Muck Petzet Curatore del padiglione tedesco SPECIAL –––––––––––– curare architettura. 13. biennale di architettura di venezia –––––––––––– 07 Muck Petzet di Francesco Garutti Nella serie: 01. david chipperfield 02. Arno J. Ritter 03. konstantin Grcic 04. Miroslav Šik + quintus miller 05. Toyo Ito 06. Dan Handel 08. Fang Zhenning liberamente scaricabile da www.abitare.it/it/biennale-curatori Tutti i diritti riservati: la riproduzione anche parziale di testi e immagini è vietata. Francesco Garutti Qual è il concetto alla base della mostra allestita quest’anno per il padiglione tedesco della Biennale? Muck Petzet La mostra è intitolata Reduce, Reuse, Recycle. Il titolo fa riferimento ai sistemi e alle modalità programmatiche di gestione dei rifiuti, provando a implementare le idee e i temi potenziali che un campo come questo è in grado di suggerire. È come se avessimo preso in prestito “lo sguardo” di un altro sistema per osservare dall’esterno i possibili approcci d’intervento sull’architettura già esistente. Si tratta di una serie di problematiche e questioni con le quali gli architetti tedeschi si stanno confrontando molto negli ultimi anni. Per fare un esempio: l’80% del budget per la costruzione residenziale risulta impiegato in interventi su architettura già esistente. Lavorando sul già costruito, e specialmente su edifici e progetti urbani risalenti al periodo della modernità post-bellica, emergono spesso analogie con il processo di trattamento dei rifiuti. Il più delle volte, infatti, questi edifici sono visti come un problema che si preferirebbe risolvere con la demolizione e la costruzione di nuova architettura. C’è in verità molto da imparare dalle diverse esperienze internazionali nella gestione di ciò che consideriamo “rifiuto”. Ridurre i rifiuti è ovviamente essenziale perché ha direttamente a che fare con la nostra esistenza; indispensabile è anche riutilizzare ciò che già esiste cambiando solo quanto necessario; cruciale è riciclare, attività che implica un’effettiva modificazione della materia. La domanda che ci stiamo ponendo è se sia possibile creare un simile sistema di valori e procedure in ambito architettonico e assumere come strategia positiva proprio la riduzione della quantità di architetture nuove nel paesaggio urbano. È interessante, perché a noi architetti piace solitamente cambiare le cose quanto più possibile. Esistono infatti forti contraddizioni tra la “cultura del riciclo” e la diffusione dell’immagine stessa del progetto da parte degli architetti, spesso desiderosi di cambiare il più possibile le cose per fare bella mostra del loro lavoro. Durante le ricerche effettuate per questa mostra, ci siamo imbattuti in una serie di interessanti casi studio: ci siamo per esempio resi conto di come il “riciclo” nel suo significato letterale non abbia molto senso in architettura. I materiali da costruzione sono troppo pesanti, per cui i costi e il dispendio energetico necessari al trasporto finiscono per annullare tutti i benefici del riciclo. In architettura ha invece molto più senso una modalità di riciclo che potremmo definire “uno a uno”, come nel caso del riutilizzo dell’intera struttura portante dell’edificio. FG Quali sono gli studi presenti in mostra? MP Abbiamo scelto dei progetti specifici più che selezionare alcuni uffici, perché volevamo focalizzare l’attenzione su diverse strategie che avessero però lo stesso genere di approccio positivo, in grado di rivolgersi in maniera propositiva verso l’esistente. Non sono molti gli studi che hanno questo tipo di filosofia, in particolare nel caso dell’architettura residenziale diffusa: spesso un progetto di ricostruzione o completamento non viene nemmeno assegnato agli architetti. Non è stato pertanto facile trovare progetti da selezionare; non ci interessava avere a che fare con grandi edifici pubblici in qualche modo riconoscibili. Volevamo occuparci di un mondo inesplorato, studiare esempi di architettura comune come complessi residenziali, edifici amministrativi e infrastrutture. Il lavoro accurato sull’esistente non è ancora considerato quanto quello sugli edifici più celebrati o per cosi dire “da rivista”. Credo sia un peccato e penso che questa tendenza debba cambiare. Grazie a questo progetto di mostra, vorremmo dare il nostro contributo allo sviluppo di un approccio serio e impegnato alla progettazione sull’esistente. In questa mostra vogliamo raccontare una certa quotidianità, quando la vita, l’architettura, il presente e il passato si intrecciano. Proprio per questo presentiamo nello spazio solo una serie di grandi fotografie dei progetti selezionati che danno però al visitatore l’impressione di poter camminare all’interno delle architetture. FG A quale allestimento avete pensato per presentare questa tipologia di progetti? MP È sempre molto difficile mostrare progetti di trasformazione e ri-utilizzo. Questa è una delle principali ragioni per cui questo tipo di opere spesso non ha ampia diffusione e visibilità mediatica... FG Certo, è piuttosto difficile raccontarle per immagini e contenuti... MP Solitamente siamo costretti a presentare i progetti com’erano prima dell’intervento e come appaiono al termine dell’operazione sulla struttura originale. Devo dire però che questo tipo di presentazione non ci interessa in nessun modo. In questa mostra vogliamo raccontare una certa quotidianità, quando la vita, l’architettura, il presente e il passato si intrecciano. Proprio per questo presentiamo nello spazio solo una serie di grandi fotografie dei progetti selezionati che danno però al visitatore l’impressione di poter camminare all’interno delle architetture. Le foto sono della fotografa Erica Overmeer. Erica ha una sensibilità all’immagine affine al modo in cui interpretiamo la relazione tra architettura e città, nuovo ed esistente. Le foto di Overmeer non raccontano l’edificio come un oggetto – scultura urbana, un pezzo isolato nella città ­– ma come un elemento parte di un tessuto intrecciato, spazio composto per parti differenti. Nelle sue immagini, per esempio, gli alberi di fronte all’architettura partecipano in qualche alla rappresentazione dell’edificio, così come le macchine parcheggiate e così via. Una serie di testi accompagna poi la presentazione di ciascun progetto. Ovviamente il concept della mostra ha una forte relazione anche con l’architettura del padiglione nella quale questa è installata. Lo spazio espositivo è molto bello, ha meravigliose proporzioni ed è perfetto per esporre l’arte moderna. Ha tutte le caratteristiche degli spazi espositivi degli anni ’30; penso all’Haus der Kunst a Monaco per esempio. Per noi però la sua simmetria, la sua struttura planimetrica così gerarchica e quasi “sacrale” era un problema. Il concept della nostra mostra è decisamente lontano da un’idea di gerarchia e dalla possibilità di concepire una successione ordinata di presentazioni. Per questo motivo abbiamo deciso di chiudere a chiave l’ingresso principale del padiglione e indirizzare l’accesso al pubblico da una rampa laterale. La percezione dello spazio interno è così alterata e tutti i progetti hanno la stessa importanza nel display. FG Per l’allestimento utilizzate strutture di metallo e grandi assi di legno… MP Sì, le impieghiamo come piattaforme multifunzionali. Si tratta delle strutture di legno utilizzate a Venezia come passerelle in caso di acqua alta. Ci interessava, per quanto possibile, prendere elementi già esistenti della città di Venezia, come le panchine o queste passerelle, e dopo la mostra restituirle alla città. Non si tratta di un gesto politically correct, ma di un modo per concepire l’allestimento come parte integrante del pensiero della mostra stessa, lavorando ancora una volta con ciò che già esiste. FG Interessante. Ti posso chiedere che relazione vedi tra il tema che hai scelto per il padiglione tedesco e il common ground di David Chipperfield per la Biennale? MP Penso esista un forte assonanza tra il tema proposto da Chipperfield e il nostro concept, anche se devo confessare che noi abbiamo scelto di esplorare questa questione mesi prima di sapere di Common Ground. 2/3 13. Biennale di Architettura di Venezia 07 | Muck Petzet Credo che il sistema della cosiddetta “architettura delle icone” non ci stia portando molto lontano. Nella nostra mostra esploriamo l’utilizzo delle strutture esistenti e analizziamo come la progettazione e presentazione di questo tipo di interventi possa cambiare la percezione, l’immagine stessa che la gente ha dell’architettura. 3/3 FG Durante la prima intervista di questa serie – ABITARE Special – proprio Chipperfield, in una conversazione con Giovanna Borasi, ha sottolineato come la scelta di questo tema fosse scaturita semplicemente raccogliendo e rilevando come molti degli architetti contemporanei stessero già lavorando su questioni simili e temi affini a quello del common ground. MP Credo che il sistema della cosiddetta “architettura delle icone” – star-architecture – non ci stia portando molto lontano. Nella nostra mostra esploriamo l’utilizzo delle strutture esistenti e analizziamo come la progettazione e presentazione di questo tipo di interventi possa cambiare la percezione, l’immagine stessa che la gente ha dell’architettura. “L’esistente” come punto di partenza contiene in nuce l’idea di superare la possibilità dell’autonomia formale del progetto. D’altra parte, se esplori in profondità ciò che esiste puoi avere una conoscenza più approfondita delle cose e, paradossalmente, pur essendo meno autonomo, puoi essere più libero e aperto. FG Mi sto rendendo conto di come numerosi architetti dimostrino interesse per una sorta di ritorno all’architettura “analoga” – di recente per esempio abbiamo parlato con Miroslav Šik e Quintus Miller. Cosa pensi possa esserci alla base di questa sensibilità e pensiero diffuso? MP Pubblicheremo un’intervista a Miroslav Šik sul nostro catalogo proprio perché il suo lavoro ha per noi un ruolo speciale. La sua maniera di lavorare sull’esistente a livello architettonico, stilistico e tipologico ci interessa molto. L’importanza dell’”ensemble” per Šik è evidente nel progetto di mostra per il padiglione svizzero alla Biennale, ma è evidente anche come questo tipo di approccio ai temi dell’architettura non sia ancora così davvero diffuso e accettato. Progettare un edificio-icona ha forse ancora senso nel caso si tratti di architetture museali o di grandi commissioni pubbliche. Architetture che per ruolo, funzione e importanza urbana ha senso abbiano un ruolo simbolico. Ritengo però che questo tipo di approccio non abbia nessun senso nella progettazione di complessi residenziali o abitazioni private. Stiamo vivendo un periodo di crisi economica e ambientale e, soprattutto in Germania, i dibattiti architettonici tendono a concentrarsi sul risparmio d’energia. È folle, tutto sembra ormai legato all’idea di risparmio. Credo invece sia necessario esplorare nuove possibilità e potenzialità, invece di provare unicamente a risolvere problemi. Disponiamo di molti pezzi e parti di città già esistenti e potremmo e dovremmo interagire con questo potenziale in maniera intelligente, ad esempio riparandole o semplicemente avendone cura. FG Qual è il ruolo delle esposizioni d’architettura oggi? Pensi che le mostre siano ancora luoghi in cui sia possibile produrre una teoria in grado di influenzare la pratica architettonica? MP Non credo che i format delle mostre siano cambiati molto nel corso degli anni. Forse ci sono più discussioni a riguardo e le esposizioni internazionali godono di un pubblico più ampio. Molti sostengono che fare mostre d’architettura sia difficile, se non impossibile. Io invece penso possa essere molto facile. Forse basta coinvolgere le persone giuste, gli artisti, i designer come Konstantin Grcic per esempio. Loro possiedono molti anni d’esperienza in fatto di mostre e il loro ruolo – come in questo caso per il padiglione tedesco – può essere cruciale... Certamente poi esiste un problema di “rappresentazione” nelle mostre d’architettura: la necessità di raccontare e spiegare qualcosa che, di fatto, nello spazio espositivo non c’è. Ho però la sensazione che concentrandosi solo sul contenuto da proporre, sulle idee alla base dei progetti e degli edifici, limitando radicalmente l’utilizzo di diversi media, possa essere davvero molto interessante presentare in mostra l’architettura. Nel nostro caso il visitatore sarà senz’altro incuriosito nel cercare di capire, rintracciare e indentificare cosa possa essere nascosto dietro le facciate di ogni architettura presentata nelle nostre grandi foto, quali siano i temi insiti in ogni progetto esposto. Per questo motivo – il display è misterioso e seducente insieme – abbiamo speso molto tempo nel costruire un contesto intellettuale nel quale poter collocare i progetti scelti e caricarli di senso senza necessariamente raccontarli troppo e rendere tutto più faticoso. Tutto ciò si è rivelato molto difficile – come costruire la mostra ci era chiaro sin dall’inizio, ma è stato il contenuto teorico e la costruzione del contesto a essere di difficile costruzione – ma alla fine è stata una grande esperienza che ci ha dato modo di pensare alle cose con maggiore profondità, aldilà della routine quotidiana dell’ufficio. 13. Biennale di Architettura di Venezia 07 | Muck Petzet