir., 2004, 19, ed ivi altri esempi del “gusto professorale” di un legislatore digiuno di tecnica legislativa, ma sazio delle proprie convinzioni). Sottolinea l’incipit professorale, con il suo proverbiale sarcasmo, MAGRINI, che fa il verso al legislatore–docente universitario: “dicesi distacco…”. 215 vo alla categoria delle «fonti del diritto»” 37; di scongiurare altresì l’ulteriore “rischio di riassorbire i contratti collettivi del lavoro pubblico nel cono d’ombra dell’interesse pubbli- 37 Il “rischio” è evidenziato da CAMPANELLA, Rappresentatività sindacale: fattispecie ed effetti, Giuffrè, Milano, 287. Certo, un’interpretazione che muova dall’esigenza di scongiurare un rischio si direbbe orientata al risultato: un risultato che, per l’appunto, sia coerente con il “valore della privatizzazione”. La stessa A. sembra dolersi del fatto che “non accennano a scomparire ricostruzioni problematiche” (nota 241, p. 294, a proposito delle ricostruzioni di RUSCIANO e di ROMAGNOLI). Peraltro, ritiene, sia pure in forma problematica, che il contratto collettivo possa considerarsi fonte del diritto anche MARESCA, op. cit., 64, che trae argomento dall’efficacia erga omnes e non inter partes del contratto collettivo, considerato, come già ricordato, indice decisivo tra i costituzionalisti. Eppure MARESCA propone una lettura “esasperatamente privatistica” del contratto collettivo del pubblico impiego (GHERA, Intervento, cit., 226). Come meglio vedremo, tra i costituzionalisti la qualificazione del contratto collettivo del pubblico impiego come fonte del diritto (e precisamente come fonte–atto) è un risultato pressoché obbligato alla stregua di tutti gli indici di individuazione delle fonti usualmente adottati: cfr., per un’attenta analisi a tale stregua, DAMIANI, Le fonti del diritto negoziate nel pubblico impiego, in Il diritto nell’economia, 1997, 1, 91 ss., che, peraltro, non aveva potuto ancora tenere conto di ulteriori “indici” che i costituzionalisti considerano decisivi, quali la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana e la ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto collettivo. 216 co”38, e di ritenerli funzionalizzati all’efficienza della pubblica amministrazione39. La privatizzazione (intesa come “obiettivo della riforma”) finirebbe per negare se stessa se il contratto collettivo, dopo essersi affrancato dalle fonti unilaterali che ne recepivano i contenuti, fosse annoverato esso stesso tra le fonti del diritto e subisse, così, una sorta di pubblicizzazio- 38 Così, da ultimo, RICCI, L’efficacia soggettiva del contratto collettivo, cit. 473, che riprende una frase di GHEZZI, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche…, cit., p. 103: “si può evitare il pericolo di riassorbirli per intero nel rischioso cono d’ombra dell’interesse pubblico, salvaguardano così il precetto con il quale si apre l’art. 39 Cost.”. 39 Cfr. MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema del diritto comune del lavoro, Padova, Cedam, 2003, edizione provvisoria, che dedica buona parte della sua monografia (soprattutto capitoli 3 e 4) a confutare la tesi minoritaria circa la funzionalizzazione del contratto collettivo del pubblico impiego. Cfr. DELL’OLIO, Legge e contratto collettivo:autorità, funzione, libertà, in Atti Aidlass 1996, cit., p. 251 (“le norme riferite al contratto collettivo non sono per nulla «funzionalizzanti», poiché invece stabiliscono se mai dei limiti alla contrattazione collettiva, incidenti a loro volta sulla formazione della volontà della parte pubbica”. Cfr., da ultimo, MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema del diritto comune del lavoro, Padova, Cedam, 2003, edizione provvisoria. La tesi della funzionalizzazione è sostenuta da RUSCIANO, in Contratto, contrattazione e relazioni sindacali nel pubblico impiego, in Arg.dir.lav., 1997, 97 e ss, ed ora anche in Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, 227 ss.; GHERA, Intervento, cit. 225, che parla di “sistema di funzionalizzazione spinta della contrattazione collettiva”; BALLESTRERO, Brevi osservazioni…, cit., p. 231, che parla di “blindaggio” della contrattazione collettiva, le cui ragioni “stanno nella funzione pubblicistica di fonte normativa delegata che le è stata affidata”. La tesi di RUSCIANO è stata criticata da D’ANTONA in Autonomia negoziale, discrezionalità, cit., 67 ss., che si domanda “come un simile problema — inusitato tra gli amministrativisti […] — sia potuto emergere in una comunità scientifica di formazione privatistica, come quella dei giuslavoristi”. Da ultimo la tesi della funzionalizzazione del contratto collettivo è criticata da MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema…, cit., pp. 60 ss. 217 ne 40, idonea, per di più, ad evocare (sul piano strutturamente e funzionalmente) non il “modello” del contratto collettivo di diritto comune, ma quello, ben meno appetibile, del contratto collettivo corporativo. È dunque anche una questione di immagine della riforma, se così si può dire. Ma la privatizzazione come “valore” comporta un ulteriore costo che i suoi sostenitori non hanno esitato a sopportare: l’unificazione del regime delle fonti e l’assoggettamento del rapporto al diritto comune del lavoro attraggono fatalmente il pubblico impiego entro l’orbita gravitazionale dell’art. 39 Cost. Invero, se si muove (come muove la dottrina giuslavoristica, con rare defezioni) dal duplice e convergente assunto che il rapporto alle dipendenze da pubbliche amministrazioni ha la medesima natura contrattuale del rapporto alle dipendenze da privati e che il contratto collettivo del settore pubblico ha la medesima natura del contratto collettivo di diritto comune, si smantellano le “protezioni antigravitazionali” che impedivano l’attrazione delle fonti di 40 Cfr. TURSI, Autonomia collettiva e pubblico impiego…, cit., pp. 169 ss. che ritiene ci si debba attenere alla “pregnante direttiva legislativa di riconduzione del lavoro pubblico al Diritto privato ed all’autonomia negoziale” e dunque che “l’apprezzamento della portata innovativa della riforma presupponga l’assunzione di una nozione di autonomia collettiva che non sia a sua volta viziato da un pregiudizio eteronomistico” (corsivo nostro); SPEZIALE, Intervento, cit., 182, che ritiene addirittura incostituzionale, per contrasto con l’art. 39 e, si direbbe, per contrasto con i valori superiori della privatizzazione e della sindacalizzazione del pubblico impiego la scelta legislativa di escludere determinate materie dalla contrattazione collettiva (per una convincente critica si veda l’intervento di LISO, in Atti, cit. 221). 218 disciplina del lavoro pubblico nell’orbita dell’art. 39, pur dopo la “contrattualizzazione a metà” della legge quadro41. Se il contratto collettivo del pubblico impiego, come quello di diritto comune, ha davvero (come si vuole che abbia) fondamento nel primo comma dell’art. 3942 , l’efficacia erga omnes che lo connota non può certo passare inosservata e non far scattare l’allarme dei commi successivi. 41 “Non a caso i commentatori della legge quadro del 1983 — e cito Zoppoli –avevano riconosciuto che soltanto la privatizzazione dei rapporti di lavoro avrebbe reso l’art. 39 Cost. interamente applicabile al pubblico impiego”: così, TURSI, Autonomia collettiva e pubblico impiego «contrattualizzato», in Atti del Convegno Aidlass del 1996, 170. La tesi di ZOPPOLI è in Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego, cit., 227, ed ivi richiami alla giurisprudenza costituzionale che, come rilevato dall’A., sulla scorta di testuali citazioni, “ha sempre escluso che la norma in questione «sia il parametro adatto a sindacare la conformità della normativa impugnata ai dettami costituzionali», perché «nulla ha la meccanica dell’art. 39 da vedere con il procedimento» della contrattazione collettiva del settore pubblico”. 42 Si tratta di orientamento nettamente dominante in dottrina, già fortemente patrocinato da D’ANTONA in numerosi scritti lungo tutta la fase di gestazione della seconda privatizzazione o all’esito della stessa: seconda privatizzazione di cui lo stesso A. è stato l’indiscusso protagonista [cfr. D’ANTONA, MATTEINI, TALAMO, Riforma del lavoro pubblico e riforma della pubblica amministrazione (1997–1998). I lavori preparatori ai decreti legislativi n. 369 del 1997. n. 80 del 1998, e n. 387 del 1998, Giuffè, Milano, 2001], e della quale ha fornito, per così dire, una sorta di interpretazione autentica, che ha fortemente influenzato la dottrina giuslavoristica, ed anche la giurisprudenza, compresa quella costituzionale. Si veda ad es. in La contrattazione collettiva privatistica…, cit., p. 46, ed in Le fonti privatistiche…, cit., p. 67 (“I rapporti individuali di lavoro […] sono disciplinati in modo uniforme mediante contratti collettivi di natura privatistica, a loro volta espressione dell’autonomia collettiva garantita ai privati dal 1° co. Dell’art. 39 Cost.). La tesi è poi richiamata in tutti gli scritti successivi in materia ed anche ne Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione. Oggi, 681: “contrattazione che, come la Corte costituzinale ha avuto modo di affermare in due occasioni, è manifestazione della libertà garantita dal primo comma dell’art. 39 alle pubbliche amministrazioni, al pari dei datori di lavoro privati”. 219 Non si può pretendere un riconoscimento ai sensi del primo comma senza passare l’esame di costituzionalità alla stregua dei commi successivi! Quel riconoscimento espone fatalmente il contratto collettivo erga omnes del pubblico impiego alla potenziale “efficacia impeditiva” dei commi de quibus. Ma la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del nuovo regime delle fonti del pubblico impiego (di cui il legislatore era ben consapevole), non deve ritenersi un fatto negativo (purché, ovviamente, quella questione sia poi rigettata). Essa costituisce infatti prova tangibile di una “piena contrattualizzazione” e di una “vera privatizzazione” 43. Il dubbio di incostituzionalità fuga quello di una finta privatizzazione. La privatizzazione rinnegherebbe se stessa se non si sottoponesse alla prova del (trenta)nove. L’abbraccio dell’art. 39 al neonato contratto collettivo del pubblico impiego doveva però solo accoglierlo in una grande famiglia comune, ma non essere così stretto da risultare mortale. Fuor di metafora, l’efficacia erga omnes di un contratto collettivo ricondotto al genus dell’autonomia collettiva garantita dal primo comma dell’art. 39 Cost. doveva essere resa compatibile con l’efficacia impeditiva del quarto comma. 43 Cfr. infatti G.U. RESCIGNO, La nuova disciplina del pubblico impieto…, cit., p. 560: “se invece, in nome della specialità del rapporto, si sostiene che l’art. 39 non si applica ai dipendenti pubblici (ed è lecito pertanto che la legge discplini l’efficacia degli accordi […] in modo diverso da quanto previsto dall’art. 39 cost.) allora si deve concludere che il rapporto di impiego pubblico, per quanti elementi priovatistici possa contenere, non è un rapporto di diritto privato”. 220 E così sarebbe stato. 1.2 – L’aggiramento programmato dell’art. 39 Cost. Bisogna tuttavia pur riconoscere che la lettura dominante (quella privatistica) è stata in qualche modo “autorizzata”, se non “istigata”, da un legislatore illusionista che — da un lato — ha voluto rendere indiscutibile l’efficacia generale e l’inderogabilità assoluta del contratto collettivo, e — dall’altro lato — ha fatto di tutto perché non apparisse che ciò dipendeva dall’essere il contratto collettivo per il personale pubblico una vera e propria fonte44, sia pure negoziata, di disciplina del rapporto di lavoro: e ciò non solo per deferente ossequio al principio della privatizzazione come valore in sé, ma, soprattutto, per la consapevole ne- 44 È lo stesso legislatore a prevedere in una disposizione dal titolo eloquente (“Fonti”) che “i rapporti individuali di lavoro sono regolati contrattualmente”, rendendo subito dopo evidente l’intenzione di riferirsi soltanto ai contratti collettivi “stipulati secondo i criteri e le modalità previste dal titolo III del presente decreto” (art. 2, comma 3). Già abbiamo riferito dell’approccio piuttosto preconcetto della prevalente dottrina giuslavoristica, volta a scongiurare il “rischio” che il contratto collettivo del pubblico impiego sia considerato come una fonte del diritto. Si vedano in particolare le note… 221 cessità di “aggirare” o di “evitare lo scoglio” dell’art. 39 Cost.45. La legge sul contratto collettivo per il personale pubblico è stata infatti concepita — mediante recezione pressocché pedissequa dell’articolato di matrice sindacale — con un occhio rivolto all’art. 97 Cost.46, e con quell’altro rivolto all’art. 39 Cost.. È dunque una legge costruita con “criteri antisismici”, lungo la “tellurica linea di confine”47 che divide il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (che impone un governo forte, certo, uniforme ed autoritario, delle fonti di disciplina del rapporto) dai princi- 45 Di “aggiramento” dell’art. 39 e di “evitare lo scoglio dell’art. 39” si parlava testualmente nelle relazioni illustrative degli articolati di matrice sindacale già citati. Si veda la nota […]. Di “aggiramento” parla pure MARESCA, Le trasformazioni…, cit., p. 61, peraltro prima che la Corte costituzionale rigettasse la questione di legittimità costituzionale (“non si può nascondere che, utilizzando le tecniche fin qui esaminate, il legislatore ha voluto raggiungere uno scopo ben preciso: quello di attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi di lavoro pubblico con una manovra di aggiramento dei principi costituzionali”). Nello stesso senso, si vedano gli interventi di M. T. CARINCI (Le soluzioni del d.lgs. n. 29/1993 al problema dell’ambito di efficacia, 129), e di CAMPANELLA (Il contratto collettivo nell’impiego pubblico privatizzato: problemi di efficacia, 147, che osserva con un certo candore:”come non comprendere le preoccupazioni circa l’individuazione di un valido meccanismo di aggiramento del dato costituzionale, qui assolutamente imprescindibile?”) sempre negli Atti, del Convegno Aidlass del 1996. 46 Del rigetto della questione di costituzionalità per il supposto contrasto con l’art. 97 Cost., abbiamo già detto nel paragrafo… 47 La suggestiva espressione è di CARINCI, Una riforma “conclusa”…, cit., p. XLVIII, ma qui viene presa in prestito con un significato parzialmente diverso. 222 pi costituzionali in materia di regolazione collettiva dei rapporti di lavoro48. Una legge che si è “autocostituzionalizzata” (o “decostituzionalizzata”), attraverso vere e proprie “norme–argomento”49 , sparse qua e là, per essere utilizzate, in caso di necessità, dal giudice delle leggi, a confutazione dei dubbi di incostituzionalità che, evidentemente, assillavano lo stesso legislatore, preoccupato di evitare una fine ingloriosa e prematura di un sogno divenuto realtà: la “contrattualizzazione piena” del pubblico impiego. Invero, già il sindacato–legislatore degli originari progetti si era posto il problema di trovare gli “argomenti” per un dialogo sereno e non conflittuale con il giudice delle 48 Osserva RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 81, che “nel pubblico impiego il principio costituzionale della regolazione collettiva dei rapporti di lavoro deve confrontarsi con l’altro fondamentale principio costituzionale del «buon andamento» e dell’«imparzialità» dell’amministrazione (art. 97 Cost.). 49 Riteniamo di poter aggiungere questa tipologia di norma alle altre (“norme promessa”, “norme inapplicabili”, “norme bugiarde”) individuate da CASSESE, Il sofisma della privatizzazione…, cit., pp. 317 ss. Di norme “antidoto” abbiamo avuto modo di parlare in altra occasione (Riflessi sostanziali…, cit.). 223 leggi, nella certezza che sarebbe arrivata, prima o poi, l’ora del giudizio50. E quando quell’ora è ineluttabilmente scoccata, il giudice delle leggi, “chiudendo non uno, ma entrambi gli occhi”51, ha potuto motivare puntualmente il rigetto annunciato della questione di incostituzionalità, trascrivendo in 50 Nella già citata “ipotesi di articolato per una nuova disciplina sulla contrattazione ed il rapporto di lavoro nel publico impiego”, del gruppo di lavoro costituito presso I.S.Am Funzione pubblica Cgil (in Riv.giur.lav.,1990, I, 297 ss.), la consapevolezza del “rischio incostituzionalità” era evidente: “si apre a questo punto il problema dell’efficacia generale dei contratti stessi […] e della compatibilità delle norme in proposito con il disposto dell’art. 39 della Costituzione […] (per) evitare lo scoglio dell’art. 39 Cost., pare necessario rovesciare l’impostazione formale tradizionale del problema (un contratto che si applichi a tutti i lavoratori) per assumere l’ottica opposta (un contratto che tutte le P.A. interessate siano tenute ad applicare)”. Veniva dunque prefigurata una *soluzione 1” basata sulla rappresentanza legale della pubblica amministrazione da parte delle delegazione pubblica, “idonea ad aggirare il disposto dell’art. 39 Cost. trattandosi di una disposizione di organizzazione interna della P.A.: “i singoli enti (tutti vincolati, lo si ripete, della delegazione pubblica) non sarebbero obbligati all’applicazione del contratto collettivo a tutti i dipendenti (compresi i non iscritti ai sindacati stipulanti) per la particolare efficacia del contratto collettivo stesso, come nel modello costituzionale, ma per norme di altro genere (divieto di discriminazione, buon andamento)”. L’ipotesi sindacale di articolato prefigurava però anche una “soluzione 2”, che avrebbe consentito di superare in radice “i problemi di compatibilità con l’art. 39 della Costituzione”, basandosi essa sulla “ricezione” mediante “atti delle diverse amministrazioni ed enti interessati” dei contratti collettivi stipulati, che in tal modo venivano “resi esecutivi”, e generalmente efficaci. La “soluzione 1” è stata poi recepita nella “bozza di articolato CGIL–CISL–UIL per la riconduzione al diritto privato del rapporto di pubblico impiego” (in Riv.giur.lav. 1991, I, 353, con “illustrazione” introduttiva di ALLEVA, nonché in Riv.it.dir.lav., 1991, III, 129), redatta da un gruppo di giuristi coordinato da CARINCI, e composto da ALLEVA, D’AURIA, FIORILLO, GAROFALO, RUSSO (si veda la lettera di precisazione di CARINCI alla rivista (ivi, 188). Ma soprattutto la soluzione sindacale sarebbe stata pedissequamente recepita dal legislatore. 51 Così, CARINCI, Una riforma «conclusa», cit., LIV. 224 motivazione gli argomenti incorporati nelle norme escogitate da un legislatore tanto previdente,quanto consapevole della pericolosa e spregiudicata manovra di “aggiramento” dei principi costituzionali che si apprestava a licenziare52. Un legislatore attento ed astuto che, nel regolare gli effetti (generali) del contratto collettivo, è riuscito a non lasciarsi mai sfuggire di penna che il rapporto di lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni è regolato dal contratto collettivo: cosicché l’interprete, per estrapolare quel semplice e banale precetto, è costretto a comporre le tessere di un vero e proprio puzzle normativo 53, ed a far 52 “Sono appunto codeste amministrazioni le destinatarie esclusive del dovere, previsto dal comma 9 del citato art. 45, di osservare gli impegni assunti con i CCNL. Sicché l’applicazione del contratto collettivo deriva, non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà di questo, come il giudice a quo mostra di ritenere, bensì dal su indicato dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni […] tale meccanismo non realizza dunque quell'efficacia erga omnes conferita dall’art. 39, quarto comma, della Costituzione ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali in possesso di determinate caratteristiche, ma si colloca sul distinto piano delle conseguenze che derivano, per un verso, dal vincolo di conformarsi imposto alle amministrazioni e, per l'altro, dal legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo […]. La forza cogente che a questo punto si produce nei confronti delle pubbliche amministrazioni costituisce, a sua volta, la premessa per realizzare la garanzia della parità di trattamento contrattuale, affermata dall’art. 49, comma 2, del decreto legislativo n. 29 del 1993 e contestualmente rafforzata dall'ultima parte della norma stessa, che impone di assicurare "trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi". Garanzia, dunque, d'inderogabilità dei livelli minimi […] che del resto potrebbe considerarsi nascente da uno schema già noto al contratto collettivo di diritto privato, ma che qui diventa anche funzione diretta di un preciso dovere dell'amministrazione–datore di lavoro” (così Corte cost. n. 309 del 1997, cit.). 53 È stata già ricordata “l’impressione di un dispiego eccessivo e sovrabbondante di mezzi e strumenti […] per raggiungere un risultato […] che, forse, nel lavoro pubblico non avrebbe richiesto un impegno così massiccio” ( MARESCA, Trasformazioni…, cit., p. 59). 225 quadrare i combinati disposti di ben sei norme (l’art. 2, comma 354, l’art. 49, comma 255 , l’art. 45, comma 956 , l’art. 45 comma 1, secondo inciso57, l’art. 49 comma 158 ; l’art. 50, comma 159 ). 54 I riferimenti sono tratti dall’allora d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 396 del 1997, trattandosi del testo scrutinato dalla Corte costituzionale. L’art. 2, comma 3, terzo inciso, prevedeva che “i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all’art. 49, comma 2” (nell’analoga norma del d.lgs. n. 165 del 2001, il riferimento è all’art. 45, comma 2). 55 La norma — ora trasfusa nell’art. 45, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, ed alla quale devono conformarsi i contratti individuali a norma dell’art. 2, comma 3 — dispone che “le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti […] parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”; l’art. 49, comma 1 (ora art. 45 comma 1) dispone che “il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi”; 56 La norma disponeva che “le pubbliche amministrazioni osservano gli obblighi assunti con i contratti collettivi di cui al presente articolo. Esse vi adempiono nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti”. L’art. 40, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001, dispone ora che “le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti”. 57 La norma nell’ultima versione (priva dell’inciso iniziale “la contrattazione collettiva è nazionale e decentrata”), trasfusa nell’art. 40, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che “La contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali”. 58 La norma, trasfusa ora nell’art. 45, comma 1, dispone che “il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi”. 59 La norma prevede nella sua attuale versione (art. 46, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001) che “le pubbliche amministrazioni sono legalmente rappresentate dall’Agenzie per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni– ARAN agli effetti della contrattazione collettiva nazionale”. 226 1.3 – La costituzionalizzazione dell’aggiramento del quarto comma dell’art. 39. Le norme in funzione di air bag a prova di incidente di costituzionalità, già ampiamente valorizzate, in prevenzione, dalla prevalente dottrina giuslavoristica60, complice 60 Per tutti, D’ANTONA, La contrattazione collettiva privatistica, cit., p. 51: “l’efficacia erga omnes si può considerare assicurata in forma indiretta […]. La rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni […] basterebbe di per sé a eliminare in radice il problema dell’efficacia del contratto collettivo sul versante dei datori di lavoro pubblici […]. Tuttavia il decreto legislativo n. 29/1993 corrobora, mediante ripetute prescrizioni, l’efficacia dei contratti collettivi su questo versante […] il risultato di queste articolate prescrizioni è che, mediante i vincoli legali imposti al datore di lavoro pubblico, si viene a realizzare un risultato paragonabile all’efficacia erga omnes del contratto collettivo nei confronti del lavoratore.”. Utilizzano, in prevenzione, le medesime norme–argomento per salvare la costituzionalità del sistema, tra gli altri, M. T. CARINCI, Il contratto collettivo nel settore pubblico…, cit., pp. 586 ss., che parla di contratto collettivo ad efficacia obbligatoria e non reale; CAMPANELLA, Il contratto collettivo…, cit., p. 148, secondo cui “i disposti […] agiscono direttamente sul solo versante datoriale in modo da rendere inattacabile la manovra di aggiramento dell’art. 39”. GRANDI, L’assetto della contrattazione collettiva: un ballo in maschera, in Lav.dir., 1993, 575 osserva che “gli indici normativi utilizzabili sembrano convalidare l’idea di un’efficacia del contratto collettivo mediata dall’obbligo legale di conformazione dei rapporti individuali ai livelli di trattamento economico–normativo stabiliti dal contratto collettivo”, uno “schema esplicativo”, contraddetto però da altre norme (ad esempio l’allora art. 53, d.lgs. n. 29 del 1993) che sembrano postulare una diretta efficacia del contratto collettivo, e che complicano “notevolmente” quello schema esplicativo imponendo di “spiegare il risultato di cui al 4° comma dell’art. 39 senza l’attuazione delle norme sostanziali e procedurali della norma costituzionale”. L’A. è tra i pochi giuslavoristi ad osservare condivisibilmente che “forse sarebbe stato il caso, su questo punto, di prendere un po’ più sul serio il parere del Consiglio di Stato”. 227 dell’“escamotage”61, sono state richiamate nelle difese dei sindacati confederali (che le avevano ideate), costituitisi nel giudizio di costituzionalità62, per “esplodere” nella motivazione della notissima sentenza n. 309 del 199763 , salvando il regime delle fonti contrattualizzate del rapporto di pubblico impiego dagli effetti, potenzialmente dirompenti, del- 61 Così, ad esempio, ROMAGNOLI, Il contratto collettivo di lavoro…, cit., p. 89, e L. ZOPPOLI, Il contratto collettivo con funzione normativa nel sistema delle fonti, nei già citati Atti delle giornate di studio Aidlass del 2001, che osserva giustamente che si tratta di “sentenze basate su escamotage interpretativi, e in qualche punto su vere e proprie torsioni logico–argomentative, che non giovano in un’ottica di costruzione sistematica”. 62 Si legge nella sentenza (e precisamente nella narrativa sullo svolgimento del processo): “Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituiti […] la CGIL, la CISL e la UIL […]. Sulla seconda questione esse escludono che l’impugnata normativa incida sulla natura giuridica dei CCNL in argomento attribuendo ad essi la qualità di fonti del diritto nell’ambito delle categorie professionali, giacché la normativa stessa si limita a regolare le modalità con cui le amministrazioni destinatarie sono tenute ad osservarli. Insomma queste ultime sarebbero le sole destinatarie dell’obbligo di conformarsi alle previsioni contrattuali onde garantire la parità di trattamento ai propri dipendenti, anche in coerenza con l’art. 36 Cost., ferma sempre la natura privatistica dei CCNL”. Identica la posizione sul punto dell’Avvocatura: “l'Avvocatura esclude che vi sia una norma volta a conferire espressamente efficacia erga omnes ai CCNL. Infatti l'art. 45, comma 9, si limiterebbe a sancire il dovere delle amministrazioni pubbliche ad osservare gli obblighi assunti con i CCNL, al solo fine di assicurare la parità di trattamento ai dipendenti (ex art. 49, comma 2, del decreto legislativo n. 29 del 1993) e non certo per eludere una regola costituzionale in concreto assai poco attuata”. Ed è però l’Avvocatura a “suggerire” alla Corte il secondo argomento per il rigetto della questione: “Diversa sarebbe comunque la posizione del lavoratore privato, nei cui confronti il vincolo sorgerebbe solo in virtù d’una sua adesione all’organizzazione sindacale cui è iscritto, rispetto a quella del pubblico impiegato, la cui incardinazione nella pubblica amministrazione funge da presupposto ineliminabile della disciplina del rapporto”. 63 Si veda nota… 228 l’impatto con il cosiddetto “scoglio”, cioè con la seconda parte dell’art. 39 Cost. Gli argomenti, recepiti dal giudice delle leggi, che dimostrerebbero la non incostituzionalità delle norme che assicurano l’efficacia generale del contratto collettivo per il personale pubblico, fanno tesoro dell’esperienza accumulata, in quasi mezzo secolo, nel settore privato per estendere indirettamente l’efficacia del contratto collettivo di diritto comune al fine di garantire minimi di trattamento economico–normativo anche ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non iscritti ai sindacati, e non altrimenti tenuti ad applicare il contratto collettivo. Come se davvero questo fosse il problema da risolvere nel pubblico impiego, e non fosse, invece, l’ultimo o, se si preferisce, il più falso dei problemi! Come se davvero si dovessero garantire, vincendo la resistenza di una pubblica amministrazione recalcitrante come il peggiore dei datori di lavoro, minimi di trattamento economico–normativo per tutti i dipendenti pubblici!64 Come se il problema non fosse piuttosto quello di scongiurare il rischio che l’asserita privatizzazione della fonte di disciplina del rapporto di pubblico impiego — ove presa sul serio da qualche sprovveduto 65 — potesse creare crisi di inefficacia della contrattazione collettiva, o “situa- 64 Osserva RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 86, che “nel settore pubblico la ratio della contrattazione collettiva non è da individuare in via esclusiva — o meglio, in via prioritaria — nella tutela del lavoro dipendente”. 65 Che fosse però in qualche modo illuso da norme che vorrebbero dare ad intendere che la contrattazione collettiva del settore pubblico sia analoga a quella privatistica. 229 zioni di stallo”66 e dar voce, così, al dissenso individuale o collettivo ovvero ad un sistema paralleo e concorrenziale (così come avviene, del resto, nell’inefficiente sistema di contrattazione collettiva privatistica o di diritto comune 67), favorendo “l’insorgenza di spinte centrifughe sindacalmen- 66 Così, D’ANTONA, Rappresentatività e contrattazione collettiva…, cit., p. 31, che nel suo primo saggio sulla privatizzazione agli esordi aveva correttamente individuato il vero problema di efficacia del contratto collettivo del settore pubblico, ritenendo necessario “un mandato dei lavoratori” senza cui “non si risolve la questione del dissenso di gruppi o categorie, che può facilmente innescarsi se solo il contratto, anziché portare benefici, sfronda privilegi, opera compensazioni interne, premia gruppi e ne penalizza altri”. In seguito, il problema del dissenso dei lavoratori sarebbe stato accantonato, perché ritenuto superato, stante l’indiretta efficacia erga omnes del contratto collettivo, conseguente all’adempimento degli obblighi legali gravanti sulla pubblica amministrazione. 67 Cfr. per tutti LISO, Autonomia collettiva e occupazione…, cit., pp. 202 ss., che rilevava, era il 1997, l’insorgere, nel settore privato, di un ancora “abbastanza inedito e preoccupante fenomeno di concorrenzialità all’interno del sistema di relazioni industriali (o di costituzione — almeno in nuce — di un sistema parallelo). Si tratta di dinamiche che sono suscettibili di produrre un pericoloso fenomeno di erosione della base associativa sul versante datoriale e, quindi, di erosione dell’egemonia esercitata dagli attori storici”. Ma se nel settore privato quelle dinamiche — contrastate attraverso il “riconoscimento legale” del contratto collettivo stipulato dalla “coalizione sindacale «comparativamente più rappresentativa»” (D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39…, cit., p. 675) — sono dirette a conseguire un abbattimento del costo del lavoro al di fuori degli strumenti (ad es. contratti di riallineamento) ammessi dal legislatore in accordo con gli “attori storici”; nel settore pubblico, quelle dinamiche (il cui sviluppo è precluso in radice, stante il disconoscimento di qualsiasi ipotesi di pluralismo contrattuale) sarebbero, invece, di tipo rivendicativo, in radicale contrasto con le finalità di controllo, contenimento e razionalizzazione del costo del lavoro perseguite dalla privatizzazione del pubblico impiego. Si tratta dunque di contrastare una contrattazione “al rialzo”, e non già una “al ribasso”, come è nel settore privato. 230 te pericolose”68, e pregiudicando le finalità di contenimento e di razionalizzazione del costo del lavoro, perseguite soprattutto attraverso un assetto rigido e centralizzato del sistema contrattuale, da cui è rigorosamente bandita qualsiasi forma di pluralismo contrattuale. Ad ogni modo, il dazio da pagare alla costituzionalizzazione del sistema contrattuale ha imposto una soluzione legislativa dei problemi di efficacia del contratto collettivo un po’ mistificatoria, perché costruita sul falso postulato che la volontà contraria da vincere, agli effetti di una applicazione generalizzata dei contratti collettivi, fosse quella delle pubbliche amministrazioni. La distorta prospettiva assunta dal legislatore (nonché dalla dottrina “adesiva” e dalla giurisprudenza costituzionale) è stata infatti esclusivamente quella di un ipotetico datore di lavoro potenzial- 68 Così nella già citata “Relazione” all’ipotesi di articolato del 1990 della CGIL (in Riv.giur.lav., 1990, I, 305). 231 mente riluttante ad applicare una contrattazione collettiva acquisitiva 69. Non a caso, l’applicazione generalizzata del contratto collettivo è stata conseguita mediante norme che “agiscono” esclusivamente, coartandola (si fa per dire), sulla “volontà” della parte pubblica: sono infatti “codeste amministrazioni le destinatarie esclusive del dovere” di applicare i contratti collettivi, a voler usare le parole del giudice delle leggi70 . 69 Per la netta distinzione del problema dell’efficacia del contratto collettivo acquisitivo nei confronti del datore di lavoro dal problema dell’efficacia del contratto collettivo ablativo o gestionale nei confronti dei lavoratori si veda la lucida ed acuta analisi di VALLEBONA, Autonomia collettiva e occuopazione…, cit., pp. 381 ss. Questa distinzione non sempre è tenuta presente con riferimento all’efficacia del contratto collettivo pubblico. Si tende, infatti, ad impostare quel problema in termini esclusivi di efficacia nei confronti del datore di lavoro pubblico, e non in termini di efficacia nei confronti dei dipendenti. E ciò al punto che si recupera persino la nota e consolidata tesi secondo cui il datore di lavoro pubblico sarebbe obbligato nei confronti di tutti i propri dipendenti e non potrebbe applicare il contratto collettivo solo nei confronti dei dipendenti iscritti ai sindacati (tra gli altri, RICCI, L’efficacia soggettiva del contratto collettivo, cit., 474; NOGLER e ZOLI, Efficacia del contratto collettivo…, cit., p. 1435; CAMPANELLA, Rappresentatività sindacale…, cit., pp. 288 ss.). Si trascura così di considerare che quella tesi dà per scontato il consenso del lavoratore all’applicazione del contratto collettivo, ed è perfettamente inutile nell’ipotesi di dissenso del medesimo. 70 Osservava giustamente ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego, cit., 227, nell’esaminare le proposte sindacali di privatizzazione e le “soluzioni ingegnose al problema dell’efficacia generale degli accordi sindacali” come la “prima strada”, quella di “attribuire alle delegazioni pubbliche un potere di rappresentanza legale di tutte le amministrazioni interessate e di obbligare per tale via le medesime amministrazioni ad applicare in via generalizzata gli accordi sindacali conclusi […] non considera che comunque il meccanismo dell’art. 39 è volto a tutelare anche i sindacati che dall’espediente della rappresentanza legale ex parte datoris non riceverebbero alcuna tutela”. 232 Di qui l’“evocazione” (che suona addirittura offensiva per le pubbliche amministrazioni) della nota applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. (art. 45, comma 2, “trattamento economico), mediante una “norma inutile” 71 che impone espressamente un obbligo (ulteriore rispetto a quello desumibile dal principio costituzionale, quasi esso non “bastasse” a vincolare le pubbliche amministrazioni!) ad applicare (non, direttamente, il contratto collettivo stipulato in nome e per conto delle pubbliche amministrazioni dall’Agenzia che le rappresenta legalmente, ma) “trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”72. Ma è possibile anche scorgere — nella sorprendente statuizione di un così singolare “dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni” — tracce di un altro art. 36 (non a 71 Così la definisce giustamente SUPPIEJ, Intervento, al più volte citato convegno Aidlass del 1996, 214. Tuttavia l’utilità della inutile norma è nel dimostrare che il contratto collettivo non avrebbe diretta efficacia sul rapporto, e, dunque, non realizzerebbe, in “maniera” non consentita, l’efficacia generale di cui al 4° comma dell’art. 39. 72 Significativo in tal senso è il seguente brano della motivazione della sentenza della Corte costituzionale:“Garanzia, dunque, d'inderogabilità dei livelli minimi […] che del resto potrebbe considerarsi nascente da uno schema già noto al contratto collettivo di diritto privato, ma che qui diventa anche funzione diretta di un preciso dovere dell'amministrazione–datore di lavoro”. Lo “schema già noto” è per l’appunto quello desumibile da una sorta di combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 36, l. n. 300 del 1970, ed analoghe norme di incentivazione all’applicazione del contratto collettivo. 233 caso richiamato nel progetto confederale 73): quello contenuto, stavolta, nello Statuto dei lavoratori. Un art. 36 che — a differenza di quello della Costituzione — si limita ad incentivare l’applicazione di trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi74 — dettando le condizioni per la concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, o per l’affidamento di appalti di opere pubbliche, o per la concessione di pubblici servizi. Ma qui il legislatore non aveva contropartite da dare alle (proprie) pubbliche amministrazioni per “incentivarle” ad applicare “trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi” ed ha dunque sostituito all’onere di cui alla norma statutaria, un espresso obbligo incondizionato. Come se — lo ripetiamo — non bastasse a far ritenere le pubbliche amministrazioni obbligate ad applicare direttamente i contratti collettivi (e non soltanto, indirettamente, i trattamenti dagli stessi previsti) la circostanza, invero ap73 Cfr. ALLEVA, nella già citata illustrazione (espressione però del lavoro di un gruppo di giuristi coordinati da CARINCI) della “bozza di articolato CGIL–CISL–UIL…”, cit., con riferimento all’art. 17 della bozza medesima, che, al primo comma, prevedeva l’obbligo della “parità di trattamento contrattuale, economico e normativo”, ed al secondo comma, l’obbligo di “garantire a i propri dipendenti trattamenti economico–notrmativi non inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi”. Secondo l’A. non si tratterebbe di vera efficacia erga omnes, ma di una “norma di «sicurezza» qualora insorgano questioni, da parte di qualche ente, sull’effettivo diritto dell’Agenzia di rappresentarlo”. 74 C f r. p e r t u t t i V A L L E B O N A , A u t o n o m i a c o l l e t t i v a e occupazione:l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in Giorn.dir.lav.rel.ind., 1997, 3, 381 ss. che parla di “incentivazione del consenso” all’applicazione dei contratti collettivi, posta come condizione per l’accesso del datore di lavoro a determinati vantaggi, stante la “consapevolezza della limitata efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune” (sul punto, pp. 403 ss.). 234 parentemente di un certo rilievo, che i contratti collettivi de quibus sono stipulati dall’Agenzia che è stata appositamente costituita per rappresentare legalmente le medesime pubbliche amministrazioni proprio “agli effetti della contrattazione collettiva nazionale” 75! Evidentemente, il riferimento all’istituto della rappresentanza legale risultava scomodo o inadeguato sotto un duplice profilo: sotto un primo profilo, perché esso, per così dire, “provava troppo”, era, cioè, idoneo ad assicurare l’efficacia diretta (e non indiretta, come si voleva in “proiezione antitrentanove”) del contratto collettivo concluso dall’ARAN in nome e per conto delle pubbliche amministrazioni rappresentate; sotto un secondo profilo, perché idoneo ad evocare il precedente scomodo del contratto collettivo corporativo, la cui efficacia, come è noto, dipendeva direttamente dall’essere lo stesso stipulato dai sindacati contrapposti aventi la rappresentanza legale della categoria, senza necessità alcuna di imporre obblighi legali di adempimento in capo alle parti rappresentate. Non è allora frutto del caso se il legislatore non ha esplicitato (ciò che, nondimeno, a nostro modo di vedere, è evincibile logicamente 76, e cioè) il conferimento di un simmetrico potere di rappresentanza legale dei dipendenti del comparto in capo alla delegazione sindacale: un potere di rappresentanza legale che, certo, avrebbe reso sin troppo evidente la non ricondicibilità al primo comma dell’art. 39 75 CARINCI, Una riforma «conclusa», cit., LIV, secondo cui la Corte “si lascia dietro alle spalle un quesito del perché non abbia leva sulla più ovvia e argomentabile rappresentanza legale dell’ARAN”. 76 PILEGGI, Comparti, materie, livelli di contrattazione collettiva, in Quaderni dir.lav.rel.ind., 1995, 143. 235 del contratto collettivo del pubblico impiego, quantomeno sul versante sindacale 77. Era pertanto necessario (far apparire) che il cerchio non si chiudesse e che alla rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni da parte dell’ARAN non corrispondesse, simmetricamente, una rappresentanza legale dei dipendenti del comparto da parte della delegazione sindacale trattante a composizione legalmente predeterminata. Ed era necessario agire esclusivamente sul versante del datore di lavoro pubblico, l’unico della cui “autonomia contrattuale” lo Stato potrebbe disporre (riforma costituzionale del titolo V della Costituzione permettendo), mediante “norme di organizzazione interna”, qui sostanzialmente coincidenti con l’intero titolo terzo del d.lgs. n. 165 del 2001! Di qui il complesso armamentario legislativo destinato a vincolare la parte pubblica: dal monopolio della rappresentanza delle pubbliche amministrazioni, all’obbligo per le stesse di adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi stipulati dal rappresentante legale; dall’obbligo di garantire parità di trattamento contrattuale a quello 77 Sulla autorevolissima scia di D’ANTONA, la dottrina giuslavoristica di gran lunga prevalente riconduce il fondamento dell’attività contrattuale nel pubblico impiego, sia dal lato della pubblica amministrazione, sia dal lato sindacale, alla libertà sindacale garantita dal primo comma dell’art. 39 Cost. Ma, come vedremo tra breve, solo dal lato della pubblica amministrazione è stato possibile spiegare i pesanti interventi legislativi sulla formazione della “volontà contrattuale” delle pubbliche amministrazioni in forme compatibili con il primo comma dell’art. 39 Cost. (spiegazione fondata sulla tesi della norma di organizzazione interna). Dal lato sindacale, il problema sembra essere stato semplicemente accantonato, tranne poche eccezioni su cui infra. 236 di assicurare trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi78 . Ed a proposito di quest’ultimo obbligo è forse opportuno sviluppare un ulteriore rilievo. Davvero sorprende che nel settore pubblico sia evocata a fisiologico fondamento dell’efficacia (indiretta) del contratto collettivo, una norma (quella che impone di assicurare trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi) che — nel settore privato — è destinata proprio a supplire “alla mancanza di contratti collettivi efficaci erga omnes”79, in una situazione di totale anomia legale del “sistema” contrattuale: una norma che pertanto, in quel settore, è necessario invocare soltanto nei confronti dei datori di lavoro non iscritti ai sindacati stipulanti e non altrimenti tenuti ad applicare i contratti collettivi (in una situazione, per l’appunto, di “supplenza”, e, dunque, in qualche modo patologica o, auspicabilmente, residuale). Invece, paradossalmente, nel settore pubblico, quella medesima norma — a voler dar credito alle avventate paro78 Sia consentito il rinvio a PILEGGI, Riflessi sostanziali del ricorso per cassazione…, cit., p. 103, a proposito dell’effetto placebo di disposizioni apparentemente incomprensibili e del tutto inutili. 79 Per tutti, LISO, Autonomia collettiva e occupazione, cit., 207 ss. che proprio nella prospettiva di una più efficace opera di supplenza giurisprudenziale alla mancanza di efficacia generale dei contratti collettivi, sostiene che “quella mancanza di per sé non giustifica, tuttavia, che il giudice si debba ritenere sempre investito di un potere di apprezzamento discrezionale dell’adeguatezza della retribuzione caso per caso”, secondo quanto asserito da un orientamento giurisprudenziale tacciato di “superbia”, e idoneo a provocare una “sensibile rottura del sistema costituzionale”, perché idoneo “ad espropriare l’autonomia collettiva di una competenza che è ad essa riconosciuta dalla legge”, e ciò anche laddove il “protagonismo giudiziario” si eprima anche nel senso di sindacare l’adeguatezza all’art. 36 Cost. di “un trattamento determinato sulla base di quanto convenuto dalle parti sociali”. 237 le del legislatore — non opererebbe più soltanto in una situazione di “supplenza”, ma sarebbe “la norma” (se ci passa il gioco di parole): le pubbliche amministrazioni sarebbero cioè vincolate ad applicare (indirettamente) i contratti collettivi (rectius: trattamenti non inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi), sulla base della medesima norma (di supplenza) che nel settore privato sono tenuti ad applicare elusivamente quei datori di lavoro free raiders che non accettino le regole del gioco sindacale80! E ciò avverrebbe, per giunta, all’interno di un sistema di contrattazione collettiva interamente e rigidamente regolato dal legislatore per assicurare il massimo controllo centralizzato e la massima governabilità delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico a fini di contenimento e della spesa per il personale, di perequazione dei trattamnti pubblici, e di accrescimento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni! E per di più, il contratto collettivo “parametro” (dei “trattamenti non inferiori”) non è stipulato, nel settore pubblico, da sindacati ai quali il datore di lavoro non ha conferito alcun potere di rappresentanza volontaria (così come avviene nel settore privato), ma, al contrario, è stipulato da quell’unico “sindacato” (“l’«Intersind» delle pubbliche 80 Mostra, da ultimo, di prendere terribilmente sul serio il legislatore–illusionista RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, cit. 475, che sul punto osserva: “il meccanismo descritto ricorda quello adoperato per estendere l’efficacia del contratto collettivo del lavoro privato (artt. 36 Cost. e 20099 c.c.). Il legislatore della riforma del lavoro pubblico ha inteso, forse, anticipare i tempi, predisponendo egli stesso un meccanismo di estensione generalizzata della vincolatività della fonte negoziale senza attendere i tempi del consolidamento di un orientamento giurisprudenziale in tal senso”. 238 amministrazioni”81) che ha la rappresentanza legale del datore di lavoro pubblico! 1.4 – La parità di trattamento come travestimento dell’inderogabilità assoluta del contratto collettivo. Ma l’inutile obbligo posto a carico delle pubbliche amministrazioni (l’obbligo di applicare trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi, che comunque “suona bene” nella prospettiva di una contrattualizzazione di facciata82) non sarebbe bastato a garantire la fedele, sicura, certa, indiscussa ed integrale applicazione del contratto collettivo. Occorreva chiarire subito (a costo di rendere ancor più “inutile” e “goffa”83 la norma sui trattamenti minimi da garantire a tutti) che nel settore pubblico il contratto collettivo non ha tanto (o soltanto) la funzione di fissare minimi di trattamento economico–normativo (che è tuttora ritenuta la fondamentale funzione del contratto collettivo di diritto comune), ma ha invece la funzione di regolare uniformemente il rapporto di pubblico impiego, e, dunque, di fissare non solo minimi, ma anche massimi di trattamento economico–normativo, con conseguente inderogabilità assoluta 81 D’ANTONA, La contrattazione collettiva privatistica…, cit., p. 45), ma si veda già l’illustrazione di ALLEVA, alla bozza di articolato CGIL– CISL.UIL (Riv.giur.lav., 1991, 361. 82 Di “un grande gioco simulato” ha parlato sin dall’inizio ROMAGNOLI, La revisione della disciplina del pubblico impiego: dal disastro verso l’ignoto, in Lav.dir., 1993, 244. 83 Di “norma goffa” parla DELL’OLIO, Legge e contratto collettivo…, cit., p. 255. 239 della disciplina del rapporto 84, considerato anche che lo “spazio negoziale” per la contrattazione individuale “ha una consistenza assai vicina a quella di un ectoplasma” 85. Di qui l’ulteriore obbligo di conformazione posto a carico delle pubbliche amministrazioni (art. 45, comma 2, primo inciso), che prima ancora di garantire trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi, devono garantire “ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale”: un obbligo diretto a sanzionare in realtà (attraverso una formula ellittica che suona ancora bene, ma che, stavolta, è piuttosto estranea alla logica della privatizzazione86) l’inderogabilità assoluta dei contratti collettivi, in combinato disposto con la norma (di cui al primo comma del mede84 Contra, MARESCA, Le trasformazioni…, cit., p. 46. 85 Così, MARESCA, op. cit., p. 61. La prassi ha confermato che lo “spazio reale” riconosciuto al contratto individuale è “poco o niente” secondo quanto pronosticato da F. CARINCI, La c.d. privatizzazione, cit., p. 33, già con riferimento alla legge delega, e ciò “in base a quel tacito patto ad excludendum da smpre esistente fra parte pubblica e controparte sindacale verso l’autonomia individuale: agli occhi dell’una, tendenzialmente eversiva per una gestione burocratica astratta ed oggettiva; agli occhi dell’altra, potenzialmente pericolosa per una disciplina collettiva destinata a farla da padrona”. 86 Ma quando la formula è stata concepita dal sindacato confederale “quel principio di parità (era stato) ormai affermato dalla Corte di Cassazione anche per i dipendenti da datori di lavoro privati, per cui il datore deve garantire identico trattamento a tutti i suoi dipendenti” (così nella “illustrazione” della bozza di articolato sindacale, cit., 362). Ma, come è noto, quel principio sarebbe stato ben presto disconosciuto dalla Sezioni unite della Suprema Corte (Cass. S.U. 29 maggio 1993, n. 6030, in Giur.it, 1994, I, 1,913, con nota di SANTORO PASSARELLI G., La parità di trattamento retributivo nell’ordinamento italianao e nella prospettiva dell’ordinamento comunitario e Cass. S.U. 17 maggio 1996, n. 4570, in Riv.it.dir.lav., 1996, II, 765, con nota di CHIECO, Le sezioni unite e la parità), conseguendone una disparità di trattamento tra lavoratori privati e pubblici, evidenziata proprio dalla norma in commento. 240 simo art. 45), che attribuisce ai soli contratti collettivi la competenza a definire “il trattamento economico fondamentale ed accessorio”, e con quella che prevede che “l’attribuzione dei trattamenti economici può avvenire esclusivamente con contratti collettivi”87 (art. 2, comma 3); contratti individuali che, comunque, devono conformarsi ai principi di cui all’art. 45, comma 2” (art. 2, comma 3 prima parte), cioè (“rimbalzando” da un punto all’altro del flipper normativo) ai principi di parità di trattamento e di garanzia di trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi. Che è come ribadire, dal punto di vista del contratto individuale, quanto già affermato dal punto di vista del contratto collettivo: e cioè che i trattamenti previsti dal secondo sono assolutamente inderogabili dal primo. A ben vedere, sarebbe bastato prevedere — per raggiungere lo stesso risultato — che le pubbliche amministrazioni garantissero i trattamenti (minimi e massimi) previsti dai contratti collettivi, ed, anzi, che le stesse applicassero sic et simpliciter i contratti collettivi88 . Ciò che, peraltro, è, 87 Art. 2, comma 3, che per la verità aggiunge “ed, alle condizioni previste, dai contratti individuali”. Si tratta di inciso, che sembra potersi riferire direttamente soltanto al contratto individuale che accede al provvedimento di conferimento di incarichi dirigenziali (artt. 19, comma 2, e art. 24, d.lgs. n. 165 del 2001). Sul punto, si veda da ultimo, BELLOCCHI, Il contratto individuale di lavoro, in Commentario Utet, 2004, cit., 537 ss. 88 Specie se si condivide la “puntualizzazione” di LISO, Autonomia collettiva ed occupazione, cit., 226 ss. nel senso che “la parità altro non costituisce che un effetto naturale dell’applicazione del livello salariale collettivamente convenuto”. L’espressa previsione dell’obbligo di assicurare parità di trattamento non può dunque che porre, all’autonomia individuale, un vincolo di parità ulteriore rispetto a quello naturalmente derivante dall’obbligo, costituzionalmente imposto, di rispettare i minimi previsti dal contratto collettivo: il vincolo, per l’appunto, a non riconoscere trattamenti di miglior favore rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo. 241 altrove, espressamente previsto, dovendo le pubbliche amministrazioni adempiere, dalla data della definitiva sottoscrizione, agli obblighi assunti con i contratti collettivi ed assicurarne l’osservanza nelle forme previste ai rispettivi ordinamenti (art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001)89. E, probabilmente, non sarebbe stata necessaria nemmeno una previsione siffatta: è implicito nella istituzione legale di una fonte di disciplina del rapporto che essa lo regoli, e che lo regoli nel rispetto del principio di parità di trattamento, che è connotato tipico delle norme poste da fonti del diritto90. Ma, come detto, v’erano da difendere a tutti costi la natura privatistica del contratto collettivo, da un lato, e la costituzionalità del sistema, dall’altro. 1.5 – La pretesa efficacia unilaterale ed indiretta del contratto collettivo ed il fantasma della legge quadro. Ad ogni modo, gli antidoti all’efficacia impeditiva dell’art. 39 hanno generato un fastidioso effetto collaterale che la dottrina giuslavoristica non ha ritenuto di dover diagnosticare. 89 La disposizione citata nel testo è stata modificata dalla seconda privatizzazione, essendovi stato immesso un elemento temporale (dalla data della sottoscrizione definitiva”), così da attenuarne l’assurdità (le pubbliche amministrazioni obbligate ad adempiere agli obblighi contrattuali assunti con i contratti collettivi!). 90 MODUGNO, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc.giur., 1989, 2, che osserva come la ricerca di quali fatti siano da considerare normativi abbia rilevanza a vari fini e per diverse “esigenze”, tra i quali l’attitudine del fatto a costituire “il parametro cui commisurare l’uguaglianza di tutti i cittadini”. 242 Invero, il legislatore accredita l’idea, recepita pedissequamente dal giudice delle leggi, che il contratto collettivo per il personale pubblico non abbia una diretta efficacia sul rapporto di lavoro91, e, comunque, non vincoli entrambe le parti, ma agisca soltanto sul versante del datore di lavoro pubblico. Non a caso, la contrattazione collettiva non “regola il rapporto”, ma (notare la differenza) “si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali” (art. 40). Ed anche il trattamento economico è soltanto “definito” dal contratto collettivo (art. 45, comma 1), ma senza effetti diretti sul rapporto, come il legislatore, giocando sulle parole (o con “metodo nominalistico” 92), sembra voler far intendere anche laddove dice che “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi” (art. 2, comma 3). Ma se è vero, per dirla con le parole del giudice delle leggi (condivise dalla prevalente dottrina), che “l’applicazione del contratto collettivo deriva non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà di questo”, ma dal “su indicato dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni”, 91 Per la verità, la dottrina prevalente fa riferimento al carattere indiretto dell’efficacia del contratto collettivo solo a proposito della questione dell’erga omnes, mentre, a prescindere da quella questione, il contratto collettivo torna ad avere efficacia diretta. Si veda per tutti D’ANTONA, La contrattazione collettiva privatistica…, cit., p. 51, che sostiene che i contratti collettivi […] producono effetti immediati e diretti in base al diritto privato comune”, ivi compresi gli effetti normativi “che consistono nella creazione o nella modificazione di diritti o obblighi tra le parti dei singoli rapporti di lavoro”, ma poi aggiunge che “l’efficacia erga omnes si può considerare assicurata in forma indiretta” 92 Secondo la nota espressione desunta dal più volte citato parere del Consiglio di Stato 243 allora il contratto collettivo — privo di effetti diretti sul rapporto di lavoro — non è altro che un “semplice parametro di riferimento”93 dei trattamenti economico–normativi che le pubbliche amministrazioni dovranno applicare; non è che altro che una “disciplina tipo prenegoziata”94, un mero “atto predeterminativo di regole–standars applicabili con rinvio (formale) per relationem, ma non direttamente dispositive per forza propria”95. Insomma, l’efficacia indiretta dei “nuovi” contratti collettivi somiglia tantissimo a quella propria degli accordi sindacali di cui alla tanto vituperata legge quadro (patrocinata, peraltro, dal sindacato vituperante), cui veniva imputato proprio di non avere affidato la disciplina del rapporto a “veri e propri contratti collettivi”, idonei a disciplinare “per forza propria” il rapporto di pubblico impiego, ma a fonti unilaterali “precontrattate”96! Una simile ricostruzione — resa contorta dallo sforzo di aggirare l’art. 39 — paga, però, un costo assai elevato proprio in termini di coerenza con l’asserita “contrattualizzazione piena” del rapporto di pubblico impiego, e con 93 Cfr., da ultimo, RICCI, L’efficacia del contratto collettivo…, cit., p. 475, che parla, per l’appunto, del contratto collettivo come “semplice parametro di riferimento”. 94 Così ROMAGNOLI, La revisione della disciplina…, cit., p. 238 95 GRANDI, La nuova disciplina del pubblico impiego…, cit., p. 587. 96 Cfr. ancora l’illustrazione della bozza di articolato sindacale, laddove si sottolinea la “grande opzione, di principio e politica, di unificare ed omogeneizzare il mondo del lavoro, all’insegna di regole comuni — che sono quelle del diritto privato del lavoro — sia per quanto riguarda il contratto individuale di lavoro che per quanto riguarda la disciplina collettiva del rapporto, con l’adozione di veri e propri contratti collettivi, in sostituzione degli odierni d.p.r. «precontrattati», che hanno dato infelice prova, sotto tanti aspetti”. 244 l’asserita privatizzazione del regime delle fonti, che sarebbe stata conseguita, secondo la dominante dottrina giusalvoristica, mediante la fedele recezione, salvo qualche adattamento, del “modello” della contrattazione privatistica di diritto comune. Un contratto collettivo che vincoli unilateralmente le pubbliche amministrazioni — oltretutto non per forza propria, ma per espresso obbligo legale di applicare (non direttamente i contratti collettivi, ma) trattamenti non inferiori a quelli da essi previsti; un contratto collettivo che, pertanto, non abbia diretta efficacia sul rapporto di lavoro è ben altra cosa dal contratto collettivo di diritto comune 97 che su quel rapporto “opera come fonte eteronoma di regolamento”98, direttamente idonea a “conformare il contenuto del contrat- 97 I conti non tornano, infatti, a TURSI, Autonomia collettiva…, cit., p. 173, che respinge la tesi del vincolo unilaterale per le pubbliche amministrazioni (ma prima che intervenisse Corte cost. n. 309 del 1997 a consacrarla), perché “contraddittoria con la finalità di privatizzare il pubblico impiego”, laddove “adesso, a differenza di quanto poteva affermarsi nel vigore della legge quadro, la rilevanza giuridica nei rapporti individuali dei contratti collettivi non è più mediata da un’altra diversa fonte di regolamentazione, ma esplica efficacia diretta sui rapporti di lavoro alla stregua di un atto di autonomia negoziale”. 98 Il riferimento è tratto dalla notissima massima secondo cui “le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo dei sindacati, ma (salva l’ipotesi di loro recezione a opera del contratto individuale) operano dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nella ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale”: tra le moltissime, Cass. 26 ottobre 1995, n. 11119. 245 to individuale di lavoro”99, sia pure con effetto limitato alle parti in base ai principi della rappresentanza volontaria 100. Quei trattamenti contrattuali, unilateralmente vincolanti e non direttamente applicabili al rapporto di pubblico impiego (ma definiti da una contrattazione–parametro che “si svolge sulla materia del rapporto di lavoro”, senza regolarlo direttamente), richiedono — per poter trovare indiretta applicazione — un atto di recepimento, così come avveniva sotto il vigore della legge quadro. Solo che ora le “norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo” non sono più “recepite ed emanate con D.P.R.”101, secondo il modello della legge quadro, ma ricevono attuazione e “sono recepite” mediante atti di adempimento degli obblighi (di garantire parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi) 99 Sulla funzione normativa del contratto collettivo di diritto comune “in quanto volto a conformare il contenuto del contratto individuale di lavoro” e sulle altre funzioni dello stesso (obbligatoria e gestionale) si veda da ultimo Cass. 22 giugno 2004, n. 11634. 100 Giurisprudenza unanime. Tra le tantissime, Cass. 6 agosto 2003, n. 11875: “i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci «erga omnes» ai sensi della legge n. 741 del 1959, in quanto costituiscono atti di natura negoziale e privatistica, si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti”. Si veda inoltre da ultimo Cass. 19 giugno 2004, n. 11464: “l’accettazione di un contratto collettivo di diritto comune costituisce un presupposto di applicabilità del medesimo alternativo rispetto al requisito dell’iscrizione al sindacato stipulante”. 101 Così, ad esempio, art. 6, comma 8, l. n. 93 del 1983, con riferimento agli accordi sindacali per i dipendenti delle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo”. 246 che la legge pone a carico delle pubbliche amministrazioni: atti di adempimento che queste devono assumere dalla data della sottoscrizione definitiva dei contratti nazionali ed integrativi “nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti” (art. 40, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001). Ed è a siffatti atti di adempimento, adottati nelle forme previste dagli ordinamenti delle singole amministrazioni, che va dunque formalmente ricondotta l’efficacia (mediata ed indiretta) dei contratti collettivi, secondo gli “argomenti” che il legislatore, coadiuvato dalla dottrina, ha fornito al giudice delle leggi perché “salvasse” la “contrattualizzazione piena” (o semipiena) del lavoro pubblico da una fine prematura ed ingloriosa. Ma se così fosse davvero (se, cioè, il contratto collettivo fosse soltanto un “parametro di riferimento”), il vituperato modello della legge quadro (il modello del “vincolo del previo consenso sindacale”) non sarebbe stato stato affatto “dimenticato”102, e vi sarebbe da dubitare circa l’effettivo “avvento di una contrattazione collettiva con efficacia 102 È significativo, al riguardo, come autorevole dottrina amministrativista (VIRGA, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Giuffrè, Milano, 1993, 7), ritenesse sostanzialmente confermato l’assetto della legge quadro, riducendosi, le novità, ad una semplificazione del procedimento di approvazione degli accordi, non essendo più previsto il dpr. di recepimento, ed alla unificazione della rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, con abolizione delle delegazioni ministeriali. Nelle edizioni più recenti (si veda quella del 2002), la riportata considerazione non compare più. 247 direttamente normativa” 103, con conseguente epocale transizione “dalla rilevanza «endoprocedimentale» all’efficacia diretta del contratto collettivo”104. 1.6 – La legge sindacale sul contratto collettivo pubblico come “norma di organizzazione interna”. I delicati e complessi meccanismi di efficacia del contratto collettivo pubblico sono dunque entrati in corto circuito per il sovraccarico di funzioni: la difesa dei valori della privatizzazione ne esigeva l’efficacia diretta (e non già la rilevanza meramente endoprocedimentale), da conseguire mediante una legificazione debole che non soffocasse l’asserita autonomia contrattuale delle parti, e ne consentisse la riconducibilità al primo comma dell’art. 39 Cost.; la manovra di aggiramento della seconda parte dell’art. 39 Cost. ne esigeva l’efficacia soltanto indiretta, e la rilevanza endoprocedimentale; l’efficienza della pubblica amministrazione ne esigeva l’efficacia generale ed uniforme da conseguire mediante una legificazione forte che tenesse sotto rigido controllo centralizzato la spesa per il personale. L’idea per far “quadrare il cerchio”, lucidamente perseguita, soprattutto con la seconda privatizzazione, è stata quella di impostare e risolvere i problemi di efficacia del 103 Così, D’ANTONA, Rappresentatività e contrattazione collettiva…, cit., p. 31, ed in numerosi scritti successivi. Cfr. ad es. in Le fonti privatistiche…, cit., p. 75: “i contratti collettivi stipulati (a conclusione del relativo procedimento di autorizzazione) dall’Aran a livello nazionale o dalle stesse amministrazioni in sede decentrata, producono effetti immediati e diretti in base al diritto privato comune, senza che occorrano atti amministrativi di ricezione”. 104 Così, D’ANTONA, La contrattazione collettiva privatistica…, 51 (la frase riportata nel testo è il titolo del sesto paragrafo). 248 contratto collettivo mediante norme che agissero esclusivamante sul versante del datore di lavoro pubblico e ne regolassero “l’agire”, norme da interpretare riduttivamente come “norme di auto–regolazione della parte pubblica” o come “norme di azione”105. In particolare, la seconda privatizzazione, secondo i suoi più autorevoli promotori ed interpreti, avrebbe definitivamente chiarito ciò che, nella prima, poteva considerarsi ancora controverso 106, e cioè che “la contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni è oggi espressione di libertà negoziale e non di potere normativo”, e costituisce 105 Si veda D’ANTONA, Privati contratti collettivi, per pubbliche amministrazioni, ovvero l’arte di quadrare il cerchio e come impararla in fretta, cit., 99 ss.: “la libertà di contrattazione collettiva […] non è contraddetta dal fatto che che l’attività negoziale viene rigidamente inquadrata in un complicato reticolo di norme pubblicistiche”. Nello stesso senso, PROIA, Il contratto collettivo fonte e le «funzioni» della contrattazione collettiva, in Atti delle citate giornate di studio Aidlass del 2001, 121, e, da ultimo , DE MARINIS, Rappresentanza e rappresentatività…, cit., p. 429 (“ne viene di conseguenza la qualificazione della disposizione che impone l’osservanza degli obblighi derivati dal contratto collettivo come norma di azione, di cui si pongono come destinatarie le sole pubbliche amministrazioni”. 106 Con riferimento alla prima privatizzazione si era esattamente osservato che “la previsione di una rappresentanza «autonoma ed obbligatoria» […] esclude il presupposto essenziale dell’istituto della contrattazione collettiva: e cioè la libertà di associazione sindacale degli enti pubblici. Valutato alla luce dei principi che informano la contrattazione collettiva di diritto comune un fatto del genere è, prima ancora che incostituzionale, logicamente incompatibile con la ricostruzione della fattispecie negoziale in chiave di autonomia collettiva”: così, DAMIANI, Le fonti del diritto negoziate nel pubblico impiego, cit., 100 ss., il quale considerava altresì che “l’inesistenza nel pubblico di automia collettiva risulta altresì confermata dalla quasi totale pretermissione delle pubbliche amministrazioni dall’attività di contrattazione”. La seconda privatizzazione ha tentato di costruire dal nulla la soggettività sindacale delle pubbliche amministrazioni, soprattutto attraverso l’istituzione dei comitati di settore. 249 la “naturale proiezione della capacità contrattuale in forza della quale le pubbliche amministrazioni costituiscono, regolano ed estinguono i rapporti individuali di lavoro”107. La presunta autonomia collettiva delle pubbliche ammistrazioni era infatti talmente nascosta (per non dire inesistente) che se ne era ricavata persino la singolare idea di un “contratto unilateralmente collettivo”, espressione, cioè, della sola autonomia collettiva dei sindacati dei pubblici dipendenti108 . Era pertanto indispensabile “emancipare in senso tecnico” le pubbliche amministrazioni, la cui pretesa “autonomia collettiva” aveva la “consistenza di un ectoplasma”109, “riducendone l’incapacità legale a contrattare a livello di comparto da assoluta a relativa” 110. Ed in effetti, la riforma del sistema di contrattazione collettiva, promossa con la seconda privatizzazione, ha toccato soprattutto la “soggettività” della parte pubblica, attraverso una serie di aggiustamenti diretti a far apparire, “con metodo nominalistico”111, che la contrattazione collettiva sarebbe espressione della volontà negoziale delle pubbliche 107 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle «leggi Bassanini», cit., 258. 108 SCIARRA, Natura e funzioni del contratto collettivio, in Giorn. Dir.lav.rel.ind., 1993, 493. 109 È l’espressione, già citata, che MARESCA utilizza a proposito dell’autonomia individuale dei pubblici dipendenti, ma che ben si presta a descrivere anche la consistenza dell’autonomia collettiva delle pubbliche amministrazioni. 110 ROMAGNOLI, Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano, cit., 80. 111 È locuzione ricorrente nel più volte citato parere del Consiglio di Stato sul disegno di legge delega per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego. 250 amministrazioni, che il legislatore si preoccupa persino di “sindacalizzare”, promuovendo un surrogato di associazionismo di settore sul modello imprese private112. Una volontà negoziale che troverebbe (invero un po’ surrettizio) fon- 112 Il riferimento è ai comitati di settore, con competenza ad esercitare i “poteri di indirizzo nei confronti dell’ARAN” in sostituzione delle “vecchie e pubblicistiche” direttive governative, e ad esprimere un parere favorevole, che, con la certificazione della Corte dei Conti sulla compatibilità dei costi contrattuali con gli strumenti di programmazione e di bilancio, sostituisce la “vecchia e pubblicistica” autorizzazione governativa alla sottoscrizione (art. 41, d.lgs. n. 165 del 2001). Sui comitati di settore si veda da ultimo L. ZOPPOLI, I comitati di settore, in Commentario UTET 2004, 451, che ne evidenzia la funzione di “proiezioni” delle amministrazioni pubbliche che agirebbero “in una sfera di attività contrattuale regolata dal diritto dei privati”. 251 damento nell’autonomia collettiva riconosciuta dal primo comma dell’art. 39 Cost.113. Si tratta di un passaggio importante della ricostruzione privatistica: solo ammettendo che la pubblica amministrazione agisca come parte contrattuale, spenda la propria capacità di diritto privato, ed eserciti la libertà sindacale di cui al primo comma dell’art. 39 Cost. è possibile “salvare” 113 È stata innanzitutto eliminata l’autorizzazione governativa alla sottoscrizione dei contratti collettivi (già prevista dall’art. 51, d.lgs. n. 29 del 1993), che eccitava “pulsioni interventiste” della Corte dei Conti e dei giudici amministrativi (D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità…, cit., p. 151); l’ARAN, oggetto di un nuovo riordino (per una “breve storia dell’ARAN” e delle tre “versioni” che si sono succedute, cfr., da ultimo L. ZOPPOLI, L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, in Commentario UTET, 2004, cit., 439), mantiene la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, ma la “esercita con modalità che assicurino alle amministrazioni rappresentate l’espressione diretta di una volontà negoziale”. A tal fine viene delineato “un circuito procedurale, scandito da atti di indirizzo e da pareri”, che oltre a consentire quell’espressione di volontà negoziale “favorisce l’aggregazione su base associativa di interessi collettivi di categoria della pubblica amministrazione” (così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 247). Dal lato sindacale, come è noto, è stato non solo “interrato il cratere” prodotto dal referendum (D’ANTONA, Nel cratere dei referendum sulla rappresentatività sindacale, (lavoro pubblico e lavoro privato alla ricerca di nuovi equilibri costituzionali nei rapporti collettivi), in Foro it., 1996, I, 335; CARUSO, Rappresentanza e rappresentatività nel pubblico impiego riformato: l’interramento del cratere, in Lav.pubbl.amm., 1999, 225), attraverso la definizione diretta dei requisiti di ammissione alla contrattazione collettiva nazionale (già art. 47bis, d.lgs. n. 28 del 1998, ed ora art. 43, d.lgs. n. 165 del 2001), ma è stata correttamente esercitata la delega originaria che vincolava il governo a prevedere direttamente “criteri di rappresentatività ai fini dei diritti sindacali e della contrattazione compatibili con le norme costituzionali” [art. 2, comma 2, lett. b), l. n. 421 del 1992]. 252 la natura privatistica del contratto collettivo, e scongiurare il “rischio” che esso sia ricondotto tra le fonti del diritto 114. Ma su quest’ultimo punto occorre intendersi bene. Non è che il legislatore non “voglia” che le norme di contratto collettivo operino come norme di diritto. Ciò è anzi assolutamente necessario perché la contrattazione collettiva sia davvero “il mezzo per perseguire l’efficienza organizzativa”115. Tanto è vero che è proprio grazie alla seconda privatizzazione che sulle norme del contratto collettivo pubblico sono comparse le “stimmate”116 della norma giuridica: la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, e la ricorribili- 114 Deve tuttavia rilevarsi come — pur di scongiurare quel rischio — la dottrina (BARBIERI–SPINELLI, op. cit., p. 398) abbia seguito un percorso diverso da quello indicato da D’ANTONA, sul presupposto che fosse assai difficile “costruire” un’autonomia collettiva delle pubbliche amministrazioni riconducibile all’art. 39 Cost.: l’intera regolamentazione eteronoma della contrattazione collettiva opererebbe soltanto sul versante delle pubbliche amministrazione (come sostenuto dalla dottrina dominante), ma ciò in applicazione di principi di legalità, imparzialità e buon andamento. Per le pubbliche amministrazioni l’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni troverebbe fondamento nell’art. 97 Cost., mentre solo sul versante sindacaledettò attività troverebbe fontamento nell’art. 39, primo comma Cost. L’autonomia collettiva nel pubblico impiego avrebbe dunque un fondamento “asimmetrico”, così come del resto avverrebbe nel settore privato a dar credito alla nota tesi (pur minoritaria) circa il carattere unilaterale della garanzia del primo comma dell’art. 39, non riferibile agli imprenditori. 115 Così, D’ANTONA, Le fonti privatistiche…, cit., p. 76. 116 L’espressione è di GHEZZI, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche…, cit., p. 106, che escludeva che i contratti collettivi del pubblico impiego fossero fonti del diritto perché, all’epoca, non erano ancora comparse quelle “stimmate”. 253 tà in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme medesime117. Il legislatore della privatizzazione, però, non si accontenta e, confidando sul valore taumaturgico delle parole, pretede tutto: che il contratto collettivo produca vere e proprie norme giuridiche; che resti atto di autonomia negoziale privata riconducibile al primo comma dell’art. 39 Cost.; che non subisca l’efficacia impeditiva del quarto comma del medesimo articolo. Invero, sebbene si riconosca — per un verso — l’attitudine della norma collettiva ad operare come una “norma 117 Secondo la dottrina costituzionalista (infra…) un elemento decisivo di diritto positivo che individua l’esistenza di una fonte del diritto è proprio la ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme da essa prodotte. Ed anche la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, specie se in connessione con il primo elemento, riveste grande importanza, perché esso comporta l’applicabilità del principio iura novit curia, tipico delle norme di diritto. Per l’applicazione dei criteri di individuazione delle fonti al contratto collettivo del pubblico impiego si veda A. BARBERA, Le fonti del diritto fra legge e contratto, in Aidlass (a cura di), Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro. Atti delle Giornate di Studio di Diritto del lavoro, Foggia–Baia delle Zagare, 25–26 maggio 2001, Giuffrè, Milano, 21 ss., che qualifica, problematicamente, ma incontrovertibilmente, quel contratto collettivo come “fonte del diritto negoziata”, suffragando autorevolmente — con il ricorso ai ferri del mestiere del costituzionalista, cui lo studio delle fonti compete per materia — quanto da noi ritenuto, in via di prima approssimazione, agli esordi della privatizzazione (PILEGGI, Comparti, materie, livelli…, cit., pp. 143 ss.). Alla stessa conclusione giunge DAMIANI, Le fonti del diritto negoziate nel pubblico impiego…, cit., p. 91, ma con riferimento alla prima privatizzazione (e dunque senza aver potuto tenere conto delle rilevantissime novità “confirmatorie” del d.lgs. n. 80 del 1998). Ma la dottrina giuslavoristica, salve rare, ma autorevoli eccezioni, sembra procedere a quella qualificazione sulla base di criteri propri, dialogando assai poco con i costituzionalisti (una meritoria eccezione è proprio la relazione di BARBERA nel convegno Aidlass del 2001), ed assumendo come prospettiva di indagine quella di scongiurare il “rischio” di qualificare il contratto collettivo come fonte del diritto, contraddicendo, così, la preconcetta qualificazione privatistica dello stesso. 254 di diritto” si osteggia — per altro verso — la “cultura normativistica”, accusata di “stimolare una propensione quasi ossessiva per la teoria del contratto collettivo come fonte”118. E, così, bisogna fare in modo che una norma giuridica (rectius: una norma che ha “l’attitudine ad operare come norma giuridica”) scaturisca non da una fonte del diritto, ma da un atto di autonomia negoziale privata, riconsucibile al primo comma dell’art. 39, ma con gli effetti dell’ultimo comma. Ma entriamo ora un po’ più nel dettaglio di quell’idea vincente di cui si diceva in apertura. L’idea di agire sul versante datoriale, non è nuova, ma si ritrova in nuce nei progetti di matrice sindacale, ed era consapevolmente preordinata a costruire un sistema di contrattazione collettiva “a dominio confederale” 119, idoneo a passare indenne sotto le forche caudine dell’art. 39. Era stato infatti il sindacato a suggerire per primo di “rovesciare l’impostazione formale tradizionale del problema (un contratto che si applichi a tutti i lavoratori) per assumere l’ottica opposta (un contratto che tutte le P.A. interessate siano tenute ad applicare)” 120. 118 Così, D’ANTONA, op. ult. cit., rispettivamente p. 679, per la prima citazione, e p. 119 Cfr. PERA, La contrattazione collettiva a dominio confederale per il pubblico impiego, in Riv.it.dir.lav., 1998, II, 33, a commento proprio di Corte cost. n. 309 del 1997. 120 Sulla base di una “disposizione di organizzazione interna della P.A.”, si aggiungeva nella illustrazione della bozza di articolato del 1990 (in Riv.giur.lav., I, 1990, 305, da cui sono tratte anche le altre frasi virgolettate nel testo), facendosi però riferimento anche alla progettata norma circa la rappresentanza ex lege delle amministrazioni interessate da parte delle delegazioni pubbliche. 255 È stato, così, riesumato dal sindacato, e poi utilizzato dal legislatore, un vecchio espediente, già sperimentato quarant’anni prima dalla giurisprudenza costituzionale121: quello che fa leva sul concetto di “disposizione di organizzazione interna”, espressa in una sovrabbondante forma legislativa, da cui deriverebbe, nel caso di specie, il dovere per le pubbliche amministrazioni di seguire un determinato procedimento nella contrattazione collettiva e di conformarsi agli obblighi derivanti dalla stessa, anche nella scelta dell’interlocutore sindacale122. Una tesi concepita, quasi mezzo secolo orsono, per escludere la lesione del principio di libertà di organizzazione 121 Corte cost. 26 gennaio 1960, n. 1, che ritenne infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, prima parte, l. 11 dicembre 1956, n. 1589, che prevedeva che “entro lo stesso termine” (un anno dall’entrata in vigore della legge) “cesseranno i rapporti associativi con le organizzazioni sindacali degli altri datori di lavoro”, in base all’argomento che la norma “non ha efficacia automatica”, ma “contiene disposizioni per lo svolgimento di un’attività amministrativa che, nel caso, gli organi dello Stato avrebbero potuto svolgere anche senza il precetto della legge, data la situazione in cui lo Stato si trova rispetto alle società nelle quali abbia una prevalente partecipazione, che praticamente gli consente di determinare la volontà degli organi sociali. E pertanto non è violato il principio della libertà sindacale proclamato dall’art. 39 della Costituzione”. La questione venne però sollecitata non dalle aziende a prevalente partecipazione statale (che anzi ne chiesero il rigetto), ma dalla associazioni datoriali cui le prime comunicarono il recesso senza preavviso in ottemperanza alla prescrizione legale. 122 È una tesi adombrata dalla gran parte della dottrina giuslavoristica, ma in termini genralmente assertivi. Per un coerente tentativo di teorizzazione si veda CHIECO, La natura organizzatoria delle norme di contrattualizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A.: brevi spunti sistematici, in Atti, delle già citate giornate di studio Aidlass del 1996, 299: “si tratta, in definitiva, di una disciplina […] che coinvolge gli interna corporis dell’organizzazione pubblica che ne è l’unico soggetto destinatario; disciplina, quindi, che opera fuori e prima di quella sfera di libertà che l’art. 39 Cost. disegna attorno alle organizzazioni sindacali ed alla loro attività”. 256 sindacale con riferimento al disposto “sganciamento sindacale” delle aziende a prevalente partecipazione statale dalle associazioni degli altri datori di lavoro, ed ora riciclata ed adattata (con qualche forzatura, si direbbe), per spiegare come e perché le pubbliche amministrazioni siano vincolate da altra “norma di organizzazione interna” (l’intero titolo III, d.lgs. n. 165 del 2001 e disposizioni collegate!), ad “accettare” l’obbligatoria rappresentanza legale dell’ARAN; ad “accettare” che la “loro attività sindacale sia rigidamente inquadrata in un complicato reticolo di norme pubblicistiche”; ad “accettare” di corrispondere ai propri dipendenti trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi; ad “accettare” di adempiere gli obblighi nascenti dai contratti collettivi e via dicendo 123, senza che ciò possa considerarsi lesivo della “loro” libertà di organizzazione sindacale124. 123 D’ANTONA, Il quarto comma…, cit., p. 683: “Non è una tecnica del tutto nuova. La Corte costituzionale affermò in occasione dello «sganciamento» sindacale dalla Confindustria delle imprese a partecipazione statale, che non contrastava con la liberà sindacale dei datori di lavoro la legge con la quale lo stato prescriveva agli enti (o imprese), di cui aveva il controllo, comportamenti che avrebbe potuto richiedere anche con strumenti non legislativi […]. Allo stesso modo, i criteri di azione che la legge detta all’Aran avrebbero potuto essere impartiti in base al generale potere di indirizzo che spetta ai soggetti pubblici nei confronti dell’agenzia che li rappresenta legalmente”; PROSPERETTI… Sul punto, cfr. DELL’OLIO, Legge e contratto collettivo…, cit., p. 255: “non ci si può rifugiare dietro espedienti di questo tipo, come a suo tempo […] con (e per) la legge sullo «sganciamento» delle Partecipazioni statati dalla Confindustria”. 124 La singolare preoccupazione per la libertà di organizzazione sindacale delle pubbliche amministrazioni muove dall’assunto che la garanzia del primo comma dell’art. 39 Cost. sia “bilaterale” e riguardi dunque anche i datori di lavoro: assunto di gran lunga prevalente, ma autorevolmente contestato. Cfr. GIUGNI… 257 A voler mettere a fuoco l’idea un po’ ambiguamente adombrata dallo stesso legislatore, traendone le estreme ed un po’ paradossali, ma coerenti, conseguenze, dovrebbe supporsi che tutte le disposizioni sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 (comprese quelle relative ai criteri di legittimazione legale della controparte sindacale, come ora diremo) non siano altro che semplici “norme di organizzazione interna”, o “norme di azione” con cui lo Stato impartirebbe una tantum alle “proprie” pubbliche amministrazioni una serie di istruzioni (espresse, invero, in forma piuttosto sovrabbondante) circa le modalità di esercizio dell’autonomia collettiva ad esse riconosciuta dal primo comma dell’art. 39. Un’endiadi squisitamente pubblicistica (“norme di azione–norme di relazione”) viene dunque abilmente evocata per argomentare la natura privatistica della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, pur senza che se ne traggano le dovute conseguenze, certamente indesiderabili: a fronte di “norme di azione” pubblicistiche che vincolino la sola pubblica amministrazione dovrebbero essere configurabili meri interessi legittimi, e non diritti soggettivi, con buona pace dell’asserita privatizzazione delle relazioni sindacali del pubblico impiego125. 125 Ma non sembra essevi dubbio alcuno che (contrariamente a quanto potrebbe supporsi sviluppando l’ambigua evocazione delle “norme di azione” a giustificazione dei vincoli all’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni) dalle norme sulla contrattazione collettiva e sulla rappresentatività sindacale (da intendersi come norme di relazione) derivino veri e propri diritti sindacali, azionabili davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 63, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 258 Ora, non solo si vorrebbe dare ad intendere (lo si è già segnalato) che il problema dell’impiego pubblico contrattualizzato sia quello di garantire minimi di trattamento a tutti i dipendenti pubblici (secondo l’espediente utilizzato per conseguire l’efficacia generale dei contratti collettivi in forme privatistiche e costituzionalmente compatibili); ma si vorrebbe dare altresì ad intendere che l’unica libertà sindacale potenzialmente idonea ad essere lesa dal “complicato reticolo di norme pubblicistiche” sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva sia quella delle pubbliche amministrazioni! Ci pare si tratti di un espediente legislativo un po’ mistificatorio e pericoloso, perché idoneo a legittimare costituzionalmente (se condotto alle sue estreme conseguenze) non tanto la presunta lesione della libertà di organizzazione sindacale delle pubbliche amministrazioni (non è certo questa la posta in gioco), quanto, piuttosto, la ben più realistica e concreta lesione della libertà di organizzazione sindacale dei dipendenti pubblici. Invero, persino i criteri di legittimazione alla contrattazione collettiva (o i penetranti limiti alla contrattazione integrativa) si prestano ad essere letti — a voler sviluppare quell’idea vincente — come espressione della libera scelta della controparte sindacale (nonché delle materie e dei livelli della trattativa) sulla base di norme “interne” di organizzazione sindacale adottate, nell’esercizio della libertà di cui al primo comma dell’art. 39 Cost., dallo Stato per regolare, secondo procedure trasparenti, le modalità di esercizio dell’attività sindacale delle “proprie” pubbliche amministrazioni. 259 I sindacati, pertanto, non potrebbero dolersi dei limiti alla libertà di organizzazione sindacale posti dalla legge (attraverso la fissazione delle famose “soglie minime” di rappresentatività, ai fini della legittimazione esclusiva alla contrattazione collettiva ed all’esercizio dei diritti di attività sindacale), non essendo, detti limiti, espressione di una scelta legislativa sindacabile ai sensi del primo comma dell’art. 39 Cost., ma, piuttosto, il “risultato” di una “libera scelta” delle pubbliche amministrazioni, nell’esercizio della libertà di organizzazione sindacale esercitata, per esse, dallo Stato: scelta esplicitata, in sovrabbondante forma legislativa, nel primo comma dell’art. 43, d.lgs. bn. 165 del 2001. Quest’ultimo dovrebbe pertanto essere interpretato come norma che regola l’agire delle pubbliche amministrazioni nella fase della scelta della controparte sindacale. L’assetto dei rapporti di forza e gli esiti del reciproco riconoscimento sarebbero così cristallizzati, in un determinato momento storico, nelle norme di organizzazione sindacale interna della parte pubblica formalizzate nel d.lgs. n. 165 del 2001. La legge verrebbe, in un certo senso, “dopo”, e si limiterebbe a fotografare lo stato delle relazioni sindacali nel pubblico impiego ad una certa data: ciò, che, del resto, sul piano “storico” non sembra poi così lontano dal vero se si pensa alla genesi della privatizzazione, concertata con il (e progettata dal) sindacato. Certo si tratta dello sviluppo argomentativo estremo di un’idea (espressa sovente in forma ambigua o assertoria) che, sin qui, è stata utilizzata “soltanto” per costituzionalizzare l’efficacia generale del contratto collettivo pubblico e promuoverne la ricostruzione giuridica in chiave squisitamente privatistica. 260 Ma già da tempo attenta dottrina126 aveva intuito come quella pur “ingegnosa soluzione”, avesse il torto di lasciare totalmente nell’ombra il versante sindacale, trascurando di considerare che — se davvero si vuole che la contrattazione collettiva per entrambe le parti abbia fondamento nel primo comma dell’art. 39 Cost. — allora occorrerebbe preoccuparsi della libertà sindacale anche dal lato, e nella prospettiva, dei pubblici dipendenti. Ed è questo il “«vero» problema”127, che dovrebbe porsi chi ritenga che quella del pubblico impiego sia «autentica» contrattazione collettiva, espressione di «vera» autonomia negoziale. Invero, se si rimane fedeli alla prospettiva del primo comma dell’art. 39 Cost. (che secondo la dottrina giuslavoristica dominante sarebbe il fondamento della contrattazione collettiva nel pubblico impiego) è davvero difficile spiegare la ragione per cui non dovrebbe considerarsi lesa la 126 L. ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione…, cit., p. 227, che, con riferimento alla proposta della CGIL funzione pubblica, osservava che l’espediente di rendere generalmente obbligatori i contratti collettivi del pubblico impiego mediante il conferimento alle delegazioni pubbliche di un potere legale di rappresentanza di tutte le amministrazioni…non considera “che comunque il meccanismo dell’art. 39 è volto a tutelare anche i sindacati, che dall’espediente della rappresentanza legale ex parte datoris non riceverebbero alcuna tutela”. 127 Cfr. TURSI, Libertà sindacale e soggettività negoziale…cit. 386, il quale — da un prospettiva accentuatamente privatistica, basata su una lettura della riserva di legge di cui all’art. 97 Cost. che la rende inidonea a comprimere l’autonomia negoziale — osserva come “il problema «vero» sia quello dell’inconciliabilità della legittimazione negoziale esclusiva dei sindacati rappresentativi, con la privatizzazione del rapporto di impiego e con la libertà sindacale delle organizzazioni dei lavoratori e delle pubbliche amministrazioni”. L’A. osserva ancora come si sia “perso di vista il vero problema, che era ed è quello del modo di conciliare la promozione della contrattazione collettiva col principio di libertà sindacale” (ivi, 389). 261 libertà di organizzazione sindacale di sindacati costretti ex lege a trattare soltanto all’interno di una sorta di rappresentanza unitaria dei sindacati legittimati, secondo un rigido procedimento definito dalla legge, e privi di legittimazione “individuale” alla trattativa; o di sindacati non legittimati a stipulare contratti integrativi, o che subissero la sanzione della nullità di contratti o accordi liberamente stipulati con singole amministrazioni o enti, senza essere legittimati come agenti negoziali dal contratto nazionale di comparto, o al di fuori delle materie o dei limiti stabiliti dallo stesso stabiliti; o di sindacati privi di qualsiasi legittimazione all’interno di un sistema monopolistico di contrattazione collettiva, che non ammette alternative128, con l’ovvia conseguenza che devono ritenersi vietati, e considerati radical- 128 Osserva TURSI, op. cit., p. 388, dopo aver rilevato che il criterio di cui all’art. 47, d.lgs. n. 29 del 1993 ante referendum, “non era affatto un criterio arbitrario”, come “il riformatore del pubblico impiego […] (abbia) imboccato una via che la dottrina, pressoché unanime, interpreta in chiave di attribuzione di legittimazione negoziale esclusiva ai sindacati rappresentativi”. 262 mente nulli, contratti collettivi “diversi” o “volontari”, esattamente come avveniva nell’ordinamento corporativo129. Per di più, come da tempo intuito, sia pure con riferimento al progettato espediente della rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni130 , la ricostruzione del sistema contrattuale in termini di “norma di organizzazione interna”, riconducendo al profilo dell’organizzazione il regime delle fonti del rapporto di pubblico impiego, sulla base di una concezione “proprietaria” dello Stato, appare difficilmente armonizzabile con la competenza regionale in 129 La coerenza con la premessa circa il fondamento nell’art. 39, primo comma, Cost. della contrattazione collettiva “di diritto comune” nel pubblico impiego dovrebbe condurre a ritenere incostituzionali le norme sulla legittimazione negoziale esclusiva, in quanto “miranti ad escludere la possibilità che veri sindacati non rappresentativi ai sensi di legge (o rappresentativi in sensi diversi da quelli di legge) potessero trattare e contrarre ex art. 39, comma 1, Cost.”: così, TURSI, op. cit., p. 395; nello stesso senso, BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione collettiva…, cit., p. 450: “la selezione dei soggetti sindacali a monte della negoziazione appare francamente assai poco sostenibile dal punto di vista costituzionale”. M.G. GAROFALO–BARBIERI, Contrattazione collettiva e lavoro pubblico,: un modello per tutti?, in Lav. pubbl.amm., 1998, 413, nt. 33. Ma si tratta di profilo di incostituzionalità — pur cruciale — sul quale la prevalente dottrina giuslavoristica sembra sorvolare, o che risolve sbrigativamente asserendo che la normativa eteronoma sulla contrattazione collettiva del pubblico impiego regola soltanto l’agire della pubblica amministrazione. 130 Ancora ZOPPOLI, op. ult. cit., p. 227. 263 materia, specie dopo la riforma del titolo V della Costituzione131. 1.7 – Il contratto collettivo per il personale pubblico come “contratto gestionale”. La prospettiva assunta dal legislatore (un contratto che le sole pubbliche amministrazioni siano tenute ad applicare) evoca schemi di ragionamento non nuovi. I problemi di efficacia del contratto collettivo del settore pubblico (veri o falsi che fossero) sono stati risolti a ben vedere con un metodo già sperimentato e brevettato dalla stessa Corte costituzionale in una serie di ipotesi nelle quali la resistenza da vincere, per un’applicazione generale del contratto collettivo, viene opposta non già dal datore di lavoro, ma dal lavoratore 132. Ciò che conferma che qui non 131 Sul tema, da ultimo, CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., con riferimento non solo alla l. n. 3 del 2001, ma anche al testo approvato in prima seduta dal Senato. Secondo l’A. “vi è da dubitare che le Regioni a statuto ordinario possano “chiamarsi fuori dal regime vigente, pur meritevole di essere corretto e adeguato, come per esempio dando vita a una distinta rappresentanza all’interno dell’ARAN e ad una distinta contrattazione collettiva”. Ma una soluzione analoga viene proposta anche per le Regioni a statuto speciale, non ritenendosi “venuto meno il limite costituito dal rispetto delle norme fondamentali di riforma economico–sociale della Repubblica”. Si veda anche L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, in Commentario Utet 2004, cit., 54 ss. ove si osserva come anche la seconda privatizzazione, nonostante fosse inserita nell’ambito di un più complessivo progetto di decentramento o di “federalismo a costituzione invariata”, abbia lasciato irrisolti i nodi derivanti dal “raccordo tra tecniche e contenuti della riforma del lavoro pubblico ed assetti normativo–istituzionali del sistema regionale italiano”, anche per la concomitanza con i lavori della Commissione Bicamerale. 132 Cfr. “sul problema dell’efficacia del contratto collettivo ablativo o gestionale nei confronti del lavoratore”, VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione…, cit., pp. 415 ss. 264 si tratta affatto (come invece il legislatore vorrebbe far intendere) di assicurare “minimi di trattamento” per tutti i dipendenti pubblici, vincendo pretese (e fantomatiche) resistenze del datore di lavoro pubblico, ma, piuttosto, di assicurare l’applicazione uniforme dell’unico contratto collettivo competente a regolare il rapporto di lavoro, recante norme assolutamente inderogabili dall’autonomia individuale, vincendo, se mai, la resistenza di lavoratori (ed organizzazioni sindacali) dissenzienti. Risuona nella motivazione della sentenza n. 309 del 1997 (ed ancor prima nelle parole del legislatore) un motivo inconfondibile, particolarmente caro al giudice delle leggi che lo ha proposto con successo in almeno un paio di occasioni: a proposito dei contratti collettivi sui criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità133, e sulle prestazioni indispensabili in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali134. Il refrain è quello del cosiddetto contratto collettivo “gestionale”135. Si tratta — come è noto — di fare in modo che determinati contratti o accordi collettivi, che il legislatore richiama per la disciplina di determinate materie, e che si ri133 Corte cost. 30 giugno 1994, n. 268, in Arg.dir.lav., 1995, n. 1, 249 134 Corte cost. 18 ottobre 1996, n. 344, in Arg dir.lav., 1997, n. 5, 295 135 Secondo la più accreditata definizione si tratta di un contratto che ha ad oggetto “più che la determinazione, in via generale ed astratta, delle condizioni economiche e normative di trattamento — caratteristica della parte c.d. normativa del contratto collettivo — la determinazione dei modi e delle condizioni alle quali verrà esercitato — non per il futuro, ma nell’immediato — il «potere» modificativo (organizzativo) del datore di lavoro” (così, LISO, Modifiche dell’organizzazione e contratto di lavoro in Giornale dir.lav.rel.ind. 1981, 568. 265 tiene abbiano, o debbano avere, efficacia generale, nonostante la contraria volontà di qualche lavoratore (essendo invece scontata la volontà del datore di lavoro di applicarli a tutti i propri dipendenti) non siano, per tale ragione, considerati in contrasto con il quarto comma dell’art. 39 Cost. Ed il meccanismo per far quadrare il cerchio è sempre lo stesso: ipotizzare che non sia il contratto collettivo a regolare direttamente il rapporto, ma sia il datore di lavoro il destinatario esclusivo dell’obbligo di applicarlo nei confronti di tutti i propri dipendenti136 . Ai lavoratori non si applicherebbe il contratto collettivo. Essi subirebbero, invece, gli effetti dell’esercizio del potere procedimentalizzato del 136 Si confrontino infatti i passaggi essenziali delle tre sentenze: “gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non appartengono alla specie dei contratti collettivi normativi, i soli contemplati dall’art. 39 Cost., destinati a regolare i rapporti (individuali) . Si tratta di un tipo diverso di contratti la cui efficacia diretta — in termini di modalità di limiti e modalità di disciplina del potere di licenziamento finalizzato alla riorganizzazione dell’impresa — si esplica esclusivamente nei confronti degli imprenditori stipulanti (o del singolo imprenditore in caso di accordo aziendale). Il contratto collettivo, cui rinvia la norma in esame, incide sul singolo prestatore di lavoro indirettamente, attraverso l’atto di recesso del datore in quanto vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale” (Corte cost. n. 268 del 1994); “fonte diretta dell’obbligo dei lavoratori di effettuare le prestazioni riconosciute indispensabili è il regolamento di servizio in quanto atto di esercizio (a formazione «procedimentalizzata» e quindi a contenuto vincolato) del potere direttivo del datore di lavoro […]. In nessun caso, dunque, l’obbligo dei singoli lavoratori è un effetto direttamente collegabile al contratto collettivo” (Corte cost. n. 344 del 1966); “l’applicazione del contratto collettivo deriva, non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà di questo […] bensì dal su indicato dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni […] tale meccanismo non realizza dunque quell’efficacia erga omnes conferita dall’art. 39, quarto comma, della Costituzione ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali in possesso di determinate caratteristiche, ma si colloca sul distinto piano delle conseguenze che derivano […] dal vincolo di conformarsi imposto alle amministrazioni” (Corte cost. n. 309 del 1997). 266 datore di lavoro (potere avente una naturale efficacia erga omnes)137 , pur se “conformato” dagli obblighi imposti da un contratto collettivo cui la legge rinvia per regolare una certa materia. Del resto, per i lavoratori è pur sempre preferibile l’esercizio di un potere condizionato da un contratto collettivo, piuttosto che l’esercizio di un potere “libero”. Per il fatto di non regolare direttamente il rapporto, ma di limitare il potere organizzativo, altrimenti libero, del datore di lavoro, il contratto collettivo in questione sarebbe di un tipo diverso dal contratto collettivo normativo cui allude l’art. 39 Cost., e, per tale ragione, non ne subirebbe la cosiddetta “efficacia impeditiva”138. 137 Si veda per tutti LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Angeli, Milano, 1982, che definisce la procedimentalizzazione come “complicazione del processo decisionale dell’imprenditore, essenzialmente volta a garantire che nel formarsi di certe decisioni si tenga conto degli interessi antagonistici sui quali va ad incidere l’esercizio del potere”. 138 PERSIANI, Contratti collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in Arg.dir.lav., 1999, 1, 1, ha definitivamente dimostrato “l’inadeguatezza delle argomentazioni che hanno condotto a configurare l’esistenza di contratti collettivi che in quanto «delegati o regolamento», non siano riconducibili alle previsioni dell’art. 39 Cost.”, ma si veda già dello stesso A. Diritto del lavoro e razionalità, in Arg. dir.lav., 1995, 1 ss., che già avvertiva come la generale “efficacia dei contratti collettivi, definiti «regolamentari», non deriva tanto da ciò che essi sono stipulati nell’esercizio di una delega legislativa, quanto dalla materia oggetto della contrattazione” (n. 44, p. 14). 267 Ora, l’applicazione di questo schema di ragionamento anche al contratto collettivo del settore pubblico139 da parte di una Corte costituzionale evidentemente suggestionata dai propri precedenti140 , contribuisce a mettere a nudo l’inconsistenza della categoria del cosiddetto “contratto collettivo gestionale”141, ad onta del crescente successo giurisprudenziale142, e ne smaschera la sostanza di mero espediente escogitato per aggirare la seconda parte dell’art. 39 Cost. Invero, quello schema (un contratto collettivo che obblighi le sole pubbliche amministrazioni, mentre i lavoratori subirebbero soltanto gli effetti dell’adempimento di quell’obbligo: come se dal loro punto di vista non fosse esattamente la stessa cosa!) viene applicato con riferimento ad un contratto collettivo di cui sarebbe davvero arduo negare la 139 Su presupposto che qui si riprodurrebbe “la situazione di base […] che si verifica nella contrattazione aziendale”, e cioè “un monopolio unilaterale della rappresentanza da parte datoriale […] solo che in questo caso, a differenza della contrattazione collettiva con un solo datore di lavoro, il monopolio della rappresentanza è creato dalla legge, proprio allo scopo di realizzare la regolamentazione generale ed uniforme dei rapporti di lavoro nelle categorie del settore pubblico” (così, D’ANTONA, Il quarto comma…, cit., p. 682). 140 Come emerge chiaramente dai raffonti tra le motivazioni di cui alla nota… 141 Si veda efficacemente NATULLO, La contrattazione «gestionale»: distinzioni reali ed apparenti dal contratto «normativo», in SANTUCCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2002, 49. Per una critica alla teoria del contratto gestionale sia consentito anche il rinvio a PILEGGI, Età pensionabile ed estinzione del rapporto di lavoro, Aracne, Roma, 1996, 245. 142 Soprattutto con riferimento agli accordi sindacali sui criteri di scelta. Si veda Cass. 268 natura autenticamente normativa, trattandosi di contratto diretto a determinare, in via generale ed astratta, le condizioni economiche e normative di trattamento dei lavoratori. Nel caso non v’è dunque alcun potere “gestionale” del datore di lavoro da limitare mediante un contratto collettivo parimenti “gestionale”, ma soltanto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di applicare ai propri dipendenti la disciplina del contratto collettivo “normativo” stipulato dall’ARAN. La circostanza che la stessa “argomentazione” che “spiega” l’efficacia generale dei contratti collettivi gestionali (un contratto che vincoli il solo datore di lavoro) sia stata utilizzata per spiegare l’efficacia generale di un contratto collettivo, incontrovertibilmente normativo, quale è quello che disciplina il rapporto di lavoro del personale pubblico 143 con lo Stato–datore di lavoro144, addensa ulte- 143 Si veda però PERSIANI, op. ult. cit., p. 17, n. 57, secondo cui la Corte costituzionale si sarebbe basata non tanto sulla medesima “argomentazione” utilizzata a proposito dei contratti gestionali, bensì su quella che spiega l’efficacia dei contratti aziendali, laddove “il problema della loro efficacia, per il datore di lavoro, è già risolto dal fatto stesso che questo li ha stipulati”. Tuttavia, come condivisibilmente osserva VALLEBONA, Autonomia collettiva…, cit., “l’illustrata sufficienza dell’iscrizione (o della stipulazione) da parte del datore di lavoro per l’applicazione del contratto collettivo a tutti i propri dipendenti si riferisce, ovviamente, ai soli contratti acquisitivi, per i quali è scontato il consenso anche dei lavoratori non sindacalizzati, mentre per i contratti ablativi e gestionali il problema è proprio la ricerca del consenso dei lavoratori”. I lavoratori ben potrebbero infatti preferire l’applicazione del contratto collettivo nazionale (in ipotesi, derogato in peius dal contratto aziendale), o comunque di altra preesistente normativa collettiva o legislativa (nell’ipotesi in cui questa autorizzi il contratto aziendale a regolare la medesima materia). 144 D’ANTONA, op. ult. cit., p. 683. 269 riori nebbie sulla già di per sé sfuggente e fumosa categoria del contratto gestionale. E, del resto, già si è avuto modo di rilevare come la funzione dei pretesi contratti gestionali sia pur sempre quella propria di qualsiasi contratto normativo, di disciplinare (con norme generali ed astratte) determinati aspetti del rapporto di lavoro (i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità; le prestazioni indispensabili da assicurare in ipotesi di sciopero nei servizi pubblici essenziali). È infatti tipico del contratto collettivo normativo limitare il potere (altrimenti libero) del datore di lavoro, compreso quello organizzativo o gestionale, ed attribuire corrispondenti diritti (altrimenti insussistenti) al lavoratore 145. A dar credito alla logica sottesa alla tesi criticata, dovrebbero ritenersi non normative, ma gestionali, anche le norme disciplinari previste dai contratti collettivi, cui pure fa espresso rinvio il legislatore. Delle stesse potrebbe infatti ben dirsi — mutuando i medesimi passaggi argomentativi del giudice delle leggi — che la loro efficacia diretta — in termini di limiti e modalità di esercizio del potere finalizzato all’applicazione delle sanzioni disciplinari — si esplica esclusivamente nei confronti degli imprenditori stipulanti […] incidendo sul singolo prestatore di lavoro indirettamente attraverso l’atto di applicazione della sanzione disciplinare in quanto vincolato dalla legge al rispetto delle norme disciplinari concordate in sede sindacale 146. 145 Cfr. PERSIANI, op. ult. cit., p. 14: “alla previsione, in termini generali ed astratti, di limiti ad un potere unilaterale del datore di lavoro, fa necessariamente riscontro […] il diritto del lavoratore a che quei limiti siano rispettati”. 146 L’originale, parafrasato nel testo (Corte cost. n. 268 del 1994), è stato già richiamato testualmente nella nota… 270 E lo schema di ragionamento ora svolto si presta a ben vedere ad essere esteso, più in generale, al potere (altrimenti libero147) del datore di lavoro di determinare le condizioni economico–normative di svolgimento del rapporto di lavoro, in tutti quesi casi in cui la legge faccia rinvio al contratto collettivo 148. Ed è proprio questo, allora, il minimo comun denominatore delle varie ipotesi considerate: il rinvio legale al (o riconoscimento legale149 del) contratto collettivo, con conseguente “auspicio” di efficacia generale del medesimo (affinché adempia al meglio alla funzione regolamentare delegata dalla legge), da conseguire in termini costituzionalmente compatibili. Tornando ora, per un istante, all’applicazione giurisprudenziale più ricorrente e radicata della teoria del contratto gestionale (quella inerente ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare), può essere opportuno rilevare come il giudice delle leggi (che quell’orientamento ha patrocinato) abbia evidentemente cambiato idea. Aveva infatti espresso la convinzione, in un passato forse troppo lontano, che le norme contrattuali che individuano i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare per riduzione del personale inerissero alla materia dei “minimi di trattamento economico e normativo”, e non già alla parte obbligatoria del contratto col147 Salvo il condizionamento dell’art. 36 Cost., quanto al solo trattamento economico. 148 Se poi “si condivide la tesi secondo la quale i poteri del datore di lavoro derivano dal contratto di lavoro è evidente che gli accordi sindacali che limitano quei poteri, incidono direttamente sui singoli rapporti di lavoro”: così, PROIA, Il contratto collettivo fonte…, cit., p. 126, che si riferisce evidentemente la famosa tesi di PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit. 149 Secondo la locuzione ritenuta più precisa da D’ANTONA, Il quarto comma…, cit., p. 675. 271 lettivo, e su tale presupposto aveva escluso che il recepimento in decreto legislativo delle norme in questione, ai senso della legge n. 741 del 1959, integrasse vizio di eccesso di delega150. Ma la sopravvenuta necessità di giustificare costituzionalmente un’ipotesi di efficacia generale del contratto collettivo ha indotto evidentemente la Corte costituzionale a cambiare idea, ed a qualificare “gestionale” ciò che in precedenza aveva ritenuto “normativo”. Ma quello appena evidenziato non è che un aspetto specifico di un più generale mutamento di indirizzo della Corte costituzionale (evincibile dal sopra richiamato trittico di sentenze151), rispetto a quanto dalla stessa solennemente sancito nel famoso precedente del 1962 per stroncare sul nascere un’altra colossale manovra di “aggiramento” del quarto comma dell’art. 39, che si era tentata con riferimento al contratto collettivo di diritto comune del settore privato: e cioè che è incostituzionale conseguire quel “risultato” (cioè il risultato previsto dal quarto comma) se la “manie- 150 Corte cost. 8 febbraio 1996, n. 8, Foro it., 1967, I, 15, con nota di PERA, Le sentenze della Corte costituzionale sulla ricezione in legge degli accordi interconfederali per i licenziamenti, che ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del d.p.r. 14 luglio 1960, n. 1019 che avevano recepivano le norme sulle procedure di informazione e consultazione sindacale, in quanto estranee alla materia dei “minimi”. 151 Per tutti, D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in Giornale dir.lav.rel.ind., 1998, 4, 665: “Diventa a questo punto cruciale una domanda: la Corte costituzionale è giunta alla conclusione che l’esistenza di un modello costituzionale di contratto collettivo con efficacia legale nella categoria non preclude qualsiasi misura legislativa del medesimo tenore, ma solo alcune? Insomma, la Corte si è convinta che il quarto comma dell’art. 39 ammette alternative?”. 272 ra”, quale che essa sia, non è quella indicata dalla norma costituzionale152. L’aggiramento che non è riuscito all’asserito “modello” di riferimento, cioè al contratto collettivo di diritto comune, è riuscito invece all’epigono, cioè al contratto collettivo del settore pubblico 153, essendo stato qui possibile ritenere vincolate — grazie alla “norma di organizzazione interna” — le sole pubbliche amministrazioni, ciò che, ovviamente, non sarebbe certo possibile con riferimento ad un privato datore di lavoro. Cionondimeno, quel riuscito “aggiramento” ha evidentemente incoraggiato il legislatore della seconda privatizzazione, che, come è noto — “nel semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva” 154, e nell’attuare tardivamente la vecchia delega (“elusa” dalla prima privatizzazione con la famigerata norma di rinvio 152 Corte cost. 19 dicembre 1962, n. 106, in Riv.dir.lav., 1963, 23: “una legge la quale cercasse di conseguire questo medesimo risultato della dilatazione ed estensione, che è una tendenza propria della natura del contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce, in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima”. 153 Osservava giustamente, BALLESTRERO, Brevi osservazioni sugli obiettivi della riforma del pubblico impiego e sulle ragioni della loro mancata realizzazione, in Atti Convegno Aidlass 1996, cit., 236, che “un altro contratto collettivo diverso da quello previsto dall’art. 39, comma 4, non c’è e non ci puo essere: così ha detto la Corte costituzionale”. Non immaginava l’A. che la Corte costituzionale potesse così radicalmente cambiare idea. 154 Art. 11, comma 4, lett. c), l. n. 59 del 1997, attuato dal d.lgs. n. 396 del 1997. 273 oggetto di abrogazione referendaria155) a “prevedere criteri di rappresentatività ai fini dei diritti sindacali e della contrattazione compatibili con le norme costituzionali”156 — ha annunciato che la nuova disciplina avrebbe avuto carattere transitorio “fino a quando non vengano emanate norme di carattere generale sulla rappresentatività sindacale che sostituiscano o modifichino tali disposizioni” 157. È evidente l’inversione del modello positivo di riferimento. Questo non è più rappresentato dalla contrattazione collettiva di diritto comune, ma dalla contrattazione collettiva di diritto speciale del settore pubblico158. Un diritto 155 L’art. 47, abrogato a seguito del referendum popolare indetto con d.p.r. 5 aprile 1995, prevedeva che “la maggiore rappresentatività sul piano nazionale delle confederazioni e delle organizzazioni sindacali è definita con apposito accordo tra il Presidente del Consiglio dei Ministri o un suo delegato e le confederazioni sindacali individuate ai sensi del comma 2, da recepire con decreto del Presidente della Repubblica”. Il comma 2 stabiliva “di rimbalzo” che “fino all’emanazione del decreto di cui al comma 1, restano in vigore e si applicano […] le disposizioni di cui all’art. 8 del d.p.r. 23 agosto 1988, n. 395”. Secondo D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 249, “il d.lgs. n. 29 del 1993 fece un suo discutibile della delega formulando l’art. 47, che è stato successivamente abrogato dal referendum del 1995 […] il Governo ha colmato il vuoto normativo, richiamandosi ai principi della prima delega”. 156 L’originaria norma di delega [cioè l’art. 2, comma 1, lett. b), l. n. 421 del 1992] era espressamente richiamata dall’art. 42, d.lgs. n. 29 del 1993 come sostituito dall’art. 6, d.lgs. n. 396 del 1997 (ora art. 42, d.lgs. n. 165 del 2001). La inusuale raccomandazione a prevedere “criteri di rappresentatività ai fini dei diritti sindacali e della contrattazione compatibili con le norme costituzionali”, rende evidente quanto il legislatore avvertisse il peso opprimente dell’art. 39. 157 Art. 42, primo comma, d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo (di cui già all’art. 47, d.lgs. n. 29 del 1993) riformulato dall’art. 6 d.lgs. n. 396 del 1997. 158 Sia consentito un rinvio a PILEGGI, Comparti, materie, livelli di contrattazione collettiva, in Quaderni dir.lav.rel.ind., 1995, 143. 274 speciale che ha fornito le basi per la costruzione di quel sistema unitario di contrattazione collettiva ad efficacia generale, arenatosi nelle secche della scorsa legislatura, con cui si tentava, a distanza di un quarantennio, un nuovo aggiramento “ad efficacia generale” (con effetto, cioè, anche sulla contrattazione collettiva del settore privato) del quarto comma dell’art. 39 “oggi”, secondo quell’interpretazione evolutiva (diretta a depotenziarne l’efficacia impeditiva) autorevolmente suggerita, quale prodromo essenziale di quell’epocale riforma. Ma la Corte costituzionale, nel richiamato trittico di sentenze, sembra avere seguito un percorso in apparenza diverso, che non tocca l’art. 39, depotenziandone l’efficacia impeditiva, ma, passa, invece, attraverso la costruzione di una categoria “diversa” di contratti collettivi “non normativi”, sottratti a quell’efficacia impeditiva perché unilateralmente vincolanti. Una categoria di contratti erga omnes ontologicamente compatibili con l’art. 39 che, in realtà, appare di dubbia esistenza, come dimostrato da autorevole dottrina 159, mentre esiste certamente la tendenza, sempre più marcata, ad accantonare il quarto comma dell’art. 39, senza tentarne quella complessa interpretazione evolutiva tentata dalla dottrina 160. Un accantonamento che ha consentito di legittimare costituzionalmente una vera e propria fonte legale di disciplina del rapporto di pubblico impiego, i cui caratteri, plasmati da finalità pubblicistiche, descriveremo brevemente nei paragrafi successivi, valorizzando il raffronto con quel159 Si veda retro… 160 D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39…, cit. 275 la contrattazione collettiva di diritto comune che sarebbe stata assunta a modello: un modello da non imitare. 1.8 – Efficacia generale del contratto collettivo e “consenso” (obbligato) di tutti i dipendenti pubblici privatizzati. Il giudice delle leggi (e, con esso, la prevalente dottrina) non sembra essersi però “accontentato” di un’unica spiegazione del fondamento dell’efficacia generale del contratto collettivo pubblico che consentisse di aggirare l’art. 39. E, dando prova di virtuosismo, si è addirittura prodotto in un doppio aggiramento della norma costituzionale, quasi ad irriderne la pretesa efficacia impeditiva. Alla prima spiegazione di quell’efficacia generale, basata sull’asserito obbligo legale gravante unicamente sulle pubbliche amministrazioni (una spiegazione che aveva il torto di rendere il dipendente succube dell’altrui adempimento “obbligato”), il giudice delle leggi ha così ritenuto di giustapporre una seconda spiegazione, autosufficiente rispetto alla prima, idonea, cioè, a consentire, per altro verso, l’aggiramento dell’art. 39. Il secondo aggiramento, in controsenso rispetto alla direzione del primo, ha provocato uno scontro di argomentazioni del tutto innocuo 161, essendo, quella del giudice delle leggi, notoriamente l’ultima parola. La seconda spiegazione, come si è detto, è intesa a valorizzare l’autonomia negoziale dei dipendenti privatizzati (compressa ed anzi annullata alla stregua della prima), riconducendo al loro presunto consenso l’efficacia generale 161 Quello scontro di argomentazioni è passato quasi inosservato in dot- trina. 276 del contratto collettivo pubblico, così da salvaguardare anche i valori ideali della privatizzazione162. Ed invero, l’efficacia generale del contratto collettivo pubblico dipenderebbe da ciò che tutti i dipendenti privatizzati esprimerebbero un incondizionato (e più o meno “convinto”) consenso alla contrattazione collettiva all’atto stesso della stipulazione del contratto individuale di lavoro, mediante un espresso rinvio formale alla stessa163. Ancora una volta, un “meccanismo” tratto dall’armamentario del giuslavorista provetto per spiegare l’efficacia del contratto collettivo acquisitivo di diritto comune nei confronti del datore di lavoro potenzialmente recalcitrante e 162 Per una valutazione positiva del secondo argomento si veda però LISO, La più recente giurisprudenza sul lavoro pubblico: spunti critici, in Arg.dir.lav., 1998, 1, pp. 189 ss.; op. cit., p. 218, 163 Si riporta testualmente la motivazione di Corte cost. n. 309 del 1997: “Sul versante della posizione soggettiva del dipendente è, poi, agevole osservare come quest’ultimo rinviene nel contratto individuale di lavoro che sostituisce ad ogni effetto l’atto di nomina la fonte regolatrice del proprio rapporto: l'obbligo di conformarsi, negozialmente assunto, nasce proprio dal rinvio alla disciplina collettiva contenuto in tale contratto. In altri termini, per effetto della privatizzazione dei rapporti, la prestazione e le condizioni contrattuali della stessa trovano la loro origine, non già in una formale investitura, bensì nell’avere il singolo dipendente accettato che il rapporto di lavoro si instauri (o prosegua) secondo regole definite, almeno in parte, nella sede della contrattazione collettiva”. 277 refrattario, a tutela del dipendente privato 164 viene utilizzato, in una prospettiva del tutto rovesciata, per la “ricognizione del consenso” 165 del dipendente pubblico privatizzato (essendo acquisito il “consenso” della parte pubblica). Ma è sulla spontaneità di quel consenso che vorremmo spendere qualche riflessione indotta da un certo sentore di mistificazione che promana dalle parole del giudice delle leggi. Un sentore che diventa ancor più avvertibile se si considera come le disposizioni scrutinate nel giudizio di costituzionalità non prevedessero (e non prevedano tuttora) alcun rinvio del contratto individuale al contratto collettivo quale fondamento dell’efficacia del secondo sul primo. Ed invero, nulla vi è in quelle disposizioni, o in altre collegate, che possa aver dato supporto al secondo argomento utilizzato dal giudice delle leggi. Secondo quelle disposizioni, infatti, l’efficacia del contratto collettivo su quello individuale non dipende certo dal consenso dei dipendenti pubblici, ma dalla volontà della 164 Per tutti, VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione…, cit., p. 397, ed ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza. Un altro argomento per spiegare l’efficacia generale del contratto collettivo pubblico fa leva sull’unicità del soggetto sul versante datoriale, vincolato ad applicare il contratto collettivo nei confronti di tutti i propri dipendenti (LISO, op. ult. cit., p. 221, che imputa al giudice delle leggi di avere utilizzato un “farraginoso meccanismo” anziché utilizzare l’argomento proposto). Ma ancora una volta, sembra utilizzarsi — onde ritenere vincolati i dipendenti privatizzati — un consueto schema utilizzato con riferimento al contratto collettivo di diritto comune, riferibile “ai soli contratti collettivi acquisitivi, per i quali è scontato il consenso anche dei lavoratori non sindacalizzati, mentre per i contratti ablativi e gestionali il problema è proprio la ricerca del consenso dei lavoratori” (VALLEBONA, op. cit., p. 398). Ma nel caso del lavoro pubblico il problema della ricerca del consenso dei lavoratori non esiste, semplicemente perché è la legge ad imporre l’applicazione generalizzata dei contratti collettivi. 165 VALLEBONA, op. cit., pp. 395 ss. 278 legge (sia pure espressa con il consueto gioco illusionistico di rinvii incrociati, mezze frasi e giri di parole): l’art. 2, comma 3, stabilisce che “i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all’articolo 45, comma 2”, ed i “principi” richiamati impongono alle pubbliche amministrazioni di garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi. Le pubbliche amministrazioni sono altresì espressamente obbligate ad adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi (art. 40, comma 4) che, per di più, sono stipulati in nome e per conto delle stesse (art. 46). Come dire che i contratti individuali devono uniformarsi ai contratti collettivi per espressa volontà della legge. Quest’ultima non solo non prevede, ma rende privo di senso e del tutto pleonastico un eventuale rinvio del contratto individuale alla contrattazione collettiva. Nondimeno, ad abundantiam, tutti i contratti collettivi prevedono (con norme ad alto tasso di ipocrisia) che i contratti individuali debbano, a loro volta, prevedere che “il rapporto di lavoro è regolato dai contratti collettivi nel tempo vigenti”. Ed è proprio questo l’argomento di mero fatto (non desumibile in alcun modo, lo ripetiamo, dalle disposizioni di legge scrutinate o ad esse collegate) utilizzato dal giudice delle leggi per fondare sul consenso dei destinatari l’efficacia generale del contratto collettivo pubblico, quasi a voler accreditare l’idea che quella del pubblico impiego privatizzato sia una contrattazione “volontaria” con efficacia “limitata” ai “soli” soggetti consenzienti (che, pe- 279 rò, coinciderebbero, guarda caso, con tutti i dipendenti pubblici privatizzati!)166. C’è, però, il piccolo particolare che quel consenso è un consenso obbligato: obbligato non nel senso che il lavoratore è costretto ad accettare una condizione (quella inerente all’assoggettamento del rapporto al contratto collettivo) impostagli dallo stesso datore di lavoro all’atto della costituzione del rapporto. Una condizione del genere non sarebbe affatto lesiva della libertà negoziale e sindacale del dipendente (pubblico o privato non importa), che accettasse quella condizione pur di ottenere l’assunzione 167. Qui, invece, il “consenso” è obbligato, nel senso che esso è imposto alle parti del contratto individuale da fonti eteronome. Invero, quel rinvio (dei contratti individuali ai contratti collettivi) è previsto da contratti collettivi la cui applicazione è comunque imposta dalle legge alle parti del contratto individuale. Il dipendente privatizzato non potrebbe dunque rifiutare l’applicazione (imposta dalla legge) di quel contratto collettivo che, a sua volta, gli impone di “ac- 166 Osserva CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., come la sentenza lasci “un dubbio ermeneutico del come possa considerarsi vincolato non il lavoratore ancora da assumere, ma quello già assunto, non iscritto alle organizzazioni sindacali stipulanti, o dissenziente”. 167 Cfr. per tutti VALLEBONA, op. ult. cit., p. 416, che osserva come il vincolo nascente da un accordo individuale di rinvio alla contrattazione collettiva, cui il lavoratore “è indotto dalla necessità di ottenere l’assunzione”, è più resistente di quello nascente dall’iscrizione al sindacato, che cessa con il recesso. 280 cettare” che il rapporto sia regolato dal contratto collettivo. Di qui la già rilevata inutilità di quella previsione 168. Del resto, se le parti del rapporto di lavoro non fossero già tenute, per legge, ad applicare i contratti collettivi non avrebbe senso alcuno che quei medesimi contratti collettivi prevedessero che i contratti individuali (stipulati da soggetti non vincolati ad applicarli) debbano contenere una clausola di rinvio ai contratti collettivi: la non applicabilità dei contratti collettivi renderebbe del tutto inutile quella previsione, perché non vincolante, Se invece quei contratti collettivi fossero già applicabili (per volontà della legge, oppure perché il datore di lavoro è iscritto al sindacato stipulante) non avrebbe ugualmente senso prevedere che i contratti individuali debbano far rinvio a contratti collettivi che, per l’appunto, sono comunque già applicabili per volontà della legge o per volontà (stavolta davvero spontanea e non obbligata) delle parti. Si aggiunga la circostanza che il passaggio dal regime pubblicistico a quello privatistico è stato disposto direttamente dal legislatore “a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà degli interessati” 169 che, dunque, si sono ritrovati dall’oggi al domani, e senza avere epresso una qualsiasi manifestazione di volontà, ad essere parti di un rapporto contrattuale, ed il quadro della rilevanza dell’autonomia individuale nel pubblico impiego è completo. 168 La dottrina non sembra invero porsi i problemi sollevati nel testo, e ritiene che a fondare l’efficacia del contratto collettivo è “sufficiente il rinvio formale inserito nel contratto individuale, secondo una tecnica largamente sperimentata nel settore privato e valorizzata dai contratti di comparto”, così, BELLOCCHI, Il contratto individuale di lavoro, in Commentario Utet 2004, cit. 538. 169 Per tutti, da ultimo, BELLOCCHI, op. cit., p. 533. 281 Il secondo argomento utilizzato dal giudice delle leggi, desunto dalle richiamate norme dei contratti collettivi pubblici (e sovente utilizzato dalla dottrina), ha dunque un significato fortemente “simbolico” (anche a non voler parlare di mistificazione): quello di creare l’illusione che l’efficacia del contratto collettivo pubblico dipenda “dall’avere il singolo dipendente accettato che il rapporto di lavoro si instauri (e prosegua) secondo regole definite, almeno in parte, nella sede della contrattazione collettiva”, e che “l’obbligo di conformasi, negozialmente assunto, nasca proprio dal rinvio alla disciplina collettiva contenuto in tale contratto” 170. Ma si tratta, per l’appunto, di un’illusione: l’obbligo di conformarsi ai contratti collettivi non è stato “negozialmente assunto”, ma eteronomamente imposto dalla legge ed inutilmente ribadito dai contratti collettivi mediante l’imposto inserimento nei contratti individuali della clausola di rinvio ai contratti collettivi, secondo il gioco di scatole cinesi già descritto 171. 170 Così dalla motivazione della sentenza. Sul punto si veda LISO, op. ult. cit., p. 219, che ritiene più in radice come nemmeno si profilasse un problema di incostituzionalità per contrasto con l’art. 39 Cost. in quanto il “farraginoso meccanismo” ivi previsto presuppone “una situazione non unitaria sul versante datoriale”, mentre l’efficacia generalizzata del contratto collettivo nell’impiego pubblico sarebbe una “mera conseguenza dell’assenza di soggetti datoriali estranei alla contrattazione collettiva” (p. 221). Sulla base di questa impostazione l’A. ritiene che non si profilino problemi di lesione della libertà sindacale del dipendente pubblico privatizzato. 171 Di “farraginoso meccanismo” parla LISO, op. cit., p. 222, a proposito degli ingegnosi ingranaggi normativi escogitati dal legislatore e brevettati dal giudice delle leggi nei quali finisce per incastrarsi la libertà negoziale dei dipendenti pubblici, “evocata” dalla privatizzazione, ma poi non riconosciuta effettivamente. 282 Come nel precedente assetto pubblicistico, il dipendente privatizzato è assoggettato ad un regime eteronomo di disciplina del rapporto, che deve “accettare” quale irrinunciabile condizione per la costituzione (o la conservazione) del rapporto di lavoro 172. L’unica alternativa è rinunciare all’assunzione o dimettersi. E non si vede — sotto tale profilo — una apprezzabile differenza tra la sottoscrizione del contratto individuale di lavoro ed accettazione del vecchio atto di nomina, secondo le condizioni previste nel bando di concorso (comprensive del rinvio alle fonti eteronome di disciplina del rapporto. Esattamente come se si trovasse al cospetto di un provvedimento di nomina il pubblico dipendente non ha scelta: deve prendere o lasciare173. Se poi si considera che, così come nel passato regime, il “reclutamento del personale” avviene e non può che avvenire, stanti i noti vincoli costituzionali, sulla base di pro172 Cfr., poco prima del passaggio a nuovo regime privatizzato, ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego, cit., 225, che nel commentare (in termini globalmente favorevoli) le proposte di riforma della sinistra indipendente e della funzione pubblica CGIL, osservava acutamente: “meno scontato è che nel passaggio al regime di diritto comune la relazione tra dimensione contrattuale individuale e dimensione contrattuale collettiva vada ricondotta agli schemi privatistici utilizzati nel diritto del lavoro postcostituzionale (la c.d. rappresentanza volontaria; il contratto collettivo come atto di autonomia negoziale privata”). Basterebbe considerare che ormai anche nell’ordinamento del lavoro privato le più recenti tendenze vanno, quanto meno, verso l’attenuazione della validità di quella scelta, che risale ormai ad una situazione storico–sociale del tutto superata”. 173La costituzione del rapporto di lavoro privatizzato comporta automaticamente “adesione” alla contrattazione collettiva. Agli effetti dell’applicazione del contratto collettivo è del tutto irrilevante l’iscrizione ai sindacati che invece è tuttora il fondamentale criterio di imputazione degli effetti dei contratti collettivi di diritto comune. 283 cedure selettive o mediante avviamento degli iscritti alle liste di collocamento (e, dunque, la scelta dell’altro contraente non ha fondamento nel contratto, ma in un procedimento pubblicistico)174; e che — così come nel passato regime — il contratto individuale non è in alcun modo legittimato a regolare il rapporto di lavoro ed a modificare la disciplina, assolutamente inderogabile, dei contratti collettivi (né, come si è detto, è riconducibile alla volontà delle 174 Art. 35, d.lgs. n. 165 del 2001. Come è noto il testo dell’allora art. 36, d.lgs. n. 29 del 1993 (“assunzione”), nella versione immediatamente anteriore alla seconda privatizzazione, prevedeva che l’assunzione agli impieghi avvenisse o per “concorso pubblico”, o mediante “avviamento” degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i profili che richiedessero il solo requisito della scuola dell’obbligo. La disposizione non conteneva alcun riferimento al contratto individuale di lavoro. Solo con la seconda privatizzazione (art. 22, d.lgs. n. 80 del 1998) si è previsto, con il solito metodo nominalistico, che “l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro”, ma pur sempre “tramite” procedure selettive e avviamento nei casi previsti. Tenta di attribuire un significato precettivo, e non soltanto simbolico o “pedagogico” (così, LISO, La privatizzazione dei rapporti di lavoro…, cit., p. 205) alla suddetta innovazione BELLOCCHI, Il contratto individuale di lavoro, cit., 533, suggerendone una “lettura ispirata all’opportunità di considerare l’intera procedura concorsuale o selettiva nella prospettiva delle modalità di di formazione del vincolo negoziale, al cui interno il concorso costituisce un momeno del procedimento che il datore di lavoro pubblico deve seguire per esercitare il proprio potere negoziale”. 284 parti il rinvio ai contratti collettivi)175 si comprende come, sotto questo profilo, non sia cambiato nulla rispetto al precedente regime pubblicistico 176. Ma mentre nel precedente regime pubblicistico la forma provvedimentale dell’atto di costituzione del rapporto era coerente con la condizione giuridica di “speciale sudditanza” del pubblico dipendente, nel nuovo regime privatizzato la “forma” contrattuale dell’atto di costituzione del rapporto stride vistosamente con la “sostanza” delle cose, cioè con la mancanza di autonomia negoziale. 175 Invero, le esigenze di razionalizzazione–contenimento del costo del lavoro non potevano che condurre alla sterilizzazione della contrattazione individuale, pur assurta, apparentemente, al rango di fonte di disciplina del rapporto (art. 2, comma 3), oltre che di atto costitutivo dello stesso (art. 35, primo comma). I contratti individuali devono ex lege uniformarsi alle norme dei contratti collettivi, ed ai principi stabiliti dalla legge (parità di trattamento e garanzia di trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi), mentre l’attribuzione dei trattamenti economici può avvenire solo mediante contratti collettivi, e solo alle condizioni previste mediante contratti individuali (ad es. a proposito del trattamento economico definito mediante contratto individuale in ipotesi di conferimento di incarichi dirigenziali: art. 19, comma 2; art. 24, comma 2). Sullo spazio negoziale riservato al contratto individuale si veda da ultimo BELLOCCHI, op. cit., pp. 537 ss., che ritiene sussista una vera e propria incompetenza del contratto individuale ed un monopolio del contratto collettivo soltanto in materia di determinazione del trattamento economico, in ragione delle finalità di contenimento della spesa e di razionalizzazione del costo del lavoro pubblico. 176 Si veda per tutti CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. CIX, secondo cui l’impossibilità per il contratto individuale, pur qualificato come fonte costitutiva e regolativa del rapporto, “di migliorare ed integrare gli standars normativi ed economici fissati dai contratti collettivi” è dipesa da “una serie concorrente di ragioni ben note o almeno ben intuibili: preoccupazioni governative per la governabilità della spesa; pressioni sindacali per una contrattazione collettiva onniassorbente e onnipervasiva; resistenze dirigenziali a gestire politiche del personale differenziate; tradizioni consolidate all’insegna della parificazione e dell’uniformità”. 285 Il contratto individuale di lavoro (“costretto” ad ospitare l’ipocrita clausola di rinvio a contratti collettivi già applicabili ex lege), diventa, così, il vuoto emblema di una privatizzazione di facciata. Ma pur se “vuoto” di contenuti negoziali riconducibili all’autonomia individuale, e “pieno” di contenuti eteronomi, il contratto individuale di lavoro svolge nondimeno una funzione ritenuta di “fondamentale importanza”177, perché simboleggia l’opposto di ciò che il pubblico impiego era prima; perché è lo strumento del “trasloco” dal diritto pubblico al diritto privato; perché esso contratto si sostituisce allo status di pubblico dipendente e “riduce la pubblica amministrazione alle veste paritaria di parte contrattuale e ne riqualifica — in termini privatistici, e quindi neutri rispetto all’interesse pubblico — la posizione rispetto alle vicende dei rapporti di lavoro”, facendo “cadere così la supremazia speciale della pubblica amministrazione […] principio base dell’ordinamento speciale, dalla legge Giolitti in poi”178. L’idea in apparenza intrinsecamente contraddittoria (un’idea che, come già ricordato, la seconda privatizzazione avrebbe esteso alle “determinazioni per l’organizzazione degli uffici”) è che l’efficienza delle pubblica amministrazione possa essere accresciuta se la stessa viene spogliata del potere di supremazia speciale nei confronti dei propri dipendenti, e costretta ad indossare la “veste paritaria di parte contrattuale”; se l’interesse pubblico (e tale è anche 177 Così, da ultimo, BELLOCCHI, op. cit., p. 530. 178 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 240, in sede di commento della prima privatizzazione e di presentazione dei caratteri della seconda. 286 l’interesse ad accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione che è la finalità essenziale della privatizzazione) viene reso “neutro” (cioè, neutralizzato), così da non condizionare più l’adozione delle misure per la gestione dei rapporti di lavoro e l’assunzione delle determinazioni inerenti all’organizzazione degli uffici; se, di conseguenza, la privatizzazione funge da diserbante dell’interesse legittimo, rendendo “liberi” ed insindacabili poteri (o, quantomeno, i singoli atti di esercizio dei poteri medesimi) già funzionalizzati al perseguimento dell’interesse pubblico. Una funzione, quella del contratto individuale, di “fondamentale importanza” nell’economia complessiva della riforma, ma certo non quella di disciplinare il rapporto di lavoro pubblico, nemmeno in senso più favorevole al lavoratore. Un contratto individuale di lavoro che esprime un’autonomia negoziale a scartamento sensibilmente ridotto rispetto all’autonomia negoziale riconosciuta alle parti del contratto individuale di lavoro privato. Quella funzione di disciplinare uniformemente il rapporto è assegnata invece, dalla legge, al contratto collettivo, come diremo nel successivo capitolo. 2 – Efficienza della pubblica amministrazione ed autonomia collettiva. 2.1 – La privatizzazione come valore: il preteso “radicamento” del contratto collettivo nell’autonomia collettiva garantita dal primo comma dell’art. 39. 287 Come già più volte abbiamo avuto modo di rilevare, è opinione diffusa e tenace, difesa ad oltranza dalla prevalente dottrina giuslavoristica — fedele all’insegnamento che “obiettivo di fondo” della riforma fosse la stessa unificazione normativa tra lavoro pubblico e privato, da conseguire “ammettendo una contrattazione collettiva privatistica”, non avvinta da nesso di strumentalità rispetto all’altro “obiettivo di fondo”, collocato sul medesimo piano (se non strumentale al primo), del “miglioramento dell’efficienza organizzativa delle pubbliche amministrazioni”179 — che il contratto collettivo del pubblico impiego sarebbe, a tutto concedere, una species “nominata” di un genus “innominato” ed “atipico”, cioè del contratto collettivo di diritto comune, di cui condividerebbe fondamento, natura e funzioni180. Ed invero, per non contraddire le finalità ideali della privatizzazione, il contratto collettivo del pubblico impiego — rotto il guscio pubblicistico ed uscito allo scoperto — doveva restare fuori dal “cono d’ombra dell’interesse pub- 179 Per tutti D’ANTONA, Soggetti e struttura…, cit., p. 213, da cui sono tratte le espressioni virgolettate nel testo. 180 Da ultimo, appare emblematica dell’approccio “orientato” della dottrina giuslavoristica di gran lunga prevalente RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, cit., 478, che critica la tesi, da noi altrove espressa (Comparti, materie e livelli, cit., 143 ss.), circa la natura di fonti negoziate propria dei contratti collettivi del pubblico impiego, con il rilievo che “in tal modo, però, si lascerebbe il rapporto di lavoro pubblico imbrigliato tra le norme di stampo pubblicistico, snaturando e sopratutto ridimensionando quella che è stata, all’opposto, un’ardita opera di riforma del lavoro pubblico”. 288 blico”, e crescere alla luce del diritto comune dei contratti181. C’era però, e c’è tuttora, un piccolo particolare: dal punto di vista del diritto positivo privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico non sono che strumenti per il perseguimento di finalità pubblicistiche, secondo le dichiarate intenzioni del legislatore enunciate, solennemente, in un apposito indice numerico che fa 181 L’espressione, utilizzata, da ultimo, anche da RICCI (si veda la nota precedente), è di GHEZZI (cfr. nota…), che invitava ad “evitare il pericolo di riassorbire per intero” i contratti collettivi del pubblico impiego, “nel rischioso cono d’ombra dell’interesse pubblico”. Un “pericolo” ed un “rischio” che, come ricordato, erano stati avvertiti e denunciati soprattutto da D’ANTONA, e che il legislatore (guidato da quella autorevole ed influente dottrina) ha cercato effettivamente di evitare, facendo di tutto perché, dal lato delle pubbliche amministrazioni, la contrattazione collettiva potesse “apparire” come espressione di libertà negoziale, il cui esercizio fosse preventivamente conformato da semplici norme di organizzazione interna o norme di azione. Come osserva A. BARBERA, op. cit., p. 30, “l’intento è chiaro: sottrarre il contratto da possibili torsioni — per così dire stataliste che potrebbero alla fine ripercuotersi sia sugli attori sociali (indotti a «statalizzarsi») sia sui paralleli contratti di lavoro privati”. 289 bella mostra di sé nella norma di apertura del testo unico sulla privatizzazione182. E quelle finalità pubblicistiche — per non essere radicalmente contraddette e frustrate — reclamavano a gran voce che il legislatore non si affidasse, “con esiti imprevedibili” (rectius: prevedibili nella loro perniciosità), al “diritto comune dei contratti” per la disciplina del contratto collettivo del pubblico impiego: ciò che si sarebbe tradotto in una devastante “non disciplina” in un settore in cui il rapporto di impiego era stato sempre disciplinato da efficientissime fonti eteronome (che, però, sotto altro profilo erano considerate le “fonti” dell’inefficienza della pubblica amministrazione). Era invece necessario che le nuove “fonti”, cui è dichiaratamente affidato il conseguimento di quelle finalità pubblicistiche, fossero assoggettate ad una disciplina particolare che ne assicurasse, nel modo più certo e cogente, l’efficacia generale ed uniforme: quella stessa efficacia propria delle fonti eteronome che erano chiamate a sostituire, ed anzi, se possibile, un’efficacia ancor maggiore, quale 182 Sulle “tre finalità della riforma”, si veda, da ultimo, TREU, Le finalità della riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 9, che sembra considerare come la terza finalità (“realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni […] applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato”) sia stata interpretata come finalità di privatizzare il rapporto, cosa che renderebbe possibile ipotizzare “una scala di priorità”, secondo le diverse “preferenze ideali” di chi dà priorità agli “obiettivi di razionalizzazione organizzativa, privilegiando gli strumenti di attuazione pubblicistici” e chi “sottolinea la centralità della privatizzazione del rapporto di impiego con enfasi prevalentemente sugli strumenti giuslavoristici”. Già abbiamo detto come il gerundio legislativo (“applicando”) renda evidente che l’applicazione di condizioni uniformi è uno strumento e non un obiettivo. E del resto, lo stesso A. ritiene che “le tre formule sintetiche della norma stanno fra loro non in scala di priorità bensì in rapporto tra obiettivi e strumenti”. 290 freno alla rincorsa, con avvincenti inseguimenti e sorpassi, tra leggine e accordi. Ciononostante, la dominante dottrina giuslavoristica — condizionata dal più volte rilevato pregiudizio privatistico — non esita a considerare “di diritto comune” un contratto collettivo — quello del pubblico impiego — che non è affatto affidato, o lasciato in balia, del “diritto comune” dei contratti, ma è invece regolato senza residui da un diritto singolare183. E per venire a capo di una così vistosa contraddizione in termini, quella stessa dottrina ha pensato bene di far gravitare la disciplina “speciale” del contratto collettivo dell’impiego privatizzato sul versante del datore di lavoro pubblico, come se essa fosse destinata unicamente alle pubbliche amministrazioni, ed idonea a vincolare direttamente soltanto le stesse. A tal fine, come già ricordato, è stato riesumato il vecchio espediente della norma di auto–organizzazione interna: lo Stato utilizzerebbe un po’ impropriamente ed eccessivamente il mezzo legislativo per impartire, una tantum, istruzioni e direttive a “proprie” società o enti, o alle “proprie” amministrazioni (autonomia regionale permettendo), circa le modalità di esercizio della “propria” libertà di organizzazione sindacale e della “propria” autonomia collettiva. Abbiamo già esaminato, nel paragrafo precedente, come la Corte costituzionale, seguendo i suggerimenti legi183 E, a nostro avviso, mostra di avvertire una certa contraddizione in termini allorché al massimo concede che esso possa essere qualificato come contratto “nominato”, ma non “tipico”, cioè assoggettato ad una disciplina particolare. Ma l’aggettivo “nominato” di per sé non significa nulla, perché anche il contratto collettivo di diritto comune è nominato, anzi nominatissimo, dall’ordinamento. 291 slativi, ampiamente valorizzati e rilanciati dalla dottrina giuslavoristica184, abbia trovato il modo per far convivere efficacia generale del contratto collettivo pubblico ed efficacia impeditiva dell’art. 39, senza contraddire (almeno in apparenza) la natura privatistica dello stesso (pur se il riferimento ad un “equilibrato dosaggio di fonti regolatrici” come ricetta per una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, non è troppo rassicurante nella prospettiva privatistica). E, come in una sorta di gioco delle parti, le decisioni del giudice delle leggi — chiaramente ispirate dalla dottrina giuslavoristica prevalente185 — sono state da 184 Protagonista assoluto del dialogo con il giudice delle leggi è stato D’ANTONA che in vari scritti ha affermato l’idea che “la contrattazione, come la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare in due occasioni, è manifestazione della libertà garantita dal primo comma dell’art. 39 alle pubbliche amministrazioni, al pari dei datori di lavoro privati” (così, ad esempio, in Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione. Oggi, cit., 681). A leggere, però, la motivazione della sentenza, non si rinviene l’affermazione esplicita circa l’asserito «radicamento» del contratto collettivo pubblico nella sopra richiamata garanzia costituzionale. Considera “decisamente riduttiva, per non dire fuorviante” la ricostruzione civilistica, che sarebbe stata avallata dalla Corte costituzionale, RUSCIANO, Contratto collettivo ed autonomia sindacale, cit., 237. 185 Rileva come la Corte costituzionale si sia dimostrata “particolarmente sensibile” agli argomenti della dottrina giuslavoristica RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, cit., 238. 292 quest’ultima richiamate a conferma della concezione privatistica da essa patrocinata quasi fideisticamente186. Si tratta ora di vedere — senza le lenti con filtro “privatizzante” montate dalla prevalente dottrina giuslavoristica, e sperando di non prendere abbagli pubblicistici — se e come le finalità della privatizzazione (riconducibili sinteticamente al concetto di efficienza della pubblica amministrazione) abbiano inciso sulla costruzione legislativa di un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale. 2.2 – La “legge sindacale” sulla contrattazione collettiva del pubblico impiego. Ed occorre partire da un dato di banalità quasi sconcertante, che, tuttavia, forse proprio per questo, non sembra essere stato adeguatamente valorizzato. Ed il dato banale è quello inerente alla vigenza — da una ben precisa data — di un’apposita “legge sindacale” ad hoc sulla contrattazione collettiva e sulla rappresentatività sindacale nelle pubbliche amministrazioni, inglobata nel d.lgs. n. 29 del 1993 ed ora nel d.lgs. n. 165 del 2001: una legge “che non dà per presupposto il sistema di contratta- 186 Cfr., da ultimo, RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, cit., 473: “La tesi a favore della natura privatistica del contratto collettivo […] ha ricevuto un autorevole avallo anche dalla Corte costituzionale […] che, investita del problema […], ha asserito il «radicamento» […] dell’autonomia collettiva di tale settore nella garanzia costituzionale dell’art. 39, 1° c., Cost.”. Il riferimento al «radicamento» è tratto da BARBIERI, nel già citato commento parzialmente critico alla sentenza n. 309 del 1997. Nello stesso senso, tra i tanti, cfr. MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema…, cit., pp. 59 ss. 293 zione collettiva, ma lo costruisce e lo disciplina compiutamente” 187. Una legge, oltretutto, temporanea e sperimentale (“fino a quando non vengano emanate norme di carattere generale sulla rappresentatività sindacale” 188), che si propone dichiaratamente come modello per una riforma della contrattazione collettiva e della rappresentatività sindacale del settore privato. A conferma del fatto che l’unificazione del lavoro pubblico e del lavoro privato — qui intesa come unificazione delle regole della contrattazione collettiva e della rappresentatività sindacale — non vi è stata ancora, e che, pertanto, già solo per questa ragione non può ancora parlarsi di un “diritto comune” della contrattazione collettiva e della rappresentatività sindacale nel lavoro pubblico e privato. Il che non ci esime dal verificare se il contratto collettivo per i dipendenti privatizzati — pur se assoggettato ad una disciplina del tutto particolare — condivida, con quello di diritto comune, natura giuridica e fondamento normativo, e sia, dunque, anch’esso espressione della libertà di organizzazione sindacale garantita dal primo comma dell’art. 39 Cost. 189 . Ma a tal fine occorre muovere, come detto, da quella vera e propria “legge sindacale”, racchiusa principalmente 187 Così, MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, cit., p. 349. 188 Art. 42, d.lgs. n. 165 del 2001. Sulla teorizzazione della 189 Come ritiene, con la dominante dottrina, da ultimo anche MARAZZA, Il contratto collettivo nel nuovo sistema del diritto comune del lavoro…, cit., in una monografia dal titolo significativo ai nostri fini. 294 (ma non solo190) nei dodici lunghi articoli di cui al titolo III, d.lgs. n. 165 del 2001: materiale normativo con cui si è edificato ex novo un sistema di contrattazione collettiva ad alto impatto ambientale. Ma una singolare coincidenza normativa sollecita l’apertura di una breve parentesi. Nella storia del diritto sindacale repubblicano ci si imbatte nuovamente in un nuovo titolo III, che, come quello dello statuto dei lavoratori, ha una funzione promozionale e di sostegno ai sindacati confederali191 . E come per il 190 Regolano la contrattazione collettiva nel settore pubblico numerose altre disposizioni dello stesso d.lgs. n. 165 del 2001. A parte l’art. 1, sulle finalità della riforma, l’art. 2, sulle fonti (che regola, al comma 2, i rapporti tra la legge ed il contratto collettivo, ed al comma 3 quelli tra contratto collettivo e contratto individuale, nonché, di nuovo, quelli tra legge e contratto collettivo, ma con riferimento specifico, stavolta, all’attribuzione dei trattamenti economici). Riguardano poi, direttamente o indirettamente, il contratto collettivo le disposizioni del titolo V, sul “controllo della spesa”, e alcune disposizioni del titolo VI, sulla giurisdizione (art. 63, comma 3, sulle controversie “collettive”; art. 64, sull’accertamento pregiudiziale su efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi”). Sono infine numerosi i rinvii al contratto collettivo per la disciplina di determinate materie (artt. 33 ss. sulle eccedenze di personale e la mobilità collettiva; art. 36, sulle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale; art. 52 sulla disciplina delle mansioni; art. 55 sulle sanzioni disciplinari). E non manca una previsione specifica di incompetenza, impropriamente qualificata come “inderogabilità” (art. 12bis, con riferimento agli incarichi dirigenziali). 191 È abbastanza comune il rilievo circa il sostegno della privatizzazione al sindacalismo confederale, tanto che da parte di diversi autori si è parlato di sindacalizzazione del pubblico impiego. Per una valutazione equilibrata si veda per tutti LISO (retro nota…). Sotto altro profilo deve però precisarsi che le norme in questione sono ritenute di natura “regolativa” e non “promozionale”, nel senso che le stesse non si limitano a promuovere nel pubblico impiego la contrattazione collettiva, ma la regolano eteronomamente, senza lasciare alcuno spazio negoziale a sindacati non individuati in base ai criteri eteronomi di legittimazione esclusiva alla contrattazione collettiva. In tal senso, TURSI, op. cit., p. 390. 295 titolo III dello statuto dei lavoratori si escluse la lesione della libertà sindacale dei sindacati non legittimati a costituire rappresentanze sindacali aziendali, argomentandosi dalla funzione “definitoria” e non “permissiva” dell’art. 19, l. n. 300 del 1970192 , così, con riferimento al titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001, si è esclusa la lesione della libertà sindacale delle pubbliche amministrazioni (trascurando quella dei pubblici dipendenti), argomentandosi dalla “funzione conformativa e non permissiva”193 di norme (considerate “di azione” e non “di relazione”) che si limiterebbero, per l’appunto, a “conformare” ab externo l’agire contrattuale delle pubbliche amministrazioni, sul presupposto che le stesse sarebbero comunque libere di “dare un assetto collettivo ai rapporti con i propri dipendenti mediante accordi con i sindacati”194. Si tratta, come detto, di un passaggio essenziale della dominante costruzione privatistica del contratto collettivo pubblico: una costruzione che crollerebbe istantaneamente se si dovesse invece ritenere che la contrattazione collettiva 192 Secondo l’interpretazione della dottrina (in particolare, GIUGNI…) desunta dalla motivazione della notissima Corte cost., che, per la verità, non faceva riferimento alla natura “permissiva” o “definitoria” dell’art. 19, l. n. 300 del 1970, ma comunque esprimeva quel concetto. Quell’interpretazione è stata in qualche modo sconfessata da Corte cost. n. 30 del 1990… E come la Corte costituzionale ha corretto il tiro sull’art. 19, reinterpretato in termini di norma permissiva e non soltanto definitoria192, così deve ritenersi che la regolamentazione eteronoma del contratto collettivo pubblico, con particolare riferimento ai criteri esclusivi di legittimazione negoziale, non abbia natura “conformativa”, bensì permissiva, nel senso che deve ritenersi vietata radicalmente vietata una contrattazione “fuori–legge”. 193 Così D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 258. 194 D’ANTONA, op. ult. cit., p. 258, e, da ultimo, PROIA, Il contratto collettivo fonte…, cit., p. 121. 296 delle pubbliche amministrazioni fosse espressione di un potere normativo e non di libertà negoziale. Ecco il perché dell’interesse spasmodico (manifestato soprattutto dal legislatore della seconda privatizzazione) per la libertà negoziale e sindacale delle pubbliche amministrazioni. Ma già si è detto come la prospettiva della libertà negoziale e sindacale delle pubbliche amministrazioni sia comunque una prospettiva del tutto parziale (perché trascura la prospettiva opposta, quella della libertà sindacale dei dipendenti pubblici); ed inficiata altresì da evidenti “forzature”, funzionale, com’è, all’esigenza impellente di giustificare la natura privatistica del contratto collettivo pubblico (che non sarebbe “toccato” da norme pubblicistiche di natura organizzativa, dirette solo a conformare la volontà negoziale, altrimenti libera, della parte pubblica) e di costituzionalizzarne l’efficacia generale (che sarebbe soltanto il riflesso indiretto dell’adempimento di obblighi legali gravanti sulla sola parte pubblica). Chiusa la parentesi, e nel riservarci di svolgere qualche ulteriore considerazione sul punto (a proposito del profilo di indagine relativo alla individuazione ex lege degli agenti negoziali di parte sindacale), riprendiamo ora la banale affermazione di inizio paragrafo, circa l’esistenza di un’apposita legge sindacale inglobata nel “testo unico” sulla privatizzazione del pubblico impiego. È infatti necessario chiedersi, a questo punto dell’indagine, quali siano i rapporti tra quella legge ed il principio di libertà di organizzazione sindacale di cui al primo comma dell’art. 39 Cost. 2.3 – La “porta di ingresso” della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico. 297 Se nessuno oggi può negare che il contratto collettivo, comunque lo si voglia considerare (un contratto collettivo “cosiddetto”195, “inautentico” e “fittizio”, una “caricatura” di quello privato 196, l’ennesimo “inganno” del legislatore illusionista197), abbia fatto il proprio ingresso, più o meno trionfale, nel lavoro pubblico198 non è però del tutto chiaro da quale porta esso sia entrato. La dottrina giuslavoristica dominante, fedele all’idea della privatizzazione come valore in sé, non ha mai avuto il benché minimo dubbio nell’individuare la «porta di ingresso» della contrattazione collettiva nel pubblico impiego nel primo comma dell’art. 39 Cost., in contrapposizione ad autorevole dottrina minoritaria (che certo non può essere tac195 G.U. RESCIGNO, La nuova disciplina del pubblico impiego…, cit., p. 560. 196 ROMAGNOLI, Il contratto collettivo…, cit., pp. 83 ss., intitola un paragrafo della sua relazione nelle citate giornate di studio Aidlass del 2000 al “contratto collettivo «inautentico»”. Ma già agli esordi della privatizzazione, in La revisione della disciplina del pubblico impiego…, cit., p. 243, aveva sottolineato come esso fosse una “caricatura” di quello privatistico, e come “la contrattazione collettiva nel p.i.” fosse “fittizia”, un “grande gioco simulato”, una “simulazione perfetta”, rispetto a quella imperfetta della legge quadro. 197 Di “inganno della contrattazione collettiva”, parla DAMIANI, Le fonti del diritto negoziate nel pubblico impiego, cit., 100, richiamando le stesse critiche che ORSI BATTAGLINI (in Gli accordi sindacali nel pubblico impiego, Giuffrè, Milano, 1982, 164), rivolgeva ai teorizzatori della natura contrattuale collettiva degli accordi sindacali di cui alla legge quadro. 198 Ma non si è trattato di un ingresso in pompa magna. Osserva infatti GRANDI, L’assetto della contrattazione collettiva…, cit., p. 576, che della pretesa “rivoluzione” nel regime delle fonti, esaltata da qualche “emozionato esegeta” non vi era traccia nella intitolazione dei testi normativi e nelle loro motivazioni. 298 ciata di insensibilità rispetto alle istanze di sistemazione dei rapporti di pubblico impiego all’interno della “struttura del contratto di lavoro subordinato”, che, anzi, fu tra le prime a promuovere199) secondo cui “la principale «porta di ingresso» della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico sia l’art. 97 Cost.”200, attirandosi, con ciò, l’“accusa” di avere evocato, “perfino in ambiente giuslavoristico”201, due spaventosi fantasmi pubblicistici: il fantasma della funzionalizzazione del contratto collettivo; il fantasma del contratto collettivo come fonte del diritto202. Nel prendere posizione sulla delicata questione della “porta di ingresso”, non si può non partire dalla “legge sindacale” sulla contrattazione collettiva e sulla rappresentatività sindacale nel lavoro pubblico: una legge che, prima della fatidica data di entrata in vigore del d.lgs. n. 293 del 1993, semplicemente non c’era, secondo un rilievo anch’esso apparentemente banale, ma da non trascurare. Ed invero, è da quella stessa data, e soltanto da essa, che il contratto collettivo (definito “fonte” dalla legge in questione) — stipulato da agenti negoziali individuati ex 199 RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, cit., 323: “attraverso il contratto di lavoro è possibile raggiungere l’obiettivo di un’agile utilizzazione della forza–lavoro così nell’impresa come fuori dell’impresa, come nelle amministrazioni pubbliche: di modo che esso può costituire la intelaiatura portante su cui innestare, all’occorrenza, discipline speciali, di fonte legale o contrattuale (collettiva)”. 200 RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 85. 201 D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 243. 202 Si veda per tutti, efficacemente, PROIA, Il contratto collettivo fonte…, cit., p. 127: “Esiste, nel patrimonio genetico del diritto del lavoro postacorporativo, un più che giustificato timore di evitare influenze pubblicistiche nella sfera della libertà di organizzazione sindacale e della sua attività negoziale”. 299 lege, sulle materie individuate ex lege, nei limiti di risorse destinate ex lege, con riferimento a comparti ed aree individuati (sulla base di criteri definiti) ex lege, all’esito di un procedimento disciplinato ex lege — è legittimato a disciplinare il rapporto di lavoro di tutti i dipendenti privatizzati con efficacia immediata203 e diretta204 garantita ex lege. La legge quadro, e le varie leggi “di settore” che ne avevano anticipato il modello, non avevano attribuito alla contrattazione collettiva analoga legittimazione a disciplinare immediatamente e direttamente il rapporto di lavoro pubblico: gli accordi sindacali formalizzati da quelle leggi avevano infatti una rilevanza meramente endoprocedimentale, ed il giudice delle leggi riteneva che essi fossero estranei alla “meccanica” dell’art. 39 Cost., che, di conseguenza, non costituiva “il parametro adatto a sindacare la con- 203 È dalla “data della sottoscrizione definitiva” che le pubbliche amministrazioni devono adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi” (art. 40, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001). 204 L’efficacia, intesa come efficacia erga omnes, è ritenuta “indiretta” ai soli fini della soluzione negativa del dubbio di incostituzionalità per contrasto con la seconda parte dell’art. 39 Cost. 300 formità della normativa impugnata ai dettami costituzionali”205. Ma al di là di ciò, non sembra proprio potesse in alcun modo parlarsi di riconoscimento dell’autonomia collettiva nel settore pubblico, posto che, giova ripeterlo, i sindacati non avevano alcuna legittimazione diretta a disciplinare i 205 Così Corte cost. 29 luglio 1982, n. 161, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale di una disposizione (art. 7, d.l. n. 264 del 1974, conv. In l. n. 386 del 1974) che vietava agli enti ospedalieri di corrispondere al personale dipendente compensi, proventi, indennità a qualsiasi titolo in eccedenza a quelli previsti da disposizioni di legge o dagli accordi nazionali, e sanzionava con la nullità gli accordi normativi ed economici a livello locale, provinciale e regionale che prevedessero parametri retributivi superiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali. La questione è stata ritenuta infondata “sia perché il legislatore ordinario non ha dato attuazione al comma 4 dell’art. 39 […] e, pertanto, non si é data vita a quella «registrazione» nella quale si risolve la legittimazione dei sindacati a stipulare, con gli ulteriori requisiti richiesti dal comma 4, contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, sia perché nulla ha la meccanica dell'art. 39 da vedere con il procedimento di elaborazione degli atti previsti nelle disposizioni impugnate”. La Corte ha invece ritenuto illegittima, per violazione della riserva di legge di cui all’art. 97 Cost., la previsione della nullità degli accordi locali, per contrasto con quelli nazionali, anche se futuri, perché essa attribuisce a detti accordi futuri “per i quali non sono delineate sufficienti garanzie quanto ai tempi e alle modalità di formazione […] l’autorità di atti idonei a porre nel nulla vuoi clausole di contratti individuali vuoi accordi a livello locale, provinciale e regionale, che concedono ai dipendenti migliori trattamenti retributivi”. Sembra dunque che per il giudice delle leggi la recezione degli accordi sindacali in fonti eteronome fosse costituzionalmente necessaria sia perché essi non rientrassero nella “meccanica” dell’art. 39, sia perché non fosse violata la riserva di legge in materia di organizzazione degli uffici (di cui veniva ritenuto profilo essenziale anche quello inerente alla determinazione del trattamento economico–normativo). 301 rapporti di pubblico impiego 206, trattandosi di rapporti espressamente “sottratti a contratto collettivo […] in quanto […] disciplinati con atti della pubblica autorità in conformità alla legge” 207, né una qualche generale legittimazione si riteneva potesse fondarsi direttamente sul principio di libertà di organizzazione sindacale di cui al primo comma dell’art. 39 Cost.208 Quella garanzia costituzionale poteva certo legittimare lo svolgimento di attività sindacale, l’esercizio del diritto di sciopero e dei diritti sindacali, la prassi 206 Si veda sul punto la monografia del 1975 di GHERA, Il pubblico impiego…, cit., pp. 40 ss., ove è richiamato l’art. 2068 c.c., sul divieto di regolare mediante contratto collettivo i rapporti di lavoro disciplinati con atti della pubblica autorità in conformità alla legge. 207 Sul punto, DELL’OLIO, Privatizzazione del pubblico impiego, in Enc.giur.Treccani, 1999, 1, che rileva come “la codificazione del 1942 […] fotografa(sse) l’esperienza caratterizzata dalla distinzione, sia sostanziale, sia di regime processuale, tra lavoro privato e pubblico”. 208 La sottrazione al contratto collettivo dei rapporti di impiego pubblico (art. 2068 cod. civ.) non risulta essere mai stata considerata incostituzionale per violazione del primo comma dell’art. 39 Cost.. E può altresì rilevarsi come il pubblico impiego fosse sottratto alla disciplina mediante contratto collettivo, anche in sede di attuazione (poi abortita) della seconda parte dell’art. 39 Cost., come risulta testualmente anche dalla Relazione al disegno di legge “Rubinacci”, presentato alla Camera dei deputati il 4 dicembre 1951 (in Riv.dir.lav., 1951, III, 86 ss. qui 104), sul presupposto che “fonte della disciplina del rapporto di lavoro (fosse), in via esclusiva la legge”. Pertanto, le disposizioni sul contratto collettivo non avrebbero trovato applicazione al pubblico impiego, essendo previste soltanto norme particolari sulla registrazione delle associazioni sindacali del pubblico impiego e sull’istituzione di una commissione consultiva in materia di trattamento economico. 302 di accordi sindacali informali, ma, certo, non una contrattazione collettiva con efficacia direttamente normativa209. Ma anche dopo la asserita “contrattualizzazione piena” del rapporto di pubblico impiego il legislatore non ha affatto legittimato e promosso indiscriminatamente una libera e “volontaria”210 contrattazione collettiva “di diritto comune”, “dagli esiti imprevedibili”, non ha, cioè, riconosciuto in via generale, l’autonomia collettiva nel settore pubblico, spalancando ad essa la «porta di ingresso» del primo comma dell’art. 39 Cost., cosicché essa irrompesse liberamente. Quella porta è rimasta rigorosamente chiusa 209 Cfr. Corte cost. 5 maggio 1980, n. 68, cit.: “è innegabile che, già in dipendenza delle norme contenute negli artt. 39 e 40 della Costituzione, si afferma senz’altro una condizione di fondamentale eguaglianza (ndr: tra lavoratori pubblici e privati): ciò vale innanzitutto per i diritti che ne discendono in via diretta […] prima di ogni ulteriore specificazione normativa […]. Un significativo riconoscimento dello status sindacale spettante alle associazioni dei dipendenti pubblici si è poi avuto […] con l’introduzione della contrattazione collettiva nell’ambito del pubblico impiego: anche se (e costituisce differenza molto notevole) gli esiti della contrattazione non sono qui immediatamente operativi, dovendo essere assunti in un autonomo atto del potere esecutivo”. Per la dottrina, cfr., per tutti, ancora GHERA, op. ult. cit., p. 56, ed ivi il rilievo (era il 1975) che “tale prassi deve considerarsi ormai consolidata non soltanto per effetto della garanzia riconosciuta alla libertà sindacale dei pubblici dipendenti, ma altresì per una direttiva di politica sindacale del governo e dei responsabili politici degli Enti locali”. Una prassi, aggiungeva l’A., “perfettamente legittima dato che la riserva di legge sancita dall’art. 97 Cost. concerne l’ordinamento dei pubblici uffici e non il trattamento economico e normativo del personale”. 210 Coglie criticamente quest’aspetto, e si pone un problema che la prevalente dottrina giuslavoristica ha accantonato, TURSI, Libertà sindacale e soggettività negoziale…, cit., pp. 390 ss., secondo cui il legislatore (con scelta dall’A. non condivisa, e ritenuta incostituzionale per violazione del primo comma dell’art. 39) avrebbe dato una “configurazione della disciplina legale della contrattazione collettiva in chiave «regolativa» e non «promozionale» dell’autonomia collettiva”. 303 ed il legislatore della privatizzazione si è limitato a legittimare, come fonte esclusiva di disciplina del rapporto, un unico sistema di contrattazione collettiva: quello che, esso legislatore medesimo, ha istituito ex novo, assoggettandolo ad un “regime totalitario” ed onnipotente, che non ammette, all’infuori di sé, espressioni spontanee, “volontarie” o alternative di autonomia collettiva, che pretendessero di “autolegittimarsi” sulla base del primo comma dell’art. 39. Anche dopo la privatizzazione (prima o seconda che essa sia) continua dunque ad essere “conculcata la libertà di stipulare contratti collettivi di diritto comune”, ed a non essere ammessa “una contrattazione «volontaria» priva di efficacia erga omnes”211. Ma se è così, sembra uscirne avvalorata l’idea che anche quell’unico sistema di contrattazione collettiva legittimato a disciplinare — sulla base di una disciplina eteronoma estremamente invasiva — il rapporto di impiego privatizzato abbia esclusivo fondamento nella legge che lo ha istituito ex novo, e non già nel primo comma dell’art. 39 211 TURSI, op. cit., p. 391 (da cui sono tratte le frasi virgolettate). 304 Cost., e sia, dunque, espressione di un potere normativo delegato ex lege, e non già di autonomia collettiva212. Senza quella legge (ed al di fuori di quella legge) la contrattazione collettiva non avrebbe legittimazione alcuna a disciplinare direttamente il rapporto di pubblico impiego, così come non l’aveva in precedenza. A ritenere il contrario, muovendo, dunque, dall’assunto (dominante nella dottrina giuslavoristica) che la contrattazione collettiva nel pubblico impiego abbia fondamento nel principio di cui al primo comma dell’art. 39 Cost. — dovrebbe supporsi non solo che fosse costituzionalmente illegittimo, per violazione di quel principio, il vecchio regime delle fonti del pubblico impiego (antecedente alla privatizzazione), che imprigionava gli accordi sindacali in un procedimento pubblicistico, e prevedeva criteri eteronomi 212 Di “realizzazione di quella che, capovolgendo una celebre definizione, o immagine […] si potrebbe chiamare l’«anima di contratto»” parla DELL’OLIO, Privatizzazione del pubblico impiego, cit., 5, richiamando F. SANTORO PASSARELLI (Legislazione del lavoro, Lezioni raccolte da G. Benettin, Padova, 1936, 4 ss.) e la sua risposta “d’epoca” a CARNELUTTI (Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1928): un dialogo che aveva ad oggetto, non a caso, il contratto corporativo, della cui natura giuridica si discusse a lungo (per una analitica esposizione delle teorie sulla natura giuridica del contratto collettivo di lavoro si veda per tutti GUIDOTTI, Il contratto collettivo di lavoro nel diritto corporativo, Roma, 1935, 63 ss.), ma che poi il legislatore del 1942 inserì tra le norme corporative ed indicò tra le fonti (artt. 1 e 5, disp. prel. cod. civ.). 305 per la formazione delle delegazioni di parte sindacale213; ma anche che sia costituzionalmente illegittimo, per la stessa ragione, l’attuale regime della contrattazione collettiva del pubblico impiego, per l’evidente incompatibilità tra il principio di libertà di organizzazione sindacale e la regolamentazione eteronoma, intensiva, invasiva, asfissiante, mo- 213 “Dubbi retrospettivi di costituzionalità”, con riferimento all’assetto normativo previgente, sono ricordati da BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione collettiva, cit., 446. ed ivi riferimenti alla dottrina che li aveva sollevati (nt. 144). Già con riferimento alle leggi di settore anticipatorie della legge quadro GIUGNI osservava (in Commento all’art. 39 Cost. in Commentario cost. Branca, Bologna–Roma, 1979, 281) come “la legge possa determinare i modi e le condizioni con cui i soggetti pubblici svolgono l’attività contrattuale, mentre apparirebbe invece illegittima la posizione di norme al comportamento negoziale dei sindacati”. Lo stesso concetto è stato ripreso dall’A., (in La contrattazione collettiva nell’impiego pubblico in Italia, in AA.VV., In memoriam Sir Otto Kahn–Freund, Beck, München, 1980, 111), con riferimento ai lavori preparatori della legge quadro: “qualche dubbio può avanzarsi sotto il profilo della legittimità costituzionale”, essendo discutibile che al legislatore “competa di dettare norme circa la composizione del soggetto sindacale, il quale resta sempre un soggetto privato che rientra nella garanzia ex art. 39 Cost., che si ritiene coprire anche i comportamenti contrattuali”. 306 nopolistica di un sistema di contrattazione collettiva che pretenda di fondarsi proprio sul quel principio214. Una regolamentazione eteronoma della contrattazione collettiva, in un sistema che fosse effettivamente fondato sul primo comma dell’art. 39 Cost., sarebbe possibile solo se quella regolamentazione eteronoma fosse la “maniera”, conforme alla seconda parte dell’art. 39, per conseguire il 214 Si tratta di un profilo che la dottrina giuslavoristica sembra avere un po’ sottovalutato. Con rigorosa coerenza rispetto alle premesse, cfr. BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione collettiva…, cit., p. 451, che ritiene incostituzionale il sistema di contrattazione collettiva del pubblico impiego per contrasto con il primo comma dell’art. 39, in via principale, con riferimento alla “selezione dei soggetti sindacali a monte della negoziazione” (p. 450), ed in via subordinata con riferimento alle norme che “dissociano ambito di misurazione della rappresentatività ed ambito della legittimazione negoziale”. Si veda anche TURSI, Libertà sindacale e soggettività neoziale, cit. 394, Proprio sul presupposto dell’assoluta incompatibilità con il principio di libertà di organizzazione sindacale giunge ad escludere la stessa “esistenza nel pubblico impiego dell’istituto della contrattazione collettiva” DAMIANI, Le fonti del diritto negoziate nel pubblico impiego, cit., 9, osservando che “i nomi non solo la sostanza delle cose” e che la contrattualizzazione del pubblico impiego sarebbe un vero e proprio “inganno”, per l’assoluta incompatibilità con i principi di libertà che informano la contrattazione collettiva di diritto comune. 307 “risultato” dell’efficacia generale del contratto collettivo215. Detto diversamente, nel nostro ordinamento la sola regolamentazione “sistemica” della contrattazione collettiva (e della legittimazione negoziale alla stessa) costituzionalmente tollerabile — che, cioè, non contrasti con il primo 215 Sono richiamate nel testo le famose, ma sempre più vane, parole di Corte Cost. n. 106 del 1962. Ma in ogni caso, per non essere in contrasto con il principio di libertà sindacale, la legislazione attuativa della seconda parte dell’art. 39 non dovrebbe arrivare “mai ad escludere lo spazio garantito dal primo comma all’autonomia organizzativa dei sindacati ed alla contrattazione volontaria” (così, D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione. Oggi, cit., 670). Osserva TURSI, op. cit., p. 392, come D’ANTONA avesse però contraddetto quella condivisibile affermazione con il rilevare (nello stesso saggio) che “il modello costituzionale della seconda parte dell’art. 39 fonda sulla legge, non solo l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, ma lo stesso potere contrattuale dei sindacati”. Può essere interessante ricordare al riguardo come nella Relazione al disegno di legge “Rubinacci” di attuazione dell’art. 39 Cost. presentato alla Camera dei deputati il 4 dicembre 1951 (in Riv.dir.lav., 1951, III, 86 ss. qui 112), si affermasse espressamente che “la possibilità di accordi, fondati sul principio della rappresentanza, e sforniti di validità erga omnes, non può essere negata, solo che si consideri che la libertà contrattuale è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico”. Nel pubblico impiego, come vedremo, è invece radicalmente preclusa la possibilità di accordi fondati sul principio della rappresentanza volontaria e sforniti di validità erga omnes. 308 comma dell’art. 39 Cost.216 — sarebbe quella che venisse disposta in attuazione della seconda parte dello stesso arti- 216 Ciò, ovviamente, alla condizione che non si muova dal presupposto che l’art. 39 Cost. sia “una norma sbagliata”, per il fatto di imporre al sindacato, come corrispettivo dell’efficacia erga omnes, “un prezzo ulteriore, una perdita ulteriore di libertà”, ritenuta “assolutamente superflua”, con la conseguenza un po’ paradossale che l’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. comporterebbe violazione del primo comma. Era questa l’opinione di MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», in Riv.trim.dir.proc.civ., 1963, sul punto p. 572, condivisa da ultimo da PERSIANI, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, in Arg.dir.lav. 2004, 20, che evoca anche il fondamentale insegnamento di F. SANTORO PASSARELLI, Autonomia collettiva e libertà sindacale, in Ordinamento e diritto civile. Ultimi saggi, Napoli, 1988, 265, secondo cui “nello spirito di libertà, la previsione non ha trovato attuazione”. La tesi secondo cui “tra il primo comma e la restante parte dell’art. 39 Costituzione esiste una aperta contraddizione, e che l’inattuazione costituzionale ne sarebbe l’inevitabile conseguenza”, viene criticata da D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione oggi., cit., p. 670, che richiamava a sostegno GIUGNI (in Commento all’art. 39 Cost…, cit., p. 260), ed in particolare il rilievo che “la norma costituzionale non può nello stesso momento affermare e negare se stessa”. La questione relativa al “dilemma legislativo se violare il primo o l’ultimo comma dell’art. 39 Cost.” era stata però già posta da MAZZARELLI, Parere, in Riv.giur.lav., 1959, I, 179. Si veda sul punto PERA, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, cit., 59, secondo cui quel “dilemma” andava risolto “sulla base del canone della interpretazione complessiva del precetto […] onde la libertà inizialmente affermata è suscettiva di ridursi concretamente di quel tanto o di quel poco che il complessivo congegno esige”. 309 colo 217: un’attuazione cui conseguirebbe l’effetto dell’istituzione di una nuova fonte del diritto, almeno a voler dar 217 Cfr. Corte cost. 30 luglio 1980, n. 141, in Giur.cost., 1980, I, 1164: “sino a quando non sarà disciplinata la loro registrazione, l’individuazione dei sindacati legittimati alla contrattazione collettiva (collettiva nel senso che alla parola può essere riconosciuto a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo) non può non essere affidata al gioco delle forze sociali”. Richiama “l’impegno dell’ordinamento statuale al rispetto delle «regole del gioco» enucleate dall’analisi giuridica dell’ordinamento intersindacale”, LIEBMAN, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, Giuffrè, Milano, 1986, 93 ss., secondo cui “l’ampiezza del riconoscimento contenuto nella previsione di cui agli articoli 39 e 40, come anche, e significativamente, la rinuncia ad una successiva legislazione attuativa dei medesimi, sembrano postulare la piena disponibilità dell’ordinamento stesso a recepire i materiali normativi prodotti nello specifico ambito intersindacale. Ciò dovrà peraltro avvenire nel più assoluto rispetto di quella stessa logica che ha presieduto allo svolgersi della dinamica endosindacale, limitandosi a ricrearli, nel proprio ambito, secondo un diverso sistema valutativo, ma col preciso impegno di non sravolgere il particolare significato che essi assumono sul piano intersindacale”. 310 credito ai costituzionalisti218 , che le fonti le studiano “per 218 Da ultimo, MARTINES, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, 74. Ma si vedano già CRISAFULLI, Fonti del diritto (dir.cost.), in Enc.dir., Giuffrè, Milano, 1968, 938, SANDULLI, Fonti del diritto, in Novissimo Dig.it., 1957, 532 (“non può esser dubbio che i contratti collettivi — imponendosene l’osservanza ai singoli indipendentemente dal consenso di questi — verrano a collocarsi nel sistema delle fonti come manifestazioni di un potere autoritàtivo, e cioè come atti di diritto pubblico”). Peraltro, secondo l’illustre autore quella qualificazione è indipendente “dalla circostanza che alle associazioni professionali e alle rappresentanza di esse abilitate alla stipulazione dei contratti si riconosca la qualifica di enti o organi pubblici”. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1976, che qualificava i contratti di cui all’art. 39 Cost. seconda parte come contratti collettivi di diritto pubblico (“l’efficacia erga omnes nel senso ora visto, propria dei contratti collettivi di diritto pubblico, conferisce loro natura e funzione di legge: legge che si sottrae al potere autoritario dello stato–apparato, non solo perché l’intervento dall’alto non riuscirebbe ad aderire in modo adeguato alle mutevoli ed infinitamente varie situazioni particolari alle quali la regolamentazione deve riferirsi, ma anche e sopratutto perché si vuole che tale regolamentazione emerga dialetticamente dal contrasto dei rispettivi punti di vista delle parti interessate, stimolandole alla comprensione delle reciproche posizioni e possibilità”). Dalle parole degli illustri costituzionalisti richiamati emerge, dunque, piena consapevolezza della specificità del contratto collettivo e pieno riconoscimento e rispetto per l’autonomia contrattuale dei sindacati e delle loro rappresentanze, che ben possono rimanere soggetti privati; nondimento essi non possono fare a meno di qualificare quel contratto collettivo “virtuale” ad effetti erga omnes come fonte del diritto. 311 mestiere”219, ma con i quali, per una sorta di “orgoglio giuslavoristico” 220, si è poco propensi a dialogare221, salvo meritorie eccezioni222 , riservandosi una sorta di esclusiva della qualificazione della “loro” fonte, o ritenendo “inutile 219 PIZZORUSSO, Le fonti del diritto del lavoro, in Riv.it.dir.lav., 1990, I, 15 ss.: “Negli ultimi cinquant’anni, invece, il compito di studiare in modo sistematico il tema delle fonti è stato assunto con sempre maggiore impegno dagli studiosi di diritto costituzionale, cui esso è stato progressivamente abbandonato da parte dei privatisti, ed anche i cultori delle discipline giuridiche specialistiche hanno cominciato a fare sempre più spesso rinvio all’elaborazione che di questo tema viene fatta unitariamente nell’ambito degli studi costituzionalistici”. Come esempio di riconoscimento della competenza per materia dei costituzionalisti l’A. cita GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 54, che la dottrina giuslavoristica dominante considera uno dei padri della privatizzazione del pubblico impiego. 220 Secondo la fortunata espressione di MONTUSCHI…, sia pure a propo- sito… 221 SPEZIALE, Il contratto collettivo come fonte del diritto, in Atti delle già citate giornate di studio Aidlass del 2001, 231, dice di avere “trovato una lacuna nella mancanza di un confronto con quella che è la dottrina costituzionale in materia di fonti”, osservando giustamente che “è impossibile cercare di qualificare il contratto collettivo come fonte del diritto prescindendo dall’analisi dei principi e dei criteri elaborati dall’opera interpretativa della dottrina costituzionalistica al fine di individuare i caratteri costitutivi di un atto normativo”. Ma poi l’A. non colma quella lacuna e sembra sottrarsi al confronto proprio a proposito della qualificazione del contratto collettivo del pubblico impiego: qualificazione che l’A. elude del tutto, limitandosi a considerare fonti del diritto i contratti collettivi con funzione “paralegislativa” (che, cioè, definiscono “una fattispecie normativa che legittimerà la stipula di un certo tipo di contratto a termine o di lavoro temporaneo”). L’A., del resto, ha proposto una lettura estremamente riduttiva della natura giuridica del contratto collettivo pubblico, quanto, in particolare, alla funzione di delegificazione ad esso assegnata dal legislatore. 222 Il riferimento è alla già citata relazione di BARBERA nelle giornate di studio Aidlass del 2001. 312 enfatizzare il problema classificatorio” 223, anche per non correre il rischio di una qualificazione “indesiderata”, che non consenta di preservare il valore originario dell’autonomia collettiva224. Per avere una prova immediata dell’incompatibilità con il primo comma dell’art. 39 Cost. del modello di disciplina eteronoma del contratto collettivo, vigente nel settore pubblico (e, nello stesso tempo, la prova che non è certo in quel primo comma che può avere fondamento la contrattazione collettiva del settore pubblico) è sufficiente immaginare gli effetti della trasposizione di quel modello nel settore privato, l’introduzione di analoghi limiti eteronomi (ed in particolare di analoghi criteri di selezione dei soggetti legittimati) alla contrattazione collettiva di diritto comune del settore privato, il cui fondamento nel primo comma dell’art. 39 Cost. è, ovviamente, fuori discussione. Nessuno dubiterebbe un solo istante, crediamo, di trovarsi di fronte ad una conclamata ed intollerabile violazione del principio 223 ZOPPOLI, Introduzione, alla sessione speciale sul Contratto collettivo,in Atti delle già citate giornate di studio Aidlass del 2001, 71, che emblematicamente sottolinea allo stesso tempo le “insidie del discorso giuridico delle fonti” e le “«qualità» ineliminabili del contratto collettivo”. 224 PROIA, Il contratto collettivo fonte…, cit.: “la prospettiva giuspubblicistica è di per sé estranea allo studio della contrattazione collettiva, quale esercizio di autonomia privata”. L’A. non si sottrae però al compito di verificare se l’intensificarsi del “processo di integrazione–interrelazione tra legge e contratto collettivo […] abbia o no finito per determinare un’alterazione della funzione dell’autonomia collettiva”, concludendo per la negativa, e cioè che “la funzione del contratto collettivo resta quella, unitaria, delal composizione degli interessi contrapposti tra datori di lavoro e lavoratori”. 313 di libertà di organizzazione sindacale225. Ed è stata questa la ragione forse principale per cui non ha avuto seguito il progetto di unificare le fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico e privato, secondo il modello, dichiaratamente sperimentale e “transitorio”, 226 delle norme sulla contrattazione collettiva e sulla rappresentatività sindacale nel pubblico impiego. Ed appare altresì chiara la ragione per cui buona parte della dottrina giuslavoristica che ritiene (in base al pregiudizio privatistico più volte rilevato) di fondare la contrattazione collettiva del pubblico impiego sul principio di cui al primo comma dell’art. 39, si trova poi costretta a giustificare la compatibilità con quel principio della regolamentazione eteronoma cui essa è assoggettata, attraverso un’interpretazione minimalista della stessa: come se essa fosse da considerare nulla più che una sorta di libretto di istruzioni 225 PROIA, Il contratto collettivo fonte, cit., 113: “nel nostro ordinamento […] non è rinvenibile, né forse è consentita, una pretederminazione eteronoma di cosa è il contratto collettivo, né, tantomeno, di quali funzioni esso possa assolvere o quali contenuto debbano caratterizzarlo”. 226 Per tutti, F. CARINCI, Concertazione e rappresentatività sindacale (a proposito di due recenti testi), in Lav.pubbl.amm., 1998, 1023 e, da ultimo, DE MARINIS, Rappresentanza e rappresentatività…, cit., p. 425. 314 ad uso “interno” delle pubbliche amministrazioni227. E la medesima dottrina è poi ulteriormente “costretta” a porsi il falso problema se, per caso, quelle istruzioni cosi dettagliate non fossero lesive della libertà di organizzazione sindacale delle pubbliche amministrazioni: falso problema risolto grazie al brillante espediente, implicitamente avallato dal giudice delle leggi, della “norma di organizzazione interna” (o del libretto di istruzioni in forma enciclopedica che dir si voglia). Un espediente che ha avuto anche il pregio di distogliere l’attenzione dal “vero problema” in cui si imbatte chi ritenga di fondare la contrattazione collettiva nel pubblico impiego sul primo comma dell’art. 39 Cost.: il problema della (in)compatibilità tra “legittimazione negoziale esclu- 227 Ha la stessa funzione (giustificare le limitazioni ed i vincoli che subisce il sindacato che contragga con la pubblica amministrazione nell’asserito esercizio della propria autonomia negoziale) il richiamo al contratto ad evidenza pubblica (da ultimo, MARAZZA, op. cit.). Ma sul punto appaiono insuperabili gli acuti rilievi critici di BARBIERI (in Problemi costituzionali della contrattazione collettiva…, cit., p. 452): “la situazione soggettiva tutelata dall’art. 39, co. 1, infatti, non ha assolutamente paragone nella (mancanza) di tutela a livello costituzionale dell’imprenditore privato interessato a contrarre con lka pubblica amministrazione, la quale ultima può dunque imporre, anche ex lege, tutte le clausole e gli oneri che si ritengano motivate dall’interesse pubblico, e valga per tutti l’esempio dell’iscrizione all’Albo nazionale dei costruttori […] (che) non comprime la libertà di iniziativa economica privata, garantita ex art. 41 Cost., nei limiti che lo stesso art. 41 prevede. Viceversa l’art. 39, co. 1, garantisce una situazione giuridica soggettiva attiva che non si presta, nell’ordinamento dello Stato, a quei «programmi» e «controlli» idonei a indirizzarla e coordinarla a fini sociali”. 315 siva e libertà sindacale”228. Libertà sindacale dal lato “giusto”, s’intende, che è quello dei dipendenti pubblici e non delle pubbliche amministrazioni. Se poi si ritenesse che — nel settore pubblico — quei fortissimi limiti eteronomi all’autonomia collettiva (dei sindacati) fossero imposti dalla necessità di realizzare l’interesse pubblico, si finirebbe per dare credito all’opposta tesi della funzionalizzazione del contratto collettivo. Prenderemo posizione su quest’ultimo punto nel paragrafo successivo, mentre il presente può chiudersi con una prima conclusione: ed è che la contrattazione collettiva nel lavoro pubblico sembra fondarsi non già (come ritenuto dalla dottrina giuslavoristica prevalente) sul primo comma dell’art. 39 Cost., ma sullo stesso d.lgs. n. 165 del 2001, che ha istituito ex novo una fonte negoziale (o negoziata) di disciplina del rapporto di pubblico impiego che prima, semplicemente, non c’era. Ciò non significa ancora che la “porta di ingresso” della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico si trovi nell’art. 97 Cost., e che, pertanto, la stessa debba ritenersi funzionalizzata al buon andamento della pubblica ammini228 Così, TURSI, op. cit., 394, secondo cui il modello della contrattazione collettiva del pubblico impiego “almeno nella parte in cui seleziona i soggetti negoziali in base ad un criterio di rappresentatività […] che comporta l’esclusione dei soggetti sindacali effettivi, ma, in ipotesi, insufficientemente rappresentativi nel comparto o nell’area individuate come rilevanti dal modello medesimo, impatti sia nel comma 1 che nel comma 2 dell’art. 39 Cost.”. Un modello che, attraverso i due filtri (ai fini dell’accesso alle trattative e della sottoscrizione definitiva dell’ipotesi di accordo) “crea una spessa gabbia protettiva della contrattazione collettiva nei confronti dei «rischi» del pluralismo sindacale […], ovvero del rischio che la pubblica amministrazione non sappia esercitare efficacemente la libertà negoziale che le è stata conferita proprio dal d.lgs. n. 29/1993”. Si veda anche la già riferita posizione di BARBIERI, in nota… 316 strazione (secondo l’autorevole tesi minoritaria, sopra richiamata); ma certamente significa che, quantomeno, quell’ingresso non era impedito o ostacolato dalla riserva di legge in materia di organizzazione degli uffici, come la Corte costituzionale ha già avuto modo di “certificare”. 317 2.4 – Finalità della privatizzazione e ruolo della contrattazione collettiva. Si tratta dunque di verificare se l’art. 97 si limiti a dare “via libera” alla contrattazione collettiva nel pubblico impiego ovvero assegni ad essa la funzione di assicurare il buon andamento delle pubbliche amministrazioni. Un insospettato aiuto alla tesi della funzionalizzazione del contratto collettivo sembra venire, paradossalmente, proprio da quella stessa sentenza della Corte costituzionale che, secondo la prevalente dottrina giuslavorista ne avrebbe sancito il “radicamento” nella garanzia del primo comma dell’art. 39 Cost.229: una garanzia che, come è noto, è incompatibile con qualsiasi ipotesi di funzionalizzazione del contratto collettivo. Ed invero, nella motivazione della sentenza in questione non si rinviene traccia alcuna del “radicamento” ipotizzato dalla dottrina, ed in particolare non si rinviene il benché minimo riferimento al principio di libertà di organizzazione sindacale e tanto meno si legge (o si ricava in qualche modo) che la contrattazione collettiva del pubblico impiego avrebbe fondamento in quel principio o sarebbe espressione di “autonomia collettiva” (sintagma assente dalla motivazione). Nella stessa sentenza sembrano piuttosto rinvenirsi tracce evidenti di fuzionalizzazione del contratto collettivo, laddove la Corte, prendendo atto dell’abbandono dello statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, non imposto dall’art. 97, osserva come “attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici […] il legislatore abbia inteso garantire, senza pregiudizio dell’imparzialità, anche il valore 229 Richiama da ultimo adesivamente tale dottrina RICCI… 318 dell’efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione”. Un nuovo assetto delle “fonti regolatrici” di cui “la Corte ha sottolineato il carattere strumentale rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione”230. Ed effettivamente il carattere “strumentale” del nuovo regime delle fonti del pubblico impiego — già chiaramente scolpito in quel principio di salvezza dei “limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate”, che non è stato possibile cancellare231 — trova inequivocabile conferma nel “combinato disposto” della disposizione sul- 230 Citazioni testuali tratte dalla motivazione della sentenza. Ma il corsivo è nostro. 231 Art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 421 del 1992, che fa salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali sia rispetto alla riconduzione dei rapporti di pubblico impiego sotto la disciplina del diritto civile (privatizzazione), sia rispetto alla regolazione di essi “mediante contratti individuali e collettivi” (contrattualizzazione). Come è noto, quella norma di “salvezza” era stata riprodotta testualmente dall’art. 2 d.lgs. n. 546 del 1993 nell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993 (sia pure in relazione al solo profilo della riconduzione sotto la disciplina del diritto civile). Era stata così cancellata e sostituita la “famigerata” norma originaria sulla compatibilità, di quella riconduzione, con la specialità del rapporto: norma originaria che autorevole dottrina aveva ritenuto incostituzionale per eccesso di delega (PERSIANI, Prime osservazioni…, cit., p. 249), pur nell’ambito di una forte valorizzazione interpretativa del “richiamo agli interessi generali”, di cui alla legge delega, richiamo che “non è affatto superfluo e, anzi, ha e conserva un significato determinante”. Come specificheremo nelle due note che seguono, il richiamo agli “interessi generali” è stato poi soppresso nell’ambito della seconda privatizzazione, ma è rimasto nella legge delega originaria. 319 le “finalità” (art. 1), e di quella, immediatamente successiva, sulle “fonti”. Le prime parole del legislatore non sembrano ammettere dubbi: “Le disposizioni del presente decreto” — ed il riferimento non può che comprendere anche la norma fondamentale (art. 2) che regola le “fonti”, compresa la fonte di produzione delle norme che disciplinano i rapporti di lavoro privilegiata dal legislatore — “disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego al fine di […]”. Segue l’elenco delle finalità, nessuna delle quali, come si è già rilevato nel primo capitolo, è riferibile alla tutela del dipendente pubblico come lavoratore subordinato, mentre tutte sono riferibili all’interesse della pubblica amministrazione. Certo, il legislatore della seconda privatizzazione — con “metodo nominalistico” — ha cercato, per così dire, di fare sparire le tracce più evidenti del delitto di lesa autono- 320 mia collettiva 232, che ha imputato alle incertezze ed ai compromessi della prima privatizzazione. Ma, nonostante il “depistaggio” legislativo, e la “copertura” di parte della dottrina giuslavoristica, le tracce più evidenti non sono state cancellate233, ed, anzi, nel tornare sul luogo del delitto, il 232 Con la seconda privatizzazione sono state cancellate le seguenti tracce di funzionalizzazione del contratto collettivo: è stata espunta dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993 (recante il rinvio, per la disciplina del rapporto, alle disposizioni codice civile e delle leggi speciali sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa) la clausola di salvezza dei “limiti stabiliti dal presente decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono indirizzate” (art. 2, d.lgs. n. 80 del 1998); è stato espunto l’originario riferimento di cui all’art. 45, comma 4, d.lgs. n. 29 del 1993 alla “finalizzazione” della contrattazione collettiva decentrata “al contemperamento tra le esigenze organizzative, la tutela dei dipendenti e l’interesse degli utenti” (art. 1, d.lgs. n. 396 del 1997 e 43, comma1, d.lgs. n. 80 del 1998). Inoltre, il legislatore ha tentato di attenuare, senza peraltro riuscirvi del tutto, il carattere eteronomo di alcune disposizioni sul sistema di contrattazione collettiva (comparti, materie e livelli). È sparito il riferimento iniziale di cui all’allora art. 45, d.lgs. n. 29 del 1993 ai due livelli di contrattazione “nazionale e decentrata”, e l’art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001, prevede ora che “la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi, la struttura contrattuale ed i rapporti tra i diversi livelli” siano disciplinati dalla contrattazione nazionale “in coerenza con il settore privato”. Ma appare evidente che anche questa è una direttiva eteronoma impartita dal legislatore agli agenti contrattuali. 233 Non poteva ovviamente essere cancellata la norma sulle finalità della privatizzazione e della contrattualizzazione (art. 1). Non è stata cancellata dalla seconda legge delega la norma di cui alla prima [art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 421 del 1992], che fa “salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioniu sono indirizzate”. Più in generale, non è stato modificato l’impianto complessivo del sistema di contrattazione collettiva, regolato come vero e proprio sistema di produzione di norme giuridiche nelle materie che la legge attribuisce alla competenza della contrattazione collettiva. E solo la strumentalizzazione ad un superiore e soverchiante interesse pubblico poteva giustificare una regolamentazione eteronoma così invadente, finalizzata al massimo controllo centralizzato della spesa per il personale. 321 legislatore della seconda privatizzazione ne ha lasciate di nuove234. 2.5 – La “funzione” del contratto collettivo pubblico come fonte legale di disciplina del rapporto. Abbiamo rilevato sin qui che le finalità pubblicistiche della riforma hanno certamente condizionato in modo decisivo la regolamentazione eteronoma della neo istituita fonte di disciplina del rapporto di pubblico impiego. Ma con ciò è rimasta impregiudicata la questione relativa alla funzione del contratto collettivo: che le fonti di disciplina del pubblico impiego siano state regolate per il perseguimento dichiarato di determinate finalità pubblicistiche non significa necessariamente che il contratto collettivo (quale fonte “privilegiata”) sia “funzionalizzato”, debba, cioè, direttamente perseguire quelle finalità pubblicistiche, cosicché debba ipotizzarsi una necessaria convergenza di interessi tra le parti contrapposte legittimate a stipularlo, nel senso che entrambe debbano ritenersi vincolate allo stesso modo ad assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione. Quelle finalità illustrano dichiaratamente, e, perciò, incontrovertibilmente “le intenzioni del legislatore” 235, in modo da non lasciare spazio interpretativo ad altre intenzioni, non dichiarate o inconfessate, e da fornire una com234 Intendiamo riferirci alle misure deflative del contenzioso, introdotte dal d.lgs. n. 80 del 1998, che incidono sul contratto collettivo, enfatizzando l’attitudine delle norme da esso poste ad operare come vere e proprie norme giuridiche (si veda infra, par…). 235 TREU, Le finalità della riforma del lavoro pubblico, cit. 9. 322 plessiva chiave di lettura delle singole norme. Ma se il legislatore ha espresso chiaramente quale sia la “funzione” complessiva della riforma, cioè della scelta legislativa di privatizzare e di contrattualizzare il rapporto di pubblico impiego (funzione riconducibile al concetto di efficienza della pubblica amministrazione) non può ritenersi automaticamente che quella funzione coincida con quella, specifica, assegnata al contratto collettivo. Una cosa è la ratio legis in base alla quale viene istituita e regolata una nuova fonte, altra cosa è la funzione specifica che la legge assegna alla fonte medesima. Ora, la funzione specifica che la legge assegna al contratto collettivo, come “fonte” — funzione del tutto identica a quella svolta dalle fonti eteronome di cui prende il posto — è quella di disciplinare uniformemente il rapporto di lavoro pubblico 236, nei modi e secondo i criteri espressamente stabiliti dalla legge medesima per il perseguimento delle indicate finalità pubblicistiche. Certo, se si scinde, come pare necessario, la posizione delle parti negoziali non può non ritenersi funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico l’attività contrat- 236 Peraltro, la regolamentazione “uniforme” non è caratteristica indefettibile della fonte contratto collettivo, come dimostrano i precedenti storici del contratto collettivo corporativo, e del contratto–decreto legislativo di cui alla l. n. 741 del 1959, che ammettevano deroghe migliorative da parte del contratto individuale, dando luogo, in tal modo, ad una regolamentazione assai meno forte ed uniforme di quella (blindata) derivante dal contratto collettivo pubblico. 323 tuale delle pubbliche amministrazioni237 . Del resto, le stesse confederazioni che hanno “non disinteressatamente” patrocinato la “contrattualizzazione piena” del rapporto di pubblico impiego non nutrivano dubbio alcuno sul fatto che — dal punto di vista “datoriale” — la contrattazione collettiva dovesse essere funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico 238, e non sembravano aver ancora assimilato l’idea (sviluppata dalla seconda privatizzazione) di un “interesse collettivo” o “sindacale” delle pubbliche amministrazioni distinto dall’interesse pubblico 239. 237 Cfr. D’ANTONA, Autonomia negoziale, discrezionalità e vincolo di scopo…, cit., p. 164: “Va tenuta distinta la sfera in cui la parte pubblica effettua, unilateralmente e discrezionalmente, le proprie determinazioni ai fini dell’attività contrattuale […] dalla sfera del contratto come «meccanismo di produzione giuridica fondato sul consenso reciproco». Nella prima sfera sono effettuate le scelte disrezionali che devono essere coerenti con l’interesse pubblico e con i vincoli dell’attività organizzativa, e si assumono le relative responsabilità (amministrative o politiche). Nella sfera del contratto collettivo sono composti interessi di parte e sono creati diritti e obblighi attraverso il reciproco consenso, né potrebbe essere diversamente, perché in caso contratio anche il sindacato sarebbe da considerare pro parte, giuridicamente vincolato allo scopo”. Ora, pur raccogliendo l’autorevole e condivisibile invito a tenere distinte le due sfere, riteniamo che il contratto collettivo abbia comunque la funzione unitaria, attribuitagli ex lege, di disciplinare il rapporto di pubblico impiego come una vera e propria “fonte legale”, anche se “negoziata”, laddove l’aspetto negoziale incide sul piano delle modalità di creazione delle norme giuridiche (che sono la risultante della composizione di interessi di parte), esattamente come avveniva, del resto, con riferimento al contratto corporativo. 238 Si veda l’art. 16 della bozza di articolato CGIL–CISL–UIL per la riconduzione al diritto privato del rapporto di pubblico impiego, cit., “i soggetti che contrattano in nome della pubblica amministrazione devono perseguire il buon andamento delle amministrazioni ed enti rappresentati”. 239 Quell’interesse collettivo che con la seconda privatizzazione il legislatore ha tentato di costruire surrettiziamente, o “con metodo nominalistico” attraverso l’istituzione dei comitati di settore. 324 Non si può, invece, ritenere, funzionalizzata al buon andamento della pubblica amministrazione anche l’attività contrattuale dei sindacati dei pubblici dipendenti ammessi alla contrattazione collettiva, i quali non possono che perseguire il fine di tutela dei dipendenti privatizzati, pur nei limiti delle compatibilità economiche e del “contemperamento” con la tutela dell’interesse pubblico, di cui deve farsi, però, interprete la controparte pubblica, e che, comunque, viene indirettamente perseguito dal legislatore attraverso la fortissima regolamentazione eteronoma della “fonte”: regolamentazione, questa sì, dichiaratamente finalizzata ad accrescere l’efficienza delle amministrazioni, a razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale entro i vincoli di finanza pubblica, ed a consentire una migliore e più flessibile utilizzazione delle risorse umane. Non appare dunque necessario parlare di funzionalizzazione del contratto collettivo al buon andamento della pubblica amministrazione. È sufficiente dire che il contratto collettivo è regolato dalle norme sulla produzione giuridica contenute nel titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001, come fonte di norme giuridiche cui è attribuita la competenza a disciplinare la materia del rapporto di lavoro pubblico. Il resto, per così dire, viene da sé. È alla disciplina legale della “fonte” che è affidato il perseguimento delle finalità pubblicistiche della privatizzazione (di cui deve farsi interprete la parte pubblica), senza che sia necessario ipotizzare che parti contrapposte nella contrattazione collettiva pubbliche debbano perseguire lo stesso fine dell’efficienza della pubblica amministrazione. Del resto, il necessario e fisiologico “contemperamento” tra contrapposti interessi — tipico del “metodo” del ne- 325 goziato — era ben esplicitato nell’originario art. 45, comma 4, d.lgs. n. 29 del 1993, prima che il legislatore della seconda privatizzazione si affrettasse a cancellare ipotetiche tracce di pretesa funzionalizzazione, laddove si prevedeva che il contratto collettivo decentrato fosse “finalizzato al contemperamento tra le esigenze organizzative, la tutela dei dipendenti e l’interesse degli utenti”240. Ora, davvero non crediamo che, venuta meno quell’espressa previsione, possa ritenersi che la contrattazione integrativa non sia più finalizzata a realizzare quel “contemperamento”, o possa revocarsi in dubbio che la contrattazione nazionale di comparto sia parimenti finalizzata al contemperamento tra l’interesse delle pubbliche amministrazioni e la tutela dei dipendenti241. L’aver cancellato quell’innocua norma dai nobili intenti — temendo che essa fosse strumentalmente utilizzata per evocare il fantasma della funzionalizzazione del contratto collettivo, con grave offesa al valore in sé della privatizzazione 242 — non ha dunque cambiato nulla243, ed ha compor240 Sul punto cfr. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, cit., 242, che osserva che la norma in questione “costituiva solo il dato (forse) più «appariscente» della funzionalizzazione, al quale però non dipendeva solo da tale norma”. 241 Cfr., condivisibilmente, PERSIANI, Diritto sindacale…, p. 163. 242 Ed infatti la prevalente dottrina giuslavorista ha sottolineato con favore la cancellazione delle tracce di funzionalizzazione. Cfr., da ultimo, RICCI, L’efficacia del contratto collettivo…, cit., p. 472, che osserva che, con la seconda privatizzazione “la tesi della natura pubblicistica del contratto collettivo”, evidentemente sostenibile sulla base della prima privatizzazione, avrebbe “perso alcuni dei suoi più importanti elementi costitutivi”. 243 Contra, nell’ambito di un orientamento dominante, da ultimo L’efficacia del contratto collettivo, cit., 472. 326 RICCI, tato un unico effetto evidente: la soppressione dell’unico riferimento che era possibile rinvenire (in un testo di un’ottantina di articoli cui è affidata la storica missione di unificare lavoro pubblico e privato sotto la bandiera del “diritto comune del lavoro”) alla “tutela dei dipendenti”. 2.6 – La funzione assente: la garanzia di un trattamento minimo. Ed a proposito di “funzioni” (e di rilievi banali, ma forse non inutili), la nuova fonte diretta di disciplina del rapporto di lavoro non è stata certo istituita per assicurare al dipendente pubblico minimi di trattamento economico–normativo, o una migliore e/o maggiore tutela rispetto al passato. Invero, come già ampiamente rilevato, il riferimento (un po’ mistificatorio) alla garanzia di “trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi” ha ormai già compiuto la sua (unica) missione di consentire l’aggiramento dell’efficacia impeditiva del quarto comma dell’art. 39 (l’air bag è esploso nell’incidente di costituzionalità, e ora giace “afflosciato” nell’art. 45, secondo comma). L’illusione, colpevolmente ingenerata dal legislatore, che, essendo vietati soltanto trattamenti “inferiori”, fossero consentiti trattamenti superiori, e, dunque, fosse garantito un qualche spazio per l’autonomia individuale (o anche collettiva, su base “volontaria”, e non legale), sul “modello” del contratto collettivo di diritto comune, si è però subito dimostrata, per l’appunto, un’illusione, dovendo le pubbliche amministrazioni garantire, in via prioritaria, parità di 327 trattamento contrattuale; essendo vietata l’attribuzione di trattamenti economici mediante contratti individuali, tranne che nei casi previsti; e dovendo i contratti individuali uniformarsi a quelli collettivi244. La regola che governa i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale è, dunque, quella dell’inderogabilità assoluta. Una regola che mostra come la funzione del contratto collettivo pubblico sia ben diversa da quella del contratto collettivo di diritto comune. Il primo ha la funzione essenziale di regolare in modo uniforme il rapporto di lavoro, il secondo quella di assicurare minimi di trattamento economico–normativo, come si deduce chiaramente dal fatto che un “eventuale conflitto tra quelle fonti” (cioè tra contratto collettivo di diritto comune e contratto individuale) “è superato con l’applicazione del principio della prevalenza della clausola di miglior favore”245. Un “conflitto” che nel settore pubblico è invece sempre risolto con la prevalenza del contratto collettivo, essendo, in generale, vietata la determinazione in sede di pattuizione individuale del trattamento economico–normativo 246. Ma il contratto collettivo pubblico non solo non condivide con quello di diritto comune la funzione storica, e 244 Ancora una volta il legislatore, che ben avrebbe potuto dire in due parole che il contratto collettivo è inderogabile, è costretto, per non “tradire” il modello privatistico, a conseguire lo stesso risultato con perifrasi, giochi di rinvii e costruzioni lessicali ambigue, prolisse e fuorvianti. 245 Così, da ultimo, PERSIANI, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, in Arg.dir.lav., 2004, 1 ss. 246 “L’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001). 328 tuttora essenziale247, di assicurare al lavoratore una tutela minima (tutela minima che già era assicurata da fonti eteronome ben più efficaci delle fonti autonome e volontarie del settore privato) 248 . Quel contratto collettivo è stato introdotto e regolato come fonte diretta, e non più mediata, di disciplina del rapporto di lavoro pubblico per esclusive finalità di tutela delle pubbliche amministrazioni, e, dunque, a voler richiamare approssimativamente concetti primordiali, ma in una logica capovolta, come strumento di riequilibrio, in favore del datore di lavoro pubblico, dello “strapotere contrattuale”, se così si può dire, dei pubblici dipendenti: ciò, attraverso l’emersione definitiva, ed il controllo ancor più centralizzato ed autoritario, di quella fonte negoziata di disciplina del rapporto che la legge quadro non aveva emancipato del tutto. Ed anche sotto questo profilo appare evidente la linea di continuità rispetto al modello precedente, quanto agli obiettivi di trasparenza (attraverso 247 Per tutti, LIEBMAN, Contributo allo studio della contrattazione collettiva…, cit., p. 132, che nel ricordare le molteplici funzioni del contratto aziendale, ne sottolinea il crescente distacco “dal tradizionale contratto di categoria che, pur con le innegabili modificazioni subite nel corso del tempo, rimane ancor oggi caratterizzato per la sua funzione più tipica, di contratto a funzione normativa, diretto a predisporre gli standards retributivi e normativi minimi delle condizioni di lavoro per gli appartenenti ad una determinata categoria”. 248 Osserva CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. CIX, che l’impossibilità per il contratto individuale, pur qualificato come fonte costitutiva e regolativa del rapporto, “di migliorare ed integrare gli standars normativi ed economici fissati dai contratti collettivi è dipesa da “una serie concorrente di ragioni ben note o almeno ben intuibili: preoccupazioni governative per la governabilità della spesa; pressioni sindacali per una contrattazione collettiva onniassorbente e onnipervasiva; resistenze dirigenziali a gestire politiche del personale differenziate; tradizioni consolidate all’insegna della parificazione e dell’uniformità”. 329 l’emersione del “sommerso” delle prassi negoziali e cogestionali “in nero”) di centralizzazione e di controllo delle fonti regolative del rapporto. E già questa diversità di funzioni ci parrebbe ragione sufficiente ad insinuare il dubbio che il contratto collettivo del pubblico impiego non sia affatto riconducibile a quello di diritto comune. 3 – Rappresentanza legale dei dipendenti pubblici e rappresentatività sindacale 3.1 – La rappresentanza legale dei dipendenti del comparto. Nell’istituire una nuova fonte negoziata destinata a disciplinare il rapporto di pubblico impiego con efficacia generale e, dunque, indipendentemente dal consenso dei destinatari, il legislatore ha dovuto, innanzitutto, individuare i soggetti cui attribuire la legittimazione esclusiva al negoziato. Già abbiamo avuto modo di soffermarci sulle norme che “regolano l’agire della parte pubblica”, e di rilevare come il legislatore abbia fatto di tutto perché, su questo versante, l’attività dell’ARAN, rappresentante legale delle pubbliche amministrazioni (dapprima “legalmente incapaci”, e poi emancipate grazie all’assistenza legale dei comitati di settore249), apparisse come manifestazione della libertà sindacale e negoziale delle stesse (esercitata attraverso gli indirizzi espressi dai comitati di settore), riconducibi249 ROMAGNOLI, Il contratto collettivo di lavoro…, cit., p. 88. 330 le all’art. 39, così che non fosse più possibile considerarla adempimento di una funzione pubblica o esercizio di una potestà normativa250. Intendiamo ora spostarci sul versante sindacale, e muovere dall’autorevole rilievo, pienamente condivisibile, secondo cui “dove la contrattazione collettiva è un processo istituzionalizzato e reso necessario dalla legge, la selezione degli interlocutori non è mai affidata alla pura dinamica dei rapporti di forza, ma richiede una qualche regola precostituita”251. A questo ineccepibile rilievo intendiamo collegarne un altro, anch’esso inerente alle ragioni che rendevano ontologicamente inevitabile, nel pubblico impiego, la “selezione degli interlocutori sindacali” sulla base di “regole precostituite” . L’efficacia generale del contratto collettivo pubblico (imposta, come tale, a tutti i dipendenti pubblici, indipendentemente dal loro consenso) ha fondamento nella legge 252, e si basa su un principio di rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni e dei pubblici dipendenti; l’efficacia del contratto collettivo di diritto comune, ha invece fondamento nella volontà delle parti253 , e, secondo 250 Si veda retro… 251 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit., p. 250. 252 Come già ricordato, la dottrina è unanime nel ritenere che sia la legge ad assicurare l’efficacia generale del contratto collettivo pubblico, sia pure in via indiretta. 253 Per tutti, VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione…, cit., p. 396, che sottolinea il “carattere di fonte negoziale con efficacia limitata ai soli soggetti consenzienti”, comprovato da tutta una serie di disposizioni legislative che muovono proprio da tale presupposto. 331 l’unanime giurisprudenza, si basa su un principio di rappresentanza volontaria254. Per il contratto collettivo di diritto comune non si pone, dunque, un problema di individuazione “a monte” del soggetto legittimato a stipularlo, bensì un problema di individuazione “a valle” dei soggetti vincolati in quanto “volenti”. La circostanza che il contratto vincoli soltanto “soggetti consenzienti” rende del tutto irrilevante l’individuazione, a monte, dei soggetti stipulanti255 , che, invece, diventa determinate nell’ipotesi in cui il contratto 254 Da ultimo, Cass. 6 agosto 2003, n. 11875, secondo cui “i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della legge n. 741 del 1959, in quanto costituiscono atti di natura negoziale e privatistica, si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti”. Nello stesso senso, con identica massima, tra le tantissime, Cass. 30 luglio 2001, n. 10375; Cass. 14 aprile 2001, n. 5596; Cass. 3 agosto 2000, n. 10213. In dottrina, per tutti, PERSIANI, Contratto collettivo di diritto comune e sistema delle fonti, cit., 11, il quale, ritiene, con la giurisprudenza, che “il contratto collettivo di diritto comune è, e resta, efficace esclusivamente inter volentes e, cioè, soltanto nei confronti degli iscritti ai sindacati stipulanti”, ma respinge la tesi del “mandato sindacale”, con cui “si resta nella dimensione individualistica del diritto privato”, laddove il sindacato eserciterebbe non già poteri derivati dall’autonomia individuale, bensì “poteri propri dell’autonomia collettiva”. 255 Tranne che la legge non intervenga, con norme di “rinvio” o di “riconoscimento” per attribuire al contratto collettivo effetti “rafforzati” ulteriori rispetto a quelli “di diritto comune” (ad esempio, quello di determinare la retribuzione imponibile a fini previdenziali, o l’individuazione delle ipotesi di legittimo ricorso al lavoro temporaneo): in tal caso, se il legislatore persegue il fine di disciplinare in modo uniforme una determinata materia, diventa necessario intervenire ex lege sulla legittimazione negoziale, quanto meno nel senso di individuare un unico contratto collettivo cui collegare l’effetto rafforzato, ciò che avviene attraverso il riferimento ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. 332 collettivo, per volontà della legge, vincoli tutti, consenzienti e non. In questo caso, la legge deve farsi carico di individuare il soggetto cui conferire il potere di stipulare un contratto efficace anche nei confronti di terzi. Ed è proprio questo il caso del contratto collettivo pubblico, che, per il fatto di essere vincolante erga omnes, pone (come quello corporativo o quello “virtuale” ex art. 39 Cost.) l’ineludibile problema di individuare “a monte” l’agente negoziale di parte sindacale cui conferire il potere di stipulare il contratto collettivo con effetto nei confronti (e, dunque, in nome e per conto) di tutti i dipendenti del comparto. Un potere di rappresentanza legale del tutto simmetrico al potere di rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni conferito all’ARAN. Ben può dirsi, pertanto, quanto normalmente si tende a non evidenziare adeguatamente, se non a negare, e cioè che la privatizzazione del pubblico impiego ha “introdotto un modello che attraverso l’efficacia obbligatoria del contratto collettivo realizza una forma di monopolio legale della rappresentanza di categoria” 256. Si può ora riprendere l’autorevole insegnamento da cui si è partiti, cui si deve l’ulteriore ineccepibile rilievo che la particolare efficacia “rafforzata […] assegnata dalla legge al contratto collettivo pubblico, e solo ad esso” comporta conseguenze di particolare rilevanza: “anche senza 256 La frase è mutuata da D’ANTONA, op. cit., p. 688, il quale rileva che all’introduzione di un modello siffatto si oppone il quarto comma dell’art. 39, ove non si osservino le “disposizioni di dettaglio” previste dalla seconda parte del medesimo articolo. L’Autore sembra escludere però che quel modello sia stato introdotto nel pubblico impiego, come invece qui si sostiene, salvo poi a concludere nel senso che di quel modello il d.lgs. n. 29 del 1993 avrebbe rispettato il “nucleo essenziale”. 333 scomodare il quarto comma dell’art. 39 Cost., sembra ineludibile, in un simile contesto normativo, che la legge fissi anche una qualche regola obiettiva per verificare che la coalizione sindacale che presta il consenso necessario alla stipulazione del contratto collettivo sia dotata di una sufficiente rappresentatività nell’ambito categoriale o professionale di riferimento” 257. Appare dunque evidente come proprio l’efficacia generale (o “rafforzata”) garantita ex lege al contratto collettivo pubblico, abbia imposto al legislatore di individuare l’agente negoziale di parte sindacale legittimato a stipularlo: legittimazione che si basa sul conferimento di un potere di rappresentanza legale (non esplicitato né dal legislatore, né dalla dottrina ad esso consentanea, per le ragioni, legate all’“immagine” della privatizzazione, già considerate258), speculare a quello conferito all’ARAN in rappresentanza delle pubbliche amministrazioni. 3.2 – La rappresentatività sindacale ai fini della contrattazione collettiva. I rilievi svolti, consentono di chiarire i rapporti tra rappresentanza legale dei dipendenti pubblici e rappresentatività sindacale ai fini della contrattazione collettiva. Se la prima inerisce alla legittimazione a stipulare il contratto collettivo con effetti erga omnes, la seconda è ad essa strumentale. La rappresentanza legale dei dipendenti pubblici è conferita ad una delegazione sindacale (che ben potrebbe qualificarsi in termini di “rappresentanza”) di sin257 D’ANTONA, op. ult. cit., p. 250. 258 Si veda retro… 334 dacati selezionati in base alla rappresentatività misurata entro un determinato ambito (non necessariamente coincidente, però, con l’ambito di produzione degli effetti del contratto collettivo, come subito vedremo), ed ammesse dall’ARAN alla contrattazione sulla base di un doveroso atto di impulso del relativo procedimento. La soggettività negoziale dal lato sindacale, così come quella delle pubbliche amministrazioni, è stata nuovamente “conformata” dalla seconda privatizzazione a seguito delle note vicende di “interramento del cratere” provocato dal meteorite referendario259, in tardiva attuazione della delega originaria, sostanzialmente elusa dalla prima privatizzazione, e sul modello dell’originaria proposta sindacale260. La rappresentanza negoziale dei dipendenti pubblici è stata conferita ad una delegazione composta da tutti i sindacati che “abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al 5 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale”. Ai fini della contrattazione nazionale di comparto o di area l’ambito della misurazione della rappresentatività rileva anche come “criterio di applicazione” del contratto collettivo, cioè come ambito eteronomo di produzione degli effetti del medesimo. Una coincidenza — tra ambito di applicazione del contratto collettivo ed ambito di misurazione della rappresentatività — che, però, non riguarda, ad esempio, la contrattazione integrativa (concepita come mera appendice, persino eventuale, di quella di com259 Si veda per i riferimenti nota… 260 Nella più volte citata bozza di articolato CGIL–CISL–UIL (art. 11, comma 2, si faceva riferimento però non alla media tra dato associativo e dato elettorale, ma al raggiungimento della soglia del 5% con riferimento ad entrambi i dati. Si richiedeva inoltre che i sindacati fossero “organizzativamente presenti almeno in 2/3 del territorio nazionale”). 335 parto), posto che sono i soggetti della contrattazione nazionale ad individuare i soggetti legittimati a quella integrativa 261. Il potere di rappresentanza legale viene dunque conferito sulla base di un misurazione della rappresentatività entro un determinato ambito di contrattazione collettiva (il comparto o l’area), ma poi può essere esercitato con riferimento ai diversi ambiti consentiti dalla legge, senza che questa preveda una nuova misurazione di rappresentativà e, dunque, un rappresentanza diversa, entro tali diversi ambiti. L’autonomia collettiva (se di autonomia collettiva si può parlare) può dunque essere esercitata nel pubblico impiego soltanto attraverso la mediazione necessaria della suddetta delegazione o “rappresentanza unitaria” dei sindacati che abbiano superato lo sbarramento percentuale sopra indicato. Ma anche dopo l’ammissione alla contrattazione, la lotta dei sindacati non è senza esclusione di colpi e non si basa sui meri rapporti di forza, ma è governata da regole eteronome (che non si sa se si prestino più a falsare il gioco o a renderlo leale), ed in particolare dalla regola di misurazione della rappresentatività complessiva dei sindacati aderenti all’ipotesi di accordo: il marchio di contratto collettivo a denominazione di origine pubblicistica può infatti essere impresso, attraverso il timbro della sottoscrizione definitiva, soltanto all’ipotesi di accordo cui abbiano aderito tanti sindacati che “rappresentino nel loro complesso almeno il 51 per cento”, indipendentemente dal numero dei sin261 Con conseguente fondato dubbio di legittimità costituzionale sollevato da BARBIERI (ma caduto sin qui nel vuoto) delle norme che “dissociano ambito di misurazione della rappresentatività ed ambito della legittimazione negoziale” (nota…). 336 dacati aderenti in rapporto al totale dei sindacati ammessi262 . 3.3 – Il divieto di una contrattazione collettiva “volontaria” con effetti inter partes ed il primo comma dell’art. 39. Ai sindacati che subiscano gli effetti (per essi) nefasti dello sbarramento legale, e non siano pertanto nemmeno “ammessi alla contrattazione collettiva”, non è riconosciuta alcuna legittimazione negoziale, per così dire, alternativa (o, più in radice, non è riconosciuta la benché minima “dose” di “autonomia collettiva” da spendere “altrove” nel pubblico impiego 263), nemmeno sulla base di un’eventuale maggiore rappresentatività misurabile entro un diverso e (per loro) più congeniale ambito di riferimento (singola amministrazione o categoria di personale). Anche i più convinti assertori della natura privatistica del contratto collettivo pubblico sono costretti ad ammettere che i sindacati non legittimati sono “privati […] della titolarità dell’autonomia collettiva anche di quella che potrebbero, almeno potenzialmente, esercitare in relazione al grado di rappresentanza che, attraverso il conflitto, sono in 262 Può essere interessante notare come il già citato disegno di legge “Rubinacci” di (poi mancata) attuazione dell’art. 39 Cost. (in Riv.giur.lav., 1951, III, 86, ss. prevedesse, all’art. 14, comma 3, che “il contratto collettivo si intende stipulato se i sottoscrittori rappresentano almeno il cinquantuno per cento degli iscritti alle associazioni che concorrono alla formazione di ciascuna rappresentanza unitaria, purché appartenenti almeno alla metà più una delle associazioni che hanno concorso a costituirla”. 263 Né l’esercizio dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro che potrebbero consentire la scalata per il raggiungimento della “soglia”. Si veda infatti l’art. 42, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001. 337 grado di esprimere in relazione ad una specifica trattativa”264. Qualsiasi esercizio libero, volontario, spontaneo o alternativo di “autonomia collettiva”, nella materia della disciplina del lavoro pubblico, appare radicalmente precluso. È, quello appena rilevato, un aspetto particolarmente significativo dell’attuale regime delle fonti del lavoro pubblico, non particolarmente enfatizzato dalla dottrina, ma di agevole riscontro sul piano del diritto positivo. L’illusoria asserzione di principio che “i rapporti di lavoro sono regolati contrattualmente” (ciò che farebbe supporre l’esistenza di spazi negoziali liberamente percorribili dall’autonomia individuale e collettiva) è infatti subito “corretta”, se non “smentita”, dalla perentoria precisazione che “i contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto”265. Ciò che equivale a dire, a scanso di equivoci, che non sono ammessi contratti collettivi stipulati secondo criteri e modalità diversi. Se ne ha, del resto, un chiaro esempio nello stesso titolo III, a proposito della ivi prevista nullità delle clausole dei contratti integrativi non conformi alla clausola di rinvio (e di legittimazione negoziale) contenuta nel contratto nazionale di comparto (art. 40, comma 3). Ora, se la legge considera radicalmente nulle le clausole di un contratto integrativo stipulato “sulle materie” nonché “tra i soggetti e con le procedure negoziali” stabiliti 264 Così MARESCA, Le trasformazioni…, cit., p. 51, che è costretto così a registrare “una deviazione vistosa rispetto al principio della libertà sindacale proclamato dall’art. 39, comma 1 Cost”: una deviazione che tuttavia, secondo l’A., non altera la conclusione raggiunta, in base al rilievo (invero piuttosto empirico) circa l’ampiezza del criterio selettivo dei sindacati legittimati. 265 Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 338 dal contratto di comparto, che siano tuttavia “in contrasto con vincoli risultanti” da quest’ultimo; a maggior ragione deve ritenersi radicalmente nullo un contratto collettivo (che pretendesse di integrare quello di comparto o, addirittura, di porsi come “autonomo” ed alternativo” rispetto ad esso) che fosse stipulato al di fuori di qualsiasi rinvio da parte del contratto nazionale di comparto o da parte di “soggetti” non legittimati, o mediante “procedure” non previste, o “su materie” non individuate, a norma del medesimo contratto di comparto. Dall’espresso divieto, posto a carico delle pubbliche amministrazioni266 , di sottoscrivere in sede decentrata contratti integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali, si ricava dunque agevolmente un più generale divieto di stipulare contratti o accordi del tutto svincolati da quei medesimi contratti nazionali, che, cioè, non siano espressione di delega di una porzione del potere normativo che la legge attribuisce, in via principale, agli agenti negoziali del contratto collettivo nazionale (delega autorizzata ex lege entro i rigorosi limiti già ricordati). Ma vi è una ragione più di fondo che dimostra la compressione e l’assorbimento di qualsiasi spazio negoziale, pur meramente residuale, per l’autonomia collettiva, al di fuori delle forme vincolate e necessarie previste dalla legge sindacale sul contratto collettivo pubblico. Ed è che una contrattazione collettiva “volontaria” — alternativa ri266 Una norma che potrebbe dare spunto alla già criticata tesi della normativa organizzativa interna, con effetti indiretti e di mero fatto sulla libertà di organizzazione sindacale da lato di dipendenti pubblici, che non sarebbe toccata direttamente da quella normativa (non rivolta ad esse), ma solo indirettamente, come effetto dell’adempimento delle pubbliche amministrazioni alla direttiva sindacale loro impartita in sovrabbondante forma legislativa. 339 spetto a quella istituzionalizzata e con efficacia erga omnes — non potrebbe che avere efficacia inter partes, e, dunque, basarsi (in applicazione dei principi della rappresentanza volontaria costantemente richiamati dalla giurisprudenza) su quell’autonomia individuale, il cui spazio negoziale è, però, parimenti compresso, se non azzerato del tutto, da un legislatore che pure assume di avere contrattualizzato i rapporti di lavoro: come più volte ricordato, i contratti individuali devono conformarsi pedissequamente ai contratti collettivi di cui al titolo III, d.lgs. n. 165 del 2001, e non possono “attribuire trattamenti economici” (art. 2, comma 3), oggetto di “definizione” esclusiva da parte dei contratti collettivi; dal canto loro, le pubbliche amministrazioni devono garantire parità di trattamento contrattuale (art. 45, comma 2) ed adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi (che sono soltanto quelli, di cui al titolo III, stipulati con il procedimento ivi previsto, come è reso del tutto manifesto dal riferimento alla “data della sottoscrizione definitiva”). Appare dunque evidente come il sistema di contrattazione collettiva del pubblico impiego, abbia natura “permissiva”, e non solo “conformativa” (o “definitoria”) e non ammetta una contrattazione collettiva “volontaria” con efficacia inter partes (cioè, un’autentica contrattazione collettiva di diritto comune), che si integri, si affianchi o, peggio, pretenda di porsi in alternativa alla contrattazione collettiva istituzionalizzata regolata dal titolo III. Anche sotto questo specifico profilo, è un sistema non dissimile da quello che sostituisce (cioè da quello della legge quadro), oltre che da 340 quello corporativo 267: sistemi che, parimenti, non ammettevano una concorrente contrattazione collettiva “volontaria”, con efficacia inter partes268. Chi ritenga di ricondurre il fondamento del contratto collettivo pubblico alla libertà di organizzazione sindacale garantita dal primo comma dell’art. 39 (in ossequio ai valori ideali della privatizzazione) solleva innanzitutto davanti a se stesso tutti i dubbi di incostituzionalità che da una siffatta riconduzione fatalmente derivano: dubbi che la coerenza con i principi della privatizzazione dovrebbe trasformare in certezze 269. 267 Si veda l’art. 47, comma 2, r.d. 1 luglio 1926, n. 1130, recante norme di attuazione della l. 3 aprile 1926, n. 563: “I contratti collettivi di lavoro non stipulati da associazioni sindacali legalmente riconosciute sono nulli”. 268 Può essere interessante osservare come nella relazione al già citato disegno di legge “Rubinacci”, cit., 112) si affermasse che “la possibilità di accordi, fondati sul principio della rappresentanza e quindi sforniti di validità erga omnes mon può essere negata, solo che si consideri che la libertà sindacale è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico”. Era però espressamente prevista soltanto l’ipotesi di “accordi stipulati da associazioni sindacali registrate senza l’osservanza delle disposizioni della presente legge”, aventi efficacia “soltanto se contengono disposizioni più favorevoli al lavoratore per ciascun istituto contrattuale rispetto ai contratti collettivi vigenti, e limitatamente ai rapporti di lavoro tra le aziende iscritte al momento della stipulazione dell’accordo” (art. 15, comma 2). Erano ammessi anche i contratti aziendali, purché stipulati dall’associazione sindacale registrata cui l’azienda fosse associata, con una “limitazione alla libertà contrattuale […] dettata dalla necessità di evitare che singole discipline aziendali possano turbare l’equilibrio e l’armonia dei rapporti di lavoro, raggiunti attraverso una regolamentazione collettiva” (p. 112). Del resto, il legislatore si accingeva ad intervenire in un settore in cui non creava la contrattazione collettiva, ma la conformava secondo il modello dell’art. 39 Cost., con una normativa che ben poteva essere definita, per l’appunto, “conformativa” o “definitoria” e non “permissiva”. 269 Si rinvia soprattutto alle serrate argomentazioni di BARBIERI, gà citate in nota… 341 Opposta è la prospettiva di chi — proprio muovendo dal rilievo circa l’assoluta e genetica incompatibilità del sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale ed a rappresentanza legale necessaria del pubblico impiego con i principi di libertà sindacale di cui al primo comma dell’art. 39 — ne trae la conseguenza che non è certo sulle sabbie mobili di quel primo comma che il legislatore può avere inteso costruire, ed ha poi effettivamente costruito, quel sistema: un sistema forgiato con lo stesso materiale delle “vecchie” fonti eteronome (ma pur sempre con “anima” negoziale), e destinato a regolare con ancora maggiore forza cogente il rapporto di pubblico impiego, in vista del perseguimento di ancor più pressanti finalità pubblicistiche di accrescimento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, contenimento della spesa per il personale, utilizzazione flessibile delle risorse umane. 3.4 – La contrattazione collettiva pubblica ed il “nocciolo duro” dell’art. 39. Per dirla con le parole della dottrina che più autorevolmente ed influentemente ha operato la riconduzione nell’autonomia collettiva privata del sistema di contrattazione collettiva del pubblico impiego, non sembra che detto sistema sia stato “realizzato” in attuazione del “progetto costituzionale, implicito nella garanzia del primo comma” (come quella dottrina invece ritiene), che è un progetto “di riconoscimento e tutela legislativa delle forme materiali della contrattazione collettiva, in quanto, e proprio perché, manifestazione di potere sociale delle organizzazioni sinda342 cali, in grado di produrre norme munite, indipendentemente dall’efficacia giuridica nel sistema delle fonti statuali, di una significativa efficacia e stabilità per la forza propria dell’organizzazione collettiva degli interessi” 270. È certo più plausibile271 che quel sistema di contrattazione collettiva sia la realizzazione, piuttosto, del “progetto di legislazione sindacale” abbozzato nella seconda parte dell’art. 39 (realizzazione, invero, alquanto difforme dal capitolato di appalto dei lavori di attuazione della norma costituzionale), che è un “progetto (esplicito e dettagliato) di articolazione nelle organizzazioni sindacali — la cui soggettività viene infatti opportunamente conformata — di un potere normativo riferibile allo stato, in funzione dell’interesse, comune allo stato ed ai gruppi organizzati riconosciuti dallo stato, di realizzare una regolamentazione contrattuale uniforme, certa ed effettiva dei rapporti di lavoro nelle categorie”272. 270 D’ANTONA, op. cit., p. 671, secondo cui in tal caso “la legge riconosce i prodotti di un’attività contrattuale che nasce dalle libere dinamiche organizzative dei gruppi contrapposti, anche se il riconoscimento legale determina (a carico dei singoli destinatari, iscritti e non iscritti, e a carico dei sindacati, firmatari o dissenzienti o terzi alla contrattazione) effetti più intensi o più estesi e in ogni caso diversi da quelli che quei contratti collettivi avrebbero avuto autonomamente” (ivi, 688). Ora non ci sembra che questo sia il modello adottato dal legislatore del contratto collettivo di lavoro pubblico, non fosse altro perché, indipendentemente dal “riconoscimento legale”, i contratti collettivi (lungi dall’avere solo effetti meno intensi o estesi) proprio non esisterebbero come fonti dirette di disciplina del rapporto. 271 Sempre che si debba necessariamente rinvenire nell’art. 39, prima o seconda parte, il fondamento del contratto collettivo del lavoro pubblico, fondamento che, invece, a nostro modo di vedere, è nella legge che lo ha istituito come fonte, ponendosi, se mai, un problema, non di “fondamento”, ma di compatibilità costituzionale. 272 D’ANTONA, op. cit., 671, che… 343 Senonché, l’esecuzione del progetto costituzionale (esplicito e dettagliato) della seconda parte dell’art. 39, non potrebbe interferire (secondo l’autorevole dottrina più volte citata) con la realizzazione dell’altro progetto costituzionale (quello implicito di cui al primo comma), posto che “il quarto comma dell’art. 39 non esclude […] che ad «altri» contratti collettivi — quelli sottoscritti da sindacati non registrati e in forme diverse da quelle prescritte dalla norma costituzionale — sia attribuito un valore normativo”, cosicché quella realizzazione “potrebbe condizionare, ma mai escludere, o assorbire interamente, lo spazio garantito dal primo comma all’autonomia organizzativa dei sindacati e alla contrattazione collettiva volontaria”273. Ma come già si è avuto modo di osservare nel paragrafo precedente, il sistema di contrattazione collettiva del pubblico impiego è un sistema chiuso, esclusivo e totalitario che non garantisce alcuno spazio ad una contrattazione collettiva “volontaria” con efficacia limitata. V’è dunque da dubitare che quel sistema possa essere considerato la realizzazione simultanea di entrambi i progetti costituzionali sopra considerati, e se proprio si volesse considerare realizzato quantomeno uno dei due progetti, sarebbe il secondo (quello, “esplicito e dettagliato”, della seconda parte dell’art. 39) ad essere stato “realizzato”, sia pure con modalità difformi da quelle previste nel progetto medesimo. E di ciò, del resto, sembra essere stata ben consapevole la stessa dottrina sopra citata, che, dopo aver ricondotto al primo progetto (quello “implicito” evincibile dal primo comma) la legge sindacale sul contratto collettivo del pubblico impiego privatizzato, sembra poi in qualche modo ri273 Così, ancora D’ANTONA, op. cit., p. 670. 344 credersi o, quanto meno, considerare realizzato anche il secondo progetto costituzionale, sia pure in conformità al “nocciolo duro” del progetto medesimo. Il regime delle fonti contrattuali dell’impiego pubblico privatizzato sarebbe dunque espressione sia di autonomia collettiva delle organizzazioni sindacali riconducibile all’art. 39, primo comma, sia di articolazione nelle medesime organizzazioni di un potere normativo riferibile allo Stato, sul modello della seconda parte del medesimo articolo: un modello reinterpretato ed attualizzato, in modo da renderlo più duttile, elastico ed adattabile. Quell’autorevole ed ingegnosa dottrina, prospettava, in tal modo, argomenti, ulteriori e diversi, a “conferma” della compatibilità costituzionale del regime di contrattazione collettiva ad efficacia generale del pubblico impiego privatizzato, rispetto agli argomenti (pur dalla stessa dottrina condivisi) che erano stati utilizzati dal giudice delle leggi su “suggerimento” dello stesso legislatore. Ma mentre gli argomenti già utilmente spesi (pretesa natura “non normativa” del contratto collettivo pubblico, idoneo a vincolare direttamente solo le pubbliche amministrazioni; pretesa adesione volontaria dei pubblici dipendenti espressa mediante rinvio alla fonte) si basavano su di una peculiare interpretazione delle “norme incriminate”, lasciando, per così dire, “intatta” l’efficacia impeditiva della norma costituzionale (che le norme scrutinate “aggiravano”); i nuovi argomenti proposti da quell’autorevole dottrina si basavano, invece, su di un’inedita interpretazione evolutiva delle “norme incriminatrici” della seconda parte dell’art. 39, preordinata a depotenziarne l’efficacia impeditiva. Le norme “incriminate” non aggirano quelle “incriminatici”, ma addirit345 tura vi danno attuazione, sia pure non completa. La “maniera” attraverso cui, nel settore pubblico, è stato raggiunto il “risultato” dell’efficacia generale del contratto collettivo non sarebbe poi così difforme dalla “maniera” indicata nella parte (non più del tutto) inattuata dell’art. 39. Sulla scorta di una siffatta attualizzazione–neutralizzazione interpretativa della norma de qua quella illustre dottrina poteva pervenire alla conclusione che il regime del contratto collettivo del pubblico impiego potesse e dovesse essere considerato come la realizzazione del “progetto” della seconda parte dell’art. 39, costituzionalmente compatibile con il suo “nucleo essenziale”. Come dire che “il «nocciolo duro» dell’art. 39 trova, nel d.lgs. n. 29 del 1993 consolidato, una chiara concretizzazione”274. In tal modo, però, si finiva in qualche modo per contraddire l’argomento tuttora in auge (un argomento che pure quella influente dottrina aveva condiviso, se non addirittura suggerito) circa l’ontologica “diversità” tra il contratto collettivo del lavoro pubblico (di natura non normativa e regolato da norme dirette soltanto a conformare l’agire negoziale delle pubbliche amministrazioni) ed il contratto col274 Così D’ANTONA, op. ult. cit., p. 692, che osserva al riguardo: “È quanto mai significativo che […] una volta conferito all’Aran il monopolio legale della rappresentanza di categoria delle pubbliche amministrazioni, la legge abbia adottato una regolamentazione della rappresentanza pluralistica dei sindacati che, del modello costituzionale, incorpora precisamente i principi costitutivi: misura la rappresentatività sindacale in base agli iscritti, ma anche ai non iscritti (che votano nella elezioni delle rappresentanze unitarie di base); definisce la soglia superata la quale i sindacati hanno un uguale diritto di trattare con l’Aran; richiede, per la sottoscrizione dei contratti collettivi, che si formi un consenso che, considerando unitariamente la rappresentatività «misurata» della coalizione sindacale che assente, non sia inferiore al 51% in media o al 60% come dato elettorale”. 346 lettivo “progettato” nella seconda parte dell’art. 39: quella diversità che aveva consentito al giudice delle leggi di “salvare” la costituzionalità della “legge sindacale” che regola il primo. Ma quella complessiva “attualizzazione” interpretativa dell’art. 39275, lungi dall’essere frutto di uno sterile esercizio esegetico o dogmatico, era chiaramente intesa a supportare una precisa opzione di politica del diritto. Quella lungimirante dottrina, nel ribaltare l’impostazione della questione di costituzionalità, non guardava certo al passato, ma al futuro: guardava, cioè, alla prospettiva — espressamente contemplata nella legge sindacale del pubblico impiego privatizzato — di una legge sindacale di carattere generale, sul modello della prima. Ma quella dottrina era ben consapevole del fatto che se era esportabile e generalizzabile quel modello di contrattazione collettiva, non erano certamente esportabili e generalizzabili gli argomenti utilizzati con successo per dimostrarne la compatibilità con la parte inattuata dell’art. 39. Certo non si sarebbe potuto far ricorso — nel settore privato — alla teoria del contratto di tipo “gestionale”, indirettamente efficace, regolato, con sovrabbondante forma legislativa, da norme di organizzazione interna dirette soltanto a conformare l’agire delle pubbliche amministrazioni, senza lederne la libertà sindacale; né alla teoria del rinvio formale alla contrattazione collettiva imposto ex lege ai contratti individuali (tenuti ex lege ad uniformarsi a contratti 275 Si pensi che quasi un quarantennio prima (era il 1963) un’autorevole e (parimenti) influente dottrina aveva affermato che l’art. 39 “è una norma di contestabile attualità” (MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», cit., 572). 347 collettivi che prevedono che i contratti individuali debbano ad essi rinviare). Nessuno, crediamo, avrebbe potuto pensare di poter utilizzare impunemente i suddetti espedienti anche nel settore privato per aggirare nello stesso modo l’art. 39. Era dunque necessario predisporre per tempo nuovi argomenti, diretti — all’opposto — a disinnescare il potenziale impeditivo della seconda parte dell’art. 39, ed a dimostrare — attraverso la sperimentazione in vitro nel settore protetto del pubblico impiego privatizzato — che il modello di contrattazione collettiva ivi testato ed immunizzato con successo sarebbe stato in grado di sopravvivere al virus della incostituzionalità anche una volta esportato in ambiente privatistico, così come ci si era incamminati a fa- 348 re276, lungo una strada dapprima interrotta277, e ora dichiaratamente abbandonata278. Occorreva dimostrare come “oggi” ben sarebbe possibile “accontentarsi” della compatibilità costituzionale con il «nocciolo duro» dell’art. 39, reinterpretato in chiave evolutiva, e depurato da incrostazioni di contorno che sono il residuo di una stagione ormai tramontata. Ed è questo, ci pare, il senso delle ultime parole di quel magistrale saggio finale più volte evocato: “Il «nocciolo duro» dell’art. 39 trova, nel d.lgs. n. 29 del 1993 consolidato una chiara concretizzazione che fa della riforma della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni il 276 Il riferimento è al noto disegno di legge “Gasperoni”, recante “Norme sulle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, sulla rappresentatività sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi di lavoro”, oggetto di ampio dibattito. Cfr. F. CARINCI, Concertazione e rappresentatività sindacale (a proposito di due recenti testi), in Lav.pubbl.amm., 1998, 1023 G. SANTORO PASSARELLI, Prospettive di riforma della rappresentanza sindacale…, cit., p. 33; LUNARDON, Efficacia soggettiva del contratto collettivo e democrazia sindacale, Giappichelli, Torino, 1999, 336; MAGNANI, Legge, sindacato, autonomia collettiva, in Arg.dir.lav., 2000, 181; CAMPANELLA, La rappresentatività sindacale tra vecchioe e nuovo diritto, in Riv.it.dir.lav., 1999, I, 197. 277 Sul “definitivo tramonto della prospettiva dell’unificazione delle regole della rappresentanza negoziale nel settore pubblico e privato” si veda per tutti e da ultimo DE MARINIS, Rappresentanza e rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva, in Commentario Utet 2004, cit., 421. 278 Si legge infatti nel “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” che “il Governo dichiara la propria intenzione di non voler assumere iniziative legislative in materia di rappresentatività degli attori negoziali, nel pieno rispetto della tradizione autoregolamentare delle parti sociali italiane ed in ossequio al principio di reciproco riconoscimento ormai consolidatosi anche in sede comunitaria”. 349 passaggio verso una nuova stagione della legislazione sindacale postcostituzionale”279. 279 D’ANTONA, op. cit., p. 692. 350 4 – Efficienza della pubblica amministrazione e regolamentazione eteronoma del sistema contrattuale. 4.1 – Le materie. La legge sindacale incorporata nel titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001 ha dunque disciplinato la contrattazione collettiva come una vera e propria “attività normativa”280 diretta a disciplinare il rapporto di lavoro con norme ad efficacia generale ed assolutamente inderogabile, per il perseguimento delle finalità pubblicistiche più volte ricordate, individuando, coerentemente, gli agenti negoziali legittimati (ciò di cui si è detto nei paragrafi precedenti), nonché (ed è ciò di cui si dirà adesso), le materie, i comparti ed i livelli di contrattazione collettiva. Nell’economia della presente indagine, si tratterà soltanto di verificare come le rilevate finalità pubblicistiche, riconducibili al concetto lato di efficienza della pubblica 280 MODUGNO–NICCOLAI, Atti normativi, in Enc.giur.Treccani, 1997, 3, secondo cui “la previsione e predisposizione di una complessa e variegata attività normativa presuppone: “a) l’attribuzione della potestà normativa a determinati soggetti od organi, b) la previsione dei procedimenti e delle forme per i vari tipi di atti, c) la determinazione della loro efficacia”. Gli A. non sembranbo nutrire dubbio alcuno sul fatto che i contratti collettivi collettivi del pubblico impiego privatizzato debbano essere considerati come fonti del diritto (sul punto 31). Nel senso che si tratti di atti normativi in senso sostanziale si veda anche G.U. RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna, 1998, 32. Ma riteneva che il legislatore, con le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 80 del 1998, avesse riservato, “anche sul piano processuale”, ai contratti collettivi nazionali “nominati”, ma ritenuti pur sempre privatistici, “il trattamento tipico degli atti normativi” anche D’ANTONA, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la «seconda privatizzazione» del pubblico impiego (osservazioni sui d.lgs. n. 396 del 1997m n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998), in Opere, cit., 289. 351 amministrazione, abbiano condizionato la disciplina eteronoma della contrattazione collettiva, rendendola del tutto non riconducibile al preteso “modello” della contrattazione collettiva collettiva di diritto comune. Innanzitutto è la legge281 ad attribuire alla contrattazione collettiva la competenza (non a disciplinare, ma) a “svolgersi su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali” 282. Non è l’autonomia collettiva ad individuare le materie su cui svolgersi. Si tratta dell’attribuzione di una sfera (soltanto apparentemente illimitata ed “aperta”) di competenza normativa ad una ben determinata fonte (i contratti collettivi “stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto”, cioè essenzialmente i contratti nazionali di comparto, essendo la competenza dei contratti integrativi, una competenza meramente derivata 283), e non già del riconoscimento diffuso e generalizzato dell’autonomia collettiva nel settore pubblico. Come già si è detto, non vi è spazio alcuno per una contrattazione “volontaria” sulle materie del rapporto di lavoro: legittimati a “svolgersi” su quelle materie, secondo 281 Art. 40, primo comma, d.lgs. n. 165 del 2001. 282 Si tratta del già rilevato espediente diretto a far apparire che la contrattazione collettiva (pur se stipulata in nome e per conto delle pubbliche amministrazioni) non regoli direttamente il rapporto, ma stabilisca determinati parametri economico–normativi dei trattamenti (non inferiori a detti parametri) che le pubbliche amministrazioni sono poi obbligare ad applicare. 283 MARESCA, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro…, cit., p. 33, che rileva come il contratto decentrato “ritaglia la propria competenza negoziale dalla fonte collettiva sovraordinata, senza poter svolgere effetti ulteriori, in assenza di un’espressa indicazione del legislatore”. 352 un criterio di competenza, sono soltanto i contratti collettivi regolati come fonti ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001. Ma non è vero che la contrattazione collettiva si svolga su tutte le materie relative al rapporto di lavoro, come si prevede con accenti enfatici nella disposizione di apertura del titolo III284 , a voler sottolineare, con il consueto metodo nominalistico, il netto distacco rispetto al modello del doppio elenco di materie adottato dalla legge quadro. Le materie su cui si svolge la contrattazione collettiva sono tutte tranne sette, anzi otto! Tante sono infatti le materie sottratte in via generale alla disciplina “mediante” contratti collettivi, se alle sette originariamente escluse285, si aggiunge quella più importante di tutte o comunque quella più tipica della contrattazione collettiva di diritto comune: la materia inerente agli aumenti contrattuali286 . 284 L’originario art. 45, d.lgs. n. 29 del 1993 escludeva, come è noto, dalla contrattazione collettiva le “sette materie” di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), ma non prevedeva la materia relativa alle “relazioni sindacali”. L’attuale art. 40, d.lgs. n. 165 del 2001 “al termine di una lunga vicenda modificativa, risulta «impoverita» dell’esplicita eccezione delle sette materie ed «arricchita» dalla aggiunta delle «relazioni sindacali»”: così, CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., p. XLIX. 285 Che, però, per lo più non riguardano la materia del rapporto di lavoro in senso stretto, ma nondimento erano state espressamente escluse, in quanto strettamente connesse con detta materia dall’art. 45, primo comma, d.lgs. n. 29 del 1993, con rinvio “recettizio” all’art. 2, comma 1, lett. c), l. n. 421 del 1992. 286 BALLESTRERO, Brevi osservazioni..cit., 236, “la contrattazione collettiva è condizionata da forti vincoli di carattere finanziario: il salario, che nel settore privato rappresenta il cuore della contrattazione, non è sostanzialmente oggetto della contrattazione collettiva del settore pubblico, ma della «contrattazione» (tutta politica) della legge finanziaria tra sindacati e governo”. 353 Invero, la quantificazione dell’onere, a carico del bilancio dello Stato, derivante dalla contrattazione collettiva nazionale è demandata alla competenza del “Ministero del tesoro del bilancio e della programmazione economica”, con apposita norma da inserire nella legge finanziaria 287, e si colloca “a monte” del procedimento di contrattazione collettiva, come si prevede in una delle disposizioni più a “valle” del titolo III288 , una disposizione che avrebbe trovato più logica collocazione in apertura del medesimo titolo, 287 Di un “«ricalco alla lontana» della contrattazione collettiva del settore privato” a proposito della “predeterminazione autoritativa delle risorse disponibili” parla efficacemente CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., p. LII, che rileva come il negoziato “tenda a farsi informale, fra Governo e organizzazioni sindacali con un inevitabile by pass della stessa ARAN” e come esso possa proseguire anche “all’indomani dell’approvazione della legge finanziaria” e trovare sbocco in un accordo formale, come è accaduto con riferimento alla finanziaria del 2002. 288 Art. 48, d.lgs. n. 165 del 2001 (“Disponibilità destinate alla contrattazione collettiva nelle amministrazioni pubbliche”). Si veda anche l’art. 16, l. 28 dicembre 2001, n. 488 (finanziaria per l’anno 2002), che disciplina il finanziamento della contrattazione collettiva del personale pubblico (anche non contrattualizzato), determinandone gli incrementi in ragione dei tassi di inflazione programmati. La stessa legge (art. 17) ha modificato (inserendovi alcuni periodi) l’art. 47 sul procedimento di contrattazione collettiva, per un più incisivo controllo della spesa con riferimento alla contrattazione collettiva dei comparti non statali; ed ha inserito nel d.lgs. n. 165 del 2001 l’art. 40bis in materia di controlli sulla contrattazione integrativa. Per un approfondito esame delle suddette disposizioni nel quadro delle regole generali sul finanziamento della contrattazione collettiva, si veda TALAMO, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego, in Giorn.lav.amm., 2002, 563. In senso critico, rispetto all’emergere di “elementi di ritorno al passato”, di una rinnovata “diffidenza” verso la contrattazione collettiva e di un “accentramento” della stessa parlano BARBIERI–SPINELLI, La contrattazione collettiva e il contratto collettivo nazionale…, cit., p. 357. 354 se ciò non avesse nuociuto all’immagine della privatizzazione289. Si tratta dunque soltanto di distribuire le “disponibilità” già quantificate con legge finanziaria. Ed al riguardo la legge attribuisce una competenza “rafforzata” alla contrattazione collettiva in materia di “definizione” del trattamento economico fondamentale ed accessorio (art. 45, d.lgs. n. 165 del 2001), posto che “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire soltanto mediante contratti collettivi” (come si dice con formula involontariamente mutuata dalla legge quadro che ben esprime la funzione di mera “mediazione” dei contratti collettivi che attribuiscono trattamenti la cui entità complessiva è determinata a monte). Il “rafforzamento” opera sia nei confronti dei contratti individuali, mediante i quali non è consentito attribuire trat289 Una spiegazione in chiave privatistica in MARESCA, Le trasformazioni…, cit., p. 55: “chi può dubitare che anche nel lavoro privato […] la parte imprenditoriale si preoccupa di predeterminare l’onere finanziario che è in grado di sostenere prima dell’avvio della trattativa con il sindacato?”. Sembra riaffiorare la solita tesi della norma di organizzazione interna espressa in forma legislativa, con cui verrebbero espresse direttive interne a carattere generale sui modi (legge finanziaria) in cui le proprie pubbliche amministrazioni stabiliscono l’entità degli aumenti contrattuali. L’A. aggiunge che anche nel settore privato “l’entità degli aumenti retributivi è, oramai, scandita dai ritmi dell’inflazione programmata o effettiva e, quindi, in gran parte sottratta alle valutazioni soggettive delle parti che, invece, sono chiamate ad un ruolo più creativo e, quindi, più impegnativo che non riguarda la dimensione quantitativa, ma la distribuzione e la finalizzazione degli incrementi retributivi”. Pur muovendo da analoga ipostazione accentuatamente privatistica non possono “non rilevare l’anomalia di una contrattazione collettiva in cui la parte datoriale dichiara, fin dall’inizio della negoziazione, il limite massimo delle risorse che è disposta a ad impegnare, quando nella normale dinamica del settore privato rotale disponibilità è direttamente oggetto di trattativa”, BARBIERI–SPINELLI, op. cit., p. 383. 355 tamenti economici, tranne che nei casi espressamente previsti290 , sia nei confronti delle fonti unilaterali che possono sì attribuire incrementi retributivi non previsti dai contratti collettivi, ma dei quali tuttavia la legge prevede l’assorbimento a far data “dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale”291. Non possiamo qui indugiare sul complesso “giallo delle sette materie” scomparse con la seconda privatizzazione, ma rintracciate dopo attenta e complessa indagine dottrinale292, né ribadire quanto già detto a proposito della incompetenza della contrattazione collettiva in materia di organizzazione degli uffici. Ci limitiamo soltanto ad osservare come l’attribuzione per legge di specifici ambiti di competenza normativa alla contrattazione collettiva (rectius, ai contratti collettivi di cui al titolo III) avvalori fortemente l’idea che essa sia regolata come una vera e propria 290 Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. Nel pubblico impiego non sembrano dunque potersi porre in radice i problemi inerenti alla disciplina dei trattamenti ad personam e dei cd. superminimi, ed in particolare il problema dell’assorbibilità. 291 Art. 2, comma 3, ultima parte, d.lgs.n. 165 del 2001, ove si fa riferimento un po’ sovrabbondante anche alla cessazione di efficacia delle fonti unilaterali che attribuiscono incrementi retributivi, laddove sarebbe bastato forse il riferimento alla necessaria assorbibilità degli incrementi de quibus, che, tuttavia, potrebbe essere espressamente esclusa dalla “leggina corsara”. 292 Si veda nota… Per tutti e da ultimo CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., pp. XLVIII ss. Per un esame dettagliato delle competenze contrattuali materia per materia si vedano da ultimi BARBIERI, SPINELLI, La contrattazione collettiva…, cit., pp. 366 ss. 356 fonte del diritto293 e non soltanto “riconosciuta” come libera e volontaria espressione di autonomia collettiva riconducibile al primo comma dell’art. 39. 293 La dottrina costituzionalista — un po’ trascurata (per non dire snobbata) da quella giuslavorista — non sembra avere dubbio alcuno al riguardo: cfr. ad es., oltre agli autori già citati in nota…, MODUGNO, NICCOLAI, Atti normativi, in Enc.giur.Treccani, 1997, 31, che sottolineano anche il rapporto di sostituzione con gli accordi di lavoro di cui alla legge quadro. 357 4.2 – Dalla riserva di legge alla “riserva” di contratto collettivo. L’idea che sia stata istituita una nuova fonte negoziata del diritto (piuttosto che riconosciuta una sfera di autonomia negoziale collettiva, in precedenza misconosciuta) è corroborata da quelle disposizioni che — nella logica di un vera e propria “ripartizione di competenze” tra fonti autonome e fonti eteronome294 — tentano di arginare la fatale concorrenza delle seconde (le cosiddette “leggine”) nella materie attribuite alla competenza delle prime295, postulando così una piena fungibilità tra le suddette fonti, un’identica attitudine delle medesime a disciplinare il rapporto di lavoro con norme di analoga natura, pur se con “preferenza” legislativa per la fonte contrattuale 296, nei limiti in cui una siffatta preferenza possa essere accordata da una legge ordinaria (ma che si vuole “rafforzata” in quanto “legge organica”297) nei confronti di leggi pur sempre ordinarie, per quanto ridimensionate dal diminuitivo con cui sogliono essere ricordate in seso spregiativo (“leggine”). 294 Di “ripartizione di competenze tra legge e contratto collettivo” parlano MODUGNO–NICCOLAI, op. cit., p. 31. 295 Di “norma di salvaguardia dell’autonomia collettiva dalla microlegislazione” che “costituisce un elemento del complessivo disegno di delegificazione così importante da assumere rilievo sistematico”, parla RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 77. 296 Una preferenza davvero singolare perché manifestata in favore di una fonte verso la quale il legislatore mostra altresì grande “diffidenza”, come rilevato dalla dottrina in sede di commento agli interventi di ricentralizzazione del sistema contrattuale (si veda infra…). 297 RUSCIANO, La riforma del lavoro pubblico…, cit., p. 75. 358 Il contratto collettivo è specie protetta nel pubblico impiego privatizzato, e vive in una sorta di riserva, esposta al bracconaggio “autorizzato” delle fonti eteronome298: ciò di cui il legislatore della privatizzazione mostra piena consapevolezza, nel predisporre le misure antibracconaggio di cui all’art. 2, commi 2 e 3, d.lgs. n. 16 del 2001299 . La legge attribuisce infatti alla contrattazione collettiva la peculiare forza di “derogare”, anche in senso peggiorativo, alle disposizioni di fonti eteronome successive, e di renderle non ulteriormente applicabili per la parte derogata 300, dimostrando, in tal modo, di considerare i contratti collettivi come vere e proprie fonti legali dell’ordinamento, idonee ad innovarlo incessantemente: connotato, questo, che, in applicazione del “criterio degli effetti”, raccomandato da autorevoli costituzionalisti, ma ignorato da giusla298 Per tutti SUPPIEJ, Intervento, in Atti delle citate giornate di studio Aidlass del 1996, 212, che, replicando a RUSCIANO, osserva come non trovi appigli nella Costituzione la pretesa di una legge di porre limiti ad altre leggi successive, posto che “la museruola al legislatore ordinario la può porre soltanto il legislatore costituzionale”. 299 Nel testo originario dell’art. 2, d.lgs. n. 29 del 1993 non erano previsti meccanismi di protezione della fonte contrattuale, poi introdotti, in via di decretazione correttiva, dall’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1993, che inserì un comma 2bis, dando adito a fondati dubbi di eccesso di delega. Su tale vicenda, cfr. G.U. RESCIGNO, Legge e contratto collettivo nel pubblico impiego. L’art. 2, comma 2–bis del d.lgs. n. 29/1993 come modificato dal d.lgs. n. 546 del 1993, in Lav.dir., 1994, 515, nt. 13. 300 Art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. La dottrina sulla disposizione in questione è vastissima, soprattutto con riferimento alla formulazione originaria (art. 2, comma 2bis, d.lgs. n. 29 del 1993), che, come è noto, col prevedere non la deroga, ma la cessazione di efficacia, delle “leggi intermedie” che non si dotassero della “clausola di salvaguardia”, suscitava dubbi di legittimità costituzionale. Anche su autorevole indicazione dottrinale (MARESCA, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico…, cit., p. 31). 359 voristi altrettanto autorevoli (ma traditi forse dall’“orgoglio” o dal “sentimento” del giuslavorista301), è proprio delle fonti del diritto 302. La fonte contrattuale viene così dotata di una particolare forza (sconosciuta persino al contratto collettivo corporativo, meno “forte” del contratto collettivo pubblico, sotto vari profili), al punto che le fonti sovraordinate successive (cosiddette “leggi intermedie”) hanno l’onere di “blindarsi”, ove non “vogliano” essere derogate dai successivi contratti collettivi, e “vogliano”, invece, impedire che gli stessi si riapproprino della “loro” materia, reagendo alla “usurpazione”. E, come già si è avuto occasione di accennare, al meccanismo di “blindatura” o di “espropriazione” di mate- 301 Secondo le già citate espressioni rispettivamente di Montuschi e di Rusciano. 302 MODUGNO, Fonti del diritto…, cit., p. 5: “È sufficiente cioè che una prescrizione si aggiunga o venga in collisione con le altre norme dell’ordinamento perché ad essa debba riconoscersi il carattere normativo, e al fatto (o atto) che l’ha prodotta la natura di fonte. L’integrazione, abrogazione, la modifica, ma anche la deroga o la sospensione di una norma da parte di un’altra prescrizione, rende quest’ultima prescrizione normativa nel senso stresso e antonomastico di elemento del diritto oggettivo italiano”. 360 rie già di competenza contrattuale il legislatore ha fatto già ricorso in qualche occasione303. La previsione di una fisiologica derogabilità anche in senso peggiorativo della legge da parte del contratto collettrivo, nonché la previsione “derivata” relativa alla “cessazione di efficacia” delle fonti eteronome che attribuiscano incrementi retributivi304 , riassorbibili ex lege (cosicché non ricada, impopolarmente, sulla contrattazione collettiva, e sui sindacati, la responsabilità della soppressione della “leggina” attributiva di incrementi retributivi), rendono evidente come la prospettiva assunta dal legislatore, nel fortificare e proteggere la contrattazione collettiva, non sia affatto quella della tutela del lavoratore pubblico, bensì quella, opposta, della tutela delle pubbliche amministrazioni rispetto a “rincorse” ed “inseguimenti” tra fonti impegnate nella gara ad incrementare la spesa per il personale 305. 303 Art. 8, l. 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche): “Le disposizioni della presente legge prevalgono sulle disposizioni di natura contrattuale regolanti la materia” (comma 1). “I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dopo la data di entrata in vigore della presente legge non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della presente legge”. Art. 19, comma 12bis (aggiunto dall’art. 3, l. n. 145 del 2002), in tema di incarichi di funzioni dirigenziali: “Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”. 304 Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede un meccanismo simile a quello di cui all’originario art. 2, comma 2bis, d.lgs. n. 29 del 1993, poi sostituito dall’art. 2, d.lgs. n. 80 del 1998, cui si deve l’attuale formulazione dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 305 Per tutti MARESCA, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico…, cit., p. 30. 361 Si tratta, all’evidenza, di una prospettiva (pubblicistica) radicalmente opposta rispetto a quella “privatistica”, laddove i rapporti tra legge e contratto collettivo di diritto comune (atto di autonomia negoziale privata e non fonte del diritto) sono tuttora regolati dal principio della prevalenza della “fonte” più favorevole al lavoratore, salva diversa previsione legale. Anche se nelle ipotesi, sin qui sperimentate, di riappropriazione legislativa di specifiche materie inerenti al rapporto di lavoro (incarichi dirigenziali, rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare), la “preoccupazione” sembra essere stata piuttosto quella di scongiurare il rischio di deroghe migliorative da parte della contrattazione collettiva, essendosi evidentemente ritenuto che nei casi considerati la legge costituisca lo strumento più adatto (perché meno esposto a condizionamenti) per il perseguimento dell’interesse pubblico. Ma è comunque pur sempre il legislatore — nella logica di una ripartizione di competenze tra legge e contratto collettivo sul presupposto dell’attribuzione al secondo di una vera e propria potestà normativa (e non del riconoscimento “elastico” di una sfera di autonomia collettiva a diametro variabile) — a disporre ex ante, secondo insindacabili valutazioni, delle materie da affidare o da sottrarre alla competenza della fonte contrattuale legittimata, ovvero ad intervenire direttamente nelle suddette materie, senza che in ciò nessuno scorga lesioni della libertà sindacale. Ed il legislatore non si limita ad individuare le materie di competenza della contrattazione collettiva, ma detta anche i principi ed i criteri direttivi cui la stessa deve attenersi 362 nel regolarle, come, ad esempio, in materia di “trattamenti economici accessori”306. Si tratta, oltretutto, di una attribuzione di competenza normativa sotto condizione. Le finalità pubblicistiche di contenimento della spesa complessiva per il personale entro i vincoli di finanza pubblica penetrano infatti, per volontà della legge, nel contenuto dei contratti nazionali di comparto, sotto forma di “apposite clausole” che devono prevedere “la possibilità di prorogare l’efficacia temporale del contratto collettivo ovvero di sospenderne l’esecuzione parziale o totale in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa” 307. Resta ora da fare un cenno all’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, ed al meccanismo di “cessazione di efficacia” della legge, “attivato” dai contratti collettivi, ivi previsto. Se i meccanismi di protezione permanente delle “conquiste” della contrattualizzazione, prima considerati, operano con riferimento al futuro, ha già operato, in un recente passato, un meccanismo “bifasico” di analoga natura, diretto a regolare non già i rapporti tra fonti eteronome e fonti autonome, bensì, in una dimensione globale, l’epocale trapasso tra il vecchio regime pubblicistico ed il nuovo regime privatizzato. 306 Art. 44, comma 2, d.lgs. n. 165. Principi e criteri direttivi sono poi previsti, ad esempio, per gli accordi che stabiliscono i comparti, che devono riguardare “settori omogenei ed affini”, ovvero per la parte obbligatoria della contrattazione collettiva inerente alla disciplina dell durata dei contratti nazionali ed integrativi, della struttura contrattuale, e dei rapporti tra i diversi livelli, che deve avvenire “in coerenza con il settore privato”. 307 Art. 48, comam 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 363 La contrattazione collettiva è stata chiamata infatti a svolgere una funzione che in altra occasione abbiamo definito “costituente”308: quella di “gestire la transizione”309, di far cessare definitivamente gli effetti del preesistente regime pubblicistico310, di attuare la «delegificazione» della disciplina dei rapporti di pubblico impiego, da ricondurre sotto il regime del codice civile” 311. Una funzione di rilievo pubblicistico che sottende l’efficacia generalizzata diretta del contratto collettivo e mal si sposa con la perdurante concezione privatistica della contrattazione collettiva, invalsa tra i giuslavoristi312 . Ma nelle tre ipotesi sin qui considerate (artt. 2, comma 2, secondo periodo; 2, comma 3, quarto periodo; 69, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001), la dottrina giuslavoristica 308 PILEGGI, Comparti, materie, livelli della contrattazione collettiva…, cit., p. 147. 309 TALAMO, Il d.lgs. n. 165/2001 fra tradizione e discontinuità: guida ad un testo unico “meramente compilativi”, in Lav.pubbl.amm., 2001, supplemento al n. 2, 14. 310 Art. 69, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. Sul funzionamento concreto del “meccanismo di trasformazione”, attraverso lo strumento delle “code contrattuali” si veda CARINCI, Una riforma «conclusa»…, cit., p. LXIII. 311 Così, RUSCIANO, Contratto collettivo ed autonomia sindacale, cit., 240 che osserva come si tratti di un “compito pubblicistico”, unitamente all’altro compito di “tutelare i dipendenti pubblici in maniera omogenea (rispetto ai dipendenti privati) ed equilibrata (a fronte dei privilegi di determinate categorie, considerate da sempre « parassitarie»): compatibilmente però […] con gli obiettivi prioritari […] (razionalizzazione della spesa, efficienza, economicità)”. 312 Lo rileva acutamente LISO, Intervento, in Atti delle giornate di studio Aidlass dell’Aquila del 1996, cit., 222: “la lettura dell’efficacia generalizzata forse ha il suo punto forte nell’art. 72, dove si abilita l’autonomia collettiva a manipolare il corpus normativo precedente”. 364 prevalente sembra restia ad intendere i rapporti tra legge e contratto collettivo come rapporto di successione tra fonti del diritto, nel timore di “stravolgere la natura di quest’ultimo che rimane quella di un atto di autonomia privata” 313. E così quei rapporti sono stati intesi soprattutto come rapporti tra la legge ed un “fatto” (il contratto collettivo per l’appunto): un “fatto” al cui materiale verificarsi la legge ricollegherebbe determinati effetti “abrogativi”314, ovvero, più semplicemente, “finali”315, rispetto a norme legali preesistenti. Una lettura riduttiva del ruolo della contrattazione collettiva che — accreditata, forse, dall’originaria formulazione dell’allora art. 2, comma 2bis, d.lgs. n. 29 del 1993 — viene riproposta anche con riferimento alla rinnovata formulazione dell’attuale art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, nonostante il riferimento alla “cessazione di efficacia” delle fonti eteronome sia stato sostituito da quello alla 313 RICCARDI e SPEZIALE, op. cit., p. 157, secondo cui nonostante la “tecnica della deroga” adottata ora dall’art. 2, comma 2, secondo periodo (ma non dall’art. 2, comma 3, quarto periodo) “l’eliminazione delle norme pubblicistiche avviene, infatti, secondo un percorso mediato nel quale la fonte primaria autorizza ex ante la rimozione e il contratto collettivo è assunto quale dato fattuale la cui ricorrenza ne determina concretamente l’attivazione, senza pertanto né stravolgerne la natura di quest’ultimo (che rimane quella di un atto di autonomia privata), né porre in discussione i principi in matera di gerarchia delle fonti”. 314 SPEZIALE, L’abrogazione della legge da parte del contratto collettivo, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche…, cit., p. 123. 315 MARESCA, op. cit., p. 34. LISO, Intervento, cit., p. 222, che osservava realisticamente, sviluppando un rilievo di MARESCA, che “è preferibile che l’autonomia collettiva non venga ad essere onerata del problema di fare i conti con la normativa legale precedente, anche se indebolita. Può essere cosa non agevole per un contratto collettivo togliere esplicitamente un beneficio dato, con una leggina, ad una particolare categoria”. 365 derogabilità delle stesse da parte della contrattazione collettiva 316. A quanto pare, sembra preferibile, in ambiente giuslavoristico, considerare il contratto collettivo come un inerte fatto materiale, pur di scongiurare il “rischio” che esso possa essere qualificato come una fonte del diritto. 4.3 – I comparti. 4.3.1 – L’appartenenza al comparto come “criterio di applicazione” del contratto collettivo. Un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale basato, come quello corporativo, sul concetto di rappresentanza legale (non solo delle pubbliche amministrazioni, ma anche dei dipendenti del comparto) non può sfuggire alla regola della “necessaria” pretederminazione eteronoma dell’ambito di applicazione del contratto collettivo (delle cosiddette “unità contrattuali”)317. Se il contratto collettivo produce effetto per volontà della legge è necessario che la legge medesima definisca ex ante l’ambito di produzione degli effetti da essa voluti, laddove il contratto collettivo di diritto comune produce effetto entro ambiti, non definiti ex ante, ma determinabili in base al mutevole consenso dei “destinatari”, sulla base dei principi della rap- 316 RICCARDI e SPEZIALE, op. cit., p. 157, ed ivi ampi riferimenti alla dottrina, anche con riferimento alle versioni precedenti della norma. 317 Su “comparti, aree dirigenziali e professionals” si vedano, da ultimo, BARBIERI–SPINELLI, La contrattazione collettiva e il contratto collettivo nazionale, cit., 362. 366 presentanza volontaria, da cui la giurisprudenza non si è mai discostata318. Nel pubblico impiego privatizzato l’appartenenza al comparto è, dunque, criterio giuridico di imputazione degli effetti del contratto collettivo, o “criterio di applicazione” dell’unico contratto collettivo legittimato a disciplinare il rapporto di tutti gli appartenenti al comparto medesimo, mentre per il contratto collettivo di diritto comune, l’unico criterio di applicazione del contratto collettivo è la volontà delle parti rappresentate o comunque consenzienti, con conseguente possibilità che una pluralità di contratti collettivi concorra entro un medesimo ambito: inconveniente cui il legislatore che intenda delegare specifiche funzioni normative alla contrattazione collettiva tende ad ovviare attraverso il riferimento selettivo al contratto collettivo (che diventa in tal modo unico) stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi319 . Nel pubblico impiego privatizzato la funzione delegata dalla legge alla contrattazione collettiva (rectius: ai soli contratti collettivi, istituiti come “fonti” e regolati dal titolo III) è quella, generale, di disciplinare in modo uniforme il rapporto di lavoro. Ecco perché il legislatore della privatizzazione ha dovuto innanzitutto predeterminare i comparti, l’appartenenza ai quali costituisce “criterio di applicazione” (nel senso dell’art. 2070 cod. civ.) dei contratti collettivi (uno per ogni comparto, salva l’appendice del contrattazione integrativa) legittimati ex lege a regolare i rapporti di tutti i dipendenti dei comparti medesimi, essendo le pubbli318 Per i riferimenti alla giurisprudenza più recente si veda nota… 319 Per qualche rilievo iniziale in tal senso sia consentito un rinvio a PImaterie, livelli…, cit., p. 153. LEGGI, Comparti, 367 che amministrazioni tenute ex lege ad “adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali ed integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva” (che sono ovviamente solo quelli di cui al titolo III), ed essendo loro conseguentemente vietato di adempiere ad obblighi (che non possono in alcun modo essere) assunti con ipotetici contratti collettivi “altri e diversi”. 4.3.2 – Definizione dei comparti ed autonomia collettiva. L’efficacia erga omnes — connotato genetico dei contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato — ha determinato dunque la necessità di predeterminare gli ambiti in cui detta efficacia si produce. È noto che anche nel settore privato sarebbe questo il “prezzo” — in termini di limitazione della libertà sindacale” — che il sindacato dovrebbe pagare (ed è sempre stato disposto a pagare) “per ottenere il regime erga omnes”320. Nel settore pubblico non vi era però alcun prezzo da pagare “per ottenere il regime erga omnes” perché le fonti di disciplina del rapporto di lavoro hanno sempre avuto efficacia erga omnes (quanto erano soltanto “eteronome”) ed 320 Il riferimento è allo storico contributo di MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», in Riv.trim.dir.proc.civ., 1963, 570, che osservava come “nell’estendere ai terzi gli effetti del contratto collettivo, la maggior parte dei legislatori mira, dunque, a proteggere l’interesse del solo sindacato”, rilevando come però la soddisfazione di tale interesse costasse al suo titolare “un certo prezzo […] connesso con una caratteristica connaturale alla disciplina sostanzialmente legislativa cui l’erga omnes dà luogo: la sua unicità rispetto allo stesso gruppo d’imprenditori e di lavoratori”, con conseguente “perdita da parte di ogni sindacato della facoltà di definire esso il limiti del ramo di attività entro il quale e per il quale negoziare”, facoltà di cui “in regime di diritto comune il sindacato gode appieno”. 368 hanno continuato ad avere la stessa efficacia erga omnes (una volta rese “autonome” per effetto della contrattualizzazione) entro ambiti necessariamente pretederminati eteronomamente. Il contratto collettivo del pubblico impiego privatizzato ha immediatamente “ottenuto il regime erga omnes” (quel regime che, secondo autorevoli costituzionalisti, è il più evidente ed incontestabile criterio di individuazione delle fonti del diritto321), pagando il prezzo, assolutamente simbolico, di una predeterminazione eteronoma dei comparti secondo criteri presi in prestito dalla legge quadro 322. Il legislatore della prima privatizzazione aveva infatti previsto che i contratti collettivi nazionali fossero “stipulati per comparti della pubblica amministrazione comprendenti settori omogenei ed affini” 323, e che i comparti fossero determinati (come in precedenza), sulla base di un accordo tra l’ARAN di allora e le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri324. 321 PIZZORUSSO, Le fonti del diritto del lavoro…, cit., p. 22: “la nozione di fonte che viene qui seguita è pertanto quella che può essere ricavata, a mio parere assai agevolmente, attraverso un’interpretazione a contrario degli articoli 1372 e 2909 del codice civile, i quali rispettivamente determinato i limiti soggettivi di efficacia del contratto e della sentenza civile — cioè di due tipi di atti che, almeno di norma, non costituiscono fonti del diritto, ma invece soltanto di situazionio giuridiche soggettive — con conseguente definizione delle fonti come quegli atti o fatti che assumono efficacia erga omnes”. 322 Art. 5, l. n. 83 del 1993; dpr. n. 68 del 1986. 323 Art. 45, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993 nel testo originario. 324 Art. 45, comma 3, d.lgs. n. 29 del 1993 nel testo originario, che riproponeva il modello ibrido dell’accordo sindacale a rilevanza endoprocedimentale di cui alla legge quadro. 369 Vi erano però da salvare le apparenze (cui, come si sarà notato, il legislatore della privatizzazione tiene moltissimo). E così, una volta determinati i comparti sulla base del procedimento eteronomo di cui alla prima privatizzazione325 il legislatore della seconda ha potuto prevedere innocuamente che i comparti, riguardanti settori omogenei o affini, sono “stabiliti mediante appositi accordi tra l’ARAN e le confederazioni rappresentative legittimate alla contrattazione delle materie di cui all’art. 43, comma 4326 , così da creare l’illusione che la “determinazione delle unità contrattuali è stata restituita all’autonomia collettiva”327. Ma nonostante una siffatta previsione (che comunque conserva elementi intrinseci di marcata eteronomia nel delegare la funzione di individuare i comparti ad una determinata fonte328), il legislatore è successivamente intervenuto direttamente per istituire tre nuovi comparti di contratta- 325 “Regolamento concernente la determinazione e la composizione dei comparti della contrattazione collettiva” approvato con dpcm. n. 593 del 1993. 326 L’ARAN ammette alla contrattazione collettiva per la stipulazione degli accordi o contratti collettivi che definiscono o modificano i comparti o le aree o che regolano istituti comuni a tutte le pubbliche amministrazioni o riguardanti più comparti, le confederazioni sindacali alle quali, in almeno due comparti o aree, siano affiliate organizzazioni sindacali rappresentative ai sensi dell’art. 1 del medesimo art. 43, che cioè abbiano una rappresentatività non inferiore al 5 per cento. 327 Così, BARBIERI–SPINELLI, La contrattazione collettiva…, cit., p. 362. 328 Non si è restituito nulla all’autonomia collettiva e si è invece conferita una astratta delega ai contratti collettivi quadro regolati dall’art. 43, comma 4, e stipulati da ben determinati agenti negoziali, da considerarsi come fonti del diritto, vincolate al criterio secondo cui i comparti devono riguardare settori omogenei ed affini. 370 zione collettiva329, nonché un quarto comparto la cui definizione ha però affidato alla contrattazione collettiva330. Ma lo stesso testo unico prevede tutta una serie di interventi eteronomi di definizione di aree contrattuali autonome (come si prevede per i dirigenti, i quali “costituiscono un’area contrattuale autonoma relativamente a uno o a più comparti”331), ovvero di imposizione di discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto (con riferimento a determinate figure professionali332 ), o ancora di imposizione alla contrattazione collettiva della funzione specifica di istituire un’apposita “area” con riferimento ad 329 Agenzie Fiscali (art. 71, d.lgs. n. 300 del 1999), Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 9, comma 4, d.lgs. n. 303 del 1999), Accademie e Conservatori (art. 2, comma 5, l. n. 508 del 1999). Il precedente contratto collettivo nazionale quadro del 2 giugno 1998 (che aveva confermato il precedente assetto basato su otto comparti), è stato così sostituito da un nuovo contratto collettivo nazionale quadro che, recependo le suddette determinazioni legislative eteronome, prevede ora undici comparti. 330 Art. 11, primo comma, d.lgs. n. 207 del 2001, di riordino delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB). 331 Art. 40, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 165 del 2001, e accordi quadro 25 novembre 1998 e 9 agosto 2000. 332 Art. 40, comma 2, ultimo periodo, d.lgs. n. 165 del 2001. 371 una nuova categoria di personale333, oppure di introduzione di regimi separati di privatizzazione e contrattualizzazione per determinati “aziende ed enti”334. Vi è dunque quanto meno da dubitare che la determinazione di comparti, aree contrattuali, ambiti di discipline specializzate, abbia qualcosa a che fare con l’autonomia collettiva garantita dal primo comma dell’art. 39335. 4.4 – I livelli Anche con riferimento ai livelli di contrattazione collettiva (così come per la determinazione dei comparti), il legislatore delegato della seconda privatizzazione, riprodu333 Art. 17bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (Vicedirigenza) inserito dall’art. 7, comma 3, l. n. 145 del 2002. Sulla istituzione della vicedirigenza si vedano le caustiche osservazioni di VALLEBONA, La vicedirigenza nel lavoro pubblico tra legge e contratti, in Dir.lav., 2002, I, 309, il quale osserva esattamente che “il limite alla libertà sindacale, che invece nel settore privato è piena, deriva non solo dal monopolio attribuito alle suddette confederazioni per la determinazione delel categorie contrattuali, ma anche dalla imposizione per legge di categorie per «settori omogenei ed affini» della pubblica amministrazione (c.d. comparti) essendo consentitit contratti collettivi di mestiere (c.d. area contrattuale autonoma) solo per alcune figure professionali, individuate prima nei soli dirigenti, ed ora, come si vedrà, anche nei professionisti e ricercatori”. 334 Art. 70, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001. 335 Salvo a non ritenere che le norme in discorso regolino l’attività organizzativa ed i modi di formazione della volontà contrattuale delle pubbliche amministrazioni, attraverso direttive amministrative espresse in una esorbitante forma legislativa. Da ultimo, in tal senso, BARBIERI–SPINELLI, La contrattazione collettiva…, cit., p. 397, che argomentano anche dal riferimento all’art. 97 Cost. di cui all’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, per sostenere che l’autonomia collettiva nel pubblico impiego avrebbe fondamento asimmetrico e poggerebbe dal lato dei lavoratori sull’art. 39, primo comma e dal lato della amministrazioni sull’art. 97, primo comma. 372 cendo quasi alla lettera il contenuto della delega a “prevedere che la struttura della contrattazione, le aree di contrattazione e il rapporto tra i diversi livelli siano definiti in coerenza con quelli del settore privato”336, ha tentato, con metodo nominalistico, di far apparire che la contrattazione “decentrata” (ora denominata “integrativa”) non è una contrattazione in “libertà vigilata”, come si era insinuato nel vigore della prima privatizzazione 337. Ed a tal fine ha ripetuto che “la contrattazione collettiva disciplina in coerenza con il settore privato, la durata dei contratti collettivi, la struttura contrattuale e i rapporti tra i diversi livelli”338. Senonché, al di là delle parole, la struttura contrattuale ed i rapporti tra i diversi livelli erano stati già definiti in precedenza sulla base di una disciplina eteronoma (poco corerente con quella del settore privato) che il legislatore della seconda privatizzazione ha sostanzialmente confermato, cosicché il rinvio alla contrattazione collettiva per la de- 336 Art. 11, comma 6, l. n. 59 del 1997, che ha così modificato l’art. 2, comma 1, lett. i) l. n. 421 del 1992. 337 VISCOMI e ZOPPOLI L., La contrattazione decentrata, in CARINCI (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni…, cit, pp. 344 ss. Sulla contrattazione decentrata sotto il vigore della legge quadro, con particolare attenzione agli “scostamenti della prassi” rispetto alle regole si veda T REU , La contrattazione decentrata nel pubblico impiego, in Riv.trim.dir.pubbl., 1992, 348. 338 Art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001 come modificato (allorché era ancora l’art. 45, d.lgs. n. 29 del 1993) dall’art. 1, d.lgs. n. 396 del 1997). Sul passaggio dalla contrattazione decentrata alla contrattazione integrativa si veda da ultimo, VISCOMI, La contrattazione integrativa, in Commentario Utet, 2004, cit., 373 finizione, “in coerenza con il settore privato”339, dei rapporti tra i diversi livelli (rapporti già compiutamente definiti in via eteronoma) suona un po’ fasullo 340. L’ordinamento delle fonti negoziate di disciplina del rapporto di lavoro pubblico è rigidamente accentrato attorno alla contrattazione nazionale di comparto, essendo concepita la contrattazione integrativa, come derivazione o appendice (se non addirittura “coda”) della prima341, nel quadro di un disciplina pervasa dall’ossessione del controllo della spesa per il personale, soprattutto ai livelli decentrati del sistema, come confermato dall’evoluzione legislativa (preoccupata di assicurare la “compatibilità della spesa in materia di contrattazione integrativa” 342), nella quale sem- 339 Ritiene VISCOMI, op. cit., p. 408, che il riferimento alla “coerenza con il settore privato” non andrebbe inteso nel senso che il legislatore imporrebbe di definire una struttura contrattuale identica a quella vigente nel settore privato, ma solo che lo stesso legislatore lascerebbe alla libertà negoziale delle parti “il governo della struttura contrattuale”. Ma una siffatta interpretazione accentua a nostro avviso il carattere paradossale della norma. 340 Ravvisa una certa contraddizione VISCOMI, op. cit., p. 405, che però tenta di spiegare quello che sembra un “paradosso”. In senso critico si veda anche NATULLO, Commento all’art. 45, in La riforma dell’organizzazione…, cit., che parla di un “fuor d’opera”. 341 L. ZOPPOLI, Il lavoro pubblico negli anni 90, Giappichelli, Torino, 1998, 100, e da ultimo VISCOMI, op. cit., p. 403. 342 È, quella riportata tra virgolette, la rubrica dell’art. 40bis, d.lgs. n. 165 del 2001, inserito dall’art. 17, comma 2, l. n. 448 del 2001 (finanziaria per il 2002), come modificato dall’art. 14, l. n. 3 del 2003. 374 brano ravvisabili elementi di continuità, piuttosto che di “ritorno al passato”343. È vero che con la seconda privatizzazione è venuto meno, per ragioni di immagine, più che di sostanza, l’innocuo riferimento alle finalità della contrattazione collettiva integrativa, sostituito da quello alla “coerenza con il settore privato”. Ma nulla è cambiato quanto alla disciplina dei rapporti tra i livelli contrattuali, basata su un rigidissimo rapporto di gerarchia, potendo svolgersi la contrattazione collettiva integrativa soltanto “sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questo ultimi prevedono”, con radicale divieto per le amministrazioni di “sottoscrivere in sede decentrata contratto collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti”344. Ed è alla seconda privatizzazione345 che si deve l’introduzione di una regola eteronoma ed autoritaria di inderogabilità reale nei rapporti tra contratto nazionale di comparto e contratto integrativo, con nullità assoluta delle clausole difformi, secondo un modello sanzionatorio (che non 343 Così, BARBIERI, SPINELLI, La contrattazione collettiva…, cit., p. 357, che parlano, sia puire dubitativamente, di una “terza fase della disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato”, incidente sulla struttura della contrattazione collettiva, la cui ratio “può essere individuata nelal volontà di perseguire obiettivi di contenimento e controllo della spesa pubblica, attraverso una scelta di rinnovato accentramento dell’attività di contrattazione verso la quale torna a nutrirsi la diffidenza che si era manifestata nella prima fase della riforma”. 344 Art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 345 E precisamente all’art. 1, d.lgs. n. 396 del 1997 che ha modificato l’allora art. 45, d.lgs. n. 29 del 1993. 375 lascia spazio alcuno all’autonomia negoziale delle parti) ancor più forte di quello adottato nell’ordinamento corporativo, laddove i contratti collettivi stipulati senza l’autorizzazione delle associazioni di grado superiore (ove prevista) erano semplicemente annullabili346 . Ed è certo che un problema di concorso–conflitto tra contratti collettivi di diverso livello — problema ancora in cerca di una soluzione appagante con riferimento alla contrattazione collettiva di diritto comune del settore privato — non si porrà mai, perché scongiurato in radice, nel sistema chiuso ed accentrato delle fonti di disciplina del lavoro pubblico 347. 5 – Efficienza della pubblica amministrazione e certezza del diritto riferita alle norme dei contratti collettivi. 5.1 – La seconda privatizzazione: tra coerenze ed incoerenze. Gli addebiti di “iperlegificazione” del sistema di contrattazione collettiva, contestati alla prima privatizzazione 348, che aveva mostrato una “preferenza” carica di “diffidenza” per la fonte contrattuale, possono essere contestati, 346 Art. 50 r.d. n. 1130 del 1926 recante norme di attuazione della l. n. 563 del 1926. Come già ricordato erano invece nulli i contratti collettivi non stipulati da associazioni sindacali legalmente riconosciute (art. 47). 347 Potrà porsi soltanto una questione di interpretazione della clausola di rinvio, se di controversa interpretazione, con conseguente “controversia collettiva giuridica”, che potrebbe essere risolta da un accordo di interpretazione autentica. 348 Si veda retro… 376 con l’aggravante della recidiva, anche alla seconda privatizzazione, nonostante l’obiettivo dichiarato di essa fosse di “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” 349, “semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva”350, “prevedere che la struttura della contrattazione collettiva, le aree di contrattazione ed il rapporto fra i diversi livelli siano definiti in coerenza con quelli del settore privato”351. Ed invece, dopo la seconda privatizzazione, la contrattazione collettiva del settore pubblico risulta essere ancor più “incoerente” con la contrattazione collettiva del settore privato di quanto non lo fosse in precedenza . Al punto che inedite questioni di legittimità costituzionale, hanno investito disparità di regime giuridico conseguenti a nuove “misure processuali” disposte nella seconda fase della riforma, con riflessi sostanziali capaci di gettare luce sulla natura giuridica (resa ora ben riconoscibile) del contratto collettivo pubblico. E del resto le suddette questioni sono state rigettate dal giudice delle leggi proprio sul presuppo- 349 Art. 11, comma, 4, lett.a), l. 15 marzo 1997, n. 59. 350 Art. 11, comma 4, lett. c), l. n. 59 del 1997. 351 Art. 2, lett. i), l. n. 421 del 1992, nel testo sostituito dall’art. 11, comma 6, l. n. 59 del 1997. 377 sto della “peculiare natura” di quest’ultimo, “affatto diverso” dal contratto collettivo di diritto comune352. 5.2 – Il timor panico del contenzioso seriale e la certezza del diritto della fonte negoziata. Ma il legislatore delegato non aveva certo intenzione di tradire la delega a rendere la contrattazione collettiva pubblica più coerente con quella privata (nella dichiarata prospettiva, poi dimostratasi illusoria, di una loro prossima unificazione)353 . È che era stato chiamato, contemporaneamente, a dare attuazione ad un’altra parte della medesima legge di delega ben più delicata ed impellente, trattandosi 352 Corte cost. 5 giugno 2003, n. 199, in Lav.pubbl.amm., 2003, 885, con nota di BORGHESI, Il rinvio a titolo pregiudiziale per l’interpretazione dei contratti collettivi del pubblico impiego resiste ai primi controlli della Corte costituzionale, in relazione a varie questioni riguardanti l’art. 64, d.lgs. n. 165 del 2001 (già art. 68bis, d.lgs. n. 29 del 1993, aggiunto dall’art. 30, d.lgs. n. 80 del 1998). Il riferimento alla “peculiare natura” del contratto collettivo disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001, è stato contestato dal commentatore, che ha altresì espresso meraviglia “per la nonchalance con la quale la Consulta prende atto dell’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva del pubblico impiego, scivolando sopra le incertezze e le discussioni che, negli anni, si sono sviluppate sul tema”. Evidentemente si ritiene preferibile il metodo degli “aggiramenti”, degli “escamotage”, degli “espedienti” che la Consulta ha utilizzato con grandi consensi nel 1997. 353 Ed infatti con il d.lgs n. 396 del 1997 ha introdotto, come si è visto, una serie di modifiche al sistema di contrattazione collettiva, agendo soprattutto sulla “soggettività negoziale” delle pubbliche amministrazioni. 378 non già di migliorare l’immagine della privatizzazione, ma di fronteggiare un’emergenza di natura processuale 354. Ci riferiamo alla delega a devolvere, entro il 30 giugno 1998, al giudice ordinario, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti privatizzati, ed alla delega accessoria ad arginare la temuta alluvione del contenzioso seriale, con “misure organizzative e processuali anche a carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso”355. Il legislatore delegato — incoraggiato ad osare di più, dalla fresca costituzionalizzazione dell’aggiramento dell’art. 39 — ha così predisposto una serie di misure, non solo processuali, intimamente connesse, che hanno fatto comparire sulle norme del contratto collettivo pubblico le stimmate della norma giuridica356, rendendone del tutto evidente la “peculiare natura” ed il ben diverso regime giuridico rispetto al contratto collettivo di diritto comune. 354 Sia consentito il rinvio a PILEGGI, Il ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto collettivo, in CERRETA–COLACITO (a cura di), La privatizzazione del pubblico impiego.Profili sostanziali e processuali, Atti del Convegno di Perugia del 31 maggio 1999, Perugia, 2001, 157. 355 Come è noto sono state attribuite al giudice ordinario le controversie di cui all’allora art. 68, d.lgs. n. 29 del 1993, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998 (art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998), con norma transitoria che perseguiva essa stessa finalità deflative del contenzioso davanti al giudice del lavoro. 356 Secondo la già citata espressione di GHEZZI (si veda nota…), che, con riferimento ancora alla prima privatizzazione, sosteneva che il contratto collettivo del settore pubblico recasse ancora impresse le stimmate di quello di diritto comune, e cioè la non ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione delle sue norme. 379 Ma il vero miracolo sembra averlo fatto la prevalente dottrina giuslavoristica, che quelle stimmate non ha voluto vedere, pur di non tradire lo spirito della privatizzazione. Eppure lo stesso principale artefice della seconda privatizzazione non aveva avuto remore ad ammettere che ai contratti collettivi nazionali “la legge riserva, anche sul piano processuale, il trattamento tipico degli atti normativi” 357 . L’applicazione del regime proprio delle norme giuridiche alle norme dei contratti collettivi (vere e proprie fonti 357 D’ANTONA, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro…, cit., p. 288: “ai contratti collettivi nazionali stipulati dall’Aran, e solo ad essi, è espressamente riservato il trattamento proprio degli atti normativi, sotto almeno tre aspetti: a) l’istituto della pubblicazione legale […]; b) l’ammissibilità del ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme collettive; c) ed infine l’accertamento in via pregiudiziale dell’interpretazione, validità ed efficacia delle norme contrattuali come questioni di diritto” (corsivo nostro). L’A. tentava di conciliare il regime legale proprio degli atti normativi con la natura privatistica dei contratti collettivi, distinguendo tra produzione delle norme ed applicazione delle stesse, pur consapevole che si potesse pensare ad un “sofisma”. 380 di diritto oggettivo358), oltre che imposta dalla natura dell’atto, appariva necessaria per ragioni particolarmente pressanti di “certezza del diritto” e di uniforme interpretazione delle norme dei contratti collettivi, nella temutissima prospettiva (poi dimostratasi eccessivamente catastrofista) che un imponente contenzioso seriale (del tipo di quello provocato dalla “vera” privatizzazione di amministrazioni ed enti pubblici) fosse innescato dalla controversa interpretazione di norme di contratto collettivo, ove assoggettate al regime giuridico proprio delle clausole negoziali, con conseguente inapplicabilità degli strumenti processuali destinati a garantire la certezza del diritto e l’uniforme interpretazione delle norme, e con grave “rischio di una polverizzazione delle 358 Coerente conseguenza che infatti viene tratta dalla dottrina costituzionalista (si veda retro…), ma che viene contestata, tra gli altri, da NOGLER, Il contratto collettivo nel prisma dell’accertamento pregiudiziale, in Giorn.dir.lav.rel.ind., 2000, 26, che giudica sorprendente che in altra occasiona chi scrive sia arrivato a sostenere che il contratto collettivo pubblico è fonte del diritto, sulla base di argomentucci quali (tra gli altri) la ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme dei contratti collettivi nazionali; la pubblicazione degli stessi nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana; l’accordo di interpretazione autentica con effetto sulle controversie individuali senza il consenso delle parti interessate; l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi. Secondo l’A. l’assimilazione delle norme di contratto collettivo alle norme di diritto non sarebbe dovuta ad una “inesistente efficacia diretta erga omnes del contratto collettivo” (che viene esclusa sulla base del richiamo pedissequo agli espedienti argomentativi utilizzati da Corte cost. n. 309 del 1997), ma “dalla sua attitudine a rappresentare la regola di giudizio in base alla quale il giudice deve «pronunciare sulla causa» (art. 113 c.p.c.)”. Se abbiamo ben compreso le norme di contratto collettivo operano come norme di diritto, la questione di interpretazione delle stesse è “vera e propria quaestio iuris”, il giudizio di cassazione sulle norme de quibus è un giudizio di legittimità, ma i contratti collettivi che dettano tali norme di diritto non sarebbero fonti del diritto, ma contratti collettivi di diritto comune. 381 decisioni che nel concreto avrebbe vanificato la perseguita uniformità dell’applicazione del contratto collettivo” 359. Si volevano, più in particolare, neutralizzare “due conosciuti fattori di contenzioso seriale e di alterazione degli equilibri dei contratti collettivi: l’interpretazione giudiziale delle disposizioni contrattuali oscure e la sostituzione automatica delle disposizioni contrattuali in contrasto con norme imperative di legge” 360. Il fine di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione sarebbe stato pregiudicato ove non si fosse posto argine ad un rovinoso contenzioso seriale che, oltre a 359 Così, in motivazione Corte cost. n. 199 del 2003, che, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale, ha mostrato di condividere pienamente gli ineccepibili rilievi del giudice a quo, secondo cui “il contratto collettivo si configura, almeno nel settore dell’impiego presso la pubblica amministrazione, quale fonte di diritto oggettivo, posto che, tra l’altro contiene norme generali ed astratte; è efficace erga omnes; è soggetto a pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e conseguentemente al principio iura novit curia, nonché, in caso di di contrasto con altri contratti collettivi, al principio gerarchico, ex art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001, quale criterio di soluzione dei conflitti tra fonti operanti a livelli diversi; non è derogabile né in peggio, né in meglio, e si applica automaticamente al posto delle clausole difformi del contratto individuale; la violazione o falsa applicazione delle norme in esso contenute, costituisce, ai sensi dell’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, motivo di ricorso in cassazione”. Ed anzi la Corte costituzionale ha osservato come proprio quelle “peculiarità” che ha efficacemente sintetizzato (“efficace erga omnes, funzionale all’interesse pubblico di cui all’art. 97 Cost., inderogabile sia in pejus che in melius, oggetto di diretto sindacato da parte della Corte di cassazione per violazione o falsa applicazione”), “rendono evidente l’impossibilità di ritenere a priori irrazionali le peculiarità della disciplina del processo in cui quel contratto collettivo — ben diverso da quelli cosiddetti di diritto privato — deve essere applicato”. 360 Così, D’ANTONA, op. ult. cit., p. 298, che sintetizza il concetto con l’efficace locuzione interpretazione “oltre” ed interpretazione “contro”, entrambe sottratte, in via principale, al giudice ordinario: ciò che dimostra l’inusitata forza assunta dalle norme di contratto collettivo. 382 danneggiare le amministrazioni coinvolte, avrebbe determinato disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso per la stessa amministrazione giudiziaria. 5.3 – Le misure processuali deflative del contenzioso seriale. Il legislatore delegato, nel prendere atto della vera natura delle norme dei contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato, ha esplicitato come ad essi dovesse applicarsi il regime proprio delle norme giuridiche, con qualche “additivo” che rendesse quelle norme ancor più certe, uniformi e cogenti delle stesse norme di legge. Ed a tal fine ha attribuito alle parti stipulanti un inedito potere “autonomofilattico”, da esercitarsi non soltanto d’ufficio (cioè su iniziativa delle parti medesime 361), ma addirittura su istanza di un particolarissimo “terzo”: il giudice del lavoro. In un sol colpo, il d.lgs. n. 80 del 1998 ha introdotto istituti del tutto incompatibili con una contrattazione collettiva di tipo privatistico 362: l’accordo di “interpretazione autentica del contratto collettivo” con effetto sulle controversie individuali in corso senza il consenso delle parti interes- 361 Come era già previsto (ma senza effetti eteronomi sulle controversie in corso) dall’art. 53, d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo anteriore alla seconda privatizzazione. 362 In tal senso sia consentito il rinvio a PILEGGI, Riflessi sostanziali…, cit., pp. 101 ss. Ma, come subito diremo, la prevalente dottrina giuslavoristica si è precipitata ad affermare che i suddetti istituti non intaccherebbero la natura sostanzialmente privatistica dei contratti collettivi. 383 sate363; “l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione del contratto collettivo”364; il “ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto collettivo” 365; la pubblicazione dei contratti collettivi e accordi nazionali nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana 366. Si tratta, come accennato, di “misure” intimamente collegate, basate sul presupposto che le norme di contratto collettivo siano vere e proprie norme giuridiche aventi diretta efficacia erga omnes (tanto ormai lo scoglio dell’art. 39 era stato appena aggirato, e ci si poteva spingere oltre, senza più remore). Il collegamento tra le varie misure è rappresentato dall’essere tutte funzionali all’obiettivo di fronteggiare una spe363 Essendo stato abrogato, dall’art. 43, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998, il secondo comma dell’art. 53, del d.lgs. n. 29 del 1993, ora art. 49, d.lgs. n. 165 del 2001. 364 Art. 68bis, d.lgs. n. 29 del 1993, introdotto dall’art. 30, d.lgs. n. 80 del 1998, ora art. 64, d.lgs. n. 165 del 2001. L’inedito istituto è diretto a promuovere (e ad imporre alle parti in lite) una soluzione, per così dire, domestica ed endosindacale delle suddette questioni, e, ove ciò non fosse possibile, a provocare un anticipato ed immediato intervento nomofilattico della Cassazione, mediante l’immediata decisione della questione pregiudiziale da parte del giudice di merito con sentenza non definitiva, e l’immediato ricorso per saltum in cassazione avverso la stessa. 365 Art. 68, comma 5, d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 29, d.lgs. n. 80 del 1998, ed ora ospitato dall’art. 63, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001. 366 Art. 44, comma 6, d.lgs. n. 80 del 1998, il cui contenuto, curiosamente, non era stato trasfuso nel d.lgs. n. 29 del 1993, quasi a non voler dare molta pubblicità alla norma destinata a dare pubblicità ai contratti collettivi. La pubblicazione nella Gazzetta ufficiale non poteva però non essere inserita nel testo unico (art. 47, ultimo comma). Sia consentito ancora il rinvio a PILEGGI, Riflessi sostanziali…, cit., p. 103, per ulteriori rilievi critici sul punto. 384 cifica ipotesi che il legislatore ha mostrato di temere in modo forse eccessivo. L’ipotesi è quella relativa ad un possibile contenzioso seriale suscitato da una controversa interpretazione di norme di contratto collettivo; l’obiettivo è quello di stroncare sul nascere, o comunque di definire il più rapidamente possibile, il suddetto contenzioso; lo strumento per conseguire l’obiettivo è l’intervento immediato e risolutore delle stesse parti stipulanti, spontaneo o sollecitato dal giudice, o, in difetto (ed in subordine), l’intervento accelerato e potenziato della Suprema Corte nell’esercizio dell’istituzionale funzione nomofilattica riferita alle norme di contratto collettivo in quanto norme giuridiche. 5.4 – L’interpretazione autentica “d’ufficio” o su “istanza” del giudice. Nel testo del d.lgs. n. 29 del 1993 anteriore alla seconda privatizzazione (allorché il trapasso di giurisdizione non era ancora “vissuto” come un’emergenza) era stato ideato un inedito strumento deflattivo del contenzioso cui non era però arriso grande successo: l’interpretazione autentica “d’ufficio”, per così dire, cioè su iniziativa “spontanea” delle stesse parti stipulanti, non “provocata” da alcun giudice. L’accordo di interpretazione autentica non era, del resto, idoneo ad incidere autoritativamente sul contenzioso in atto, essendo espressamente previsto che esso avesse effetto sulle controversie individuali solo “con il consenso delle parti interessate”367. Il legislatore della seconda privatizzazione — condizionato dal timor panico del contenzioso seriale — ha ritenu367 Art. 53, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993. 385 to di dover favorire al massimo la soluzione “domestica” delle controversie relative a norme di contratto collettivo, ed ha istituito una sorta di procedimento incidentale (definito “pregiudiziale”) per promuovere o provocare un accordo di interpretazione autentica di norme di contratto collettivo, nell’ambito di quei giudizi la cui definizione dipenda dalla soluzione di una questione (rilevante e non manifestamente infondata368) di efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi: questione che, secondo la valutazione del legislatore, è più opportuno siano le stesse parti stipulanti, e non il giudice, a decidere in via principale, e che pertanto viene affidata al secondo in via del tutto subordinata369. Ma nella suddetta prospettiva (di rimessione, in via incidentale, alle parti stipulanti di una questione interpretativa rilevante ai fini della definizione del giudizio a quo)370 , era indispensabile che fosse contemporaneamente rimosso l’ostacolo (alla definizione del giudizio stesso) rappresentato dal possibile dissenso delle parti della “controversia individuale in corso”, nonché di tutte le parti interessate alla medesima questione: ostacolo rappresentato, come si è già detto, dalla necessità del consenso delle parti medesime, perché l’accordo di interpretazione autentica producesse effetto nei loro confronti. E l’ostacolo è stato immediatamente eliminato371, pur con qualche più che fondato sospetto di legittimità 368 Sui requisiti della questione si veda l’interpretazione “autentica” di D’ANTONA, op. cit., pp. 300 ss. 369 Da ultimo, GRAGNOLI, La c.d. “interpretazione autentica” del contratto collettivo, in Commentario Utet, 2004, cit., 481, ed ivi ampi riferimenti. 370 La rubrica dell’art. 64 parla di “accertamento pregiudiziale”. 371 Art. 43, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998. 386 costituzionale, per l’insusitata forza delle norme di contratto collettivo autenticamente interpretate, idonee ad imporsi non solo alle parti del contratto individuale senza il loro consenso, ma anche al giudice a quo, con conseguente concentrazione di poteri paralegislativi e paragiudiziari in capo alle parti stipulanti, chiamate ad interpretate e (indirettamente) ad applicare al caso concreto le norme controverse da esse prodotte 372. Per la “denegata” ipotesi di mancato raggiungimento dell’accordo di interpretazione autentica, il legislatore ha ritenuto necessario affidarsi (in subordine, potrebbe dirsi) alla tradizionale funzione nomofilattica della Suprema Corte, opportunamente accelerata (attraverso la previsione di un ricorso immediato per saltum avverso la sentenza che, “se non interviene l’accordo”, decide sulla sola questione pregiudiziale373) e potenziata (attraverso la prevista possibilità di sospensione “dei processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della questione sulla quale la Corte è chiamata a pro- 372 VACCARELLA, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubbblico impiego e sull’arbitrato in materia di lavoro, in Arg.dir.lav., 1998, 728: “l’incostituzionalità della disciplina sembra indiscutibile, risolvendosi essa non solo nella pretesa di vincolare il giudice a quanto convenuto dalle parti sociali in sede di interpretazione autentica (ed espropriandolo persino del potere di cerificare se si tratta davvero di interpretazione) ma anche nella «sterilizzazione» dei diritti soggettivi scaturiti dal contratto collettivo nazionale nel momento stesso in cui, attraverso la modifica della clausola controversa, si riconosce la fondatezza della pretesa fondata su quella clausola”. 373 Art. 64, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. Si tratta di fare in modo che le parti stipulanti, ovvero la Suprema Corte nell’esercizio delle proprie funzioni di nomofilachia intervengano “prima che qualunque giudice di merito decida la causa oltre e contro il contratto collettivo”: così, D’ANTONA, op. ult. cit., p. 300. 387 nunciarsi”374; ovvero, attraverso la decisione immediata della questione, ai fini del ricorso per saltum, nel caso in cui il giudice dei processi in questione non ritenga di uniformarsi ad una già intervenuta pronuncia della Corte375). 5.5 – Il ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme dei contratti collettivi in funzione deflativa del contenzioso. Ma perché tutto questo farraginoso meccanismo processuale deflattivo del contenzioso seriale potesse funzionare e non si risolvesse in un clamoroso flop, era soprattutto necessario che il legislatore gettasse la maschera che fino a quel momento aveva fatto indossare al contratto collettivo pubblico (perché assumesse connotati “coerenti” con quelli del contratto collettivo di diritto comune), e ne mostrasse finalmente il vero volto: il volto di una vera e propria fonte di diritto oggettivo. Sarebbe stato infatti perfettamente inutile accelerare e potenziare l’intervento della Suprema Corte (in funzione deflattiva del contenzioso seriale) per la definizione di quelle che autorevolmente sono state definite “questioni di dirit- 374 Art. 64, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001. 375 Art. 64, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001. 388 to” 376, se le Corte medesima non avesse potuto esercitare liberamente la propria istituzionale funzione nomofilattica; se anche con riferimento ai contratti collettivi pubblici si fosse ripetuto quanto la Suprema Corte suola affermare con riferimento a quelli di diritto comune, e cioè che “l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è riservata, data la natura dei contratti stessi, all’esclusiva competenza del giudice di merito 377; e che dunque “in ragione dei limiti del sin376 D’ANTONA, Contratto collettivo, sindacati, e processo…, cit., spec. p. 296, ed ivi un paragrafo dal titolo eloquente: “L’applicazione dei contratti collettivi nazionali come questione di diritto”. Secondo l’A. “l’uso della locuzione «in via pregiudiziale» esprime la precedenza logica che la questione ha rispetto alla decisione di merito o, detto altrimenti, la sua natura di questione di diritto che precede il giudizio di fatto in quanto riguarda l’individuazione della regola astratta applicabile, che deve entrare come premessa maggiore nel sillogismo giudiziario” (ivi, 300). 377 Tra le tantissime, Cass. 21 luglio 2001, n. 9950. Sullo stato degli orientamenti giurisprudenziali in materia di interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, si veda MAGRINI, Recenti novità giurisprudenziali sull’interpretazione dei contratti collettivi, in Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza, 1, 2004, 117, ed ivi caustiche osservazioni sull’orientamento “innovatore”, su cui già PERSIANI, Il contratto collettivo di diritto comune…, cit., pubblicato anche nella suddetta rivista, pp. 29 ss. Si veda anche DE LUCA TAMAJO, L’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, ivi, che in applicazione del vecchio brocardo ciuius commoda eius incomoda osserva ineccepibilmente che “se le parti sociali, e in particolare il sindacato, hanno interso avvantaggiarsi della ricostruzione privatistica dell’autonomia collettiva e della libertà che ne deriva sul piano dell’efficacia, dei contenuti della trattativa, delle modalità della conclusione, della selezione degli agenti contrattuali, non sarebbe coerente invocare strumenti ermeneutica di altre donti in occasione della disamina di prodotti contrattuali conseguiti attraverso percorsi e coordinate privatistici”. Almeno sino a quando il contratto collettivo resterà fondato sulla rappresentanza (in senso tecncico giuridico) e non su una rappresentatività in grado di coinvolgere tutta la categoria, il tema dell’interpretazione non potrà essere collocato fuori dagli argini privatistici”. Se ne ricava, a contrario, che ben diversa è la conclusione quanto ai contratti collettivi del lavoro pubblico. 389 dacato della Corte di cassazione in materia di interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune — rappresentati dalla sola verifica della correttezza della motivazione e del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale — è fisiologico che due opposte interpretazioni di giudici di merito di una medesima disposizione collettiva siano entrambe convalidate o censurate in sede di legittimità, a seconda del superamento a meno del suddetto limitato controllo”378. Era invece assolutamente necessario — perché quel meccanismo processuale non fosse completamente svuotato e vanificato — che l’interpretazione dei contratti collettivi del pubblico impiego non fosse “riservata”, in forma dispersiva e diffusa, ai soli giudici di merito, ma accentrata davanti alla Suprema Corte, così che la stessa potesse esercitare pienamente la propria istituzionale funzione nomofilattica anche con riferimento alle norme di contratto collettivo e che una sola fosse l’interpretazione da essa “convalidata”, idonea, pertanto, a soffocare sul nascere i focolai di contenzioso seriale attizzati da norme collettive di controversa interpretazione o di dubbia efficacia o validità. Ecco dunque che il legislatore (grazie al timor panico del contenzioso seriale, evidentemente più forte del “sentimento del giuslavorista”) ha dovuto prevedere che non solo 378 Per tutte, Cass. 23 maggio 2001, n. 7039. Sul punto, si vedano, da ultimo, gli esatti rilievi di AMOROSO, L’interpretazione del contratto collettivo, in Dialoghi dottr. giur., 2004, 1, 5, che sulla base del rilievo secondo cui “il controllo in ordine all’esatta interpretazione dei contratti collettivi di diritto è diffuso tra tutti i giudici di merito senza alcuna diretta funzione nomofilattica accentrata nella Corte di cassazione”, conclude esattamente che “allora non deve meravigliare l’affermazione della piena legittimità di opposte letture della stessa disposizione di un medesimo contratto collettivo”. 390 nel caso di ricorso immediato in cassazione379, ma anche con riferimento a tutte le controversie devolute al giudice ordinario, “il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali”380. Corollario della “peculiare natura” dei contratti collettivi, fonti di norme giuridiche, e non già atti di autonomia negoziale privata, e dell’attribuzione alla Corte di cassazione di un potere diretto di interpretazione degli stessi, per accertarne la eventuale violazione e falsa applicazione, dovrebbe 379 Art. 64, comma 3, espressamente richiamato dall’art. 63, ultimo comma, d.lgs. n. 165 del 2001. 380 Art. 63, comma 8, d.lgs. n. 165 del 2001, già art. 68, comma 5, come sostituito dall’art. 29, d.lgs. n. 80 del 1998. 391 essere381 l’assoggettamento dei contratti collettivi medesimi 381 Il condizionale è d’obbligo. Comunque, nello stesso senso si veda da ultimo, VIDIRI, L’Interpretazione del contratto collettivo nel settore privato e nel pubblico, in Riv.it.dir.lav., 2003, I, 103 ss. che osserva giustamente come “in presenza di un contratto collettivo dotato di efficacia erga omnes — e quindi destinato a porsi come fonte eteronoma nei confronti di tutti indistintamente gli appartenenti alla categoria — l’interprete debba equiparare il contratto stesso ad una fonte normativa, non potendo fare applicazione dei criteri ermeneutica codicistici (art. 1362 ss. c.c.c) la cui stessa formulazione ne disvela l’oggetto in quei negozi destinati ad incidere solo sulla sfera giuridica degli autori”. Contra, AMOROSO, L’interpretazione del contratto collettivo, cit., 9, sul presupposto che “non c’è collegamento tra la questione della scelta delle regole applicabili per l’interpretazione del contratto collettivo e quella del ricorso in Cassazione per l’ipotesi di sua violazione o falsa applicazione”. L’A. osserva che nell’ordinamento corporativo i contratti collettivi erano inseriti tra le fonti del diritto, e si poteva ricorrere in Cassazione per violazione e falsa applicazione delle relative norme, eppure queste ultime erano interpretate “secondo le norme di legge sull’interpretazione dei contratti”, come previsto dall’art. 16, l. 3 aprile 1926, n. 536. Deve tuttavia osservarsi al riguardo come fino al 21 aprile del 1942 (data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile la costante giurisprudenza, anche sulla base del richiamato art. 16, escludeva interpretativamente che fosse possibile ricorrere in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto corporativo, sulla base dell’allora art. 517, comma 3, dell’abrogato codice di procedura civile (per tutte, Cass. 14 novembre 1930, Dir.lav., 1930, II, 572), esponendosi alla critica della prevalente dottrina che riteneva che quei contratti avessero natura di legge materiale e che non sussistesse “la ragione che giustifica la esclusione del gravame di cassazione per i contratti di diritto privato”, per i quali “trattandosi di rapporti che non vanno oltre la sfera giuridica di coloro che li hanno posti in essere, non è necessario che la Cassazione garantisca la uniforme applicazione delle pattuizioni, mentre molto interessa che ciò avvenga nei riguardi della legge, norma astratta, che si applica alla universalità o, comunque, ad una pluralità indefinità di soggetti” (GUIDOTTI, Il contratto collettivo di lavoro nel diritto corporativo, Roma, 1935, 435). Solo con l’art. 454 del nuovo cod. proc.civ. (approvato con r.d. n. 1443 del 1940) venne espressamente prevista la possibilità di ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme di contratto corporativo, norme che, come è noto, vennero inserite tra le fonti del diritto (art. 1 e 5, disp. prel. cod. civ.). 392 alle regole legali di interperazione della legge piuttosto che a quelle di interpretazione dei contratti382 . Ma quale che sia la soluzione della complessa questione interpretativa, il peculiare regime giuridico cui sono assoggettati i contratti collettivi del pubblico impiego (che è il regime proprio delle fonti del diritto), li rende “ben diversi da quelli del settore privato”, ed aventi “peculiare natura”, come ritenuto dallo stesso giudice delle leggi nei confronti del quale gli entusiasmi della dottrina giuslavoristica sembrano però essersi ora raffreddati dopo gli anni dell’idillio 383. 5.6 – Il diverso regime riservato alla contrattazione collettiva integrativa come malinteso omaggio alla coerenza con la contrattazione collettiva del settore privato. Pressato, però, dalla contrapposta esigenza di mantenere una certa coerenza con il contratto collettivo di diritto comune, il legislatore ha preferito non esagerare e pensato bene 382 È comunque noto come anche per il contratto collettivo di diritto comune l’applicazione dei criteri legali di interpretazione del contratto tenga conto della particolare natura (generale ed astratta) delle norme da esso poste, con conseguente “valorizzazione del criterio sussidiario dell’interpretazione complessiva delle clausole”, che è il criterio “più flessibile che però presenta il rischio di uno slittamento dell’interpretazione del contratto collettivo dal giudizio di merito al giudizio di legittimità” (così, AMOROSO, L’interpretazione del contratto collettivo, cit., 7). Per giusti rilievi sulla persuasività dell’applicazione del suddetto criterio in relazione alle peculiarità della contrattazione collettiva si veda MAGRINI, Recenti novità giurisprudenziali…, cit., p. 122. Per una nota applicazione del suddetto criterio cfr. Cass. 6 maggio 1998, n. 4592, in Mass. giur.lav., 1998, 563, con nota di LIEBMAN, Contrattazione collettiva e regole dell’interpretazione. 383 Corte cost. n. 199 del 2003, dalla cui motivazione sono tratte le espressioni virgolettate nel testo. 393 di intorbidare un po’ le acque, lasciando un ambiguo spazio per una qualificazione privatistica. L’espressa applicabilità del regime giuridico proprio delle fonti giuridiche è stata così inspiegabilmente limitata ai soli contratti collettivi ed accordi nazionali384 : ciò che ha creato una discutibilissima frattura con i contratti collettivi integrativi385 , che dei contratti nazionali costituiscono una “costola”, condividendone, all’evidenza, la medesima natura giuridica (in applicazione dei criteri di individuazione delle fonti suggeriti dai costituzionalisti), e rispetto ai quali si pone il medesimo problema di garantirne l’uniforme interpretazione ed applicazione. Ferma restanto la sicura non applicabilità dell’additivo rappresentato dal meccanismo (spontaneo o provocato) dell’interpretazione autentica, il legislatore sembra avere inopinatamente escluso la possibilità di un ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto collettivo integrativo, nonché l’applicabilità ad essi del principio iura novit curia, introducendo in tal modo una irragionevole disparità di trattamento tra dipendenti privatizzati — a seconda che la loro pretesa in giudizio si basi su di una norma di contratto collettivo nazionale, ovvero di contratto collettivo integrativo — e determinando, complessivamente, un arretramento nei livelli di tutela processuale dei dipendenti 384 Si veda anche l’art. 47, comma 8, d.lgs. n. 165 del 2001, che prescrive la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale soltanto per i “contratti e accordi collettivi nazionali”. 385 Art. 63, ultimo comma, d.lgs. n. 165 del 2001. Da questa frattura ha tratto spunto ed argomento BARBIERI, Intervento, in Atti delle già citate giornate di studio Aidlass del 2002, 79, per escludere che fossero qualificabili come fonti del diritto gli stessi contratti collettivi ed accordi nazionali, e non solo i contratti integrativi. 394 pubblici rispetto al regime pubblicistico preesistente, laddove l’intesa disciplina in base agli accordi (di qualunque livello) era assoggettata al principio iura novit curia. Ma, evidentemente, le finalità ideali della privatizzazione, il valore della coerenza con la contrattazione collettiva del settore privato, la missione di costruire un diritto “comune” del lavoro (reso “neutro” rispetto alle originarie finalità di tutela del lavoratore, e “neutrale” rispetto alle parti del rapporto di lavoro), valgono bene qualche arretramento nei livelli di tutela del dipendente pubblico. Del resto, è per rendere più efficienti le pubbliche amministrazioni che è stato privatizzato il rapporto di lavoro pubblico. 5.7 – La controversa applicabilità del principio iura novit curia. Il legislatore della seconda privatizzazione ha poi completato l’opera col prevedere che “i contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’articolo 40 commi 2 e 3, sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana” 386. Era, cioè, necessario — perche quel complesso congegno processuale, diretto a dare certezza assoluta alle norme dei contratti collettivi, funzionasse con la massima efficacia e senza intoppi processuali — che quelle norme (oggetto di 386 Art. 47, comma, d.lgs. n. 165 del 2001. Può rilevarsi come il “vecchio” d.lgs. n. 29 del 1993 non contenesse analoga disposizione. Ed invero, detta disposizione, introdotta dall’art. 44, comma 6, d.lgs. n. 80 del 1998, era stata mantenuta in quell’anonimo comma “esterno” perché passasse inosservata, non essendosi in origine voluto dare pubblicità alla norma che assicura la “pubblicità” ai contratti collettivi, per questioni presumibilmente legate all’immagine della privatizzazione ed alla coerenza con la contrattazione collettiva del settore privato. 395 questioni di interpretazione, validità o efficacia) fossero sempre rilevanti nel giudizio a quo e conoscibili dal giudice indipendemente dal contributo necessario delle parti. In caso contrario, il giudice non avrebbe potuto emettere l’ordinanza non impugnabile nella quale, indicata la “questione da risolvere”, attiva il procedimento incidentale di cui all’art. 64, d.lgs. n. 165 del 2001, nel caso in cui l’attore non avesse tempestivamente invocato ed allegato il contratto collettivo recante la norma controversa, con conseguente rigetto del ricorso e “spreco” di un’occasione di soluzione della “questione”. Appare dunque evidente come la pubblicazione dei contratti collettivi nazionali nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (prevista dal legislatore delegato, in assenza di delega espressa, come tributo da pagare alle pressanti esigenze deflative del contenzioso, ma segno conclamato della diretta efficacia erga omnes del contratto collettivo) sia strumentale all’operatività del principio iura novit curia in base al quale “le norme giuridiche da applicare al caso si impongono ai giudici in qualsiasi tipo di giudizio, siano o non siano state dedotte dalle parti”387. Ciò che segna un’ulteriore grave incoerenza con i contratti collettivi di diritto comune, che il lavoratore privato ha l’onere di invocare e di 387 Così, in generale, PALADIN, Diritto costituzionale, 1995, p. 130. 396 produrre in giudizio 388. È invece da escludere che possa ritenersi onerato allo stesso modo il dipendente pubblico, e che ne possa essere rigettato il ricorso per la mancata invocazione o produzione in giudizio di un contratto collettivo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Del resto, sarebbe stato del tutto incoerente (ed assurdo) prevedere la ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme cui non fosse applicabile il principio iura novit curia, che, cioè, il giudice non fosse tenuto a conoscere e ad applicare, indipendentemente dal necessario contributo delle parti del processo. Eppure la prevalente dottrina giuslavoristica sembra preferire una simile incoerenza logico–giuridica, rispetto a quella (ideale) con i valori della privatizzazione. Magari approfittando di qualche “sponda” normativa, da parte di un legislatore che — nell’intento di attenuare a sua volta i motivi di incoerenza con la contrattazione collettiva di diritto comune, e nel timore di avvalorare l’idea, in odore di incostituzionalità, di un’efficacia diretta del contratto collettivo — ha innestato una parziale retromarcia, col far decorrere l’efficacia del contratto collettivo non già dalla data di pubblicazio- 388 VALLEBONA, Il d.lgs. n. 80 del 1990 (c.d.Bassanini ter); il parere del Consiglio di Stato, e le opinioni di Ennio A.Apicella, Antonio Briguglio, Alberto N. Filardo, Antonio Vallebona, in Giust.civ., 1998, II, 257, il quale esclude che “i contratti in esame, pur applicabili a tutti i dipendenti […] e pubblicati nella Gazzetta ufficiale […] siano divenuti fonte di diritto oggettivo, poiché rimangono per il loro meccanismo di formazione contratti privatistici […] con il conseguente onere per la parte interessata di invocarli tempestivamente in giudizio quale causa petendi […] essendo escluso, come per il fatto notorio, solo l’onere della prova”. Ma non ci pare del tutto pertinente il riferimento, sia pure esemplificativo, al fatto notorio con riferimento ad un atto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. 397 ne389, bensì dalla data della sottoscrizione definitiva, così da dare “argomenti” ai fautori della natura privatistica del contratto collettivo (argomenti inquinanti ed ambigui diretti a contaminare la qualificazione in termini pubblicistici). Ma veniamo ora ad una valutazione d’insieme. L’esame delle suddette “misure processuali”, incidenti sulla contrattazione collettiva pubblica, in funzione deflativa del contenzioso, conferma, quanto ora sembra riconoscere lo stesso giudice delle leggi: e cioè che il contratto collettivo pubblico ha natura affatto diversa da quello di diritto comune, essendo fonte di vere e proprie norme giuridiche: è infatti assoggettato al peculiare regime giuridico che, secondo la dottrina costituzionalista, è proprio delle fonti del diritto: “inderogabilità” (o “antigiuridicità” dei comportamenti contrari a norme di diritto); pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, con conseguente applicabilità dell’art. 113 cod.proc.civ. (e del principio iura novit curia); ricorribilità in cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme 389 Come era previsto per le norme corporative dall’art. 10 disp. prel. cod. civ. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 11 prevedeva che i contratti collettivi potessero stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione, senza che ciò, naturalmente, avesse la benché minima incidenza sulla qualificazione degli stessi come fonti del diritto. 398 medesime; applicabilità del principio di parità di trattamen- 399 to390. 390 PALADIN, Diritto costituzionale…, cit., pp. 128 ss., che ritiene siano quelli indicati nel testo gli effetti, in termini di regime giuridico applicabile (indipendentemente da una specifica previsione di diritto positivo che risolverebbe in re ipsa ed in nuce la questione della natura dell’atto come fonte del diritto), dell’identificazione di un atto o di un fatto come fonte del diritto. Lo sforzo di individuazione delle fonti avrebbe dunque una precisa “rilevanza pratica”, come ritenuto da CRISAFULLI, e non già un “valore meramente scientifico–descrittivo”, senza “conseguenze normative di sorta”, come ritenuto da ZAGREBELSKY. Secondo l’A. sarebbe applicabile alle norme giuridiche anche il principio dell’interpretazione sistematica, dovendo attribuirsi importanza “al senso che ogni norma acquisisce nei suoi collegamenti con il circostante diritto oggettivo”. Nello stesso senso, si veda MODUGNO, Fonti del diritto, cit., 2, ed ivi il paragrafo “rilevanza pratica della nozione”, che osserva come “la ricerca delle fonti è giustificata non soltanto dall’esigenza teorica di conopscere […] ma altresì da precise richieste dell’ordinamento considerato”, cioè dall’esigenza di sottoporre le norme giuridiche prodotte da fonti ad un determinato regime giuridico proprio di esse. L’A. elenca le suddette “esigenze” al cui soddisfacimento è funzionale l’individuazione delle fonti, e cioè a) “l’antigiuridicità” propria della trasgressione di una norma giuridica (mentre non è antigiuridica, di per sé, la violazione del dispositivo di una sentenza o di un provvedimento amministrativo); b) la violazione di norme di diritto “ai fini dell’ammissibilità del ricorso in cassazione contro le sentenze o altri provvedimento giursdizionali”, che si realizza “con riferimento al contrasto di tali atti dei pubblici poteri con norme giuridiche (prodotte da fonti del diritto); c) “il parametro cui commisurare l’uguaglianza di tutti i cittadini […] o la esclusiva soggezione dei giudici, o l’oggetto del dovere di fedeltà e di osservanza”; d) “lo speciale regime di rilevanza e conoscibilità delle fonti rispetto agli altri fatti e atti giuridici, consistente nella potesta–obbligo per gli organi giurisdizionali di ricercare ed individuare le norme giuridiche poste dalle fonti del diritto, indipendentemente, di regola, da qualsiasi contributo delle parti del processo (iura novit curia), contributo necessario invece perché il giudice possa tener conto degli elementi di fatto nelle controversie”. Queste “esigenze” nel caso dei contratti collettivi pubblici sono soddisfatte espressamente dalla legge attraverso l’applicazione ad essi del regime giuridico proprio delle fonti del diritto, cosicché non dovrebbe proprio porsi un problema di individuazione delle fonti, essendo detto problema risolto sul piano del diritto positivo . Ed invece, la dottrina prevalente (quanto non 400 Cosicché, non ci sarebbe bisogno alcuno di far ricorso ai criteri di individuazione delle fonti del diritto elaborati dalla dottrina costituzionalista al fine pratico di stabilire il regime giuridico applicabile ad atto di cui sia controversa la qualificazione come fonte del diritto. Nel caso, l’applicabilità del regime proprio della norma giuridica è stata espressamente e direttamente disposta dal legislatore (pur pressato da esigenze deflattive del contenzioso, che imponevano di garantire la certezza delle norme di contratto collettivo), cosicché non v’è bisogno di ricorrere ai molteplici indici di individuazione delle fonti del diritto utilizzati dalla dottrina costituzionalista. Nondimeno, parte, tuttora maggioritaria, della dottrina giuslavoristica391, tende a negare che il contratto collettivo pubblico sia fonte del diritto, ed a ridimensionare il significato delle disposizioni che sembrano assoggettarlo al regime 391 Cfr., autorevolmente, CARINCI, Le fonti della disciplina…, cit., p. CVIII, “non sembrano decisive nel senso di far parlare di una conversione del contratto in vera e propria fonte normativa né la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ex art. 44, c. 6, d.lgs. n. 80/1998, né l’interpretazione autentica ex artt. 53 e 68–bis, né la ricorribilità in Cassazione, per violazione e falsa applicazione degli stessi contratti o accordi collettivi nazionali, ex art. 68, c. 5, d.lgs. n. 29/1993”. Significativa appare la posizione di DELL’OLIO, La tutela dei diritti…, cit., p. 140, che richiama l’insegnamento di F. SANTORO PASSARELLI, a proposito del contratto collettivo corporativo, di cui pure si era esclusa la riconducibilità alle fonti del diritto. 401 proprio delle fonti del diritto392. L’obiettivo è quello di scongiurare il rischio che dall’applicabilità, alle norme dei contratti collettivi, del regime proprio delle norme giuridiche, si possa risalire alla qualificazione dei contratti collettivi come fonti di norme giuridiche: contratti collettivi che si vorrebbe poter continuare a qualificare come contratti collettivi di diritto comune, o al massimo “sui generis”. Ed a tal fine, ci si astiene prudenzialmente da una valutazione sistematica ed organica delle suddette misure processuali, e degli altri profili di disciplina eteronoma del contratto collettivo pubblico, che convergono nella direzione obbligata della qualificazione in termini di fonte del diritto, e si conte- 392 Con una sorta di percorso a ritroso, rispetto a quello consueto della dottrina costituzionalista, si tenta di dimostrare che il regime giuridico previsto per i contratti collettivi, che, secondo i costituzionalisti, è indubitabilmente il regime giuridico proprio degli atti normativi, non sarebbe idoneo a pregiudicare la qualificazione provatistica dei contratti collettivi del pubblico impiego, che non sarebbero fonti del diritto. Ad ogni modo, segnali “inquietanti” (per i fautori della privatizzazione) emergono anche da ciò che sembra riproporsi, con riferimento al contratto collettivo pubblico, l’antica disputa tra “normativisti” e “contrattualisti” sulla natura del contratto collettivo corporativo, come dimostra il rinnovato interesse per gli studi di diritto corporativo, e la ricorrente evocazione della tesi di CARNELUTTI (Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Cedam, Padova, 1930) sulla duplice natura del contratto collettivo (ad es., si veda da ultimo il già citato primo numero della nuova rivista Dialoghi tra dottrina e giurisprudenza, dedicato all’interpretazione del contratto collettivo). Ma in epoca corporativa la dicotomia tra “normativisti” e “contrattualisti” si poneva a parti invertite, rispetto a come si pone attualmente: i “normativisti” erano i giuristi fedeli al regime, mentre i “contrattualisti” erano una sparuta minoranza di giuristi isolati, non invitati ai convegni, non degni di citazione. Ora i ruoli si sono invertiti: i “normativisti” sono considerati i nemici del regime della privatizzazione, una minoranza affetta da nostalgie pubblicistiche, mentre i “contrattualisti” sono gli amici di un legislatore illuminato, che sostengono a spada tratta. 402 sta atomisticamente l’attitudine di ciascuna singola “misura” ad avvalorare l’aborrita qualificazione 393. Si è sostenuto così, che il ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di contratto collettivo (secondo l’identica formula prevista per le “norme di diritto” dall’art. 360, n. 3, c.p.c.), non avrebbe ad oggetto una questione di diritto, ma una questione di fatto 394; che il giudice di legittimità, nel verificare se vi sia stata — oppure no — una violazione o falsa applicazione delle norma di contratto collettivo, non svolgerebbe la propria istituzionale funzione armonizzatrice e nomofilattica, e, dunque, non esprimerebbe un giudizio di legittimità, ma sarebbe eccezionalmento autorizzato a compiere un’indagine di fatto, quasi fosse un terzo giudice di merito (o un secondo, in caso di ricorso per saltum); che la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale avrebbe carattere meramente notiziale, e non condizionerebbe l’efficacia dell’atto, ciò che comporterebbe la non operatività del 393 Si vedano, per una simile impostazione, da ultimo, BARBIERI–SPIcit., p. 390, che parlano di “effetti speciali” del contratto collettivo. NELLI, op. 394 BRIGUGLIO, Le funzioni della corte di cassazione e l’accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi, in PERONE–SASSANI (a cura di), Processo del lavoro…, cit., p. 80, che, pur di non ammettere che le norme di contratto collettivo possano essere considerate come norme giuridiche preferisce credere che con decreto legislativo sprovvisto di delega sul punto si sia fatta una “rivoluzione su altro versante: la Cassazione quando esamina il motivo in discorso non conosce implicitamente di fatti di produzione normativa […] come accadrebbe se i contratti collettivi in discorso fossero davverto assurti a fonti del diritto, bensì formula veri e propri giudizi di fatto al di fuori dei circoscritti casi canonici”. Nello stesso senso, GRAGNOLI, Lavoro pubblico, interpretazione dei contratti collettivi e nuovi schemi processuali, in Riv.giur.lav., 1999, I, 257; DE ANGELIS, L’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione dei contratti collettivi dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Lav. pubbl.amm., 1998, 830. 403 principio iura novit curia anche con riferimento ai contratti ed accordi collettivi nazionali395 . Ancora una volta, tra un’interpretazione che comporti una minor tutela processuale del dipendente pubblico (che nel precedente regime pubblicistico certamente poteva invocare senza limiti il principio iura novit curia, che, oltretutto, risponde certamente a finalità pubblicistiche di razionalità, imparzialità ed uniformità) ed un’interpretazione che renda meno evidente il baratro scavato tra contrattazione collettiva pubblica e contrattazione collettiva di diritto comune, è la seconda ad essere fortemente caldeggiata dai più agguerriti sostenitori della privatizzazione. 6 – La contrattazione collettiva pubblica come modello di efficienza per il settore privato. Ma quanto poco il contratto collettivo di diritto comune abbia rappresentato un modello per quello pubblico risulta da ciò che è ormai il secondo a costituire un modello per il primo; al punto che il regime speciale cui esso è stato assoggettato con la seconda privatizzazione ha natura dichiaratamente transitoria “fino a quando non vengano emanate norme di carattere generale sulla rappresentatività sin- 395 In tal senso, BRIGUGLIO, op. cit., p. 80; VALLEBONA, Il d.lgs. n. 80…, cit., p. 257. Ma agli effetti della operatività del principio iura novit curia, non sembra indispensabile che la pubblicazione condizioni l’efficacia dell’atto. Cfr. ad es. art. 11 disp. prel. cod. civ., con riferimento ai contratti collettivi corporativi. Cfr. anche PIZZORUSSO, Fonti…, cit., p. 413: “Le fonti–atto costituiscono in genere oggetto di speciali misure tendenti ad assicurare la conoscibilità delle disposizioni da esse create”. 404 dacale che sostituiscano o modifichino tali disposizioni”396. La seconda privatizzazione si proponeva infatti come “un terreno avanzato di sperimentazione di alcune riforme della legislazione del lavoro che, nel settore privato, sono discusse da tempo, ma stentano a decollare o sono surrogate dalla contrattazione collettiva ed hanno quindi un’applicazione disomogenea 397. Le ragioni del ruolo trainante ed esemplare assunto dal modello pubblico di contrattazione collettiva erano del resto intuibili già sin dalla prima privatizzazione 398, considerata la crescente domanda di efficacia erga omnes per la contrattazione collettiva del settore privato 399. Quella domanda ha oggi ragioni ben diverse da quelle che, sul finire degli anni 50, si tradussero nella delega “ad emanare norme giuridiche aventi forza di legge per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori”. L’attuale domanda di un contratto collettivo ad efficacia generale ha oggi altre ragioni, estranee alla funzione tradizionale del 396 Art. 42, d.lgs. n. 165 del 2001. 397 Così, D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro…, cit.: “il lavoro pubblico, come è avvenuto in altri momenti, anziché limitarsi ad importare i modelli del diritto del lavoro privatistico, funziona da fattore propulsivo della evoluzione di questo”. 398 Sia consentito ancora il rinvio a PILEGGI, Comparti, materie e livelli…, cit., p. 160. 399 Dette ragioni non erano tuttavia ancora avvertite, perché si riteneva che il modello di riferimento per il legislatore fosse rappresentato dalla contrattazione collettiva di diritto comune. Ed anzi, la parola chiave “privatizzazione” era deputata proprio a rappresentare il processo di unificazione, omologazione, omogeneizzazione, armonizzazione tra la disciplina del lavoro pubblico e quella del lavoro privato: un processo concepito come unidirezionale, cioè come privatizzazione del lavoro pubblico, con esclusione di qualsiasi contaminazione pubblicistica del lavoro privato. 405 contratto collettivo (garantire minimi di trattamento a tutti i lavoratori). Invero, la “crisi di efficacia” del contratto collettivo di diritto comune, nella sua tradizionale ed originaria funzione di garanzia dei minimi, non è mai stata considerata così “drammatica” da meritare un intervento legislativo, grazie all’incessante opera di supplenza giurisprudenziale. Una riflessione sull’art. 39, e sull’efficacia erga omnes del contratto collettivo “oggi”400, sarebbe pertanto anacronistica ed oziosa se posta in relazione a quella tradizionale ed “arcaica” funzione, se si pensa che quella norma veniva considerata “di contestabile attualità” oltre che “sbagliata”, già nel lontano 1967401 . Quella riflessione è invece quanto mai attuale se posta in relazione alle nuove e crescenti funzioni del contratto collettivo 402, emerse sin dall’epoca del cosiddetto “diritto del lavoro dell’emergenza” e della “contrattazione della crisi”, ed alla conseguente “evoluzione dei contenuti e delle tipologie della contrattazione collettiva” 403. Un’evoluzione 400 Il riferimento è alla più volte citata riflessione di D’ANTONA. 401 Da MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», cit. 572, che avvertiva nel 1967 “un diffuso scemare d’interessi attorno al problema dell’erga omnes” (così, p. 590). 402 Di straordinaria attualità le parole di MESSINA, I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, 1904, ed ora in Scritti giuridici, Giuffrè, Milano, 1948, 4: “Un tale regolamento autonomistico esiste di fatto in tutti gli Sati moderni e dovunque ci presenta due interessanti momenti. Anzitutto la tendenza a trasformarsi da figura di diritto subiettivo in norma giurdica obiettiva, ad elevarsi da regola intra partes in precetto super partes. E poi la collaborazione che — quand’anche non arrivi a tale risultato — esso presta alla sovranità statale nella confezione delle leggi sul lavoro”. 403 Per tutti, DE LUCA TAMAJO, L’evoluzione dei contenuti e delle tipologie della contrattazione collettiva, in Riv.it.dir.lav., 1985, I, 16 ss. 406 ancora in atto, nonostante i molti anni ormai trascorsi da quando si prese contezza “di un contratto collettivo che abbandona i lidi più sicuri e tipici della logica esclusivamente concessiva per attingere sempre più di frequente ad una logica gestionale, talora ad una logica ablativa” 404. Rispetto alle nuove funzioni, la crisi di efficacia del contratto collettivo di diritto comune è soprattutto una crisi di consenso da parte “dei singoli lavoratori”, cosicché tutto l’armamentario escogitato dalla giurisprudenza per neutralizzare il dissenso datoriale alla contrattazione “concessiva” o “acquisitiva” appare inutilizzabile, e l’efficacia del contratto collettivo è sovente un’efficacia “contro”, o comunque prescinde del tutto da logiche di favore o di sfavore. Le prime avvisaglie di quella crisi di efficacia si manifestarono rispetto al problema del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, in relazione a deroghe peggiorative previste in sede di contrattazione locale o aziendale. Ma anche a prescindere dal rapporto con altri livelli negoziali, si avvertì ben presto l’esigenza di dare efficacia generale quantomeno al contratto collettivo aziendale (ovviamente nei confronti dei lavoratori e dei sindacati dissenzienti) in relazione alla cosiddetta funzione “gestionale” assunta dallo stesso, sovente per delega legislativa. Ed è noto l’inane sforzo profuso dalla dottrina e dalla giurispru- 404 Così, ancora, DE LUCA TAMAJO, L’evoluzione…, cit., p. 407 denza per dare soluzione al problema 405. Ma è anche noto come — stante l’opinabilità delle soluzioni — parte della dottrina e le stesse parti sociali abbiano sovente auspicato un intervento legislativo volto a dare efficacia generale al contratto collettivo, specie aziendale406. Ma la crisi di efficacia non investe solo il contratto aziendale. Sempre più spesso il legislatore delega funzioni normative alla contrattazione collettiva per la disciplina di dettaglio (o regolamentare) di molteplici istituti del diritto del lavoro (e del mercato del lavoro), sindacale, previdenziale 407 Ma la pressoché sistematica delega legislativa di funzioni normative alla contrattazione collettiva (integrative e/o derogatorie) appare sempre più incompatibile con i limiti di efficacia della contrattazione collettiva di diritto 405 Cfr. per una puntuale ricognizione VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1997, n. 3, pp. 422 ss.: “Si è verificata in proposito una vera e propria crociata della dottrina alla ricerca del marchingegno giuridico idoneo a sterilizzare tale dissenso, in nome dell’innegabile esigenza di una gestione unitaria di interessi indivisibili. Sono fiorite, così, numerose teorie, dirette ad affermare l’efficacia generale nei confronti dei lavoratori del contratto collettivo ablativo o gestionale”. 406 Cfr., ancora, per tutti, DE LUCA TAMAJO, L’evoluzione…, cit., pp. 38 ss.: “è ormai giunto il momento di pensare ad un intervento legislativo capace di restituire al contratto collettivo pienezza di funzioni […] i tempi sembrano maturi per un intervento legislativo di sostegno in grado di guardare le spalle ad una contrattazione (aziendale) ormai impegnata su tanti fronti, mediante il rafforzamento dell’efficacia nei confronti dei singoli lavoratori (iscritti e non iscritti) che in più occasioni è stata contestata e messa in discussione”. Nel Protocollo del 23 luglio 1993 il Governo si era impegnato “ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende”. 407 Per tutti, TOSI, Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in ADL, 1999, 2, pp. 357 ss. 408 comune; esige l’unicità del contratto collettivo legittimato ad adempiere a quella funzione regolamentare; esige, conseguentemente, la selezione dei sindacati legittimati a stipulare quell’unico contratto collettivo, con esclusione degli altri, ed inevitabile sacrificio — nelle materie oggetto di regolamentazione delegata — del pluralismo sindacale; esige una qualche forma di controllo della razionalità dei contenuti della contrattazione collettiva delegata a disciplinare una data materia. Alla “nuova” crisi di efficacia del contratto collettivo, in relazione alle nuove e complesse funzioni di regolamentazione delegata del rapporto di lavoro e del mercato del lavoro, il legislatore e la giurisprudenza hanno dato sin qui risposte soltanto parziali e disorganiche. Il legislatore ha tentato soprattutto di garantire la tendenziale “unicità” della contrattazione collettiva coinvolta nel processo normativo, ed ha, a tal fine, introdotto con sempre maggiore convinzione il principio del sindacato comparativamente più rappresentativo, al fine di selezionare i sindacati legittimati a stipulare l’unico contratto collettivo “delegato” ad integrare o modificare la disciplina di una determinata materia. La giurisprudenza (supportata dalla prevalente dottrina), ha invece tentato di garantire l’applicazione generale dei contratti collettivi, specie aziendali, esposti al dissenso “di singoli lavoratori”, ricorrendo all’espediente del contratto gestionale, ormai ripetutamente brevettato dalla Corte costituzionale408. 408 Cass. 20 marzo 2000, n. 3271; nello stesso senso, Cass. 6 maggio 2000, n. 5735; Cass. 9 settembre 2000, n. 11875. 409 Ma si tratta di risposte ancora parziali e disorganiche che non hanno placato la domanda di efficacia erga omnes (“contro” o “a prescindere”). E quella domanda sarebbe destinata a rimanere senza risposta chissà per quanto tempo ancora, se non fosse per un impulso quasi irresistibile: quello stimolato dalla istituzionalizzazione di un modello forte e limitrofo di contrattazione collettiva ad efficacia generale: un modello del quale, per di più, è stata già certificata la compatibilità ai principi costituzionali. Un modello forte la cui esportazione e generalizzazione consentirebbe di rispondere pienamente alle nuove funzioni del contratto collettivo di diritto comune, ed alle esigenze — avvertite anche nel settore privato — di controllo e governabilità del sistema di disciplina del rapporto, di razionalizzazione e di contenimento del costo del lavoro entro vincoli (non di finanza pubblica, ma) coerenti con il tasso di inflazione programmato. Ma a stimolare l’attrazione verso quel modello pubblicistico cospirano altre evidenti ragioni. In primo luogo, una volta “privatizzato” il rapporto di lavoro pubblico ed assoggettata la disciplina dello stesso alla fonte contrattuale non si spiega — anche sul piano della legittimità costituzionale — la concomitante vigenza di due sistemi limitrofi di contrattazione collettiva così irriducibilmente distanti, e basati su principi antitetici (rappresentanza legale, il primo; rappresentanza volontaria, il secondo), pur se destinati a disciplinare rapporti che si vogliono ricondotti ormai entro la medesima cornice legale privatistica. Tanto più ove si consideri come la delega legislativa di funzioni normative al contratto collettivo avverrebbe per la disciplina regolamentare di istituti comuni al lavoro pub410 blico e privato, cosicché non si giustifica che — ad adempiere ad una medesima funzione regolamentare — provvedano contratti collettivi–regolamento assoggettati a regimi così differenziati. In secondo luogo, il legislatore — sollecitato da tempo a risolvere il problema dell’erga omnes — non brancola più nel buio, ma ha davanti a sé un modello “sperimentale” di contrattazione collettiva ad efficacia generale, funzionale ed efficiente. Non era stato così difficile progettare un sistema generale ed unitario, nell’ambito del quale prevedere che “i contratti collettivi nazionali producono effetti nei confronti di tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati”409, L’operazione, come è noto, si è definitivamente arenata, anche per insormontabili problemi di incostituzionalità, nonostante l’autorevole “revisione” dottrinale dell’art. 39, stante l’impossibilità di una meccanica trasposizione degli argomenti già utilizzati dal giudice delle leggi. Ma certo, qualche anno orsono, il contratto collettivo di diritto comune sembrava aver imboccato il viale del tramonto, salvo poi risalire all’orizzonte come il sole di mezzanotte 410. 409 qualora sottoscritti da sindacati ammessi alle trattative in base alla stessa soglia di rappresentatività minima (5%), e che raggiungano la stessa soglia minima di rappresentatività complessiva (51%), previste attualmente per il settore pubblico409 . E prevedere altresì — riesumando una norma inattuale, perché inidonea a dar conto, sul terreno dell’efficacia oggettiva, della complessità delle nuove funzioni della contrattazione collettiva, e tarata, invece, sulla tradizionale funzione di garanzia dei minimi — che ai suddetti contratti collettivi “si applicano le disposizioni dell’art. 2077 cod. civ.” 410 Cfr. PERA, Verso il contratto collettivo generalmente obbligatorio?, in Riv.it.dir. lav., 2000, I, pp. 97 ss. 411 Ed è davvero singolare che ciò fosse avvenuto per impulso della privatizzazione del lavoro pubblico: quella privatizzazione che rischia di trasformare il diritto del lavoro assai più di quanto il diritto del lavoro non abbia trasformato il lavoro pubblico. 412 413 Capitolo 4 EFFICIENZA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, TUTELA DEL DIPENDENTE PUBBLICO E DIRITTO COMUNE DEL LAVORO 1 – Le tutele sostanziali 1.1 – Il diritto dell’organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Il legislatore della privatizzazione, con “metodo nominalistico” 1, lascia supporre che ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni si applichi proprio lo stesso diritto “comune” del lavoro applicabile ai “rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, con un rinvio, mobile ed “in bianco”, che più generale ed onnicomprensivo non sarebbe potuto essere 2, e che, per giunta, viene ripetuto a scanso di 1 Come ritenuto, non senza qualche fondamento, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel parere del 1992 più volte richiamato: “non pare […] che con metodo nominalistico sia consentito dichiarare privato ciò che è conglobato nel pubblico”. 2 Art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, che rinvia alle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile ed alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. 414 equivoci a proposito delle forme contrattuali e flessibili di assunzione e di impiego del personale 3. Ove poi si consideri come siano “fatte salve” soltanto “le diverse disposizioni contenute nel presente decreto” 4, e che nel “presente decreto” le disposizioni in materia di “rapporto di lavoro”, sono pochissime e riguardano poche materie (mansioni, incompatibilità e cumulo di impieghi, sanzioni disciplinari, pari opportunità), il sogno del diritto comune del lavoro sembra essere diventato realtà. Ed invece è ancora un sogno. Al punto che non è agevole rinvenire una norma del preteso diritto comune del lavoro “neutra” o “indifferente” rispetto alla natura (privata o privatizzata) del rapporto di lavoro e di cui possa dirsi che si applichi allo stesso modo a lavoro pubblico ed a quello privato. Invero, incidono sulla disciplina del rapporto di lavoro privatizzato — differenziandola fortemente da quella del lavoro privato — non solo le poche, ma cruciali, norme contenute nel titolo IV, l’unico dedicato al “rapporto di lavoro”, dirette a introdurre limiti all’indiscriminata estensione al lavoro pubblico di fondamentali principi di tutela propri del diritto “comune” del lavoro (ad esempio, del principio di tutela della professionalità, “importato” soltanto no- 3 Art. 36, d.lgs. n. 165 del 2001, con nuovo rinvio al codice civile ed alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. La norma aggiunge poi che i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia “in applicazione di quanto previsto” dalle leggi speciali specificamente richiamate, “nonché da ogni successiva modificazione o integrazione d ella relativa disciplina”. 4 Norma di salvaguardia dalla storia tormentata, come ricordato in no- ta… 415 minalisticamente nel pubblico impiego 5), a salvaguardia dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche; ovvero a ribadire, con particolare enfasi, che il pubblico dipendente continua a soggiacere agli stessi doveri inerenti all’esercizio di funzioni pubbliche, o comunque all’appartenenza ad amministrazioni pubbliche, di cui al preesistente regime pubblicistico, come modificati ed integrati da una disciplina estremamente dettagliata dell’obbligo di fedeltà (per dirla in termini privatistici), o, meglio, del “dovere di esclusività”6 , ben più invasiva ed impegnativa di quella vigente per il dipendente privato 7. Incidono sulla disciplina del rapporto di lavoro anche le ben più numerose norme in materia di organizzazione della pubblica amministrazione, che, muovendo da una prospettiva esattamente opposta a quella assunta dal diritto del lavoro tradizionale, sono dirette a realizzare l’interesse pubblico all’efficienza della pubblica amministrazione. E così il legislatore regola (come profili dell’organizzazione pubblica, e non in funzione di tutela del dipendente) la dirigenza, la mobilità, le piante organiche, le eccedenze di personale e la mobilità collettiva, il reclutamento 5 Art. 52, d.lgs. n. 165 del 2001 (Disciplina delle mansioni). 6 Cfr. da ultimo, PAOLUCCI, Incompatibilità, cumulo di impieghi e di incarichi, in Commentario Utet, 2004, cit., 796. 7 Si veda i sedici commi del chilometrico art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001. La disposizione più “lunga” del testo unico è dunque quella inerente ai doveri del pubblico dipendente, cui segue quella relativa al “codice di comportamento. Cfr. da ultimo, PAOLUCCI, 416 del personale, le forme contrattuali flessibili di assunzione o di impiego8. Ed anche laddove il legislatore — volendo dare l’impressione di avere privatizzato davvero — arrivi a riprodurre, con evidente “plagio”, interi brani di leggi speciali sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, come a proposito di “eccedenze di personale e mobilità collettiva” 9, la prospettiva è completamente ribaltata rispetto a quella assunta dalle leggi “plagiate”, ed è, nell’esempio proposto, quella, squisitamente organizzativa, inerente alla doverosa (quanto ineffettiva) rilevazione delle eccedenze di personale ed alla altrettanto doverosa (ed ineffettiva) eliminazione delle eccedenze medesime, a salvaguardia dell’interesse pubblico al corretto dimensionamento degli organici ed alla riduzione della spesa per il personale. Ed è nelle trame di una siffatta disciplina dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni che si ricava, o si “ritaglia”, in via quasi indiretta, la disciplina del rapporto di lavoro, e si scopre, ad esempio, che per i dipendenti da pubbliche amministrazioni non è previsto il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e, a ben vedere, nemmeno quello per riduzione del personale, essendo invece prevista soltanto l’automatica estinzione del rappor- 8 Titolo II, d.lgs. n. 165 del 2001, “Organizzazione”, artt. da 10 a 30. Si veda retro… 9 Art. 33, d.lgs. n. 165 del 2001. 417 to di lavoro “nell’interesse della pubblica amministrazione”10 allo scadere del periodo di disponibilità 11. Già avuto riguardo al contenuto del testo unico sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni (e, dunque, “a bocce ferme”) non sembra possa parlarsi di un diritto comune del lavoro. Se poi le bocce iniziano a muoversi, e si considerano i già rilevati effetti di incessante differenziazione provocati sia da “discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”12; sia da discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti dei privati datori di lavoro, si comprende la ragione per cui, forse, si è parlato troppo presto di un diritto comune del lavoro. 1.2 – La costituzione del rapporto di lavoro (il “reclutamento del personale”). 1.2.1 – Estraneità al diritto comune del lavoro della disciplina del reclutamento e degli avanzamenti di carriera. 10 A voler riprendere e mutuare il riferimento al licenziamento nell’interesse dell’impresa, che diede titolo ad un noto convegno. 11 L’art. 33 regola infatti due ipotesi di eccedenza di personale differenziate in base all’entità della stessa (se superiore o inferiore a “10 unità), ed in ogni caso prevede, come possibile esito negativo della vicenda, non già il licenziamento, ma la cessazione automatica del rapporto allo scadere del periodo di disponibilità. Cfr. SORDI, Il licenziamento del dipendente pubblico: il quadro legale, in Lav.pubbl.amm., 2001, 273, e, da ultimo, NATULLO, Gestione delle eccedenze di personale, collocamento in disponibilità e mobilità collettiva, in Commentario Utet 2004, cit., 755. 12 Ipotesi funesta espressamente contemplata dall’art. 2, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 165 del 2001, di cui già abbiamo detto (retro…). 418 Il lavoro pubblico continua ad essere assoggettato ad un regime assolutamente non riconducibile al diritto comune del lavoro con riferimento all’assunzione, anzi, al “reclutamento” del personale. Se nel settore privato è stata da tempo generalizzata l’assunzione diretta, anche a fini occupazionali, e, dunque, valorizzata da scelta del contraente, nel settore pubblico, tra un “blocco” delle assunzioni e quello successivo, continua ad imperare, per vincolo costituzionale, la regola dell’assunzione “tramite procedure selettive” 13. Una regola la cui estraneità al diritto comune del lavoro è enfatizzata dal macroscopico risvolto giurisdizionale inerente alla mancata devoluzione al giudice ordinario delle “controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”14. Ma il concetto di “assunzione”, rilevante nel pubblico impiego va inteso in senso molto più ampio che nell’impiego privato, secondo il costante ammonimento del giudice delle leggi. E ciò, manco a dirlo, per ragioni di efficienza della pubblica amministrazione, che deve selezionare i più meritevoli, attraverso “procedure concorsuali” non solo in caso di prima assunzione, ma anche in caso di progressione di carriera o di accesso ad una qualifica o ad una fascia superiore (intesa quale “figura di reclutamento”), da non ri- 13 Art. 35, d.lgs. n. 165 del 2001. 14 Art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001. Da ultimo BORGHESI, La giurisdizione del giudice ordinario, in Commentario Utet, 2004, 1220. 419 servare a personale già assunto, così da garantire, anche in tale ipotesi, un “adeguato accesso dall’esterno” 15. Estendere quel concetto significa dunque estendere il vincolo costituzionale del concorso pubblico, quale strumento di efficienza, a qualsiasi assunzione–progressione di carriera, anche se successiva alla (prima) assunzione. Ma estendere quel concetto significa anche restringere la sfera di giurisdizione devoluta al giudice ordinario. E così tra le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione, che restano devolute al giudice amministrativo, la più recente giurisprudenza di legittimità 16 tende ora a comprendere, dopo una repentina inversione totale di marcia — meno pericolosa dell’impatto frontale con l’intransigenza del giudice delle leggi17 — anche quelle (da 15 Per una interpretazione dell’espressione “tramite procedure selettive […] che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno” coerente con l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato affidata al d.lgs. n. 80 del 1998, cfr. F. CARINCI, Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, in Lav.pubbl.amm., 2002, 209, il quale osserva che “è quell’espressione a dover essere adattata al resto piuttosto che viceversa”. Essa non è dunque “tesa a concorsualizzare tutto, quanto piuttosto ad evitare una progressiva separazione e sclerotizzazione dell’amministrazione, come ben testimonia l’aver parlato in termini di una riserva per gli esterni «adeguata”. Alle medesime conclusioni perviene, da ultimo, SGARBI, La progressione professionale, in Commentario Utet, 2004, cit., 678, che valorizza il “diverso circuito per l’avanzamento incentrato sullo «sviluppo professionale»” di cui all’art. 52, d.lgs. n. 165 del 2001. 16 Cass. 15 ottobre 2003, n. 15403, già citata. 17 Corte cost. ord. 4 gennaio 2001, n. 2, già citata con cui è stata dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’allora art. 68 d.lgs. n. 29 del 1993, in base all’interpretazione secondo cui la procedura selettiva diretta all’accesso ad una qualifica superiore e riservata sia al personale interno all’amministrazione, sia a candidati esterni, integra “una vera e propria procedura concorsuale di assunzione nella qualifica indicata nel bando”. 420 non riservare solo agli interni) “dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore”. Una delle più rilevanti vicende modificative del rapporto di lavoro (quella inerente alla progressione di carriera) viene in tal modo sottratta al diritto comune (ed al giudice) del lavoro 18, ed alla gestione con i poteri del privato datore di lavoro, ed assoggettata ad un regime pubblicistico incompatibile con quello vigente nel settore privato, laddove, al contrario, vige un opposto principio di non frazionabilità del rapporto, e la giurisprudenza vede con diffidenza qualsiasi novazione del rapporto 19. La necessità di formalizzare la progressione professionale addirittura con una nuova assunzione, sulla base di un concorso, appare altresì incompatibile con il regime privatistico che assegna rilevanza “automatica” all’esercizio di fatto di mansioni superiori, idoneo a determinare la progressione di carriera contro la volontà dello stesso datore di lavoro, ed a piegare l’organizzazione d’impresa all’esigenza di tutela della professionalità del lavoratore. In questo quadro, assai poco allineato al diritto comune del lavoro, quel riferimento al contratto individuale di lavoro (“con cui” avverrebbe l’assunzione), tardivamente inserito dal legislatore della seconda privatizzazione, appare un po’ posticcio. È, quello con cui avverrebbe l’assun18 F. CARINCI, Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, in Lav.pubbl.amm., 2002, 209 19 Cass. 9 aprile 1992, n. 4325: “la valida novazione del rapporto di lavoro, con la sostituzione di un nuovo rapporto a quello precedentemente risolto, presuppone, oltre alla mancanza di ogni intento di defraudare le ragioni del lavoratore, l’esistenza di cause oggettive o particolari esigenze aziendali che giustifichino il licenziamento del prestatore di lavoro e la sua successiva riassunzione, nonché un’effettiva volontà novativa”. 421 zione, un contratto individuale vuoto di contenuti negoziali (che non vi siano immessi dall’esterno): un contratto da cui non dipende la scelta dell’altro contraente e che non regola il rapporto di lavoro. Non appare pertanto del tutto giustificata l’enfasi con cui è stata salutata la svolta epocale della sostituzione del contratto individuale di lavoro al “vecchio” atto formale di nomina, tanto più ove si consideri come da tempo la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto quest’ultimo non indispensabile ai fini della costituzione del rapporto di pubblico impiego 20. 1.2.2 – Il “blocco” delle assunzioni “involontarie”: le norme anticonversione. La privatizzazione non ha concesso ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni l’autorizzazione al porto di quella micidiale arma che, nell’impiego privato, sanziona inesorabilmente l’uso indebito delle “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale”. L’apparato anticonversione predisposto dal legislatore della privatizzazione — a tutela dell’efficienza della pubblica amministrazione — risulta da una congerie di norme, e sembra assurgere a principio generale, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione: un principio diametralmente opposto a quello 20 Cfr. tra le molte Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 1998, n. 424, secondo cui “sussiste un rapporto di impiego con l’amministrazione pubblica in presenza di elementi sostanziali che indicano l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione […] quali la predeterminazione della retribuzione, la subordinazione gerarchica, la continuità ed esclusività delle prestazioni lavorative, il vincolo ad orari specifici di servizio, la concreta equiparazione al personale con la medesima qualifica; in tale contesto non è indispensabile l’atto formale di nomina”. 422 vigente nel settore privato, laddove la tutela effettiva del lavoratore prevale sempre sulla tutela dell’interesse organizzativo del datore di lavoro. Ed invece, il legislatore della privatizzazione ha “incoraggiato”21, le pubbliche amministrazioni ad avvalersi “delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile”, “rassicurandole” sul fatto che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni22 ”. Una previsione, questa, che, curiosamente, è stata introdotta proprio dal legislatore della seconda privatizzazione 23: quel legislatore che pure era stato chiamato a “completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”24, e che, invece, in vista della imminente devoluzione delle controversie di lavoro pubblico al giudice ordinario, ha pensato bene di introdurre una formidabile misura sostanziale “diretta a prevenire disfunzioni 21 Art. 36, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001. Ma già era prevista in generale l’applicabilità di tutte le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali sul lavoro subordinato nell’impresa, tra cui anche quelle sulle forme flessibili di assunzione e di impiego del personale. 22 Art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 23 Art. 22, d.lgs. n. 80 del 1998. 24 Art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59 del 1997. 423 dovute al sovraccarico del contenzioso”25 (da parte di moltitudini di precari stabilmente utilizzati dalle amministrazioni), ed allo stesso tempo (ed anzi principalmente) a salvaguardare l’integrità delle dotazioni organiche, rendendole del tutto impermeabili alla pretesa di stabilizzazione di rapporti precari, condannati a restare tali. Ma già la legge sul lavoro temporaneo tramite agenzia (anteriore alla seconda privatizzazione)26 aveva previsto che “nei confronti delle pubbliche amministrazioni non trovano comunque applicazione le previsioni relative alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato nei casi previsti dalla presente legge” 27. E dopo aver abrogato quella legge (peraltro, in difetto di espressa delega) il legislatore della riforma del mercato del lavoro, si è affrettato a chiarire innanzitutto che “la previsione della trasformazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 27, comma 128, non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni cui la disciplina della somministrazione trova applicazione solo per quanto attiene alla somministrazione di lavoro a tempo determinato” 29. Infine, il principio dell’intangibilità assoluta dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni è stato riafferma25 Come più volte ricordato il Governo era stato delegato a prevedere “misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico di contenzioso” (art. 11, comma 4, lett. g, l. n. 59 del 1997). Ma appare indubbio come la norma anticonversione funzioni anche come misura sostanziale deflattiva del contenzioso. 26 Artt. 27 Art. 28 1 e 11, l. n. 196 del 1997, ora abrogati. 11, comma 2, l. 24 giugno 1997, n. 196. Relativo alla somministrazione irregolare. 29 Art. 86, comma 8, d.lgs. n. 276 del 2003. 424 to, come già ricordato30, anche in materia di part time. Nei confronti delle pubbliche amministrazioni non operano infatti le “sanzioni” inerenti alla “dichiarazione della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno” dalla data dell’accertamento giudiziale dell’omessa indicazione della durata della prestazione lavorativa, ovvero della “determinazione delle modalità temporanee di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale” in caso di “omessa indicazione della collocazione oraria della prestazione”31. Il principio anticonversione di cui all’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 è stato ritenuto conforme agli art. 3 e 97 Cost., nella sua idoneità a neutralizzare le sanzioni reali previste dall’abrogata disciplina del contratto a termine32, avendo la Corte costituzionale 33 confutato la “premessa” da cui il giudice a quo aveva desunto l’illegittimità costituzionale della norma denunciata in quanto contrastante con il principio di eguaglianza, e cioè che “il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sia assimilato, sotto ogni aspetto, a quello svolto alle dipendenze di datori di lavoro privati”. 30 Si veda retro… 31 Art. 10 d.lgs. n. 61 del 2000, in relazione all’art. 8, comma 2 del medesimo decreto. 32 La questione era stata sollevata, sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, per la disparità di regime giuridico tra dipendenti privati, cui era applicabile la tutela della trasformazione del rapporto di cui agli artt. 1 e 2. l. n. 230 del 1960, e quello dei dipendenti privatizzati cui la stessa tutela non era applicabile per effetto del principio anticonversione di cui all’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 33 Corte cost. 13 marzo 2003, n. 89, in Lav. pubbl. amm. 2003, 355, con nota di GRECO, La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego supera il vaglio di costituzionalità.. 425 E “limitando l’esame al solo profilo genetico del rapporto”, la Corte ha rilevato che “il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso […] posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione”: un principio che “di per sé rende palese la non omogeneità — sotto l’aspetto considerato — delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”34. Ma la partita non è ancora chiusa. Il d.lgs. n. 368 del 2001, di attuazione della nota direttiva 1990/70/CE in materia di contratto a termine, non esclude dal proprio ambito di applicazione i rapporti di la- 34 La sentenza si colloca nel solco di orientamenti della medesima Corte costituzionale anteriori alla privatizzazione (ad es. Corte cost. 3 marzo 1986, n. 40, in Foro it., 1986, I, 1769), che, con riferimento ad analoga questione di disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati in relazione alle diverse conseguenze di violazioni di norme in tema di impiego temporaneo di personale rilevò come la normativa denunciata era diretta a “porre un freno ad assunzioni senza concorso, indiscriminate, clientelari, destinate a trasformarsi in assunzioni a tempo indeterminato con pregiudizio della p.a. e per l’erario”. In senso critico rispetto all’orientamento del giudice delle leggi, cfr. CHIECO, I contratti flessibili della p.a. e l’inapplicabilità della sanzione «ordinaria» della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 89/ 2003 della Corte costituzionale in Lav.pubbl.amm., 2003, 489. 426 voro alle dipendenze da pubbliche amministrazioni35 , né prevede per essi norme particolari36 , né, in particolare, ribadisce il principio anticonversione con riferimento agli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine che la direttiva comunitaria vuole prevenire37. Ciò che ha indotto un giudice38 a ritenere che il suddetto decreto legislativo “abbia introdotto una deroga al divieto di costituzione di rapporti a tempo indeterminato presso le Pubbliche Amministrazioni per violazione di norme imperative sulla successione di contratti a termine”. C’era bisogno, però, di un sostegno autorevole prima di assumersi la responsabilità di scardinare quel principio anticonversione che la stessa Corte costituzionale aveva ritenuto costituzionalmente ineccepibile. E quel sostegno è stato chiesto alla Corte di Giustizia, sotto forma di questione in- 35 Come fanno, invece, gli artt. 5, l. n. 30 del 2003 e 1, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003. 36 Come fa l’art. 10, d.lgs. n. 61 del 2000. 37 Era (ed è) tuttavia opinione prevalente che la preesistente disciplina speciale anticonversione per le pubbliche amministrazioni prevalesse sulla sopravvenuta disciplina generale del contratto a termine che, del resto, ripropone quel tipo di sanzione già previsto dalla l. n. 230 del 1962. 38 Trib. Genova, ord. 21 gennaio 2004 (in Lav.giur., 2004, n. 9, 885, con nota adesiva di COSTANTINO) ha rimesso alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato la questione se la nota direttiva 1990/70/CE sul riavvicinamento delle discipline nazionali sui contratti a termine “debba essere intesa nel senso che osta ad una disciplina interna (previgente all’attuazione della direttiva stessa) che differenzia i contratti di lavoro stipulati con la Pubblica Amministrazione, rispetto ai contratti con datore di lavoro privati, escludendo i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazione di regole imperative sulla successione dei contratti a termine”. 427 terpretativa ai sensi dell’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità Europea. Nell’attesa, ci limitiamo a rilevare, più in generale, come si potesse supporre che la privatizzazione del lavoro pubblico e la devoluzione delle relative controversie al giudice ordinario, contribuissero, almeno in parte, a ridurre i differenziali di tutela con il lavoro privato, nonostante le dichiarate finalità pubblicistiche della privatizzazione. Invero, unificata la giurisdizione, ogni eventuale disuguaglianza nella disciplina “comune” del rapporto cade sotto gli occhi di un unico giudice (tradizionalmente sensibile ai valori di tutela del lavoro), chiamato ad applicare un diritto del lavoro diseguale a rapporti di lavoro ormai ritenuti di ugual natura. Ed invece, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (anche dell’amministrazione giudiziaria) è la chiave di volta giurisprudenziale per far quadrare i conti delle disuguaglianze di regime tra lavoro pubblico e privato: disuguaglianze che la privatizzazione enfatizza, e cui corrispondono simmetriche disuguaglianze tra datore di lavoro pubblico e privato, per la ben più alta considerazione legislativa dell’interesse organizzativo del primo. 1.3 – Tutela della professionalità ed efficienza della pubblica amministrazione. Alla stessa perentoria logica di intangibilità delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni risponde la deroga ai fondamentali principi di tutela della professionalità del lavoratore, propri del diritto comune del lavoro. 428 Già sin dalla prima legge delega 39, del resto, il Governo era vincolato a prevedere espressamente, “in deroga all’articolo 2103 del codice civile”, che l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisse il diritto all’assegnazione definitiva della stesse”. Pur senza riferimenti all’art. 2103 cod. civ.40 , l’attuale art. 52, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che “l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore e dell’assegnazione di incarichi di direzione”41, ed il sesto comma che “in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore” (salva diversa previsione dei contratti collettivi). Sono state così frustrate le messianiche attese di quei dipendenti che confidavano nella privatizzazione perché 39 Art. 2, comma 2, lett. n), l. 421 del 1992. 40 Riferimento che si rinviene invece in materia di incarichi dirigenziali (art. 19, comma 1). 41 Più aderente alla legge delega era il testo dell’art.57, abrogato dall’art. 43, comma 1, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, prevedeva espressamente (comma 2) che “in deroga all’articolo 2103 del codice civile l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribui(sse) il diritto all’assegnazione definitiva delle stesse”. L’art. 56, nel testo “novellato” dal già citato d.lgs. n. 80 del 1998, prevedeva altresì che fino alla data di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi “in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori (potesse) comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici di carriera nell’inquadramento professionale del lavoratore”. Ma l’inciso relativo alla insussistenza del “diritto a differenze retributive” è stato poi espunto dall’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387. 429 fosse debellata la piaga del “mansionismo”42. Ed invece, anche sotto questo profilo, la privatizzazione si collega senza soluzione di continuità all’assetto pubblicistico precedente, mentre la ben più carente tutela della professionalità del dipendente privatizzato, rispetto a quello privato43, viene ancora una volta giustificata “in ragione delle perdu- 42 Cfr. efficacemente ALLEVA, Lo ius variandi, in Commentario, p. 1528: “non meraviglia, dunque, che la disciplina privatistica dell’art. 13 St.lav. abbia rappresentato per la maggior parte dei pubblici dipendenti una sorta di terra promessa”. 43 Per una diversa valutazione, si veda LIEBMAN, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Lav.pubbl.amm., 1999, 628, che intravede “un preciso disegno di tutela della professionalità del lavoratore nel rispetto delle compatibilità organizzativa e finanziaria della pubblica amministrazione”. In tale prospettiva, “la mancata automaticità delle promozioni in ragione dello svolgimento di mansioni superiori […] così come l’irrilevanza dell’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza ai fini dell’inquadramento, non costituiscono vistose deroghe ad un art. 2103 Cod. Civ. che si supponga applicabile al lavoro pubblico in tutte le sue parti che non siano espressamente derogate”. Si tratterebbe invece di “singoli aspetti di una regolamentazione più ampia, che si inserisce coerentemente nel disegno riformatore della pubblica amministrazione” diretti “ad impedire le pregresse prassi di sovrainquadramento e di progressivo scivolamento dei dipendenti pubblici in qualifiche superiori”. Sulla base di tale impostazione l’A. ritiene non applicabile al lavoro pubblico la sanzione di nullità di eventuali patti contrari (individuali e collettivi) che è, invece, parte caratterizzante dell’art. 2103 Cod. civ.”. 430 ranti peculiarità del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato” 44 V’è poi45 un ulteriore scostamento, assai significativo, rispetto all’art. 2103 cod. civ. (pur se ben camuffato dalla apparente riproduzione testuale dell’incipit dello stesso articolo), laddove si prevede che il “prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni” (non già “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, ma) “considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”. Con riferimento al dipendente privatizzato il giudice non può dunque sindacare la valutazione di equivalenza professionale tra le varie mansioni espressa dai contratti collettivi, come invece può (e deve) fare con riferimento a dipendente privato, per quanto anche il primo sia denominato “prestatore di lavoro” nell’incipit dell’art. 52, così da accentuare la somiglianza, meramente nominale, con l’art. 2103 cod. civ. La deroga ai principi di tutela reale della professionalità (così come quella ai principi di tutela contro gli abusi nell’utilizzo flessibile del lavoro) si è dimostrata forse la più efficace misura “sostanziale” per prevenire disfunzioni legare al sovraccarico di contenzioso, e spiega perché sui giudici del lavoro 44 Così, Cass. 25 ottobre 2003, n. 16078: “il legislatore, “recependo una regola risalente e costante, già vigente nell'impiego pubblico […] prevede che l'esercizio di fatto di mansioni più elevate rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore nella superiore qualifica, regola questa che, pur datata e destinata ad essere superata dalla normativa contrattuale autorizzata a prevedere fattispecie di "avanzamenti automatici" (art. 52, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001, cit.), si giustifica non di meno in ragione delle perduranti peculiarità del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato”. 45 Sulle “acquisizioni e timidezze della nuova disciplina del mansionismo” cfr. ancora e per tutti ALLEVA, Lo ius variandi, cit. pp. 1547 ss. 431 non si è abbattuto, con la violenza temuta, il maremoto del contenzioso seriale dei dipendenti privatizzati, dopo le ondate alluvionali provocate dal contenzioso promosso dai dipendenti degli enti pubblici privatizzati46. 1.4 – La sostanziale “tenuta” delle garanzie di stabilità del rapporto. Se da un lato, sotto il profilo appena considerato, sono state frustrate le speranze di quei dipendenti che dalla “privatizzazione” si sarebbero attesi maggiori riconoscimenti e tutele (specie sul versante della professionalità e della carriera), dall’altro lato sono stati in buona parte fugati “i timori oscuri, ma intensi”47 di quegli altri dipendenti pubblici (sovente coincidenti con i primi) che vedevano la privatizzazione come una seria minaccia a consolidati privilegi di status (specie sul versante della stabilità e dell’inamovibilità del posto di lavoro). Ed alla fine, tra tutele negate e privilegi conservati, tra frustrazioni e sospiri di sollievo, la partita della privatizzazione è finita sostanzialmente in parità, al punto che si può ricorrere all’abusato motivo gattopardesco per cui tutto è cambiato affinché nulla cambiasse. Quasi volesse tranquillizzare i dipendenti che si apprestava a privatizzare, il legislatore si è ben guardato dal46 Contenzioso avente non a caso ad oggetto principalmente questioni di corretto inquadramento, di violazione del divieto di intermediazione (si pensi agli appalti delle Ferrovie dello Stato), di utilizzo indebito di contratti a termine e di altre forme flessibili di impiego del personale. 47 Così, ALLEVA, Lo ius variandi, cit. p. 1528. 432 l’inserire norme in materia di licenziamento, ed anzi la parola licenziamento è bandita, ed il legislatore usa il verbo “recedere” una sola volta con riferimento ai casi pià gravi di responsabilità dirigenziale 48. Tuttavia, con il preesistente regime pubblicistico sembra essere caduto anche il dogma pubblicistico dell’estinzione del rapporto legata alla ricorrenza di specifici e tassativi fatti o atti estintivi. La materia è ora regolata dai contratti collettivi che, con riferimento al licenziamento per fatto imputabile al dipendente, prevedono, come nel settore privato, una fattispecie aperta di licenziamento disciplinare, cioè legata alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo. Il differenziale di tutela rispetto, al lavoro privato, deriva dalla scarsissima sensibilità dell’ago della responsabilità disciplinare nei codici disciplinari del settore pubblico (come emerge dal raffronto con quelli del settore privato). Anche la disciplina collettiva di fattispecie autonome di recesso, quali il licenziamento per superamento del periodo di comporto, appare ispirata a notevole garantismo, rispetto al settore privato. Il testo unico si occupa invece, come detto, di “eccedenze di personale e mobilità collettiva”, attraverso una disciplina di rinvio espresso alle disposizioni di cui alla l. n. 223 del 1991, integrata da specifiche disposizioni per il personale da “collocare in disponibilità” (che a parte le assonanze non coincide affatto con il “collocamento in mobilità” del settore privato). Ma non si tratta di una disciplina sui licenziamenti collettivi, come già avvertito, non essendo previsto alcun licenziamento né per riduzione del persona48 Art. 21, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 433 le, né per giustificato motivo oggettivo, ma solo l’estinzione automatica del rapporto al termine del periodo di collocamento in disponibilità. Il regime della stabilità del rapporto di impiego pubblico privatizzato, per quanto modificato, è ben diverso e più forte sotto vari profili rispetto a quello vigente nel settore privato, ed è applicabile “a prescindere dal numero dei dipendenti”49. Ed anche la conservazione di consistenti garanzie di stabilità del rapporto ha funzionato come fattore deflattivo del contenzioso. 2 – Efficienza della pubblica amministrazione e tutela processuale del dipendente privatizzato. 2.1 – Il travaglio del trapasso di giurisdizione ed i suoi postumi. L’aspetto più tangibile ed appariscente della privatizzazione, ciò che probabilmente davvero (se non solo) consente di parlare di “svolta” rispetto al passato, è rappresentato dalla devoluzione delle controversie dei dipendenti da pubbliche amministrazioni al giudice ordinario. È il giudice che fa la differenza. Tanto che, come si è osservato, “l’opposizione al trasferimento di giurisdizione è, in realtà, opposizione al superamento del vecchio assetto panpubblicistico della regolamentazione del lavoro pubblico” e “l’assoggettamento del lavoro pubblico alle regole del diritto comune del lavoro, ancorché voluto dal legislatore, non du49 Art. 51, d.lgs. n. 165 del 2001. 434 rerebbe lo spazio di un mattino se ad amministrare quelle regole fosse il giudice amministrativo”50. Ma non è delle enormi complicazioni post partum provocate da “nove anni di travaglio del trapasso di giurisdizione” che intendiamo qui parlare51, ma solo dell’incidenza della finalità di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione (e di non compromettere l’efficienza dell’amministrazione giudiziaria), sulla tutela processuale del dipendente privatizzato, ed in particolare degli arretramenti nei livelli di tutela processuale, che a noi appaiono evidenti. Ci limiteremo, però, a brevi rilievi descrittivi, meramente esemplificativi, su temi che meriterebbero ben altro approfondimento e competenza specialistica52. E, certo, un primo arretramento nei livelli di tutela deriva proprio dalle complicazioni processuali derivanti dalla duplicazione 53 (o comunque dalla incertezza circa i confini) della giurisdizione, specie con riferimento a determinate materie, ad esempio, quella relativa alla costituzione del 50 Così, GAROFALO, Il trasferimento di giurisdizione…, cit., p. 501; SUPanni di travaglio del trapasso di giurisdizione…, cit., p. 308. PIEJ, Nove 51 Si rinvia al riguardo alle graffianti considerazioni di SUPPIEJ, op. cit., pp. 307 ss., che parla di “complicazione terrificante” e di “folle sistema di riparto della giurisdizione”, con riferimento alla prima privatizzazione. 52 Nella prospettiva indicata, ci limiteremo, però, a brevi cenni descrittivi ed esteriori, su temi delicati e complessi che richiederebbero ben altro approfondimento e competenza specialistica, e coltiveremo, sull’esempio di LIEBMAN, op. ult. cit., p. 648, il “culto del selfrestraint” nell’avventurarci sul terreno processuale. 53 Cfr. ad es. Cass. 5 marzo 2003, n. 3252, in Lav. pubbl.amm., 2003, 607, con nota di BOCCI, La doppia tutela nei casi di atti amministrativi presupposti e diritti soggettivi e i poteri del giudice ordinario. L’inesistenza del diritto soggettivo alla scorrimento della graduatoria in un comune. 435 rapporto di lavoro 54, posto che, come è noto, “restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione”55, per tali dovendosi intendere ormai anche quelle dirette alla progressione di carriera56, con conseguente correlativa dilatazione dell’ambito della complicazione. Del resto, è ancora controverso se il criterio di riparto di giurisdizione sia per materia (o, quanto meno, per “blocchi di materia”57, ad esempio in materia di incarichi dirigenziali), con conseguente costituzione in capo al giudice del lavoro di una sfera di giurisdizione esclusiva58, sul pre54 Sulle “notevoli incertezze” ed il “groviglio di problemi” che crea quel criterio di riparto, si veda GARILLI, Le controversie sui concorsi e sulla progressione verticale: riparto di giurisdizione, discrezionalità amministrativa e poteri del giudice ordinario, in Lav.pubbl.amm., 2003, 17. 55 Art. 56 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001. Cass. S. U. 18 dicembre 2003, n. 15403, cit. 57 Sia pure con riferimento ad ipotesi di giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo in materia di urbanistica e pubblici servizi, si veda cfr. Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204, che ha dichiarato illegittimo l’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205, in base al rilievo secondo cui “il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie”. 58 E su questo presupposto Trib. Genova, ord. 22 settembre 2000, n. 753 (in Lav. pubbl.amm., 2001, 181) aveva sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione alla devoluzione al giudice ordinario delle controversie in materia di incarichi dirigenziali. 436 supposto che sarebbero ancora configurabili provvedimenti amministrativi e situazioni di interesse legittimo, ovvero se il criterio di riparto sia quello generale della consistenza della situazione giuridica dedotta in giudizio 59, sul presupposto che, nelle materie privatizzate, non sarebbero ormai più in alcun caso configurabili provvedimenti ed interessi legittimi, come si ritiene avvenga persino in materia di conferimento e revoca di incarichi dirigenziali, nonostante il legislatore parli espressamente di “provvedimento” 60. La stessa Corte costituzionale è parsa sul punto piuttosto confusa, avendo portato acqua al mulino di entrambe le tesi61 , osservando, infine, che quel che conta è che “in ogni caso, qualsiasi problema sulla natura dell’atto di conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali non incide sulla attribuzione della giurisdizione effettuata dal legislatore”62. 2.2 – Dall’interesse legittimo di diritto amministrativo all’interesse legittimo di diritto privato. Ma a parte i rilevati dubbi in materia di incarichi dirigenziali, sembra ormai assodato che l’interesse legittimo di 59 Come ritiene (ma non con riferimento alla peculiare materia degli incarichi dirigenziali) Cass. Ord. 6 febbraio 2003, n. 1807, in Lav.pubbl.amm., 2003, 307, che pure osserva ineccepibilmente come la disciplina del lavoro pubblico “contrattualizzato” abbia una “spiccata specialità” che lo colloca “a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico”. 60 Critica questa tesi, da ultimo, CARINCI, Una riforma conclusa…, cit., che però è sostenuta dalla più recente giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Cass. 20 marzo 2004, n. 5659, già citata in nota…). 61 Corte cost. 23 luglio 2001, n. 275. 62 Corte cost. ord. 9 dicembre 2002, n. 525. 437 diritto amministrativo sia la vittima più illustre della riforma, specie da quando, con la seconda privatizzazione, il legislatore ha previsto che gli organi preposti alla gestione assumano, con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, non solo le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, ma anche le determinazioni per l’organizzazione degli uffici63. La mutata natura di quei “poteri” gestionali sembra però essere destinata ad incidere in funzione limitativa sui poteri di un terzo: il giudice del lavoro. Si tratta, in altri termini, di capire se il controllo del giudice sia di natura diversa (sia, cioè, più o meno invasivo) se inerente ai poteri del privato datore di lavoro esercitati dalla pubblica amministrazione ovvero se inerente a quei medesimi poteri esercitati dal privato datore di lavoro. Ed al riguardo, viene naturale ricordare che — quasi in coincidenza con l’avvio della lunga marcia di affrancamento del lavoro pubblico dal diritto amministrativo — venne avviato, nel settore del lavoro privato, un inverso processo di importazione dal diritto amministrativo di tecniche di controllo dei poteri della pubblica amministrazione da estendere al privato datore di lavoro, come se lo stesso operasse “con la capacità ed i poteri” della pubblica amministrazione. 63 Sembra doversi ritenere scomparso l’interesse legittimo in tutta l’area privatizzata (cioè nell’area della micro–organizzazione), mentre è tuttora configurabile nell’area della macro–organizzazione, laddove, però, gli eventuali atti amministrativi presupposti illegittimi, se rilevanti ai fini della decisione possono essere disapplicati (art. 63, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001), cosicché il dipendente pubblico, pur se titolare in astratto di una situazione di interesse legittimo, non ha interesse a farla valere stante la mancanza di lesività del provvedimento di macro–organizzazione in quanto disapplicabile. 438 Come, allora, per limitare e controllare i poteri del privato datore di lavoro, si presero in prestito le categorie pubblicistiche del provvedimento e dell’interesse legittimo, così, ora, per accrescere, e sottrarre a controllo, i poteri del pubblico datore di lavoro, si abbandonano le “vecchie” categorie pubblicistiche, e si attribuiscono alle pubbliche amministrazioni i poteri dei privati datori di lavoro. Non a caso, secondo la più recente giurisprudenza “la conformità a legge del comportamento dell’amministrazione — negli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere ai fini della costituzione, gestione e organizzazione dei rapporti di lavoro finalizzati al proseguimento di scopi istituzionali — deve essere valutata esclusivamente secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro”64, anche se autorevole dottrina ritiene imprescindibile un controllo . Anche se, proprio in conseguenza della privatizzazione, sembra essere in fase di rilancio, anche con riferimento al lavoro privato, la figura dell’interesse legittimo di diritto privato (“eclissata” dalle clausole generali di correttezza e buona fede), sulla quale incombe il gravoso onere di non far rimpiangere troppo la scomparsa dell’interesse legittimo di diritto amministrativo, che, certo, assicurava al dipendente pubblico una ben maggiore tutela, considerata anche l’ormai acquisita risarcibilità della lesione dei medesimi. 64 Cass. 19 marzo 2004, n. 5565, che aggiunge che ciò dipende “da una precisa scelta del legislatore (nel senso dell’adozione di moduli privatistici dell’azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.”. 439 2.3 – La tutela cautelare: dalla sospensiva al ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. La minore tutela processuale del dipendente pubblico, a seguito del trapasso di giurisdizione, e della conseguente scomparsa dell’interesse legittimo, appare particolarmente evidente con riferimento alla tutela cautelare65. È noto, infatti, come la valutazione del requisito del periculum in mora con riferimento all’istanza di sospensiva davanti al giudice amministrativo ex art. 21, l. 1034 del 1971, fosse valutata perlopiù in relazione alla lesione di un interesse legittimo del dipendente pubblico da parte di un provvedimento amministrativo66: una lesione per giunta non risarcibile per equivalente fino a poco tempo fa. Si spiega così come — considerati i tempi della giustizia amministrativa — la tutela cautelare fosse considerata “essenziale” ed “intimamente compenetrata” con il processo di merito 67, cosicché la Corte costituzionale ha più 65 Cfr. gli atti del Convegno di Siracusa 5–6 maggio 2000, organizzato all’Associazione Nazionale Magistrati – sottosezione di Siracusa, e dal Centro Nazionale di Studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” – sezione di Catania, sul tema La tutela cautelare nel pubblico impiego, Siracusa, 2001. 66 Ma non solo, essendo la tutela cautelare ammessa anche per la lesione di diritti soggettivi nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva (cfr. Corte cost. 28 giugno 1985, n. 190, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 21, ultimo comma, l. n. 1034 del 1971, “nella parte in cui, limitando l’intervento d’urgenza del giudice amministrativo alla sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato, non consente al giudice stesso di adottare nelle controversie patrimoniale di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d’urgenza che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare, provvisoriamente, gli effetti della decisione di merito”. 67 Corte cost. 16 luglio 1996, n. 249. 440 volte dichiarato illegittima l’esclusione o la limitazione dell’azione cautelare con riferimento a determinate categorie di atti amministrativi o al tipo di vizio denunciato. Ed è noto come fossero tutelabili in sede cautelare anche gli interessi legittimi pretensivi (ad esempio, ammissione con riserva ad un concorso). Si spiega poi che i provvedimenti cautelari fossero motivati con formule stereotipe, sulla base del solo fumus di illegittimità del provvedimento impugnato, mentre il periculum era ritenuto sussistente in re ipsa. È noto, invece, il ben maggior rigore del giudice del lavoro in ordine alla valutazione dei requisiti di ammissibilità del ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., con particolare riguardo al requisito del periculum in mora, da commisurare alla pericolo di pregiudizio imminente circa l’irreparabile lesione di un diritto soggettivo, sovente risarcibile per equivalente, cosicché era prevedibile che i dipendenti pubblici privatizzati non apprezzassero “il sorgere di una giurisdizione, che potrebbe impropriamente definirsi di diritto 441 comune, caratterizzata da quel maggiore rigore nell’esame dei requisiti di ammissibilità della pretesa cautelare”68. 2.4 – Cenni sul regime processuale differenziato: il tentativo obbligatorio di conciliazione. Il legislatore della seconda privatizzazione, nell’assoggettare il lavoro pubblico privatizzato allo stesso regime processuale del lavoro privato, parte male, perché, se è vero che introduce il tentativo obbligatorio di conciliazione anche per le controversie di lavoro privato, regola, però, quello relativo alle controversie di lavoro pubblico in termini diversi, e più favorevoli per le pubbliche amministrazioni rispetto ai privati datori di lavoro. E ciò sia perché mostra di “impegnarsi di più” nel regolarlo in modo da rendere 68 MAJORANA, La tutela cautelare nel pubblico impiego, in Atti…, cit., p. 39, che osserva anche che “la giurisdizione ordinaria è sostitutiva della tutela cautelare esercitata dal giudice amministrativo sulla scorta di diversi e per certi versi più incisivi (nei confronti della p.a.) parametri propri della giurisdizione di legittimità”. 68 Da ultimo, Cass. 19 marzo 2004, n. 5565: “a seguito della c.d. privatizzazione del lavoro pubblico, attuata con le norme raccolte nel d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 e contraddistinta dalla contrattualizzazione della fonte dei rapporti di lavoro e dall’adozione di misure organizzative non espressamente riservate ad atti di diritto pubblico e realizzate mediante atti di diritto privato (art. 5, comma 2, del d.lgs. cit.), deve ritenersi che la conformità a legge del comportamento dell’amministrazione — negli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere ai fini della costituzione, gestione e organizzazione dei rapporti di lavoro finalizzati al proseguimento di scopi istituzionali — deve essere valutata esclusivamente secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, secondo una precisa scelta del legislatore (nel senso dell’adozione di moduli privatistici dell’azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost. (v. Corte cost. n. 275 del 2001, n. 11 del 2002)”. 442 possibile una conciliazione 69; sia perché allunga i tempi del processo di ulteriori trenta giorni (essendo in tutto novanta quelli che devono trascorrere dalla promozione del tentativo di conciliazione perché la domanda diventi procedibile)70 ; sia perché prevede che la parte contro cui sia stata promossa una domanda improcedibile (normalmente la pubblica amministrazione) “può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di merito”71. La questione di illegittimità costituzionale sollevata “per la disciplina differenziata del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie relative ai rapporti previsti dall’art. 409 cod. proc. civ. rispetto a quelle di impiego privatizzato con la pubblica amministrazione”, è stata ritenuta inammissibile72. 2.5 – L’ottemperanza. Autorevole dottrina, nel rilevare come “la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è tanto più criticabile in quanto il primo non potrà assicurare maggior tutela di quella che il pubblico dipendente ottiene dal giudice amministrativo” 73, ha portato 69 Art. 66, d.lgs. n. 165 del 2001. 70 Art. 65, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. 71 Art. 65, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001. 72 Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276: “Il giudice a quo non verifica la possibilità di interpretare l’art. 410, considerando implicita in esso la previsione che la richiesta del tentativo di conciliazione debba indicare i termini della controversia in modo non dissimile da quanto previsto nell’art. 69–bis”. 73 CASSESE, Il Sofisma della privatizzazione…, cit., p. 311. 443 l’esempio del giudizio di ottemperanza che i dipendenti privatizzati avrebbero perduto a seguito della devoluzione delle controversie al giudice ordinario. Parte della dottrina amministrativista ha invece tentato di dimostrare che la procedura di ottemperanza, non è incompatibile con il giudizio ordinario. Ma la dottrina giuslavorista non sembra avere salutato con soddisfazione tali pur meritori tentativi, oltretutto a salvaguardia del dipendente pubblico, annettendo rilevanza sul piano interpretativo (onde escludere l’applicabilità del regime dell’ottemperanza) alla incoerenza di detto regime rispetto ai valori della privatizzazione. 444