Pascal Grandezza e miseria dell’uomo Prof. Claudio Bolandrini Università del Tempo Libero Caravaggio, 4 aprile 2017 «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale.” (Pascal, Pensieri, fr. 347) I limiti della ragione filosofica si riscontrano con evidenza anche nell’incapacità di fondare principi pratici in ambito etico e politico. Nel corso della storia la sola facoltà razionale non ha consentito agli uomini di elaborare un’etica comune, universalmente condivisa e permanente valida. Leggi e costumi sono inevitabilmente relativi e mutano a seconda del contesto geografico e storico. “Nulla si vede di giusto o d’ingiusto che non muti qualità con il mutar del clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (…) Singolare giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là. Il furto, l’incesto, l’uccisone dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose. Si può dar cosa più spassevole di questa: che un uomo abbia il diritto di ammazzarmi solo perché abita sull’altra riva del fiume e il suo sovrano è in lite con il mio, sebbene io non lo sia con lui?” (Pascal, Pensieri, 294) Sulle questioni morali regna da sempre la massima incertezza e provvisorietà. Per l’uomo comune il bene è il possesso e il godimento di beni materiali, la ricchezza e il divertimento. I filosofi sono abbastanza concordi nel contestare questo giudizio ma divergono in maniera inconciliabile sulla definizione del sommo bene: virtù, piacere, ragione, natura, vita attiva, vita contemplativa, azione, quiete… Alcuni ritengono addirittura che non si possa trovare e l’unico bene raggiungibile risieda nella rinuncia a cercarlo. “Che cosa può esser chiamato un bene La castità? No perché il mondo si spegnerebbe. Il matrimonio? No perché è migliore la continenza. Il non uccidere? No perché ne conseguirebbero orribili disordini, e i malvagi ucciderebbero i buoni. L’uccidere allora? No perché la natura ne sarebbe distrutta.” (Pascal, Pensieri 385) I cosiddetti principi universali del comportamento umano che gli uomini comuni ritengono certi e i filosofi reputano universali ed eterni perché naturali in quanto razionali sono figli di convenzione, abitudine, storia se non addirittura interesse, coercizione o arbitrio. “La giustizia è quel che è stabilito.” (Pascal, Pensieri, 312) “L’abitudine è una seconda natura, che distrugge la prima.” (Pascal, Pensieri, 93) “La moda come determina il piacevole, così determina il giusto.” (Pascal, Pensieri, 309) “È tutto effetto della consuetudine, la quale violenta la natura.” (Pascal, Pensieri, 97) “Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto.” (Pascal, Pensieri, 298) “Non essendosi potuto rendere forte la giustizia, si è giustificata la forza.” (Pascal, Pensieri, 299) “Perché si seguono le antiche leggi e le credenze tradizionali? Perché sono le più savie? no, solo perché sono le sole in vigore, e così è eliminata ogni ragione di dissenso.” (Pascal, Pensieri, 301) Con sottile dialettica e tagliente ironia Pascal svela il fondamento arazionale e la conseguente provvisorietà dei principi morali. Denuncia l’inganno e l’illusione in forza dei quali per la mente umana quanto è storico diventa eterno, quanto è convenzionale naturale, quanto è relativo assoluto, quanto interesse giustizia, quanto è arbitrio diritto, quanto è contingente necessario. Pascal riprende la linea di pensiero relativista dello scetticismo classico e di Montaigne e dei libertini del XVII secolo, ma con una finalità diversa da questi ultimi. I liberi pensatori contemporanei ricorrono al relativismo per contestare le credenze sociali e religiose del tempo e giustificare la propria condotta libera dai costumi comunemente accettati. Il relativismo per Pascal dimostra invece che la ragione da sola non è capace di fondare norme comportamentali condivise e immutabili e pertanto l’uomo, senza la luce della fede, è destinato al naufragio verso lo scetticismo. “Ci sono, senza dubbio, leggi naturali, ma questa bella ragione ha corrotto tutto.” (Pascal, Pensieri, 294) I limiti della filosofia nei confronti della condizione esistenziale umana, dei principi morali, dell’esistenza di dio portano Pascal a ritenere che l’unica filosofia possibile sia una filosofia che riconosca i limiti della facoltà razionale e della filosofia stessa. L’unico sapere filosofico possibile è una metafilosofia che riconosca l’impotenza della ragione filosofica. “Beffarsi della filosofia è filosofare davvero” (Pascal, Pensieri, 4) “Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano” (Pascal, Pensieri, 267) “Nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione” (Pascal, Pensieri, 272) La meta-filosofia di Pascal supera tuttavia lo scetticismo perché non si limita a riconoscere i limiti della ragione ma getta un ponte tra ragione e religione, si pone al servizio della fede come un suo originale preambolo . La filosofia ponendo ma lasciando irrisolti i grandi enigmi esistenziali, morali e teologici invita a cercare le risposte circa l’enigma della condizione umana e il senso dell’esistenza altrove: nel cristianesimo. L’uomo è un problema a se stesso la cui soluzione si trova in dio e nella relazione uomo-dio. Il cristianesimo per pascal è così un messaggio sovrarazionale che risolve i nodi della ragione che la ragione non riesce a sciogliere. Il cristianesimo è una religione vera perché fornisce una spiegazione verosimile per la condizione umana. “Perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la grandezza e la miseria, e le cause dell’una e dell’altra. Chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?” (Pascal, Pensieri, 433) La dottrina biblica del peccato originale spiega per Pascal la condizione esistenziale di grandezza e miseria dell’uomo. Come un sovrano decaduto che in esilio conservi il ricordo di splendori di un tempo, non si rassegni a alla perdita ed è consumato dal ricordo nostalgico della dignità regale d’un tempo e che sente ancora propria, così l’uomo, dopo aver perso con il peccato di Adamo la Verità, il Bene, la Felicità avverte la sofferenza della loro privazione e anela costantemente a loro. “Se l’uomo non fosse mai stato corrotto, godrebbe di sicuro, nella propria innocenza, della verità e della felicità. E se fosse sempre stato corrotto, non avrebbe nessuna idea né della verità né della felicità. Ma, sventurati che siamo (e molto più che se nel nostro essere non ci fosse nessun vestigio di grandezza), noi abbiamo un’idea della felicità, e non possiamo conseguirla; sentiamo che c’è in noi un’immagine della verità, e possediamo soltanto la menzogna: egualmente incapaci di ignorare in modo assoluto e di conoscere con assoluta certezza, tanto è manifesto che siamo vissuti in un grado di perfezione dal quale siamo sventuratamente caduti!” (Pascal, Pensieri 343) “Chi si sente infelice di non essere re, se non un re spodestato? Forse che Paolo Emilio era considerato infelice, perché non era più console? Al contrario, tutti lo stimavano fortunato di esserlo stato, perché la sua condizione non era di esserlo sempre. Invece si giudicava infelicissimo Perseo di non essere più re, giacchè la sua condizione era di esserlo sempre.” (Pascal, Pensieri, 409) Per Pascal il cristianesimo spiega la perenne inquietudine, insoddisfazione e frustrazione che l’uomo avverte quotidianamente nella sua esistenza e che lo spingono a cercare l’oblio di se nel divertissement: l’uomo nato per l’infinito, perché da Dio creato, cerca inutilmente di soddisfare nel finito il desiderio di felicità che lo consuma, dimenticando che il vuoto che avverte come costitutivo della sua esistenza può essere riempito solo nella relazione con l’infinito che lo trascende, Dio. “Che mai ci gridano, dunque quest’avidità e quest’impotenza se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui gli restano ora soltanto il segno e l’impronta affatto vuota, che esso cerca invano di colmare con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti, e che non può essergli dato da nessuna, perché quell’abisso infinito può esser soltanto colmato da un oggetto infinito ed immutabile: ossia, da Dio stesso?” (Pascal, Pensieri, 425) Pascal ritiene di mostrare la ragionevolezza del cristianesimo anche sfidando i liberi pensatori a scommettere su Dio. L’uomo non può sottrarsi a questa scelta: deve scegliere tra il vivere come se dio ci fosse e il vivere come se dio non ci fosse. Non può non porsi questa scelta, perché scegliere di non scegliere è già scegliere per l’opzione che nega l’esistenza di dio. La soluzione scettica di sospensione del giudizio non è ammissibile perchè il non scegliere è già una scelta. La ragione non può guidare dimostrativamente l’uomo nella scelta “giusta”. Riguardo all’esistenza di dio la ragione non può affermare nulla: non può dimostrare che dio esiste neppure che dio non esiste. Dal momento che la questione è relativa all’esistenza dell’infinito, una realtà inattingibile per l’uomo, la decisone sull’esistenza di dio è una scommessa, una partita, che l’uomo è costretto a giocare nella completa mancanza di elementi utili per protendere per una posizione piuttosto che l’altra. Se non possiamo non scommettere, la ragione suggerisce di calcolare utilitaristicamente quale sia l’opzione più conveniente, valutando da un lato la posta in gioco, e dall’altro la perdita o la vincita eventuale che ne potrebbe conseguire. Ora poiché qualunque sia l’esito della partita la ragione e la conoscenza non ricevono alcun vantaggio o danno, bisogna calcolare il guadagno e la perdita in termini di beatitudine e felicità. Chi scommette sull’esistenza di dio, se vince, vince tutto, perché vince la vita eterna, mentre se perde, perde poco o nulla, perché nulla sono i beni mondani rispetto al bene infinito della vita eterna. Per Pascal quindi per un buon scommettitore è più conveniente scommettere senza esitare sull’esistenza di dio. Pascal rafforza la sua esortazione alla fede attraverso un calcolo dell’eventuale guadagno in proporzione al rischio. La perdita della propria vita è già un azzardo tollerabile rispetto alla possibilità di guadagnarne due, e a maggior ragione rispetto alla possibilità di guadagnarne tre. Ma scommettendo su dio l’eventuale vincita non è un numero finito di vite ma un’eternità di vita e di beatitudine: è quindi ancora più ragionevole rischiare puntando sull’opzione dell’esistenza di dio. Anche nell’ipotesi in cui ci fossero infinite probabilità sfavorevoli contro una sola favorevole, sarebbe comunque conveniente scommettere sull’esistenza di dio , alla luce dell’infinità dell’eventuale guadagno in caso di vincita. Le possibilità di perdita sono finite, come finito è ciò che si rischia, mentre infinito è il guadagno in caso di vincita. Quindi per Pascal non bisogna esitare, bisogna dar tutto: rischiare la propria vita terrena finita e i suoi limitati piaceri per avere la possibilità di guadagnare Dio e l’infinito. L’uomo ha interesse a scommettere su dio, perché in caso di perdita perderà solo beni finiti (i piaceri mondani) mentre in caso di vincita si aggiudicherà l’intera posta in palio perché guadagnerà il bene infinito che è Dio e la beatitudine eterna. La scommessa più conveniente è quella che punta su dio perché la vincita è infinitamente superiore alla posta puntata. Non regge l’obiezione di chi evidenzia l’insuperabile distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l’incertezza di ciò che si potrebbe guadagnare per rendere uguale il bene finito che con certezza si rischia a quello infinito che è incerto e solo sperato. Ogni giocatore non può che azzardare con certezza per guadagnare con incertezza: azzarda con certezza il finito (x) per guadagnare incertamente un finito maggiore del finito scommesso (nx>x), senza per questo andare contro ragione. Se la scommessa non è truccata, di fronte alla stessa probabilità di vincita o perdita, un buon giocatore non può che rischiare il finito per guadagnare l’infinito, perché questo gioco ha la massima convenienza. “Dovunque ci sia l’infinito, e non cui sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare”: bisogna correre il rischio di perdere il finito per vincere l’infinito. Scommettiamo su Dio Se dio esiste si guadagna l’infinito (felicità eterna) Se dio non esiste si perde il finito (piaceri effimeri del mondo) Scommettiamo contro Dio Se dio esiste si perde l’infinito (felicità eterna) Se dio non esiste si vince il finito (piaceri effimeri del mondo) “È indubbio infatti che nulla offende maggiormente la nostra ragione come il dire che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, essendo lontanissimi da tale origine, sembrano incapaci di avervi parte. Una tale trasmissione ci sembra non solo impossibile, ma anche sommamente ingiusta: perché c’è nulla di più contrario alle norme della nostra miserabile giustizia come il dannare per l’eternità un bambino ancora incapace di volontà, per un peccato al quale sembrerebbe non aver avuto parte, essendo stato commesso seimila anni prima che nascesse? Certo nulla ci urta più fortemente di questa dottrina, eppure, senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge e si attorce in questo abisso: sicchè l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo”. (Pascal, Pensieri 434) “Il cuore e non la ragione sente dio. Ecco cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione.” (Pascal, Pensieri 278)