N. 2/2015 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXV - N. 2/2015
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RIVISTA
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INDICE
DOTTRINA
ANTONIO BRIGUGLIO, Class Arbitration in Italia: spunti di metodo per la
(eventuale) prosecuzione delle indagini ...............................................
LAURA SALVANESCHI, I motivi di impugnazione del lodo: una razionalizzazione? ....................................................................................................
MICHELE FORNACIARI, Gli effetti del lodo e il falso problema della natura
negoziale oppure giurisdizionale dell’arbitrato ...................................
219
233
247
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) Comunitaria e Italiana
Sentenze annotate:
Corte di Giustizia dell’UE 13 maggio 2015, C-536/13, con nota di E. D’ALESSANDRO, Volli, sempre volli, fortissimamente volli: la Corte di giustizia si pronuncia sul caso Gazprom ...................................................
Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2013, n. 24153, con nota di L. BERGAMINI,
Eccezione di patto per arbitrato estero: un nuovo revirement della
Corte di Cassazione, tra disciplina interna e Convenzione di New
York ..........................................................................................................
Cass. Sez. I. 3 giugno 2014, n. 12370, con nota di F. RIGANTI, Clausola
compromissoria binaria e arbitrato con pluralità di parti .................
App. Roma 29 agosto 2013, con nota di M. DE SANTIS, La rilevabilità
d’ufficio dell’inesistenza della convenzione d’arbitrato per consunzione (a causa di altro lodo su medesima domanda) ........................
Trib. Piacenza 10 dicembre 2014, con nota di E. GABELLINI, Brevi note
sulla compromettibilità delle controversie tra socio e cooperativa di
produzione e lavoro; art. 40 c.p.c. e connessione tra giudizio arbitrale
e giudizio ordinario ................................................................................
283
307
335
355
365
III
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb. Bologna 16 dicembre 2014 (*)......................................................
385
RASSEGNE E COMMENTI
GIORGIO DE NOVA, Arbitrato e consulenza tecnica: individuazione delle
voci di danno contrattuale .....................................................................
MARCO F. CAMPAGNA, Obbligo del requisito di forma e compromesso ...
LAURA BARISON, Un’indagine statistica sull’impugnazione del lodo arbitrale nazionale .........................................................................................
389
393
403
DOCUMENTI E NOTIZIE
Le nuove IBA Guidelines on Conflicts of Interest in International
Arbitration ...............................................................................................
411
(*) La decisione è annotata da E. GABELLINI congiuntamente alla precedente Trib.
Piacenza 10 dicembre 2014
IV
DOTTRINA
Class Arbitration in Italia: spunti di metodo per la
(eventuale) prosecuzione delle indagini (*)
ANTONIO BRIGUGLIO (**)
1. Premessa. — 2. Oscillazioni e questioni oltre Atlantico. — 3. Gli spazi aperti
nell’ordinamento italiano.
1. Ormai ben approfondita negli Stati Uniti, per intuibili ragioni ed
in seguito a pronunciamenti giurisprudenziali di notevole peso e di segno
anche vivacemente dialettico, la riflessione teorico-pratica sul class arbitration è da noi ai primissimi vagiti.
Assodato l’interesse dei contributi che alcuni giovani autori hanno
dedicato al tema (1) e scontata l’utilità di documentarsi comunque sulla
evoluzione della esperienza americana e se del caso di altre, mi chiedo e
cerco di rispondere brevemente qui di seguito se l’orto meriti in Italia di
esser coltivato.
Non sono affatto sicuro delle risposte, come dubitativo mi appare in
definitiva, circa la “trasferibilità” in Italia del class arbitration, anche
quello, fra i cennati primi scritti, che si è dedicato alla questione (2).
Sarebbe già questa ragione sufficiente per indagare ancora.
Ed intendo ovviamente prescindere dal nolle prosequi più facile e
avventato: ma quando mai accadrà in Italia? Ciò che è pure sommamente
improbabile è però sempre possibile, e la riflessione deve in realtà precedere l’azione non viceversa. In ogni caso la rarità statistica del class
(*) Questo scritto è destinato agli Studi in onore di Diego Corapi.
(**) Professore ordinario nella Università di Roma “Tor Vergata”.
(1) Cfr. CASONI, Recenti sviluppi sulla class action arbitration negli Stati Uniti, in questa
Rivista, 2011, 118 ss.; ID., Le prospettive della class action arbitration alla luce delle ultime
pronunce della Corte Suprema americana, in Obbligazioni e contratti, 2012, 537 ss.; GABOARDI,
Arbitrato e azione di classe, in Riv. dir. proc., 2014, 987 ss.; Francesca BENATTI, In fuga verso
l’arbitrato: la crisi (ir)reversibile della class action statunitense, in Rassegna di diritto civile, 2014,
500 ss.. Brevi quanto acuti riferimenti all’“arbitrato di classe” sono stati recentemente dedicati,
pur in trattazione di altro contesto, anche dal Maestro cui è dedicato questo scritto (v. CORAPI,
Appunti in tema di arbitrato societario, in Riv. dir. comm., 2015, 1 ss., spec. 16 ss.).
(2) Mi riferisco a GABOARDI, op. cit., pur orientato tendenzialmente in senso affermativo.
219
arbitration o delle questioni ad esso comunque relative (a partire dalla
eventuale “eccezione di compromesso” di fronte a giudice ordinario
investito di una azione di classe ex art. 140 bis cod. cons.) è una rarità da
considerarsi sempre, già in altri lidi e soprattutto nei nostri, in termini
relativi rispetto alla stessa eccezionalità dello strumento class action in
quanto tale.
2. I termini comparatistici del problema, rispetto al versante statunitense come anche ad eventuali altri, ma direi i termini stessi del
problema in assoluto, devono naturalmente prescindere dalle situazioni —
per altri versi problematiche e degne di considerazione ma evidentemente
ben diverse — di collective arbitration o mass proceedings in arbitrato —
in cui si tratti di semplice litisconsorzio facoltativo plurimo, ed assai
numeroso, in arbitrato, ovvero ancora si tratti (più verosimilmente) di
gruppi molto cospicui di consumatori rappresentati o anche solo “organizzati” e supportati in arbitrato da un unico soggetto (come è accaduto
nell’ormai arcinoto caso ICSID Abaclat v. Argentina (3), ove pure le
questioni processuali discusse hanno coinvolto, ma solo per ragioni di
empirica assonanza, le tematiche da un lato del class arbitration americano
e, dall’altro, della esistenza e da quando e in che modi, in Italia, di un
processo consumeristico collettivo (4)).
Del pari deve restare per il momento fuori dalla riflessione, o meglio
presupposta, la questione della validità ed efficacia della clausola compromissoria nei contratti con i consumatori, nel senso che qualunque apertura
al class arbitration, in direzione cioè della estensione oggettiva della
convenzione arbitrale fino ricomprendervi la possibilità che da essa scaturisca un giudizio di classe, sconta ovviamente la esigenza previa che la
convenzione arbitrale sia in assoluto valida ed efficace dal punto di vista
del diritto dei consumatori. Il che, in Europa soprattutto, potrebbe ridurre
di molto la portata concreta di quella estensione oggettiva almeno quando
il consumatore fosse attore di classe innanzi al giudice ordinario e la
clausola arbitrale fosse fatta valere in via di eccezione (se invece il
consumatore attiva l’arbitrato di classe, di regola ogni questione sulla
validità ed efficacia della clausola riconnessa alla tutela del consumatore
medesimo risulterà superata).
Mentre è sintomatico che negli Stati Uniti i fautori della estensione
oggettiva della causa arbitrale fino a ricomprendervi l’azione di classe si
siano mossi sempre in ottica della maggior tutela possibile del consumatore, nell’ottica dunque secondo la quale il class arbitration è elemento,
(3) Vedi la decisione sulla giurisdizione del Tribunale arbitrale ICSID del 4 agosto 2011
in questa Rivista, 2012, 159 ss., con nota della DE LUCA, L’arbitrato ICSID e l’azione collettiva.
(4) Nel caso Abaclat gli attori erano un foltissimo gruppo di piccoli investitori italiani.
220
ben inteso opzionale, ma significativo di quella tutela, e gli ostacoli
frapposti alla deferibilità ad arbitri della class action, anzitutto in sede di
interpretazione e ricostruzione della portata oggettiva della convenzione
arbitrale, finiscono col depotenziare la protezione di consumatori e utenti.
Posto ciò, i termini elementari rilevanti desumibili dal dibattito statunitense mi sembrano i seguenti:
a) È o non è deferibile ad arbitri la class action?
La risposta della giurisprudenza americana appare sul punto da
svariati decenni sicuramente affermativa (5) sia sotto il profilo della oggettiva arbitrabilità, sia almeno in astratto sotto quello della assenza di
ostacoli di ordine soggettivo e connessi al carattere bilaterale dell’arbitration agreement, atteso che l’adesione degli altri membri della classe alla
iniziativa arbitrale promossa dal costumer che abbia a suo tempo sottoscritto l’agreement comporta adesione a quest’ultimo come pure alla
nomina dell’arbitro ed al risultato finale dell’arbitrato (“insofar as the
other class members agree to proceed in class arbitration” (6)).
La correlata esperienza concreta del class arbitration si è sviluppata in
misura non indifferente, al punto che l’American Arbitration Association
ha pubblicato nel 2005 le Supplementary Rules for Class Arbitration (7).
b) Quali sono i margini di interpretazione estensiva, anzitutto da
parte dell’arbitro, di una arbitration clause silent on class arbitration? Può
cioè avviarsi un “arbitrato di classe” anche ove l’accordo compromissorio
non lo preveda espressamente?
In proposito vi è stata — per farla breve — una nota inversione di
tendenza della Corte Suprema. Dalla sentenza Bazzle del 2003 (8), esponenziale di un favor già affiorato in alcune corti statali verso una interpretazione estensiva che valorizzasse, in modo da ricomprendervi anche il
class arbitration, perfino il semplice (e per noi alquanto usuale e generico)
riferimento nella clausola ad “all disputes, claims or controversies arising
from or relating to this contract or the relationship which result from this
contract” (9), non esente per altro da critiche anche aspre in dottrina (10),
(5) Vedi ulteriori utili riferimenti, oltre che negli scritti cit. alla nota 1, in PARK, La
jurisprudence américaine en matière de class arbitration, in Revue de l’arbitrage, 2012, 1 ss.
(6) Così la sentenza della Corte Suprema Green Tree Financial Corp. v. Bazzle, 539 v.s.
444 (2003). Il che presuppone però la sostituzione dell’opt in all’opt out.
(7) Su di esse v. ampiamente CASONI, Recenti sviluppi, cit. 120 ss. Le Rules dell’A.A.A.
contemplano, anche per la class action deferita agli arbitri, una fase preliminare di ammissibilità
da definirsi con clause determination award ed analoga a quella prevista dalla Rule 23 delle
Federal Rules of Civil Procedure (v. invece quanto si dirà infra, 3, sul versante italiano riguardo
alla inevitabile evaporazione della fase di ammissibilità in eventuale class arbitration).
(8) V. la nota 6.
(9) O simili espressioni.
(10) Un quadro generale in SMIT, Does a « Silent » Arbitration Clause Preclude a Class
Action? In 20 American Review Int’l’Arbitration, 2009.
221
si è passati a Stolt-Nielsen S.A. v. Animal Feeds Int’l Corp. (11) del 2010, in
cui la Corte Suprema ha sostanzialmente mutato d’avviso (12). In Stolt
Nielsen si è ritenuto infatti che arbitrato e clausole bilaterali siano a tal
punto incoerenti rispetto al class action proceeding da impedire (se non
l’arbitrabilità in astratto della class action) per lo meno e di regola una
interpretazione estensiva della arbitration clause silent on class arbitration (13).
La operatività di un class arbitration diviene dunque, in rigoroso
ossequio al Federal Arbitration Act, “a matter of consent” e necessita di un
consenso sufficientemente esplicito nell’arbitration agreement.
c) Sono valide le clausole compromissorie class arbitration waivers? Si
può cioè espressamente escludere la attivabilità di una class action dall’ambito oggettivo di una clausola compromissoria, con la conseguenza
che la medesima clausola non potrà essere opposta alla promozione della
class action davanti al giudice?
L’iniziale favore per l’interpretazione estensiva delle clausole silent
on class arbitration induceva il mondo imprenditoriale a precostituire
clausole espressamente escludenti il ricorso all’“arbitrato di classe”. Alcune corti statali avevano sanzionato di invalidità parziale tali clausole
presumendole vessatorie per lo meno nell’ambito dei contratti predisposti (14).
In logica armonia con Stolt-Nielsen del 2010 e con la affermata
tendenziale necessità che la clausola compromissoria menzioni espressamente la attivabilità del class arbitration affinché questo possa davvero
fondarsi sull’accordo compromissorio e sul consenso delle parti, la Supreme Court federale nel 2011 ha ridimensionato drasticamente un tale
approccio, affermando, sempre in linea tendenziale, la legittimità di una
libera manifestazione della autonomia privata che si concretizzi in clausola
“class action waiver” e cioè nella esplicita esclusione compromissoria del
ricorso alla class action di fronte agli arbitri (15).
(11) 559 U.S. 662(2010). Vedila anche in questa Rivista, 2011, 115 ss., annotata da CASONI,
con lo scritto già cit. (Recenti sviluppi).
(12) In realtà la Corte Suprema in Stolt-Nielsen si sforza di diminuire la portata dell’overruling, discorrendo di un fraintendimento (da parte del collegio arbitrale da cui il caso aveva
preso origine) della effettiva (e limitata) portata della sentenza Bazzle (in proposito v. anche
CASONI, Recenti sviluppi, cit., 121).
(13) In arg., ed a commento di Stolt-Nielsen, v. STRONG, Does Class arbitration “change
the Nature” of Arbitration?, in Haward Negotiation Law Review, 2012.
(14) V. soprattutto la Corte Suprema della California in Discover Bank, 36 Cal, 4th 148,
113 P-3d 1100, del 2005, che ha inaugurato la c.d. Discover Bank Rule, su cui diffusamente
GABOARDI, op. cit., 995 ss..
(15) Si tratta di AT & T Mobility LLc v. Concepcion, 563 U.S. 321(2011). Più di recente
la Corte Suprema (in Amex v. Italian Colors Restaurant, 470 U.S. n. 12-133-2013) ha confermato
la tendenza consacrando la validità di una clausola arbitrale la quale non solo impediva
espressamente la possibilità di attivare in arbitrato “claims on a class action basis”, ma vietava
qualsiasi forma o meccanismo di riunione di diversi procedimenti arbitrali e si prospettava,
222
d) Resta ancora e tutto sommato incerta sul versante giurisprudenziale, ma ben avvertita in dottrina, una ulteriore questione (16): una
arbitration clause che non autorizzi la devoluzione ad arbitri della class
action, o perché non sufficientemente esplicita (secondo i dettami di
Stolt-Nielsen) o perché waiver e cioè esplicita in senso contrario, può avere
per il consumatore un effetto preclusivo della class action davanti al
giudice statuale ancorandolo in definitiva alla sola azione individuale
davanti agli arbitri? (17). Non esito a ritenere che 99 giuristi italiani su 100
risponderebbero un secco “no”. I giuristi americani il problema se lo
pongono, anche se la risposta negativa mi sembra ben più argomentata ed
argomentabile. Solo che essa è data, occasionalmente, in termini così
assoluti (“class action in court cannot be contractually excluded, whether
directly, by a clause to that effect, or indirectly, by a clause providing for
arbitration that excluded a class action. A contract cannot legally modify
procedures prescribed by the law for adjudication of class-actions
claims”) (18) da lasciare aperta altra prospettiva evolutiva: quella del
doppio binario per la class action, e cioè quella secondo cui neppure la
arbitration clause, la quale (lungi dall’esser silent o waiver) espressamente
deferisca ad arbitri l’eventuale giudizio di classe, sia idonea a precludere
al consumatore la scelta della class action davanti al giudice (19).
3. Veniamo al nostro art. 140 bis cod. cons.
A me pare che l’azione di classe ivi prevista sarebbe, nella sua
struttura essenziale ed in prima approssimazione, deferibile ad arbitri.
Ciò è dirsi sia quanto agli oggetti, per come individuati dal c. II (diritti
contrattuali o diritti risarcitori nei confronti del produttore o derivanti da
pratiche commerciali scorrette o comportamenti anticoncorrenziali), sicuramente disponibili ed anzi transigibili (20) (come attesa a scanso di ogni
dunque, come particolarmente scomoda rispetto alla gestione di contenziosi a numerosità
accentuata. Riguardo a tale sentenza v. le interessanti osservazioni di Diego CORAPI, op. cit., 16,
nota 19, che ricorda come essa abbia poi provocato richieste di intervento della SEC affinché
negli statuti delle società da questa sorvegliate fosse o imposta l’adozione di una clausola
compromissoria più flessibile e più adatta alla gestione di liti collettive ovvero vietato tout court
il ricorso all’arbitrato, e svolge ulteriori interessanti comparazioni con la situazione (per certi
versi meno problematica) relativa al nostro arbitrato societario.
(16) Esattamente colta da CASONI, Recenti sviluppi, cit. 125.
(17) In realtà una risposta affermativa si è già avuta di recente dalla Corte Suprema
proprio nella cennata pronuncia American Express v. Italian Colors del 2013 (la analizza
attentamente sotto tale profilo Francesca BENATTI, In fuga, cit., 510). Ma si tratta di decisione
criticatissima e comprensiva di una feroce dissenting, in ragione di una ragionevole espansione
del principio della effective vindication of rights, e forse non tale da rappresentare davvero
l’ultima parola.
(18) Smit, AT & T Mobility v. Conception: Can Class Actions be brought in Arbitration?
citato da CASONI, op. lc. cit.
(19) Un cenno al possibile doppio binario dovrà farsi anche a proposito del versante
italiano (infra nota 33).
(20) Risultando, dunque, in proposito indifferente l’ampliamento dell’area della com-
223
equivoco l’ultimo comma dell’art. 140 bis), sia quanto alla compatibilità
fra il suo modo di esercizio e gli effetti della relativa pronuncia, da un lato,
ed il fondamento volontaristico dell’arbitrato dall’altro. Poiché l’aderente
non è parte, la sua scelta volontaria di prenotare, pur da estraneo al
processo, gli effetti positivi o negativi della decisione è di per sé sufficiente
e compatibile con il carattere bilaterale dell’accordo compromissorio e
dell’arbitrato.
Quella scelta a) non necessita di trovare un qualche riscontro nella
costituzione dell’organo arbitrale (e non dà luogo dunque ad alcuno dei
problemi concernenti l’arbitrato con pluralità di parti); b) non può essere
rifiutata dalle parti della convenzione arbitrale ove quest’ultima deferisca
ab origine agli arbitri una lite aperta alla “adesione”, ma non alla “partecipazione” al giudizio, di terzi ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 140 bis,
e neppure dagli arbitri che sulla base di quella convenzione abbiano
accettato l’incarico (21). In altri termini: la struttura soggettivamente complessa del giudizio si atteggia, nel caso della class action, in modo tale da
non risultare refrattaria rispetto ad una volontà compromissoria originariamente bilaterale.
Se ci si potesse fermare qui quanto alla astratta compromettibilità, si
porrebbe poi in termini “americani” il problema della clausola compromissoria (22) silent on class arbitration.
E dal nostro punto di vista si contrapporrebbero: nel senso della
estensione, indubbiamente oggi favorita dal tenore dell’art. 808 quater
c.p.c., una ragionevole configurabilità della nostra class action come semplice forma (alternativa) di tutela dei diritti soggettivi derivanti dai contratti dei consumatori, sì che potrebbe dirsi implicita la ricomprensione di
quella forma ove la convenzione arbitrale, menzionando “tutte le controversie derivanti o comunque connesse” (o similia), si riferisca a tutti i diritti
derivanti o comunque connessi in qualsiasi forma tutelabile salvo appunto
i limiti della arbitrabilità o della generale compatibilità con i poteri degli
arbitri (23); ed in senso opposto l’argomento empirico, o sociologico se si
vuole, secondo cui ricondurre a “clausola silente”, e perciò sottrarre al
giudice, la nostra class action potrebbe considerarsi conclusione fin troppo
promettibilità (ammesso che via sia stato) nel passaggio dal “vecchio” art. 806 c.p.c. al nuovo
testo entrato in vigore nel 2006. Giustamente si è osservato (GABOARDI, op. cit., 1003) che,
invece il passaggio della legittimazione ad agire dalla associazione consumeristica al singolo
consumatore quale attore di classe (nella versione dell’art. 140 bis cod. cons. definitivamente
varata dopo le note vicissitudini) “sembra esaltare la portata dispositiva del diritto fatto valere
dal class representative e rendere, in tal modo, pienamente ammissibile la compromettibilità”.
(21) Non si avrebbe insomma l’esigenza di accettazione di una vera e propria volontà
compromissoria ex post manifestata dal terzo con effetti modificativi della partecipazione al
giudizio arbitrale, come accade ai sensi dell’art. 816 quinquies, c. I, c.p.c.
(22) Verosimilmente con riguardo alle sole controversie di cui all’art. 140 bis, c. II, lett.
a) (v. anche oltre nel testo).
(23) Escluse dunque le forme della tutela cautelare o monitoria non gestibili dagli arbitri.
224
ardita e perfino vessatoria dal punto di vista della tutela effettiva del
consumatore e/o della classe di appartenenza (si pensi ad una interpretazione estensiva à la manière della sentenza Bazzle applicabile a clausole
identiche accessorie a contratti seriali, con preclusione, dunque, di fatto di
una class action giudiziale per i diritti derivanti da quella serie di contratti).
Il perché tuttavia non dobbiamo prospettarci il problema delle “clausole silenti” nei predetti termini è presto detto.
Vi è infatti un argomento che esclude la possibilità di deferire agli
arbitri il giudizio e proprio quel giudizio ex art. 140 bis cod. cons. Non
certo la competenza funzionale ratione materiae stabilita dal c. IV di tale
articolo (24), ma sì invece il dato ineludibile che la domanda dell’attore di
classe deve essere, ai sensi del c. V dell’art. 140 bis, obbligatoriamente
notificata al P.M. onde consentirgli l’esercizio della facoltà di intervento
limitatamente alla fase di ammissibilità, nonché la stessa struttura della
fase di ammissibilità comprensiva di un reclamo alla corte d’appello.
Mi sembrano, questi, elementi che rendono non già incompromettibile, sotto il profilo dell’oggetto, il giudizio risarcitorio di classe, bensì
incompatibile con l’arbitrato — per ragioni di lex specialis e cioè derivanti
dall’art. 140 bis e non dall’art. 806 c.p.c. — il particolare giudizio di classe
quale interamente e specificamente disciplinato dall’art. 140 bis e cioè in
quanto articolato in una prima fase di ammissibilità ed in una successiva
fase di merito con tutto quel che a ciò segue. Né si può superare tale
radicale incompatibilità immaginando che l’arbitrato prosegua o si arresti
a seconda che il pubblico ministero scelga o meno di intervenire e che in
caso di intervento la fase di ammissibilità si svolga in doppio grado davanti
alla giurisdizione ordinaria, la quale poi restituirebbe la palla per il merito
agli arbitri (25).
Insomma, è la stessa previsione di una fase di ammissibilità connotata
dalla doverosa notifica dell’atto introduttivo al P.M. e dalla opportunità
concessa a costui di intervenire in tale fase a risultare radicalmente
inconciliabile con l’arbitrato (26).
Ma a questo punto vi è da chiedersi se le parti compromissoriamente
possano, pur deferendo agli arbitri il giudizio di classe, rinunciare alla sua
(24) Si tratta di un falso problema come efficacemente spiega GABOARDI, op. cit., 1004.
(25) Così invece GABOARDI, op. cit. 1009. Ma l’espediente appare palesemente impraticabile perfino in epoca di translatio facilitata.
(26) L’argomento dunque non può essere eluso solo perché l’intervento del P.M. in fase
di ammissibilità della class action è facoltativo e non necessario. Quel che conta è che sia
obbligatoria la comunicazione al P.M. e che sia cioè obbligatorio consentirgli di intervenire.
Prescindendo qui dal se la previsione di un intervento necessario del P.M. sia, come taluni
ritengono (v. ad es. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2012, I, 402), “sintomo” di
indisponibilità e perciò di incompromettibilità (ciò che non credo: l’indisponibilità — da
verificarsi caso per caso in relazione all’oggetto della controversia e perciò anche a quello delle
controversie singolarmente individuate dall’art. 70, c. I, c.p.c. — o vi è o non vi è, senza bisogno
225
sola fase di ammissibilità come rinunciano, per ciò stesso che compromettono in arbitri, ad altre forme o fasi del giudizio apud iudicem (il doppio
grado di merito, le pronunce monitorie in assenza di contraddittorio
ecc....), fermo ed inalterato l’ambito dei diritti soggettivi la cui tutela sia
stata legittimamente, dal punto di vista della disponibilità e perciò della
astratta compromettibilità, sottratta al giudice e devoluta agli arbitri.
Non vedo ragioni per differenziare le situazioni e perciò tali da
escludere una risposta senz’altro affermativa. Tanto più — sul piano della
sostanza — che la fase di ammissibilità della class action non è, nella logica
dell’art. 140 bis e nel sistema in cui esso si inserisce, un usbergo di schietto
ordine pubblico e protettivo in primo luogo di interessi superindividuali
(come accadeva ad esempio, in ben altro contesto, quanto alla fase di
ammissibilità dell’azione di responsabilità contro lo Stato-giudice ex l. n.
117/1988), bensì un presidio-filtro immaginato a difesa anzitutto delle
imprese, quale argine alle azioni di classe puramente provocatorie o
pretestuose.
Secondariamente quel presidio è posto anche a protezione degli altri
consumatori o utenti appartenenti alla classe, rispetto all’eventualità di
una azione pretestuosa destinata al sicuro rigetto nel merito o comunque
a pregiudizievole combine e perciò rispetto alla preclusione di altra
successiva azione di classe coincidente.
Ma proprio una tale preclusione è da escludersi, come fra breve si
dirà, ove il giudizio di classe sia affidato ad arbitri, mentre la difesa delle
imprese rispetto alle azioni provocatorie e temerarie è in definitiva affar
loro: è difesa cui esse possono tranquillamente abdicare in una con
l’abdicazione a quell’effetto preclusivo.
di sintomi), è lo stesso coinvolgimento del P.M., quando espressamente voluto dal legislatore,
che può rappresentare un limite speciale alla arbitrabilità diverso dalla indisponibilità (prospettiva questa cui altri hanno più volte fatto cenno).
Che vi sia o no un tale limite ulteriore dipende allora dal modo in cui il legislatore
configura il coinvolgimento del P.M. e non di per sé dal carattere necessario o meno dell’intervento. E così il disposto dell’ultimo comma dell’art. 70 non crea problemi perché la mera
facoltà di intervento ad esclusiva iniziativa del P.M. che ravvisi sua sponte un pubblico interesse
anche in causa avente ad oggetto diritti disponibili non può costituire limite di sorta all’arbitrabilità (ne deriverebbe assurdamente la preclusione della compromettibilità di qualunque
controversia, in qualunque controversia essendo in astratto ravvisabile un pubblico interesse),
e dunque la conclusione non può che essere quella inversa secondo cui l’intervento facoltativo
ex art. 70, u.c. non è ovviamente esercitabile in arbitrato posta la radicale inconcepibilità di una
adesione compromissoria anche ex post di una parte pubblica al giudizio arbitrale. Viceversa
l’imposizione normativa di un obbligo di comunicazione o di notifica dell’atto introduttivo al
P.M. rappresenta di per sé una modalità limitatrice della arbitrabilità, vuoi che essa sia
funzionale (come accade secondo l’art. 71, c. I, c.p.c. all’esercizio dell’intervento necessario),
vuoi che essa sia funzionale (come accade ex art. 140 bis, c. V, cod. cons.) all’esercizio di una
mera facoltà di intervento, perché è il legislatore che determinatamente vuole, ed a priori, che
il P.M. sia comunque obbligatoriamente coinvolto (pur quando lasci a lui la scelta se intervenire
o meno).
Il fatto poi che questo coinvolgimento, nel caso della azione di classe, si riferisca solo ed
esclusivamente alla fase di ammissibilità, lascia aperto — vista la sicura disponibilità dei diritti
in contesa — il discorso “intermedio” che si sta per svolgere nel testo.
226
Sarà dunque libera scelta dell’impresa compromittente di rinunciare
alla fase di ammissibilità, nel proprio personale calcolo di costi-benefici,
così come ogni compromittente in arbitri rinuncia ad esempio alla particolare garanzia, che il giudizio ordinario offre, data dal fatto che i
testimoni sono lì (e solo lì) minacciati dall’eventualità di macchiarsi del
reato di falsa testimonianza, ed a tante altre cose; rinunce bilanciate
appunto dai (sempre da considerarsi ponderatamente caso per caso e mai
da darsi per scontati e men che meno in ossequio alla moda) vantaggi
dell’arbitrato.
Pare insomma lecito concludere che in Italia sia deferibile ad arbitri
non esattamente l’azione di classe secondo il compiuto ed integrale
paradigma dall’art. 140 bis cod. cons., ma sì un’azione di classe ed una
tutela di classe rimodellate, per sottrazione della fase di ammissibilità; la
funzione filtrante e protettiva della quale, oltretutto, ha maggior senso in
un giudizio pubblico piuttosto che in un giudizio privato (27).
Il che vale a dire però ed invariabilmente che la convenzione arbitrale
dovrà fare riferimento esplicito al giudizio di classe (anche mediante
indicativa relatio al modello ex art. 140 bis o in altro modo). La clausola
“silente” non avrà insomma valenza estensiva rispetto ad un giudizio e ad
una forma di tutela che, per come puntualmente disciplinati dall’art. 140
bis (fase di ammissibilità inclusa), non sono ricomprensibili nel generico
“tutte le controversie”.
Occorrerà che sia evidente la volontà dell’impresa da un lato e del
consumatore o utente dall’altro di affidare agli arbitri, oltre alle liti
puramente bilaterali derivanti dal contratto, anche una eventuale azione
del consumatore o utente quale attore di classe e perciò aperta alle
adesioni volontarie di altri membri della classe, ed al contempo di accettare effetti della decisione estesi agli eventuali aderenti; quel che gli
aderenti accetteranno poi anch’essi, compromissoriamente e pur senza
divenire parti del giudizio, con la adesione.
Purché ciò sia chiaro, nella convenzione arbitrale potranno invece
ritenersi implicite da un canto la esclusione della possibilità per il consumatore compromittente della possibilità di agire davanti all’AGO ex 140
bis (esclusione idonea — vista la identità sostanziale, anche se non
formale, tra la tutela affidata agli arbitri e quella dettagliata dall’art. 140
bis — a conferire il maggior effetto utile possibile alla pattuizione compromissoria esplicita nei termini sopra detti); d’altro canto l’affidamento
(27) L’assenza di una autonoma fase di ammissibilità nel procedimento arbitrale “di
classe” non dovrebbe significare che l’arbitro non possa chiudere “in rito” il giudizio applicando
— analogicamente ovvero quali norme di materielles Prozessrecht intrinseche alla disciplina
dell’azione dichiaratamente esercitata quale azione di classe — i criteri contemplati dall’art. 140
bis, c. VI, seconda parte; salvo quello della “manifesta infondatezza”, la cui operatività come
ragione di inammissibilità piuttosto che di reiezione nel merito si giustifica appunto solo in virtù
della presenza di una fase di ammissibilità distinta da quella di merito.
227
agli arbitri (rilevante ex art. 816 bis, c.p.c.) del compito di organizzare il
class arbitration — per quanto di ragione e per quanto non ulteriormente
previsto dall’accordo compromissorio (28) — sulla base del residuo paradigma dell’art. 140 bis.
La pendenza del class arbitration ed il lodo che lo definisca non
potranno in ogni caso spiegare l’effetto preclusivo rispetto alle altre azioni
di classe (per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa) stabilito
dall’art. 140 bis, c. XIV, né sarà concepibile davanti agli arbitri la riunione
di altre azioni di classe non fondate su di una apposita volontà compromissoria (29). Ciò è a dirsi del tutto a prescindere dalla individuabilità di un
termine di “scadenza per le adesioni”, che il giudice fissa con l’udienza di
ammissibilità e che gli arbitri potrebbero fissare ex art. 816 bis anche al di
fuori dalla insussistente, innanzi a loro, fase di ammissibilità. Gli effetti
descritti dall’art. 140 bis, c. XIV sono però effetti ultra partes giammai
riconducibili all’arbitrato ed al lodo, bensì solo al giudizio ordinario e alla
sentenza del giudice e per espressa ed eccezionale volontà normativa.
Che invece il lodo “faccia stato anche nei confronti degli aderenti” e
che sia “fatta salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono
all’azione collettiva” (così lo stesso c. XIV dell’art. 140 bis) dipenderà
invariabilmente, nel caso del class arbitration, dalla portata dell’accordo
compromissorio che appunto ipotizzi in termini sufficientemente espliciti
il deferimento ad arbitri di un giudizio di classe esposto ad adesioni, le
quali comportino per i volontari aderenti l’estensione degli effetti della
pronuncia arbitrale. La salvezza delle azioni individuali dei non aderenti,
e la speculare preclusione di quelle azioni per gli aderenti, non è che un
complemento ovvio, pressoché superfluamente esplicitato già nella logica
dell’azione ex art. 140 bis innanzi al giudice, a fortiori nella logica dell’arbitrato di classe.
La disposizione (art. 140 bis, c. XII) secondo cui la sentenza di
condanna che accoglie l’azione di classe diviene esecutiva decorsi centoottanta giorni dalla pubblicazione è in assoluto sicuramente derogabile, ed
essa può perciò essere espressamente esclusa o modificata dalle parti
compromittenti in caso di class arbitration. Nel silenzio non si può escludere una sua applicazione analogica, a questo punto però con riguardo
non al lodo puro e semplice ma al decreto di omologa ex art. 825 che lo
rende esecutivo, e perciò con decorrenza del termine dal deposito
(28) L’accordo compromissorio potrebbe, ad esempio, specificare le modalità di pubblicità concernenti la iniziativa attorea al fine di sollecitare le adesioni o le stesse modalità formali
delle adesioni. Altrimenti siffatte specificazioni rientreranno nei poteri degli arbitri ex art. 816
bis c.p.c..
(29) Se fossero fondate anch’esse su volontà compromissoria e perciò sfociate in distinti
arbitrati, vi sarebbero comunque i noti problemi della riunione di giudizi arbitrali, la quale è in
definitiva possibile solo su apposita base consensuale.
228
di tale decreto. Del pari analogicamente applicabile dovrà allora ritenersi
la disposizione che esenta i pagamenti spontanei entro il periodo di grazia
da ogni maggiorazione accessoria (v. sempre l’art. 140 bis, c. XII).
Ancor più sicura mi parrebbe l’applicazione analogica — da parte
della Corte d’appello investita della impugnazione del lodo e della istanza
di inibitoria ex art. 830, u.c., c.p.c. — dell’art. 140 bis, c. XIII, con i poteri
cautelativi e la indicazione di massima (“tiene conto altresì dell’entità
complessiva della somma gravante sul debitore”) ivi previsti in relazione
alla inibitoria ex art. 283 c.p.c.
Infine è da sottolineare che un ipotetico arbitrato di classe italiano
fondato su clausola compromissoria contrattuale parrebbe poter riguardare i soli “diritti contrattuali di una pluralità di consumatori” di cui dice
l’art. 140 bis, c. II lett. a) (30).
Naturalmente occorrerà che una pattuizione compromissoria siffatta,
se opposta dal convenuto ad azione di classe promossa innanzi all’AGO (31), superi indenne il vaglio ex artt. 33 ss. cod. cons. E ciò — al di
là delle ancora non del tutto risolte questioni in ordine alla riconducibilità
ed in che termini delle clausole arbitrali alla presunzione di vessatorietà ex
art. 33. c. II, lettera t) — potrà avvenire non tanto in ragione di una
trattativa individuale (assolutamente irrealistica in caso di clausole compromissorie identiche inserite in contratti seriali, che è poi l’unico modo
per l’impresa che lo voglia di congegnare un utile confinamento in
arbitrato della possibile class action), bensì attraverso la dimostrazione
della assenza di “significativo squilibrio”. Profilo questo in relazione al
quale un ruolo non indifferente potrebbero giocare (32) (non è detto
ovviamente che sempre giochino), rispetto al caso della “normale” clausola compromissoria, il fatto che l’alternativa arbitrale tiene luogo di un
giudizio ordinario “di classe” il quale fino ad ora non ha meritato parti-
(30) In teoria — e se si considera con un po’ di coraggio il fondamento privatistico e
volontaristico dell’arbitrato e con un po’ di favore la forza espansiva della autonomia privata —
non dovrebbe neppure escludersi che il class arbitration sia voluto dalle parti anche al di fuori
dei limiti oggettivi di cui all’art. 140 bis, c. II lett. a), b) e c). In fondo, e se si segue l’impostazione
prospettata nel testo, non si tratterebbe di estendere impropriamente l’ambito applicativo
dell’art. 140 bis (ciò che di fronte al giudice non potrebbe certo farsi), ma solo di costruire
compromissoriamente, nel quadro della disponibilità, un giudizio privato con effetti estensivi
della decisione, da un lato non interdetti espressamente (come accade per gli “effetti cautelari”),
d’altro lato ragionevolmente attingibili anche in dimensione privata e volontaria per il tramite
appunto della loro previsione compromissoria originaria e della successiva adesione.
(31) Per il caso di azione promossa dal consumatore innanzi agli arbitri vedi invece
quanto si è già osservato retro al par. 2.
(32) Oltre ad eventuali meccanismi di calmieramento preventivo dei costi di arbitrato
anche mediante il ricorso all’arbitrato amministrato; un cenno significativo a questo tema, in
relazione alla più generale prospettiva dei procedimenti arbitrali comunque connotati da
“numerosità” e con riferimento al c.d. (ed essai problematico in assenza di esplicita regolamentazione) arbitration funding, in CORAPI, op. cit., 17.
229
colare abnegazione e favore da parte dei nostri tribunali, ed il fatto che
scegliendo la via arbitrale l’impresa rinuncia — come si è sopra evidenziato — al vantaggio di alcune delle preclusioni ex art. 140 bis, c. XIV (33).
Sembra estremamente improbabile, invece, che una azione di classe
relativa ai rapporti non contrattuali, di cui alle lettere b) e c) dell’art. 140
bis c. II, possa essere deferita ad arbitri sulla base della nuova convenzione
di arbitrato (pro futuro) “in materia non contrattuale” introdotta dall’art.
808 bis c.p.c.. Ci vorrà piuttosto un apposito compromesso; eventualità
questa che, pur nell’ambito del remoto esotismo che per ora connota il
trapianto in Italia dell’arbitrato di classe, non appare affatto inverosimile
ed anzi, forse, è l’ipotesi meno inverosimile di concreto avvio di un
arbitrato di classe. Di fronte alla prospettiva di un contenzioso seriale
derivante da fatto o condotta determinati e già verificatisi, l’impresa,
soprattutto nella interlocuzione con associazione consumeristica potenzialmente rappresentativa di attore di classe (ed in realtà potenziale
promotrice di azione di classe), potrebbe a certe condizioni ed in certe
circostanze, da valutarsi bilateralmente con prudenza estrema, trovare
conveniente — e trovare in ciò consenziente l’associazione — il deferimento ad arbitri di quella lite collettiva ed il presumibile o auspicato
confinamento in essa di un numero significativo di adesioni (con altrettante sottrazioni allo stillicidio di azioni individuali seriali innanzi ai nostri
beneamati e folklorici giudici di pace).
Va soggiunto che le linee teoriche appena abbozzate non muterebbero probabilmente ove dovesse diventare legge la semisciagurata riforma
della class action (con trasferimento della relativa disciplina dal codice del
consumo al c.p.c.) recentissimamente varata alla Camera. Vi sarebbero
comunque, sul piano del fatto, da un lato una incentivazione a ragionare
ancora sul class arbitration a motivo della estensione del parterre degli
attori al di là della cerchia dei consumatori e utenti, d’altro lato una
incentivazione a lasciar definitivamente perdere a motivo della farraginosa
e fortemente “giudiziarizzata” disciplina delle adesioni e di altre complicazioni.
The author explores whether, in the wake of the US experience, a class action
in Italy may be referred to arbitration.
(33) In questa prospettiva, ed al fine di attestare l’assenza di “significativo squilibrio”, la
clausola compromissoria da inserire nei contratti seriali potrebbe essere finalizzata al deferimento ad arbitri della sola eventuale class action, con espressa salvezza, per il consumatore,
dell’azione individuale davanti al giudice salvo il caso in cui egli aderisca a class arbitration
avviato da altri.
Il “significativo squilibrio” sarebbe all’evidenza evitato ove poi, quanto specificamente
alla azione di classe, la clausola lasciasse il consumatore libero di avviarla avanti al giudice o
avanti all’arbitro (v. in proposito anche retro, par. 2 sub d)). Ma diminuirebbero così fortemente
i possibili profili di convenienza ed appetibilità per l’impresa.
230
The article introduces the question by briefly analyzing the main difficulties
with class action arbitrations which have arisen in US case law and also traces the
evolution of such case law over time.
With respect to Italian law, the author’s view is that a class action can be
arbitrated. However, it would not be possible for the arbitration proceedings to also
include the separate special phase deciding the admissibility of the application, as
foreseen by Article 140 bis of the Consumers Code.
The article goes on to analyze the main legal issues which may arise — both for
the purposes of the signing of the arbitration clause and for the conduct of the
proceedings — in the referral of a class action to arbitration.
231
I motivi di impugnazione del lodo:
una razionalizzazione? (*)
LAURA SALVANESCHI (**)
1. La razionalizzazione dell’impugnazione per nullità come criterio guida con
riferimento alle censure per errori di diritto. — 2. Segue: profili critici di diritto
transitorio. — 3. La razionalizzazione dell’impugnazione per nullità come criterio
guida con riferimento all’esito del giudizio successivo alla pronuncia rescindente.
— 4. Per una razionalizzazione dei motivi non rinunciabili di impugnazione per
nullità.
1. Parlare oggi dei motivi di impugnazione del lodo arbitrale, con
accento posto sul profilo della loro razionalizzazione, rende istintiva la
creazione di un ponte immaginario tra la legge delega 14 maggio 2005, n.
80, che ha condotto all’ultima incisiva riforma del diritto dell’arbitrato nel
nostro Paese, e il nuovissimo Disegno di legge delega (1) che potrebbe
preludere a una nuova rivisitazione dell’intero codice di rito e con questa
del suo segmento normativo dedicato all’arbitrato. Entrambe le direttive
poste al legislatore in materia, a dieci anni di distanza l’una dall’altra,
fanno infatti della razionalizzazione il loro fulcro. È allora immediata la
riflessione che o quella razionalizzazione del sistema delle impugnazioni
del lodo che doveva guidare la riforma del 2006 non è stata esauriente,
oppure il sistema si è evoluto nell’ultimo decennio in modo tale da rendere
nuovamente attuale l’esigenza di un nuovo intervento di razionalizzazione.
(*) Questo scritto è destinato agli Scritti in onore di Giorgio De Nova e costituisce
integrazione e rielaborazione del testo della relazione tenuta in occasione dell’incontro di
studio “Il rinnovato profilo dell’impugnazione del lodo nell’arbitrato interno”, svoltosi presso
la Camera arbitrale di Milano il 9 aprile 2015.
(**) Professore ordinario nella Università Statale di Milano.
(1) Mi riferisco alla Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo
civile presentata alla Camera l’11 marzo 2015 dalla Commissione presieduta dal dott. Giuseppe
Berruti, che prevede quale criterio direttivo il “potenziamento dell’istituto dell’arbitrato, anche
attraverso l’eventuale estensione del meccanismo della translatio judicii ai rapporti tra processo
e arbitrato, nonché attraverso la razionalizzazione della disciplina dell’impugnativa del lodo
arbitrale”.
233
Che il legislatore del 2006 sia stato chiamato a un’opera di razionalizzazione delle impugnazioni arbitrali risulta di particolare evidenza dalla
doppia invocazione di questo principio contenuta nella legge delega n.
80/2005. L’impulso alla razionalizzazione è richiamato infatti sia nel
preambolo delle regole volte a disciplinare il futuro arbitrato, tese, in via
generale, a “riformare in senso razionalizzatore la disciplina dell’arbitrato”, che dalla specifica direttiva in tema di impugnazione per nullità,
tendente a “una razionalizzazione delle ipotesi attualmente esistenti di
impugnazione per nullità secondo i seguenti principi: 1) subordinare la
controllabilità del lodo ai sensi del 2º comma dell’art. 829 del codice di
procedura civile alla esplicita previsione delle parti, salvo diversa previsione di legge e salvo il contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico; 2) disciplinare il procedimento, prevedendo le ipotesi di
pronuncia rescissoria da parte del giudice dell’impugnazione per nullità”.
L’istanza di razionalizzazione che ha fatto da sfondo all’ultima riforma
dell’arbitrato non tendeva quindi in via immediata a modificare i nove
motivi di impugnazione per nullità non rinunciabili allora previsti dall’art.
829 cod. proc. civ., ma era diretta, come suo punto focale, alla inversione
del rapporto tra regola ed eccezione dell’impugnazione per inosservanza
delle regole di diritto allora previsto dal secondo comma della norma che
disciplina i motivi di impugnazione per nullità. L’intervento normativo
auspicato aveva quindi di mira la razionalizzazione di un unico motivo di
impugnazione del lodo, quello relativo alla violazione di norme sostanziali; a ciò si accompagnava una direttiva tesa alla rivisitazione del giudizio
rescissorio affidato alla Corte d’appello e, in particolare, alla delimitazione
delle sue ipotesi.
Sotto il primo profilo l’intervento del legislatore delegato è stato netto
e specifico. Come è noto, il sistema è passato dall’ammissione dell’impugnazione per nullità “se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le
regole di diritto, salvo che le parti ... avessero dichiarato il lodo non
impugnabile”, alla regola opposta per cui “L’impugnazione per violazione
delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se
espressamente disposta dalle parti o dalla legge”.
Pur continuando a lasciare la volontà delle parti signora della fattispecie, l’inversione tra regola ed eccezione ha dunque operato una vera e
propria rivoluzione concettuale del sistema, in cui il silenzio delle parti, da
sintomo della volontà di un doppio grado di giudizio sull’applicazione del
diritto alla fattispecie concreta, è divenuto invece emblema di un intento
di chiusura all’impugnazione per violazione di norme sostanziali. Si è
tradotto così in norma di legge un disegno di modello di impugnazione per
nullità doppiamente limitata del tutto differente dall’appello, che si contrappone a questo mezzo ordinario di impugnazione sia per uno schema
specifico e vincolato di motivi di impugnazione, sia per la normale esclusione del motivo di censura riguardante la violazione di norme di diritto.
234
Questa modifica, in vigore dal 2006, risponde a una scelta di fondo del
legislatore nel senso della valorizzazione dell’arbitrato quale giudizio di
primo grado il cui risultato è tendenzialmente stabile (2). Nonostante le
più moderne tendenze a una certa restrizione anche dell’appello, la vera
distinzione tra il giudizio arbitrale e quello ordinario in sede giurisdizionale sta ancora oggi nell’intervento operato sul motivo di impugnazione di
cui all’attuale art. 829, c. 3, cod. proc. civ. Il lodo arbitrale, che partecipa
oggi pienamente della natura e degli effetti della sentenza (3), si caratterizza tuttavia rispetto a quest’ultima per una differente stabilità, perché la
sua impugnazione è limitata al punto da consentire la tendenziale qualificazione dell’arbitrato come giudizio one-shot, mentre il procedimento
che si svolge davanti al giudice togato è ancora tendenzialmente a doppio
grado.
Se si riflette su questa caratterizzazione, che il legislatore delegante ha
riportato a un principio di razionalizzazione dell’istituto, una volta riconosciuto come un valore quello dell’equiparazione tra lodo e sentenza,
occorre immediatamente sgombrare il campo dalla suggestione che la
distinzione possa dipendere da un giudizio di prevalenza qualitativa del
lodo sulla sentenza, come se nella storica corsa del giudizio arbitrale dietro
a quello statale il primo avesse alla fine superato il secondo. Questa
suggestione, per chi creda nel canone di uguaglianza dei due giudizi, non
può evidentemente essere seguita e occorre allora ricercare le ragioni di
questo fenomeno in altro contesto.
La maggiore stabilità del lodo rispetto alla sentenza riposa a mio
avviso su ragioni che trovano le loro origini in ambito internazionale.
L’arbitrato ha per sua natura maggiore attitudine rispetto al giudizio
statale a essere utilizzato per la soluzione di controversie transnazionali.
Quando le parti appartengono a ordinamenti diversi e sono prive di un
diritto comune sono infatti maggiormente portate a rivolgersi all’arbitrato
piuttosto che al giudice dell’uno o dell’altro Stato, perché in questo modo
possono affidarsi a organi giudicanti di formazione mista e imparziale. È
allora normale che nel contesto internazionale si sia sviluppata una forte
tendenza a favorire la stabilità dei lodi, con limitazione del loro controllo
da parte di quel giudice togato, che appartiene necessariamente all’uno o
all’altro ordinamento giuridico. Viene quindi dal contesto internazionale
la consolidata tendenza dei singoli legislatori nazionali a favorire sistemi di
(2) Cfr. S. MENCHINI, Impugnazioni del lodo “rituale”, in questa Rivista, 2005, pag. 843 e
seg., in particolare pag. 857-858.
(3) Il riferimento è, oltre al dettato dell’art. 824 bis cod. proc. civ., alle note pronunce
della Corte costituzionale 17 luglio 2013, n. 223 e della Cassazione, Sez. Un., ordinanza 25
ottobre 2013, n. 24153.
235
controllo che prevedono motivi tassativi di impugnazione e non danno
rilievo all’errore di diritto, se non laddove quest’ultimo si estrinseca in una
violazione dell’ordine pubblico (4).
È in quest’ambito che vanno quindi ricercate le ragioni per cui il
nostro legislatore, nel tentativo notorio di rendere l’Italia sede maggiormente appetibile di arbitrato per operatori non nazionali, ha suggerito e
operato la svolta che nel 2006 ha caratterizzato l’impugnazione per nullità
per violazione di regole di diritto. La maggiore stabilità così acquisita in
via generale (5) dai lodi arbitrali rispetto alla sentenza merita dunque di
essere approvata perché si iscrive in una linea di tendenza sovranazionale.
La regola stessa trova poi giustificazione sul piano interno in due circostanze specifiche proprie del giudizio arbitrale: la sua tendenziale specializzazione e la sua prevalente collegialità.
La specializzazione è un dato connaturale dell’arbitrato, legato alla
mancanza di precostituzione del giudice; in quest’ambito la scelta dell’organo giudicante è normalmente libera e può dunque essere calibrata
rispetto alle esigenze del caso concreto (6). La collegialità è invece un dato
statistico tendenziale degli organi arbitrali — nelle forme tra l’altro di una
collegialità piena in quanto riferita anche allo svolgimento dell’istruzione
probatoria — che trova la sua maggiore giustificazione nella figura dell’arbitro c.d. di parte, ma si spiega anche attraverso ragioni storiche e
culturali; essa contribuisce sicuramente ad aumentare il grado di affidabilità del giudizio finale degli arbitri, che nasce nel confronto dialettico tra
più opinioni.
Quanto precede non significa che un lodo arbitrale sia di necessità
statisticamente più corretto di una sentenza, ma solo che la scelta del
nostro legislatore di rimarcare tra i criteri di razionalizzazione della
materia quello della restrizione del controllo del lodo, con normale
esclusione dei motivi di diritto, risponde in pieno all’esigenza cui si voleva
(4) Per questo tema sia consentito il rinvio, anche per ulteriori riferimenti, a A.
CARLEVARIS, L’impugnazione dei lodi arbitrali, in Commentario breve al diritto dell’arbitrato
nazionale e internazionale, a cura di M. Benedettelli - C. Consolo - L. Radicati di Brozolo,
Padova, 2010, pag. 967 e seg.
(5) Cioè anche dai lodi che non presentano elementi di estraneità, avendo com’è noto il
nostro legislatore proprio nel 2006 abrogato anche il capo normativo prima specificamente
dedicato all’arbitrato internazionale.
(6) E ciò vale non solo laddove impera la fiduciarietà perché sono le parti a designare gli
arbitri, ma anche quando le scelte eteronome siano affidate a organismi capaci di calibrare la
nomina in relazione al tipo di controversia in atto, com’è proprio dell’arbitrato amministrato. In
proposito va riconosciuto che i nuovi giudici specializzati designati per alcune materie stanno
dando oggi ottime prove, a dimostrazione che la specializzazione dell’organo giudicante è un
valore da perseguire, ma la differenza rimane legata alla circostanza che l’arbitrato può sempre
fare di una scelta ponderata sulle esigenze del caso concreto il suo vessillo, mentre il giudice
togato specializzato è legato a una competenza per materia, al di fuori della quale, molto spesso,
il giudice ordinario è costretto a decidere su una congerie di materie che non è umanamente
possibile approfondire tutte a livello specialistico.
236
venire incontro, quella cioè di razionalizzare il sistema, rendendolo più
funzionale attraverso la creazione di un giudizio di primo grado più stabile
in quanto portato a compimento da un organo tendenzialmente specializzato e collegiale.
Perché la restrizione sia anche legittima sul piano delle garanzie, il
legislatore ha però voluto che la sua scelta fosse discrezionale: la volontà
delle parti è sovrana in materia (7), chi preferisce quindi il controllo
giurisdizionale può liberamente optare per la sua piena inclusione.
L’insieme della riforma dell’art. 829 cod. proc. civ. è per questa parte
equilibrata e non credo dunque che un nuovo intervento modificatore sia
opportuno. Se qualcosa per questo aspetto c’è ancora da fare non è
dunque sul piano normativo, ma su quello della diffusione della cultura
dell’arbitrato, capace di portare con sé anche una crescita di consapevolezza della libertà di scelta che deriva dal dettato dell’articolo 829 cod.
proc. civ. Non sempre si ha infatti la sensazione che il silenzio serbato dalle
parti in materia sia accompagnato da piena consapevolezza del suo
significato attuale.
2. Se l’attuazione della direttiva del legislatore delegante è per
questa parte avvenuta nel rispetto delle sue finalità, non risponde invece
a un criterio di razionalizzazione del sistema il coordinamento intertemporale tra il vecchio e il nuovo realizzato nel 2006.
In proposito è noto che la norma di diritto transitorio che ha disciplinato l’entrata in vigore dell’ultima riforma dell’arbitrato ha previsto che
la nuova disciplina dell’impugnazione per nullità dovesse applicarsi “ai
procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta
successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (8),
con ciò dimenticando che le clausole compromissorie sono convenzioni di
arbitrato che regolano tipicamente liti future. Chi ha stipulato il patto
arbitrale prima della riforma, con il suo silenzio ha apposto il sigillo sulla
propria volontà di poter fruire del motivo di impugnazione per violazione
di regole di diritto relative al merito della controversia e non su quella
contraria.
Ne è nato così un sistema tutt’altro che razionale e di difficile
compatibilità con elementari principi di rango costituzionale (9), ponendo
(7) Non per nulla, il Maestro cui cui questo scritto è dedicato, segnala l’art. 829, 3º
comma, cod. proc. civ., tra le norme particolarmente degne di nota in tema di autonomia privata
nei suoi rapporti con l’arbitrato. Cfr. G. DE NOVA, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia
privata, in questa Rivista, 2006, pag. 423 e seg., in particolare pag. 430.
(8) Cfr. art. 27 d l. n. 40/2006 in relazione all’art. 24.
(9) In proposito cfr. C. PUNZI, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 2007, pag. 395 e seg., in particolare pag. 435 e seg.; P.L. NELA, Contro l’applicazione
dell’art. 829, comma 3º c.p.c. alle convenzioni arbitrali concluse prima della riforma, in Riv. dir.
proc., 2009, pag. 919 e seg.
237
in improvvisa impossibilità di censurare il lodo per motivi di diritto chi
aveva scelto, all’epoca della redazione della clausola compromissoria, un
sistema aperto, ma ha poi iniziato l’arbitrato in un momento successivo
all’entrata in vigore della riforma.
A superare i non trascurabili dubbi di legittimità della normativa è poi
intervenuta la Cassazione che, con una nota sentenza (10), ha ampiamente
argomentato nel senso dell’applicabilità della disciplina previgente e non
di quella di nuovo conio alle convenzioni di arbitrato stipulate anteriormente alla riforma. Ad avviso della Corte, infatti, poiché le clausole
compromissorie sono atti negoziali, costituisce principio generale del
nostro ordinamento, discendente dall’applicazione dell’art. 11 preleggi,
quello per cui le condizioni di efficacia e gli effetti delle stesse, in quanto
espressione di una valida manifestazione di volontà delle parti, sono
disciplinate dalla legge in vigore al momento in cui le convenzioni di
arbitrato sono adottate, senza che i loro effetti possano essere modificati
da una legge successiva. Così, il principio di irretroattività della legge,
unito alla mancata previsione di una norma che abbia decretato l’invalidità delle clausole previgenti, ha portato la Cassazione a concludere che le
nuove regole restrittive dell’impugnazione non devono essere applicate ai
patti di arbitrato conclusi prima dell’entrata in vigore della nuova legge,
anche se il giudizio arbitrale è stato introdotto in data successiva, ma
devono in questo caso applicarsi comunque le disposizioni vigenti in
materia al momento della redazione della convenzione di arbitrato.
La Corte di legittimità, insomma, nel conflitto tra il principio di
irretroattività della legge applicabile ai rapporti negoziali e quello noto col
brocardo tempus regit actum tipico dei fenomeni processuali, ha fatto
prevalere il primo, evitando così l’intervento della Consulta da più parti
invocato, a fronte di un’eccezione che appare altrimenti fondata. È infatti
evidente la disparità di trattamento che deriverebbe dall’applicazione
letterale dell’art. 27 d.l. n. 40/2006 tra chi si vede modificati d’imperio da
una legge successiva gli effetti della propria volontà negoziale e chi invece,
avendo stipulato il patto dopo l’entrata in vigore della riforma, può
prevedere, quale effetto tutelato dall’ordinamento, l’impugnabilità del
lodo per violazione delle regole di diritto; nonché, addirittura, la disparità
di trattamento tra tutti coloro che hanno ugualmente stipulato la convenzione di arbitrato in epoca antecedente alla rivisitazione dell’art. 829 cod.
proc. civ., ma ricevono poi un trattamento diverso a seconda della data di
promozione del giudizio arbitrale. La disciplina transitoria, così come
letteralmente costruita, appare poi violare l’art. 24 Cost., perché comprime indebitamente il diritto delle parti alla piena tutela giurisdizionale
del diritto di impugnazione, sottraendo loro quel motivo di gravame che
pur avevano voluto.
(10)
238
Cfr. Cass. 19 aprile 2012, n. 6148.
Come accade negli ordinamenti sottratti per ragioni costituzionali ai
vincoli del precedente, su questo argomento la Cassazione ha poi però
cambiato idea più di una volta (11), pur prevalendo alla fine la tesi più
tranquillizzante. Confido allora che, essendo l’ultima sentenza in materia
recentissima (12) e ancora una volta nel segno del rispetto della volontà
delle parti, non siano necessari in materia interventi autentici del legislatore. Però, se il dubbio interpretativo dovesse riproporsi o permanere, mi
pare certo che il nuovo legislatore delegato, nel razionalizzare ulteriormente il sistema dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, non
potrebbe fare a meno di chiarire che, se la volontà delle parti in materia
è sovrana, alle clausole ante 2006 non può che applicarsi il vecchio sistema
in qualunque momento sia iniziato l’arbitrato, salvo che si voglia invece
imporre una rivisitazione espressa delle vecchie clausole, con onere delle
parti di esplicitare la loro intenzione.
3. Venendo alla seconda direttiva del legislatore delegante del 2005,
essa imponeva, quale ulteriore criterio guida di razionalizzazione del
sistema, che venisse disciplinato “il procedimento prevedendo le ipotesi di
pronuncia rescissoria da parte del giudice dell’impugnazione per nullità”.
Inoltre, la legge delega, nel prevedere la soppressione del capo dedicato
all’arbitrato internazionale, disponeva la tendenziale estensione della
relativa disciplina all’arbitrato interno, salvi gli opportuni adattamenti.
Entrambe le direttive si sono tradotte in norma di legge. La prima ha
comportato una profonda variazione concettuale del sistema previgente
che riservava sempre la decisione rescissoria alla corte d’appello “salvo
volontà contraria di tutte le parti”, introducendo invece un sistema a
carattere misto, che distingue tra le ipotesi in cui alla corte è affidato il solo
giudizio rescindente e quelle in cui è tenuta anche a provvedere al
rescissorio, salva sempre la diversa volontà delle parti. La seconda ha
invece trasfuso nell’attuale seconda parte del 2º comma dell’articolo 830
cod. proc. civ. la regola, prima vigente per l’arbitrato internazionale,
dell’esclusione dell’affidamento del giudizio rescissorio al giudice, delimitando però l’operatività della disposizione al solo caso in cui una delle
(11) Cfr. Cass. 17 settembre 2013, n. 21205, per la quale “L’art. 829 c.p.c., nel suo nuovo
testo, si applica a norma dell’art. 27, comma 4, d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, ai procedimenti
arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata
in vigore del predetto decreto, pur se riferita a clausola compromissoria stipulata in epoca
anteriore” e successivamente Cass. 3 giugno 2014, n. 12379, ove si legge in motivazione che la
Corte ha inteso “dare seguito alla pronunzia di questa Corte n. 6148 del 2012, la quale,
muovendo da una ricostruzione teleologico-sistematica della norma processuale posta dal
D.Lgs. 40 del 2006, art. 27, comma 4, ma con precipua attenzione all’insuperabile dato valoriale
costituito dalla precedentemente espressa volontà delle parti, ha offerto una soluzione rispettosa della esigenza di attendibilità delle norme ... e pertanto ha fornito una lettura secundum
constitutionem della norma transitoria stessa”.
(12) Cfr. Cass. 19 gennaio 2015, n. 748.
239
parti, alla data della sottoscrizione della convenzione di arbitrato, risieda
o abbia la propria sede effettiva all’estero e non quindi anche quando
debba essere eseguita all’estero una parte rilevante delle prestazioni
nascenti dal rapporto al quale la controversia si riferisce, come disponeva
il previgente art. 832 cod. proc. civ. per l’arbitrato internazionale.
Nelle sue linee direttive e principali il sistema risultante dalla riforma
del 2006 ha istituito dunque una distinzione tra lodo interno e lodo dotato
di elementi di estraneità. In relazione al primo, la direttiva di razionalizzazione è stata attuata prevedendo che, salvo che le parti non abbiano
disposto diversamente con la convenzione di arbitrato o con accordo
successivo, la corte d’appello decide la controversia nel merito se il lodo è
stato annullato per uno dei motivi indicati dall’art. 829, 1º comma, numeri
5, 6, 7, 8, 9, 11 e 12, nonché nei casi indicati nel 3º, 4º e 5º comma della
norma da ultimo richiamata.
Negli altri casi, invece, la corte d’appello non può emettere la pronuncia rescissoria e, una volta definito il giudizio di impugnazione per
nullità con la pronuncia rescindente, riprende vigore l’originaria convenzione di arbitrato e la vicenda deve essere rimessa dalle parti che vogliano
ottenere una nuova pronuncia ad arbitri che verranno nominati applicando l’originaria convenzione di arbitrato (13). Tutto ciò purché l’annullamento non sia avvenuto per invalidità o inefficacia della convenzione di
arbitrato, nonché in quella di non compromettibilità della controversia.
Per avere una nuova soluzione della lite le parti dovranno poi di necessità
rivolgersi al giudice togato quando la lite sia stata dichiarata non arbitrabile, mentre potranno invece tornare dagli arbitri previa stipulazione di un
nuovo e valido patto arbitrale nei casi in cui il vizio abbia avuto incidenza
sulla convenzione di arbitrato (14).
La distinzione tra le ipotesi in cui il giudizio rescissorio è affidato alla
corte d’appello e quelle in cui il potere decisorio torna a essere degli
arbitri, risiede nella maggiore o minore incidenza del vizio sullo svolgimento del giudizio arbitrale concluso con il lodo annullato: laddove il vizio
sia stato tale da doversi ritenere che il giudizio non abbia avuto luogo, si
prevede una sorta di rimessione della causa allo stato originario, perché il
giudizio arbitrale possa svolgersi (15); nei casi in cui, invece, il giudizio
arbitrale vi sia stato e meriti solo una correzione, la causa passa per il
rescissorio alla corte d’appello.
(13) Si dovrà trattare di arbitri diversi da quelli che hanno già pronunciato, creandosi
altrimenti un’ipotesi di incompatibiità.
(14) Cfr. S. MENCHINI, Impugnazioni del lodo “rituale”, cit., pag. 864 e seg.
(15) Cfr. MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma, Milano, 2009,
pagg. 13-14, che propone l’idea di una simmetria con il giudizio di rinvio e la sua funzione
restitutoria ovvero prosecutoria, riservando quindi a nuova decisione arbitrale le ipotesi in cui
la precedente fase processuale non abbia avuto i requisiti minimi indispensabili per essere
considerata conclusa.
240
Quanto al lodo dotato di elementi di estraneità la corte d’appello
decide invece la controversia nel merito solo se le parti hanno così stabilito
nella convenzione di arbitrato o ne fanno concorde richiesta.
Questa pur sommaria descrizione, rende ragione dell’idea che rispetto a questa parte della disciplina vi sia spazio per un nuovo intervento
di razionalizzazione del sistema, perché quello già intervenuto non è
esauriente e vi può essere dunque un miglioramento.
Senza entrare nel merito dei singoli motivi di impugnazione e delle
conseguenze specifiche che derivano dal loro accoglimento, basta qualche
esempio a chiarire che la previsione delle ipotesi di pronuncia rescissoria
da parte del giudice dell’impugnazione per nullità non ha seguito sempre
il criterio di razionalizzazione cui doveva essere ispirata.
Quando il lodo è annullato ai sensi dell’art. 829, 1º comma, n. 8 cod.
proc. civ. la corte d’appello decide la causa nel merito, ma la logica e il
funzionamento di questa pronuncia rescissoria creano un problema. Non
è infatti dubbio che qualora nel giudizio arbitrale vengano prodotti una
precedente sentenza o un precedente lodo passati in giudicato gli arbitri
debbano pronunciare una declinatoria in rito per precedente giudicato.
Molto più logico sarebbe stato allora ricondurre l’ipotesi in esame tra
quelle in cui la corte d’appello svolge la sola funzione rescindente,
rimanendo il rapporto sostanziale regolato dalla precedente sentenza
definitiva o dal precedente lodo. Allo stato, dato che l’ipotesi stessa è
invece tra quelle in cui la corte d’appello svolge anche funzione rescissoria, non rimane che ritenere che la corte stessa abbia il dovere di
pronunciare in conformità della precedente pronuncia passata in giudicato (16), pena la pronuncia di una sentenza nuovamente viziata per
violazione di un precedente giudicato con tutte le conseguenze che ne
derivano.
Quando il lodo è annullato ai sensi dell’art. 829, 1º comma, n. 10, cod.
proc. civ., la regola è invece quella per cui il giudizio della corte d’appello
è meramente rescindente e ciò perché un giudizio arbitrale non c’è stato
e occorre quindi, nella prospettiva accolta dal legislatore, che vi sia. Nulla
da dire in proposito se si pensa che la logica sottesa a questa disposizione
è quella della salvaguardia della volontà compromissoria delle parti, che
merita di essere rispettata attraverso l’instaurazione di un nuovo giudizio
di merito in via arbitrale. Tuttavia, la stessa fattispecie, quando si verifica
davanti al giudice togato, non dà luogo in via generalizzata e salvo i casi
espressamente previsti dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ. alla rimessione
della causa al giudice di primo grado, ma è disciplinata in modo tale da
affidare il giudizio sostitutivo direttamente al giudice d’appello. La rego(16) Cfr. E. MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma, Milano, 2009,
pag. 202 e seg. Nel senso che il giudizio sia in questo caso comunque solo rescindente S.
MENCHINI, Impugnazioni del lodo “rituale”, cit., pag. 868.
241
lamentazione dei casi in cui il giudizio arbitrale si sia chiuso con un’errata
pronuncia di rito potrebbe dunque anche essere diversamente pensata,
pur salvaguardando la volontà compromissoria delle parti, che nello
scegliere l’arbitrato hanno accettato anche quale suo esito normale l’impugnazione per nullità davanti al giudice togato (17).
Quando il lodo è annullato ai sensi dell’art. 829, 1º comma, n. 6, cod.
proc. civ. la corte d’appello decide nel merito perché, parrebbe, gli arbitri
non sono stati capaci di rispettare il termine per l’adempimento, quindi il
giudizio passa alla corte d’appello che sostituisce il lodo. Eppure anche in
questo caso c’era una volontà compromissoria originaria che potrebbe
essere rispettata (18), disciplinando diversamente l’esito dell’impugnazione.
Sono solo esempi, che chiariscono tuttavia che, anche volendo mantenere un sistema misto quale quello introdotto nel 2006, un nuovo
intervento razionalizzatore della disciplina che regola gli esiti del giudizio
di nullità potrebbe essere immaginato.
Ma, se dobbiamo riflettere sul futuro, la nuova istanza di razionalizzazione potrebbe anche portare a scegliere schemi del tutto diversi in
ordine agli esiti dell’impugnazione per nullità, con completo abbandono
del sistema attuale e introduzione di regole nuove.
Se si guarda alle scelte effettuata da altri Paesi (19), si comprende ad
esempio che, sul piano comparato, ancor prima di discutere se il giudizio
rescissorio debba essere affidato alla corte d’appello oppure a nuovi
arbitri, sono stati ideati esiti dell’impugnazione del lodo del tutto diversi,
che non provocano una pronuncia rescindente da parte del giudice, ma
danno invece luogo al rinvio della causa agli arbitri affinché loro stessi
eliminino il vizio riscontrato (20). Il giudice non adotta quindi in questo
caso alcun provvedimento né di rigetto né di accoglimento dell’impugna(17) Con ciò non intendo concludere che il motivo di cui al n. 10 dell’art. 829 cod. proc.
civ. meriterebbe di essere accompagnato dal giudizio rescissorio della corte d’appello, ma solo
segnalare che anche questa ipotesi è passibile di una diversa regolamentazione a seconda del
peso che il legislatore intende dare all’effettivo svolgimento di un giudizio arbitrale di merito in
primo grado.
(18) E infatti il sistema va ricostruito nel senso che se gli arbitri che abbiano ricevuto la
notifica di cui all’art. 821 cod. proc. civ. pronunciano un lodo di estinzione, come prescritto dalla
norma stessa, il lodo sarà corretto e non impugnabile, pur rimanendo in vita la convenzione di
arbitrato, con la conseguenza che le parti dovranno iniziare un nuovo arbitrato da capo. Solo nel
caso in cui gli arbitri avessero invece pronunciato erroneamente nel merito si applicherà invece
la disposizione richiamata nel testo. Sul punto sia consentito il rinvio al mio volume Arbitrato,
in Commentario del cod. proc. civ. a cura di S. Chiarloni, Bologna 2014, sub art. 821, pag. 726
e seg.
(19) Cfr. E. MARINUCCI, Esito ed effetti dell’impugnazione giudiziaria del lodo arbitrale:
note di diritto comparato, Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, pag. 1327 e seg., ove l’Autrice compie
un’amplissima analisi comparativa.
(20) Cfr. E. MARINUCCI, Esito ed effetti dell’impugnazione giudiziaria, cit., che ricorda in
proposito lo schema dell’art. 34, comma 1, della Model Law, che prevede la domanda di
annullamento come unico mezzo di impugnazione del lodo, ammettendo poi al comma 4, come
242
zione, ma percorre una nuova strada, reinvestendo gli arbitri della procedura arbitrale con il compito di rimuovere loro stessi i vizi riscontrati. Con
questo sistema si salvaguarda quindi al contempo sia la volontà compromissoria delle parti che la celerità del giudizio, perché l’impugnazione
sfocia in un procedimento di integrazione e correzione del lodo, nella
cooperazione tra il giudice togato e gli arbitri.
Accanto a questo modello del rinvio, vengono poi segnalati, oltre a
schemi misti o sostitutivi, una prevalenza di ordinamenti che hanno
operato una scelta di impugnazione con funzione puramente rescindente,
che tende ad affermarsi come impugnazione-tipo del lodo arbitrale anche
a seguito della sua adozione da parte della Model Law Uncitral (21) e dei
Paesi che a quest’ultima hanno ispirato la loro legislazione.
Anche il legislatore italiano, dunque, se chiamato a una nuova opera
di razionalizzazione dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, potrà
e dovrà riflettere in primo luogo sul modello che vorrà adottare, non
essendo affatto sicuro che quello misto oggi prescelto sia il migliore.
Comparando pregi e difetti delle diverse opzioni si potrebbe anche
adottare un sistema puramente rescindente o, ancora meglio sul piano
della concentrazione e della durata dell’intero iter di risoluzione della
controversia in via arbitrale, il sistema del mero rinvio agli arbitri. Si tratta
di scelte di fondo importanti e da ben meditare, ma che, se correttamente
costruite, potrebbero portare, nel rispetto della volontà delle parti e della
convenzione di arbitrato, a dare una più moderna struttura all’impugnazione per nullità e con questa nuova linfa all’arbitrato.
4. Da ultimo, i dodici motivi di impugnazione per nullità oggi
previsti dal 1º comma dell’art. 829 cod. proc. civ. meritano in via di
razionalizzazione una riduzione. Dodici motivi di impugnazione non rinunciabili sono infatti troppi e si scontrano con la già richiamata tendenza
internazionale alla stabilizzazione del lodo.
Anche questo punto, se si intende riaprire la porta alla riforma del
processo civile e con questa a quella dell’arbitrato, merita un ripensamento, rispetto al quale, ancora una volta, può fungere da criterio ispiratore la Model Law Uncitral (22), che a sua volta ricalca i motivi di diniego
del riconoscimento della convenzione di New York (23). A grandi linee
questi motivi riguardano l’invalidità della convenzione di arbitrato, anche
esito possibile dell’impugnazione stessa, il rinvio agli arbitri, nonché altre disposizioni analoghe
contenute sia nel concordato svizzero per l’arbitrato, che nell’Arbitration Act britannico, che,
ancora, nella legge statunitense.
(21) Cfr. ancora lo studio di E. MARINUCCI citato nelle note precedenti.
(22) Cfr. art. 34.
(23) Cfr. art. V e anche per ulteriori riferimenti A. CARLEVARIS, L’impugnazione dei lodi
arbitrali, cit., pag. 985 seg.
243
derivante dalla incapacità delle parti (24); l’irregolare composizione o
costituzione dell’organo arbitrale (25); il mancato rispetto di regole procedurali convenute tra le parti o disciplinate come imperative dal diritto
della sede dell’arbitrato (26); la violazione del contraddittorio (27); la non
compromettibilità della controversia (28) o l’esorbitanza del lodo rispetto
ai limiti della convenzione di arbitrato (29). Tutto ciò, ferma restando la
regola della normale non impugnabilità del lodo in relazione agli errori di
diritto, delimitata dal necessario rispetto dell’ordine pubblico (30).
Verrebbero così riprodotti i punti essenziali degli attuali motivi di
impugnazione per nullità regolati dall’art. 829, 1º comma, cod. proc. civ.,
ma il sistema complessivo ne uscirebbe più snello e maggiormente conforme ai dettami sovranazionali, a tutto vantaggio della promozione
dell’arbitrato con sede in Italia anche con riferimento alle controversie
dotate di elementi di estraneità.
The guiding criterion of Delegated Law No. 80/2005 (which led to the 2006
reform) was to rationalise the grounds for challenging arbitration awards for nullity.
The same purpose of rationalisation is today invoked as the future guiding criterion
for the next legislator in the new bill of delegated law which was presented in 2015
to the Chamber of Deputies by the ad hoc commission set up for arbitration reform.
This article analyses the contributions made by the 2006 reform and suggests
potential additional modifications.
According to the 2005 Delegated Law, the very first step in implementing this
rationalisation drive was to make the court’s control of the award for violation of
rules of law conditional on the parties having included an express provision in this
respect. The 2006 reform subsequently reversed the relationship between the rule and
its exception (see Article 829 of Italy’s Civil Procedure Code). Before the reform, an
award could generally be challenged for violation of rules of law, unless the parties
stipulated otherwise. Following the reform, the award can be challenged for violation of rules of law only if the parties so stipulated. In making this change the Italian
legislator has brought Italian arbitration in line with the international arbitration
trend in which arbitrations are seen as one-shot proceedings, with limited court’s
control of the award for violation of rules of law, but, at the same time, has preserved
(24) Cfr. Model Law art. 34 (2) (a) (i).
(25) Cfr. Model Law art. 34 (2) (a) (iv).
(26) Sul punto la Model Law riconosce prevalenza alle regole convenute tra le parti,
salvo che le stesse siano incompatibili con norme imperative dello Stato ove è la sede
dell’arbitrato [art. 34 (2) (a) (iv)].
(27) La Model Law e le leggi alla stessa ispirate prevedono su questo punto che il lodo
può essere annullato quando la parte non sia stata debitamente informata della designazione
dell’organo arbitrale o della pendenza del procedimento, o comunque si è trovata nell’impossibilità di far valere le proprie ragioni [art. 34 (2) (a) (ii)].
(28) Cfr. Model Law art. 34 (2) (b) (i).
(29) Cfr. Model Law art. 34 (2) (a) (iii).
(30) Cfr. Model Law art. 34 (2) (b) (ii).
244
the parties’ guarantees and their freedom to make a different choice. In a judicial
system in which arbitration awards have the same legal effect as court decisions, the
real difference between the two types of proceedings is the greater stability of the
award, combined with the parties’ freedom to provide the possibility to challenge an
award for violation of rules of law. The 2006 reform therefore achieved its goal of
creating a well-balanced system, in line with the international trend in the arbitration
field. In this specific respect, the 2006 reform deserves full endorsement but the
inter-temporal regime should be better clarified, as caselaw correctly did, by stating
that the new rules apply solely to arbitration clauses which were agreed on after the
law entered into force.
Moreover, the Delegated Law imposes two rationalisation-driven guidelines,
both of which have been implemented: first, in certain cases the judge dealing with
the challenge proceedings can issue a rescissory ruling. Second, the heading of the
Code of Civil Procedure concerning international arbitration is abrogated, extending its principles to domestic arbitration, subject to appropriate adjustments. The
first guideline was implemented by providing for a mixed system which assigns to the
Court of Appeal, in certain cases, not only the annulment ruling but also the
rescissory phase on the merits, whilst in certain other cases it obliges the court to limit
itself to issuing an annulment ruling, unless the parties elect otherwise. The second
guideline was implemented by providing that a challenge against an award containing “external elements” (with respect to a purely domestic one) would lead to an
annulment ruling only and would not lead to rescissory phase on the merits before
the Court of Appeal, again unless the parties elect otherwise. In doing so, a
distinction was established between domestic awards and awards with “external
elements”.
The system is not entirely clear or consistent as to whether cases in which
proceedings to rule on the merits after the award is annulled are to be assigned to the
Court of Appeal and a reconsideration might be needed with this respect. A good
example can be drawn from foreign laws, which suggest cases of interest having
different outcomes to proceedings brought to challenge an arbitration award for
nullity.
In conclusion, the existing 12 grounds for challenging an arbitration award for
nullity in which the award can always be challenged regardless of any waiver by the
parties, need to be reduced. A good solution could be to follow the template offered
by the Uncitral Model Law, which provides for grounds for challenge concerning,
in general terms, the invalidity of the arbitration agreement, the irregularities of the
arbitral proceeding, the non arbitrability of the dispute and the violation of the
adversarial principle.
245
Gli effetti del lodo e il falso problema della natura
negoziale oppure giurisdizionale dell’arbitrato
MICHELE FORNACIARI (*)
1. Introduzione. — 2. Gli orientamenti in merito alla negozialità/giurisdizionalità
dell’arbitrato. — 3. L’assunto, secondo il quale l’arbitrato irrituale, avendo natura
negoziale, non dà luogo ad un accertamento, ma si concreta nell’estinzione del
rapporto in essere e nella costituzione di uno nuovo. — 4. L’assunto, secondo il
quale, avendo l’arbitrato (rituale e/o irrituale) natura negoziale, il lodo produce
effetti di minor portata rispetto a quelli della sentenza del giudice. — 5. L’assunto,
secondo il quale l’arbitrato rituale, avendo il relativo lodo effetti di sentenza, ha
natura giurisdizionale. — 6. Gli effetti della definizione consensuale della controversia e del lodo rispetto a quelli della sentenza del giudice: necessità di specificare
il problema. — 7. Segue: la definizione consensuale della controversia ed il lodo,
non solo rituale, ma anche irrituale, danno vita ad un vero accertamento. — 8.
Segue: l’intensità, e più in generale la forza, dell’accertamento delle parti e
dell’arbitro, rituale e irrituale. — 9. Segue: la resistenza allo ius superveniens
retroattivo, l’efficacia verso terzi, il coinvolgimento nel giudicato del rapporto
giuridico fondamentale, la riflessione dello stesso sui rapporti dipendenti. — 10.
Conclusioni sulla negozialità/giurisdizionalità.
1. L’arbitrato, nelle sua duplice, tradizionale, incarnazione di arbitrato rituale ed arbitrato irrituale, o libero (1), offre un punto di vista assai
stimolante per riflettere intorno a temi di grande importanza, vuoi della
scienza processuale, vuoi, più in generale, della scienza giuridica tout
court. Collocato, com’è, a cavallo fra le manifestazioni più tipiche dell’operare giuridico dei privati e di quello del giudice, vale a dire, rispettivamente, l’attività innovativa (per tale intendendo quella volta a produrre
una modificazione nell’attuale assetto dei diritti/obblighi delle parti) e
quella accertativa (per tale intendendo quella volta viceversa a fissare il
modo di essere del predetto assetto, prospettato come preesistente) (2),
(*) Magistrato nel Tribunale di Lucca.
(1) Nel prosieguo dello scritto verrà adoperata la prima espressione, vuoi perché a mio
avviso più incisiva della seconda, vuoi in ragione del suo recepimento nella rubrica dell’art.
808-ter cpc.
(2) Per maggiori dettagli sull’innovatività e sull’accertatività, nonché sulla loro distin-
247
esso, al pari di tutti i territori di confine, rappresenta infatti un osservatorio privilegiato per verificare le effettive differenze fra i due settori e per
individuare dunque quali siano gli elementi realmente caratterizzanti di
questi ultimi.
Nell’ambito della riflessione in materia, un ruolo fondamentale riveste, com’è ovvio, l’indagine in merito alle analogie/differenze delle suddette incarnazioni, vuoi fra loro, vuoi rispetto al processo davanti al
giudice. Ed a tale proposito, ad apparente dimostrazione del ruolo del
quale si è appena detto, una delle questioni più dibattute, in chiave non
solo sistematica, ma anche più concretamente applicativa, è quella relativa
alla natura negoziale oppure giurisdizionale degli arbitrati ed alla maggiore o minore assimilabilità degli effetti del lodo a quelli della sentenza
del giudice o invece alla loro più o meno marcata differenza da questi
ultimi (3).
Si tratta, com’è noto, di una disputa antica. Essa, infatti, era già in
corso sotto il vigore dei codici del 1865 ed è proseguita sia sotto il vigore
di quelli del 1942, sia a seguito della duplice riforma del 1983 e del 1994,
sia, ancora, a seguito di quella del 2006, che pure, dettando per la prima
volta una disciplina di carattere generale dell’arbitrato irrituale, sembrava
sulla carta destinata a chiarire finalmente le cose ed a risolvere dunque il
problema (4).
La constatazione di tanta continuità, ed ancor più di tanta resistenza
alle modifiche normative, sembrerebbe confermare che quella in discorso
è in effetti una questione centrale e decisiva. A mio parere, invece — sia
detto subito in modo chiaro ed esplicito — essa è ora (5), ed è sempre
zione da altre categorie, prossime, ma non coincidenti, prima fra tutte la dispositività, si rinvia
a M. FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino, 2002, 69
ss.
(3) Le citazioni sul punto sono veramente superflue, trattandosi di un argomento che è
affrontato in qualunque trattazione relativa all’arbitrato.
(4) Per una sintesi storica del dibattito v. G. BARBIERI-E. BELLA, Il nuovo diritto
dell’arbitrato, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F.
GALGANO, Padova, 2007, 53 ss., 269 ss. e 395 ss.; V. BERTOLDI, Commento all’art. 808 ter, in
Codice di procedura civile commentato, III, Artt. 633-840. Disposizioni per l’attuazione. Appendice4, diretto da C. CONSOLO, Milano, 2010, 1613 ss.; S. BOCCAGNA, Commento all’art. 824 bis,
ibidem, 1694 ss.; G. BONATO, La natura e gli effetti del lodo arbitrale. Studio di diritto italiano e
comparato, Napoli, 2012, 1 ss.; M. BOVE, Note in tema di arbitrato libero, in Riv. dir. proc., 1999,
691 ss.; F. CARPI, Commento all’art. 824-bis, in Arbitrato2, commentario diretto dallo stesso
Autore, Bologna, 2007, 587 ss.; E. MARINUCCI, Commento all’art. 824 bis, in L.P. COMOGLIO-C.
CONSOLO-B. SASSANI-R. VACCARELLA, Commentario del codice di procedura civile, VII, 4, Articoli
796-840, Torino, 2014, 645 ss.; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I2, Padova, 2012, 57
ss. e 220 ss.; ID., Disegno sistematico dell’arbitrato, II2, Padova, 2012, 392 ss.; L. SALVANESCHI,
Arbitrato, in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di S. CHIARLONI, Libro quarto:
Procedimenti speciali art. 806-840, Bologna, 2014, 795 ss.
(5) Sulla scarsa importanza della questione, quanto all’arbitrato rituale, ma solo in
conseguenza della sempre più puntuale regolamentazione della materia da parte del legislatore,
v. E. MARINUCCI, Commento, cit., 652, e P.L. NELA, Commento all’art. 824 bis c.p.c., in Le recenti
riforme del processo civile, Commentario diretto da S. CHIARLONI, II, Bologna, 2007, 1844.
248
stata, priva di una reale rilevanza. Non, beninteso, che quello relativo alle
analogie ed alle differenze fra arbitrato rituale, arbitrato rituale e processo
davanti al giudice sia un problema secondario. Al contrario, esso riveste
senz’altro un’importanza fondamentale. Non credo però che per venirne a
capo risulti risolutivo continuare a dibatterne in termini di negozialità/
giurisdizionalità e di effetti di negozio/effetti di sentenza.
In primo luogo va infatti notato che tanto della prima (vale a dire
della negozialità/giurisdizionalità), quanto dei secondi (vale a dire degli
effetti di negozio/effetti di sentenza), si parla spesso senza che venga
adeguatamente chiarito quali sarebbero il significato, la portata e le
implicazioni delle categorie in questione, e dunque, in definitiva, la differenza fra l’adesione all’una oppure all’altra delle opzioni in questione. A
questo si aggiunge poi, quanto alla negozialità/giurisdizionalità, che l’alternativa non è univoca, nel senso che, come constateremo (6), essa può
fondarsi su una pluralità di criteri, eterogenei fra loro, quanto agli effetti
di negozio/effetti di sentenza, che non sempre si distingue adeguatamente
da un lato fra ciò che attiene agli effetti e ciò che attiene invece al regime
delle pronunce dell’arbitro e del giudice (7), dall’altro fra l’accertamento
quale verifica storica e l’accertamento quale effetto giuridico. Quello in
questione è cioè un dibattito che ruota spesso intorno a concetti generici
e ondivaghi. Esso rischia dunque di risolversi in una disputa meramente
terminologica, inidonea a fornire validi strumenti interpretativi ed esplicativi del fenomeno indagato (8).
Con questo, sia chiaro, non si vuole sostenere che, per quanto in
particolare concerne l’alternativa negozialità/giurisdizionalità, non si
possa prendere posizione (per quanto concerne l’alternativa effetti di
negozio/effetti di sentenza credo invece effettivamente che essa non abbia
ragion d’essere, fra gli effetti del negozio e quelli della sentenza non
essendovi in realtà, in linea di principio e salve ovviamente le scelte di
diritto positivo, alcuna differenza (9)). Al riguardo, tanto vale anzi dichiarare fin da subito che l’opinione di chi scrive è nel senso della natura
negoziale dell’arbitrato, non solo nella sua modalità irrituale, ma anche in
quella rituale. Tutto sta però ad attribuire a questa — così come a
qualunque altra — opzione, un significato esclusivamente classificatorio,
dipendente dal criterio di distinzione fra negozialità e giurisdizionalità che
(6) V. i §§ 3, 4 e 10.
(7) Sul punto v. anche il § 5 e, più specificamente, sulla necessità di distinguere
attentamente fra ciò che attiene all’efficacia e ciò che attiene alla validità della pronuncia, il §
8.
(8) Sulla possibilità di un “ripensamento del dilemma, rectius della contrapposizione, fra
giurisdizionalità e contrattualità dell’arbitrato” e sulla consistenza, “almeno per certi versi,
meramente terminologic[a]”, del perpetuarsi delle relative questioni, v. C. PUNZI, Disegno
sistematico dell’arbitrato, I, cit., 148.
(9) Sul punto v. anche il § 2 e, più in dettaglio, i §§ 7-9.
249
si ritenga di adottare, senza pretendere di attribuire all’opzione medesima
un rilievo ed un significato diverso ed ulteriore, tantomeno per ciò che
concerne l’identificazione degli effetti del lodo.
Tanto premesso, e manifestate dunque nettamente le convinzioni alla
base delle presenti considerazioni, obiettivo di queste ultime vorrebbe
essere, in uno con la dimostrazione dell’irrilevanza della disputa in merito
alla negozialità/giurisdizionalità dell’arbitrato, la messa a fuoco dei veri
termini del problema relativo agli effetti del lodo, non peraltro senza
fornire in proposito, sia pure in termini generali e senza pretesa di
completezza, alcune indicazioni in merito alla relativa soluzione.
2. Da lungo tempo, come detto, si discute in merito alla natura
negoziale oppure giurisdizionale dell’arbitrato ed all’assimilabilità o meno
degli effetti del lodo a quelli della sentenza del giudice.
Allo stato attuale, all’esito dell’ultima riforma (quella, citata, del
2006) ed alla luce in particolare degli attuali artt. 808-ter, 824-bis e 825 cpc,
l’orientamento maggioritario (pur, com’è ovvio, al suo interno variamente
articolato e sfumato) può essere riassunto nel senso che, mentre all’arbitrato rituale, essendo stati espressamente riconosciuti al lodo, fin dalla sua
sottoscrizione, gli effetti della sentenza del giudice (eccezion fatta solo per
l’efficacia esecutiva, subordinata all’exequatur del Tribunale), dovrebbe
ormai essere senz’altro riconosciuta natura giurisdizionale (10), all’arbi(10) In tal senso v. G. BARBIERI-E. BELLA, Il nuovo diritto dell’arbitrato, cit., 53 ss., 269 ss.
e 395 ss.; P. BIAVATI, Commento all’art. 808-ter, in Arbitrato2, commentario diretto da F. CARPI,
Bologna, 2007, 163 e 168; M. BOVE, Note, cit., 734 ss.; C. CONSOLO, Il processo di primo grado e
le impugnazioni delle sentenze dopo la legge n. 69 del 2009, Padova, 2009, 608 s., 614, 615 e 639;
E. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 824-bis, in Commentario alle riforme del processo civile, a
cura di A. BRIGUGLIO e B. CAPPONI, III, 2, Arbitrato, Padova, 2009, 967 s.; E. MARINUCCI,
Commento, cit., 655 ss.; L. SALVANESCHI, Arbitrato, cit., 145 ss. e 790 ss.; G. VERDE, Arbitrato
irrituale, in La riforma della disciplina dell’arbitrato (L. n. 80/2005 e D. lgs. n. 40/2006), a cura
di E. FAZZALARI, Milano, 2006, 12 s. e 16, e in questa Rivista, 2005, 670 e 674; ID., Lineamenti di
diritto dell’arbitrato3, Torino, 2010, 16 ss. e 38.
Alla giurisdizionalità si sono da ultimo convertite, com’è noto, anche le Sezioni Unite. Dopo
che nel 2000 avevano sostenuto la natura negoziale dell’arbitrato rituale (cfr. Cass., SU, 3 agosto
2000, n. 527, in Foro it., 2001, I, 839, con osservazione di C.M. BARONE, Giur. it., 2001, 1107, con
nota di G. CANALE, Arbitrato irrituale e tutela cautelare: i soliti problemi tra vecchie soluzioni e nuove
prospettive, Giust. civ., 2001, I, 761, con nota di G. MONTELEONE, Le sezioni unite della Cassazione
affermano la natura giuridica negoziale e non giurisdizionale del c.d. “arbitrato rituale”, Riv. dir.
proc., 2001, 254, con nota di E.F. RICCI, La “natura” dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano
le sezioni unite, Corr. giur., 2001, 51, con note di G. RUFFINI, Le sezioni unite fanno davvero
chiarezza sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione?, e di M. MARINELLI, Le sezioni unite fanno
davvero chiarezza sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione?, in questa Rivista, 2000, 699, con nota
di E. FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla “natura” dell’arbitrato, Foro pad., 2001, 34, con
nota di M. RUBINO SAMMARTANO, Vittoria di Tappa - Arbitrato irrituale come processo: un sogno
impossibile?, ibidem, 251, con nota di M. CURTI, Sulla natura dell’arbitrato: l’ultima posizione delle
Sezioni Unite sulla teoria generale dell’arbitrato), nel 2013 esse hanno infatti mutato opinione,
sostenendo appunto la natura giurisdizionale dell’istituto (cfr. Cass., SU, 25 ottobre 2013, n. 24153
(ord.), in Foro it., 2013, I, 3407, con osservazione di E. D’ALESSANDRO, Le sezioni unite mutano
opinione sulla natura dell’eccezione di arbitrato estero, Corr. giur., 2014, 84, con nota di G. VERDE,
250
trato irrituale, in quanto fenomeno negoziale, non potrebbero invece che
essere ricollegati effetti a loro volta negoziali, come tali diversi da quelli
della sentenza (11).
Secondo altri, invece, la giurisdizionalità — o se non altro la giurisdizionalità in senso proprio — dovrebbe essere esclusa, non solo per
l’arbitrato irrituale, ma anche per quello rituale.
Su tale, comune, presupposto, però, mentre secondo taluno questo
implicherebbe che neppure al lodo rituale potrebbero essere realmente
riconosciuti i medesimi effetti della sentenza (12), secondo altri, invece, la
non giurisdizionalità dell’arbitrato non inciderebbe in alcun modo sugli
effetti del lodo, che non vi sarebbe ragione di differenziare da quelli della
sentenza (13) (14).
Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico, Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 169,
con nota di A. GIUSSANI, Intorno alla deducibilità ex art. 41 cod. proc. civ. dell’eccezione contestata
di compromesso per arbitrato estero).
Nel senso che “già prima dell’introduzione dell’art. 824-bis c.p.c. l’efficacia, tra le parti, della
decisione arbitrale rituale era equiparabile a quella della sentenza”, v. poi Cass., 26 maggio
2014, n. 11634, in Foro it., 2014, I, 2845, con nota di E. D’ALESSANDRO, Lodo arbitrale rituale ed
art. 1306 c.c.
(11) In tal senso v. G. BARBIERI-E. BELLA, Il nuovo diritto dell’arbitrato, cit., 395 ss.; P.
BIAVATI, Commento, cit., 163 ss.; M. BOVE, Note, cit., 688 ss.; C. CONSOLO, Il processo di primo
grado, cit., 644; P.L. NELA, Commento, cit., 1634 nota 10 e 1635 ss.; L. SALVANESCHI, Arbitrato,
cit., 153 s. e 177; G. TOTA, Commento all’art. 808-ter, in Commentario alle riforme del processo
civile, a cura di A. BRIGUGLIO e B. CAPPONI, III, 2, Arbitrato, Padova, 2009, 547 e 549; G. VERDE,
Arbitrato irrituale, cit., 12 e 16, e in questa Rivista, 2005, 670 e 674; ID., Lineamenti, cit., 38.
(12) In tal senso v. C. PUNZI, Disegno sistematico, I, cit., 116 ss.; ID., Disegno sistematico,
II, cit., 401 ss. (dello stesso Autore v. anche, da ultimo, Le nuove frontiere dell’arbitrato, in Riv.
dir. proc., 2015, 1 ss.); E. ODORISIO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina dell’arbitrato, in
Riv. dir. proc., 2006, 253 ss., 267 ss.; G. BONATO, La natura, 171 ss.
(13) In tal senso v. F.P. LUISO, L’art. 824-bis, in questa Rivista, 2010, 235 ss. Nel senso che
“‘la forza di legge tra le parti’ non ha molto di diverso dalla sostanza precettiva dell’accertamento ‘contenuto nella sentenza passata in giudicato’ (art. 2909 c.c.) e quindi del lodo c.d.
rituale”, e che “la differenza evidentemente si apprezza (non sul terreno dell’effetto sostanziale,
quanto piuttosto) sul terreno del regime dell’atto produttivo di tali effetti e, per conseguenza,
sulla disciplina processuale di questi”, v. anche B. SASSANI, Commento all’art. 808 ter, in L.P.
COMOGLIO-C. CONSOLO-B. SASSANI-R. VACCARELLA, Commentario del codice di procedura civile,
VII, 4, Articoli 796-840, Torino, 2014, 116.
(14) Più genericamente nell’ottica dell’esclusione della giurisdizionalità v. inoltre: nel
senso che l’assimilazione, sotto il profilo degli effetti, non implica necessariamente la giurisdizionalità dell’arbitrato rituale, P.L. NELA, Commento, cit., nota 24; nel senso che l’equiparazione
fra lodo e sentenza non implica la loro totale coincidenza e che gli arbitri rituali non esercitano
la funzione giurisdizionale (ma nondimeno ius dicunt), F. CARPI, Commento, cit., 594 ss. in part.
596; nel senso che l’efficacia di sentenza, di cui all’art. 824-bis c.p.c., “non può essere quella
descritta dall’art. 2909 c.c., ma bensì la sua efficacia processuale, correttamente intesa come
sottrazione alle ordinarie impugnazioni negoziali ed assoggettamento alle impugnazioni processuali ed alla procedura di correzione degli errori materiali disciplinate dal codice di rito”, G.
RUFFINI, Patto compromissorio, in La riforma della disciplina dell’arbitrato (L. n. 80/2005 e D.
lgs. n. 40/2006), a cura di E. FAZZALARI, Milano, 2006, 51 e 59 ss., e in questa Rivista, 2005, 711
e 719 ss.; nel senso che “l’attività degli arbitri è esercizio privato di una attività di giudizio e
giustizia, di generale e pubblica utilità, ma non è giurisdizione”, S. LA CHINA, L’arbitrato3,
Milano, 2007, 24; fermamente per la negozialità dell’arbitrato rituale, al punto da ritenere
incostituzionale l’art. 824-bis c.p.c., E. FAZZALARI, Questione di legittimità costituzionale, in La
riforma, cit., 3 ss., e in questa Rivista, 2005, 661 ss.
251
Non manca poi chi sostiene che, a seguito della sempre più stringente
regolamentazione del fenomeno da parte del legislatore, il problema della
qualificazione dell’arbitrato rituale ha perso quantomeno parte della sua
rilevanza (15).
Così sintetizzato, ed a prescindere, com’è ovvio, dell’adesione all’una
oppure all’altra delle riferite ricostruzioni, il panorama delle opinioni in
materia sembrerebbe se non altro chiaro. A ben vedere, invece, non è così
e questo dipende dal fatto che l’alternativa effetti di sentenza/effetti di
negozio non dice in realtà nulla di concreto. Finché non venga chiarito
quale sarebbe la diversa consistenza delle due tipologie di effetti, non
sappiamo infatti quali differenti, tangibili, conseguenze determinerebbe,
per le parti, il fatto che al lodo vengano attribuiti i primi oppure i secondi.
Ed il punto è che tale diversa consistenza non emerge né spesso né in
modo netto dalle indagini in materia.
Al netto delle analisi, nell’ambito delle quali ci si limita a far riferimento all’un tipo di effetti oppure all’altro, dando per scontata la loro
diversità e senza concretizzare i termini di quest’ultima, esistono, in effetti,
diversi tentativi di ricostruzione dell’arbitrato, e del suo atto finale, in
termini alternativi rispetto al processo davanti al giudice, ed alla relativa
sentenza. In tal senso si è variamente parlato, nel corso dei decenni, con
formule note a chiunque abbia un minimo di confidenza con la materia, di
mandato a transigere o ad accertare, di arbitraggio della transazione o del
negozio di accertamento, di negozio/contratto per relationem e così via.
Tali formule non sono però risolutive. Più precisamente, con riferimento ad esse può osservarsi quanto segue: laddove si fa riferimento alla
transazione, esse sono palesemente in contrasto con la volontà delle parti,
e dunque con la realtà del fenomeno, dal momento che, quando si
rivolgono ad un arbitro, i litiganti non vogliono affatto transigere, bensì
vedere riconosciuta la propria ragione; laddove invece si fa riferimento al
negozio di accertamento, esse risultano generiche, nella misura in cui non
viene chiarito quali sarebbero gli effetti dell’accertamento in questione;
laddove infine si fa riferimento al negozio per relationem, esse risultano
parimenti generiche, nella misura in cui non viene chiarito quale sarebbe
il negozio posto in essere dall’arbitro, al quale le parti rinviano (mentre
poi, laddove venga invece specificato che in questione sarebbe una transazione oppure un negozio di accertamento, vale, ovviamente, quanto
appena detto per le rispettive ipotesi).
In sostanza, cioè, le ricostruzioni in discorso o sono manifestamente
artificiose, o non forniscono alcuna reale spiegazione in merito alla concreta diversità degli effetti del lodo rispetto alla sentenza del giudice.
Non tutte le indicazioni, che emergono dalle trattazioni in materia,
(15)
252
In tal senso v. E. MARINUCCI e P.L. NELA, opp. e locc. citt. nella nota 5.
sono peraltro di questo tipo. Concentrandoci dunque su quelle più concrete, e cercando di schematizzare, mi pare che possano identificarsi due
impostazioni.
Secondo la prima, gli effetti di negozio, anziché di sentenza, si
concreterebbero in ciò, che il lodo irrituale (la tesi, quantomeno di
recente, è stata sostenuta unicamente con riferimento a quest’ultimo) non
darebbe luogo ad un accertamento in senso proprio. Al contrario, il
fenomeno dovrebbe essere ricostruito in termini innovativi, e precisamente estintivo-costitutivi: con il patto compromissorio le parti eliminerebbero il rapporto in essere, dopodiché l’arbitro ne creerebbe uno
nuovo (16).
Secondo la seconda impostazione, il lodo, darebbe bensì vita ad un
accertamento, ma per un qualche verso di rango inferiore, rispetto a
quello, al quale dà vita la sentenza del giudice. In particolare, per quanto
concerne l’arbitrato rituale (ma il problema si pone ovviamente anche per
quello irrituale) si è sostenuto che il lodo: — non resisterebbe allo ius
superveniens retroattivo; — non avrebbe effetti nei confronti dei terzi; —
non coinvolgerebbe il rapporto fondamentale; — non si rifletterebbe sui
rapporti dipendenti (17).
In un caso, la differenza concernerebbe dunque il “tipo” di effetto
(innovativo, ed in particolare estintivo-costitutivo, anziché accertativo),
nell’altro la sua “portata”.
Queste essendo, in termini più che succinti, limitati ciò che è strettamente indispensabile ai presenti fini, le posizioni in campo (18), esse
possono essere condensate nei seguenti quattro assunti, sicuramente schematici e riduttivi, ma, a quanto mi pare, capaci di sintetizzare efficacemente i tratti essenziali delle varie impostazioni:
a) l’arbitrato irrituale, avendo natura negoziale, non dà luogo ad un
accertamento, ma si concreta nell’estinzione del rapporto in essere e nella
costituzione di uno nuovo;
b) avendo l’arbitrato (rituale e/o irrituale) natura negoziale, il lodo
produce effetti di minor portata rispetto a quelli della sentenza del
giudice;
(16) In tal senso M. BOVE, Note, cit., 731, secondo il quale, più precisamente, “le parti, col
[...] patto [compromissorio,] stipulano un contratto di soluzione della lite che già incide sul
diritto sostanziale, eliminando il rapporto tra di loro esistente, e, quindi, si affidano ad un terzo,
che a questo punto non può essere altro che un arbitratore, per determinare quale sarà il nuovo
rapporto tra di loro intercorrente”; ID., Commento all’art. 808 ter, in La nuova disciplina
dell’arbitrato. Commentario agli artt. 806-840 c.p.c. Aggiornato alla legge 18 giugno 2009 n. 69,
a cura di S. MENCHINI, Padova, 2010, 78; M. MARINELLI, La natura dell’arbitrato irrituale. Profili
comparatistici e processuali, Torino, 2002, 103 ss.
(17) Per tali profili (che mi paiono quelli più significativi), nonché per le relative citazioni,
v. G. BONATO, La natura, 266 ss. e 288 ss.; E. D’ALESSANDRO, Commento, cit., 963 ss. e 973 ss.;
F.P. LUISO, L’art. 824-bis, cit., 238 ss.
(18) Per maggiori dettagli v. le opere citate nella nota 4.
253
c) l’arbitrato rituale, avendo il relativo lodo effetti di sentenza, ha
natura giurisdizionale;
d) pur non avendo l’arbitrato (né rituale né irrituale) natura giurisdizionale, il lodo produce effetti di portata in linea di principio analoga a
quella degli effetti della sentenza del giudice.
A mio avviso, l’assunto corretto è senz’altro il quarto. Credo cioè che,
come del resto già anticipato (19) fra il lodo irrituale, quello rituale e la
sentenza del giudice non vi sia, in linea di principio, in punto di effetti —
o meglio: in punto di efficacia di accertamento (20) — alcuna differenza.
Questo rappresenta però uno sviluppo successivo (21). Il primo stadio
dell’indagine consiste infatti nella dimostrazione che, come detto (22), la
soluzione del problema degli effetti del lodo, rituale come irrituale, non
dipende ora, e non è mai dipeso, dalla negozialità/giurisdizionalità dell’arbitrato.
A tal fine, occorre dunque sottoporre distintamente ad analisi i primi
tre degli assunti che precedono.
3. La negozialità dell’arbitrato irrituale più che un dato pacifico,
rappresenta, nella considerazione comune, una sorta di caratteristica
ontologica del fenomeno. Un dato iscritto, se così di può dire, nel suo dna.
Essa non costituisce, cioè, semplicemente una classificazione, per quanto
unanime, di un istituto, in sé sicuramente presente nel panorama degli
strumenti di risoluzione delle controversie esistenti nell’ordinamento,
bensì, più in radice, la giustificazione stessa di tale presenza.
Le origini dell’arbitrato irrituale sono note. Esso nasce ufficialmente
con una sentenza della Cassazione di Torino del 1904 (23) e la motivazione
del suo riconoscimento da un lato sottolinea la differenza rispetto all’arbitrato rituale, escludendo che l’arbitrato irrituale dia vita ad un “vero e
proprio giudizio contenzioso” e tenda ad una sentenza e ad un titolo
esecutivo, dall’altro fa leva, per legittimare il ricorso a questo strumento
atipico, sul potere delle parti di risolvere convenzionalmente le controversie che le riguardano. Se questo è possibile — afferma la Cassazione
torinese — non si vede per quale ragione le parti non dovrebbero potersi
rimettere alla soluzione dettata da persone di loro fiducia, “obbligandosi
a considerar[e tale soluzione] come stabilit[a] convenzionalmente fra
loro”. La legge — prosegue infatti la Corte — “non vieta in guisa alcuna
questo consenso anticipato a ciò che venisse da altri stabilito”.
(19) V. il § 1.
(20) Sulla necessità di distinguere fra l’effetto di accertamento e gli altri effetti, accessori
e/o collaterali al primo, v. i §§ 4, 5 nota 3 e 6.
(21) V. in proposito i §§ 7-9.
(22) V. il § 1.
(23) Cass. Torino 27 dicembre 1904, in Foro it., 1905, I, 366, e Riv. dir. comm., 1905, II,
45, con nota di P. BONFANTE, Dei compromessi e lodi stabiliti fra industriali come vincolativi dei
loro rapporti ma non esecutivi nel senso e nelle forme dei giudizi.
254
In effetti, proprio questo è, da sempre, il punto: le parti, le quali non
intendano rivolgersi al giudice statale, hanno già a disposizione l’arbitrato
rituale; l’unica via (secondo alcuni percorribile, secondo altri no) per
delegare ad altri privati la risoluzione della controversia, senza sottostare
alle regole di quest’ultimo, non può dunque essere se non quella di
puntare sui poteri sostanziali delle parti medesime, vale a dire sulla libertà
negoziale.
Questa prospettiva, se da un lato offre una soluzione alternativa alle
strettoie imposte dalla regolamentazione dell’arbitrato rituale, dall’altro
pone però, abbastanza intuitivamente, un problema di compatibilità fra il
risultato perseguito e il mezzo adoperato per raggiungerlo. Il negozio,
infatti, è lo strumento tramite il quale i privati dispongono, innovativamente, dei propri interessi. Difficilmente esso sembra dunque prestarsi ad
essere adoperato in funzione accertativa.
Né, com’è ovvio, le cose mutano laddove in questione sia una soluzione della controversia non dettata direttamente dalle parti, ma delegata
ad un terzo. Laddove tale delega si incanali nelle forme dell’arbitrato
rituale, può infatti anche sostenersi che il terzo, pur se nominato dalle
parti, in quanto oggetto di una specifica previsione e disciplina normativa,
esercita una giurisdizione privata, eccentrica rispetto ai poteri delle parti.
Ma quando, non volendo sottostare alla suddetta disciplina, ci si affida agli
istituti generali del diritto privato, il potere delegato al terzo non può che
essere il medesimo che le parti avrebbero speso, laddove avessero definito
la controversia direttamente.
Per uscire da quest’impasse — vale a dire quella dell’incompatibilità
fra il risultato perseguito e lo strumento adoperato per raggiungerlo —
sembrerebbe esistere un’unica possibilità: ammettere che la definizione
privata delle controversie, sia essa autonoma (vale a dire dettata direttamente dalle parti), sia essa eteronoma (vale a dire rimessa ad un terzo),
non dà mai luogo ad un accertamento del precedente modo di essere del
rapporto controverso, ma si risolve sempre nel dettarne una nuova disciplina. Sebbene lo scopo perseguito dalle parti sia proprio quello di mettere
capo al suddetto accertamento, e sebbene quest’ultimo sia preceduto,
quando le parti si rivolgono ad un terzo, da una fase contenziosa, nel corso
della quale ciascuna si adopererà per cercare di far prevalere il proprio
punto di vista, il tutto si traduce, giuridicamente, in una cosa affatto
differente, vale a dire nell’eliminazione del rapporto preesistente e nella
creazione di uno nuovo. Le parti, cioè, pur volendo accertare, in realtà da
un lato estinguerebbero il rapporto controverso, dall’altro ne costituirebbero un altro, o delegherebbero tale costituzione ad un terzo.
Di accertamento, in ambito privatistico, ed in particolare con riferimento all’arbitrato irrituale, potrebbe insomma parlarsi solo in senso
improprio e tenendo appunto presente lo scopo perseguito dalle parti.
255
Tecnicamente, l’utilizzo in proposito di uno strumento innovativo — il
negozio — reagirebbe giocoforza sulla spiegazione del fenomeno, nel
senso indicato.
Il ragionamento appena riassunto, apparentemente, non fa una piega:
i privati, quando agiscono sul piano del diritto privato — e dunque anche
l’arbitro irrituale — compiono un’attività negoziale; l’attività negoziale è
innovativa; l’accertamento privato non è vero accertamento, ma si concreta, innovativamente, appunto, nell’estinzione del vecchio rapporto e
nella costituzione di uno nuovo.
A ben vedere, tale ragionamento risulta invece fallace. Più esattamente, esso — anche al netto di altre considerazioni (24) — si rivela
arbitrario, ed anzi doppiamente arbitrario.
In primo luogo è infatti arbitrario affermare che l’attività negoziale
sia per definizione innovativa. Certo, in genere lo è. Ma dalla prevalenza
statistica di tale modalità alla sua necessaria esclusività c’è, manifestamente, un salto logico. Anche volendo stare alla definizione di negozio —
per quanto possano valere le definizioni — in essa non si rinviene infatti
alcunché che implichi immancabilmente un’attività innovativa: dire, per
stare alla nozione tradizionale, che il negozio è “una manifestazione [...] di
volontà privata diretta a produrre effetti che l’ordinamento giuridico
riconosce e tutela” (25), non implica assolutamente nulla, in merito al tipo
di effetti in questione, ed è dunque pienamente compatibile con un effetto
accertativo (26).
Ma non solo. In realtà, infatti, anche ammesso che l’attività negoziale
(24) La ricostruzione in discorso è a mio avviso artificiosa sotto diversi profili:
— in primo luogo in quanto, come appena detto, le parti non vogliono affatto rinunciare
alla propria precedente situazione; al contrario, esattamente allo stesso identico modo di
quando si rivolgono ad un arbitro rituale o ad un giudice, ne vogliono l’accertamento (in
generale sul fatto che l’elaborazione teorica in materia di arbitrato irrituale ha finito per
stravolgere l’istituto, rispetto a quanto voluto dalle parti, v. B. SASSANI, L’arbitrato a modalità
irrituale, in questa Rivista, 2007, 27 testo e nota 8, e ID., Commento, cit., 115 testo e nota 32);
— in secondo luogo in quanto le parti rinuncerebbero al rapporto preesistente e però la
disciplina di quello nuovo dovrebbe essere dettata proprio sulla base della verifica del modo di
essere del primo;
— in terzo luogo in quanto, in caso di clausola compromissoria, la rinuncia al rapporto
preesistente mi pare difficile da costruire (le parti rinunciano fin da subito alla situazione che
viene creata con il contratto, contenente la clausola? rinunciano condizionatamente al verificarsi
di una lite? si obbligano a rinunciare e poi l’avvio dell’arbitrato contiene una rinuncia
implicita?).
Non meno artificioso è poi il corollario, secondo il quale, in caso di arbitrato irrituale,
l’unico tipo di tutela cautelare esperibile — ed anche quella non senza difficoltà — sarebbe
quella anticipatoria (cfr. M. BOVE, Commento, cit., 96 ss.; per la critica di tale limitazione v.
ancora B. SASSANI, L’arbitrato, cit., 34 ss., e ID., Commento, cit., 130 ss.).
(25) In tal senso v. L. BIGLIAZZI GERI-U. BRECCIA-F.D. BUSNELLI-U. NATOLI, Diritto civile,
I, 2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1987, 461, cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni.
(26) Per più ampie considerazioni sulla non necessaria innovatività del negozio si rinvia
a M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 156 ss., e ID., Il negozio di accertamento, in I contratti di
composizione delle liti, a cura di E. GABRIELLI-F.P. LUISO, I, Torino, 2005, 26 ss.
256
sia per definizione innovativa, risulta comunque arbitraria la prima affermazione, vale a dire quella per la quale l’operato dei privati — e dunque
anche dell’arbitro irrituale — sarebbe per definizione negoziale. Per
quanto tale limitazione possa sembrare scontata, in realtà essa non solo
infatti non è ontologica, ma da un lato non sta scritta in alcun luogo,
dall’altro non pare neppure derivare, in termini cogenti, da alcun principio
di carattere generale (27).
Né, si aggiunga — venendo così a ciò che qui maggiormente interessa
— le cose migliorano, laddove si pretenda di dimostrare gli assunti in
esame facendo leva sulla distinzione fra l’area della negozialità e quella
della giurisdizionalità, sostenendo cioè: per un verso che l’operato delle
parti e dell’arbitro irrituale sarebbe per definizione negoziale in quanto
l’attività giurisdizionale è riservata al giudice ed eventualmente all’arbitro
rituale (per chi reputa giurisdizionale l’operato di quest’ultimo); per altro
verso che l’attività negoziale sarebbe per definizione innovativa in quanto
l’accertamento è riservato all’attività giurisdizionale.
In tale argomentazione si passa infatti, abbastanza manifestamente,
da una concezione soggettiva della distinzione fra negozialità e giurisdizionalità, ad una contenutistica: se l’operato delle parti e dell’arbitro
irrituale è per definizione negoziale in quanto l’attività giurisdizionale è
riservata al giudice ed eventualmente all’arbitro rituale, questo significa,
evidentemente, che il criterio per stabilire se siamo in presenza dell’una
oppure dell’altra attività è soggettivo; che, cioè, un’attività è giurisdizionale oppure negoziale a seconda che provenga, rispettivamente, dal giudice ed eventualmente dall’arbitro rituale oppure dalle parti e dall’arbitro
irrituale; se viceversa l’attività negoziale è per definizione innovativa in
quanto l’accertamento è riservato all’attività giurisdizionale, questo significa, altrettanto evidentemente, che il criterio per stabilire se siamo in
presenza dell’una oppure dell’altra attività è contenutistico; che, cioè,
un’attività è giurisdizionale oppure negoziale a seconda che sia, rispettivamente, accertativa oppure innovativa.
Ebbene, posto che il criterio da adoperare può essere il primo o il
secondo (come diremo (28), non vi sono, in proposito, soluzioni obbligate
ed in realtà i criteri possibili sono anche altri), ma non entrambi, delle due
l’una: o il criterio è di tipo soggettivo, ed allora, però, nulla impone che
l’attività negoziale possa essere solo innovativa, ben potendo viceversa
essere anche accertativa; oppure il criterio è di tipo contenutistico, ed
(27) Nel senso che quello del monopolio dell’attività giurisdizionale in capo allo Stato è
un dogma e che “non deriva da alcuna necessità logico-giuridica che ai privati sia dato solo il
potere di negoziare” v. del resto lo stesso M. BOVE, Note, cit., 705.
Sul tramonto del monopolio statale della giurisdizione v. da ultimo C. PUNZI, Le nuove
frontiere, cit., 1 ss.
(28) V. il § 10.
257
allora, però, nulla impone che l’operato delle parti e dell’arbitro irrituale
possa essere solo negoziale, ben potendo viceversa essere anche giurisdizionale. In un caso come nell’altro cade dunque l’assunto dell’impossibilità, per le parti e per l’arbitro irrituale, di porre in essere un accertamento:
o perché, pur potendo essi compiere solo attività negoziale, questa può
anche essere accertativa; o perché, pur essendo l’attività negoziale solo
innovativa, le parti e l’arbitro irrituale possono compiere anche attività
giurisdizionale.
A tutto questo si potrebbe obiettare che, se i privati vogliono dar vita
ad un accertamento, hanno già a disposizione l’arbitrato rituale.
Tale obiezione non coglie tuttavia nel segno. Che la presenza dell’arbitrato rituale esaurisca lo spazio concesso all’accertamento dei privati potrebbe, infatti, astrattamente, anche essere (verificheremo poi in concreto
che non è così (29)). Questo attiene però ad un profilo diverso da quello qui
in esame. In questione, nella prospettiva della riferita obiezione, è infatti un
limite di diritto positivo (laddove si ritenga che la previsione dell’arbitrato
rituale debba essere intesa quale espressione della volontà del legislatore di
limitare a tale strumento la possibilità, per i privati, di ottenere un accertamento alternativo a quello del giudice) o di concreta utilità (qualora si
ritenga che, a prescindere dalla volontà del legislatore, la previsione dell’arbitrato rituale renda superfluo un arbitrato irrituale accertativo).
Ciò che qui è in discussione è invece la non risolutività, ed anzi
l’irrilevanza tout court della disputa in merito alla negozialità/giurisdizionalità dell’arbitrato. Obiettivo delle attuali considerazioni non è, cioè,
dimostrare già ora, in positivo e compiutamente, la possibilità, per le parti
e per l’arbitro irrituale, di far luogo ad un accertamento (30), bensì
appunto, più limitatamente ed in negativo, di sgomberare il campo dalla
suddetta disputa.
Quanto precede, di per sé, non significa dunque che quello delle parti
e dell’arbitro irrituale sia senz’altro un accertamento. E non significa
neppure, si noti, che la risposta al relativo interrogativo debba essere
necessariamente unica ed omogenea per le prime (le parti) e per il
secondo (l’arbitro irrituale). In realtà, nulla esclude, in astratto, alcuna
combinazione. Può dunque essere che tanto le parti quanto l’arbitro
irrituale possano accertare, oppure, all’opposto, che ciò non sia possibile
né ai primi né al secondo. Ma può anche essere che le parti possano farlo
e altrettanto non possa invece l’arbitro irrituale (perché deve ritenersi che
la via dell’accertamento eteronomo non giudiziale passa necessariamente
dall’arbitrato rituale), oppure, al contrario, che sia l’arbitro irrituale a
poter accertare, mentre le parti, in prima persona, non possano (perché
deve ritenersi che l’accertamento presupponga necessariamente la verifica
storica circa il modo di essere della realtà accertanda).
(29) V. il § 7.
(30) Di questo ci occuperemo più avanti: v. il § 7.
258
Le considerazioni svolte significano però, secondo appunto quanto
detto, che, nella ricerca della suddetta risposta è inutile continuare ad
affannarsi ed a scontrarsi sulla negozialità/giurisdizionalità dell’arbitrato.
In realtà, il problema va completamente ribaltato. In primo luogo occorre
chiedersi, evitando di incartarsi sull’alternativa negozialità/giurisdizionalità, se vi sono o meno valide ragioni, per le quali le parti e/o l’arbitro
irrituale non potrebbero dar vita ad un accertamento. Chiarito questo, ed
ammesso che la risposta sia, in tutto o in parte, negativa, a tal punto,
quello relativo alla negozialità oppure alla giurisdizionalità di tale attività
è unicamente un problema classificatorio, che dipende dal criterio, in base
al quale si ritenga di dover distinguere fra tali due ambiti: per rimanere
alle ipotesi, sopra prospettate (come avvertito e come vedremo, ne sono
immaginabili anche altre), laddove si ritenga che tale criterio sia soggettivo (vale a dire che un’attività sia giurisdizionale oppure negoziale a
seconda che provenga, rispettivamente, dal giudice/arbitro rituale oppure
dalle parti/arbitro irrituale), si dirà che l’accertamento delle parti e/o
dell’arbitro irrituale è espressione di un’attività negoziale (fermo restando
che l’attività negoziale può avere tanto una dimensione innovativa quanto
una accertativa); laddove invece si ritenga che il criterio sia contenutistico
(vale a dire che un’attività sia giurisdizionale oppure negoziale a seconda
che sia, rispettivamente, accertativa oppure innovativa), si dirà che l’accertamento delle parti e/o dell’arbitro irrituale è espressione di un’attività
giurisdizionale (fermo restando che l’attività giurisdizionale può provenire
tanto dal giudice/arbitro rituale quanto dalle parti/arbitro irrituale).
Ciò detto, è peraltro ovvio (ma è bene precisarlo, a scanso di equivoci) che, laddove le parti effettivamente vogliano eliminare il rapporto
preesistente e crearne uno nuovo (cosa, peraltro, realisticamente destinata
ad accadere più che altro in un’ottica transattiva, vale a dire di ricerca di
una soluzione intermedia fra le opposte prospettazioni, e non in una di
verifica circa l’effettiva fondatezza di queste ultime (31)), possono senz’altro farlo. Ammesso che le parti e/o l’arbitro irrituale possano far luogo ad
un accertamento, questa è infatti solo una possibilità, che certo non
cancella quella innovativa in discorso, ma si aggiunge ad essa. Le due
soluzioni non sono cioè in alcun modo incompatibili, ma rappresentano
piuttosto diversi strumenti di risoluzione non giudiziale delle controversie,
alternativi fra loro (32).
4.
Con riferimento al secondo assunto [quello secondo il quale, data
(31) Sull’artificiosità della prospettiva della costituzione del nuovo rapporto sulla base
della verifica circa il modo di essere di quello preesistente, rinunciato, v. la nota 24.
(32) Sul fatto che l’art. 808-ter c.p.c. (interpretato in chiave accertativa) non preclude in
alcun modo la possibilità, per le parti, di demandare a terzi l’integrazione di una volontà
dispositiva incompleta v. B. SASSANI, L’arbitrato, cit., 32 s., e ID., Commento, cit., 128.
259
la natura negoziale dell’arbitrato (rituale e/o irrituale), il lodo produrrebbe effetti di minor portata rispetto a quelli della sentenza del giudice]
vale in sostanza, mutatis mutandis, quanto appena detto per il primo.
Al pari di quanto visto a proposito dell’asserita, ontologica, innovatività dell’attività negoziale, che gli effetti del negozio siano per definizione di minor portata rispetto a quelli della sentenza (segnatamente sotto
i profili, sopra ricordati (33), della resistenza allo ius superveniens retroattivo, degli effetti nei confronti dei terzi, del coinvolgimento del rapporto
fondamentale, della riflessione sui rapporti dipendenti) non sta infatti
scritto da nessuna parte.
Sostituita la prospettiva della minore portata a quella dell’innovatività, si possono dunque ripetere in toto le considerazioni svolte con
riferimento alla seconda, e cioè: per un verso che risulta doppiamente
arbitrario affermare, sia che l’operato delle parti e dell’arbitro (rituale e/o
irrituale) sarebbe per definizione negoziale, sia, appunto, che gli effetti del
negozio sarebbero per definizione di minor portata rispetto a quelli della
sentenza; per altro verso che la differenza fra negozialità e giurisdizionalità si rivela, quale giustificazione di tali affermazioni, una coperta
stretta (34).
Di nuovo, occorre peraltro chiarire che tali rilievi, in sé, non pretendono di dimostrare che gli effetti dell’accordo delle parti e/o del lodo
(rituale e/o irrituale) abbiano portata analoga a quella degli effetti della
sentenza del giudice: ciò a cui, più limitatamente, essi mirano, qui come là,
è di mostrare che la soluzione del problema non passa dall’alternativa
negozialità/giurisdizionalità e che occorre piuttosto ribaltare i termini del
problema medesimo. Ciò che bisogna chiedersi, lasciando perdere la
suddetta alternativa, è cioè se vi siano o meno valide ragioni, per le quali
gli effetti dell’accordo delle parti e/o del lodo (rituale e/o irrituale)
dovrebbero essere di minor portata rispetto a quelli della sentenza del
giudice. Dopodiché, ancora una volta, qualora la risposta sia negativa, la
negozialità/giurisdizionalità rappresenta un problema meramente classificatorio: laddove si ritenga che il criterio di distinzione fra negozialità e
giurisdizionalità sia soggettivo [vale a dire che un’attività sia giurisdizionale oppure negoziale a seconda che provenga dal giudice (e per alcuni
anche dall’arbitro rituale) oppure dalle parti/arbitro (per alcuni solo
irrituale, per altri anche rituale)], si dirà che l’accordo delle parti e/o il
(33) V. il § 2.
(34) Per quanto in particolare concerne l’arbitrato rituale, a tali considerazioni si aggiunge inoltre l’ulteriore, non secondario, ostacolo, rappresentato dall’espresso riconoscimento
al lodo degli effetti di sentenza. Non, sia chiaro, che tale previsione — per quanto indubbiamente assai netta ed univoca — non necessiti di essere interpretata e che, più in generale, il
problema dell’effettiva identità o meno fra gli effetti del lodo rituale e quelli della sentenza non
esista. Il punto è però quello dell’irrilevanza, in proposito, della disputa in merito alla
negozialità/giurisdizionalità dell’arbitrato, secondo quanto diremo subito nel testo.
260
lodo (rituale e/o irrituale) sono espressione di un’attività negoziale (fermo
restando che l’attività negoziale dà vita ad effetti di portata analoga a
quella degli effetti dell’attività giurisdizionale); laddove invece si ritenga
che il predetto criterio sia di tipo contenutistico [vale a dire che un’attività
sia giurisdizionale oppure negoziale a seconda che dia o meno vita ad
effetti (di quel certo tipo e) di quella certa portata], si dirà che l’accordo
delle parti e/o il lodo (irrituale e/o rituale) sono espressione di un’attività
giurisdizionale [fermo restando che l’attività giurisdizionale può provenire
tanto dal giudice quanto dalle parti/arbitro (irrituale e/o rituale)].
Unicamente, si tenga già fin da ora presente che, nella suddetta
indagine, in merito agli effetti dell’accordo delle parti e/o del lodo (rituale
e/o irrituale), occorre evitare di fare confusione fra l’effetto di accertamento e gli altri effetti, accessori e/o collaterali al primo.
5. Il terzo assunto (quello secondo il quale l’arbitrato rituale, dati gli
effetti di sentenza del lodo, avrebbe natura giurisdizionale) richiede, di
nuovo, un discorso più articolato.
Per quanto apparentemente scontato, esso si presta infatti a diversi
rilievi critici.
Preliminarmente è bene intanto chiarire che spesso la natura giurisdizionale, desunta dalla previsione relativa agli effetti di sentenza del
lodo, rappresenta la premessa di conseguenze, che attengono in realtà non
agli effetti, bensì al regime del lodo medesimo o alle regole del processo
arbitrale.
Non, beninteso, che questo sia in sé sbagliato. Ammesso che la
sequenza logica (dagli effetti di sentenza alla giurisdizionalità, dalla giurisdizionalità alle ulteriori conseguenze) fosse valida (così non è, come
vedremo, ma questo è un discorso diverso), essa potrebbe infatti verosimilmente trovare applicazione non solo agli effetti del lodo, ma anche al
suo regime o alle regole del processo arbitrale; la asserita giurisdizionalità
potrebbe cioè ragionevolmente riflettersi tanto sui primi quanto sul secondo e sulle terze. La precisazione risulta tuttavia ugualmente importante, quale premessa delle considerazioni che seguiranno, in quanto la
distinzione fra gli effetti ed il regime degli atti rappresenta uno dei punti
nevralgici della materia, relativamente al quale sono frequenti i fraintendimenti (35).
Chiarito questo, e venendo ai rilievi critici veri e propri, questi sono
schematizzabili in quattro punti:
a) Da un primo, generalissimo, punto di vista, non può intanto non
rilevarsi che, con la medesima logica dell’assunto in esame (poiché il lodo
(35) Sul punto v. già il § 1, e poi, più specificamente, sulla distinzione fra efficacia e
validità dell’atto, contenente l’accertamento, il § 8.
261
ha effetti di sentenza, l’arbitrato rituale ha natura giurisdizionale), si
potrebbe sostenere che, poiché il contratto ha forza di legge, esso ha
natura normativa. Il che, credo, nessuno si sognerebbe mai di sostenere (36).
b) Da un secondo punto di vista, va poi notato che l’affermazione,
per la quale, avendo il lodo effetti di sentenza, l’arbitrato rituale ha natura
giurisdizionale, dà per scontato che gli effetti in questione siano incompatibili con la natura negoziale; che il negozio non potrebbe cioè avere
effetti di questo tipo, ma solo effetti diversi o di minor portata; il che però,
come già detto (37), è in realtà arbitrario.
c) Da un terzo punto di vista, bisogna inoltre considerare che, per
quanto l’assunto sembri legare strettamente effetti di sentenza e giurisdizionalità, in realtà il lodo rituale non ha tutti gli effetti della sentenza.
Esso, infatti, non è, di per sé, esecutivo, necessitando, all’uopo, dell’exequatur del giudice.
Alla luce di tale constatazione, delle due dunque l’una. O per potersi
predicare la natura giurisdizionale occorre la presenza di tutti gli effetti
della sentenza, ed allora l’assunto è falso: anche il lodo rituale, non avendo
tutti gli effetti della sentenza, deve ritenersi avere natura negoziale (natura negoziale, si aggiunga, la quale, a tal punto, non ci dice evidentemente
nulla circa l’identità/differenza di effetti fra il lodo rituale, da un lato, e
l’accordo delle parti ed il lodo irrituale, dall’altro). Oppure, se per potersi
predicare la natura giurisdizionale non occorre la presenza di tutti gli
effetti della sentenza, nulla impedisce allora che anche l’accordo delle
parti ed il lodo irrituale, ammesso e non concesso che abbiano effetti in
parte diversi da quelli del lodo rituale, abbiano natura giurisdizionale
(natura giurisdizionale, parimenti si aggiunga, la quale, a tal punto, rimane
a sua volta totalmente muta in merito alla suddetta identità/differenza).
Mentre poi, a fronte di un’ipotetica selezione degli effetti rilevanti ai fini
dell’attribuzione di tale natura, sarebbe facile obiettare che qualunque
selezione non può che risultare arbitraria, e comunque soggettiva.
d) Da un quarto punto di vista, occorre ancora osservare che, in
genere, la qualificazione in termini di giurisdizionalità non è fine a se
stessa, bensì, come già accennato poco sopra, rappresenta la premessa per
derivarne poi ulteriori conseguenze, siano esse in punto di effetti del lodo,
di regime dello stesso o di regole del processo arbitrale, e questo cambia
parecchio le cose.
Finché infatti tale qualificazione ha una valenza solo descrittivoclassificatoria, poco male: giusta o sbagliata che sia, si tratta di un’operazione innocua. Quando ad essa si pretende invece di attribuire delle
(36)
(37)
262
Per un consimile rilievo v. F. CARPI, Commento, cit., 596.
V. il § 3 (quanto alla diversità) ed il § 4 (quanto alla minor portata).
ricadute concrete in punto di disciplina del fenomeno, non può evidentemente dirsi altrettanto. Occorre dunque verificare se tale operazione sia
corretta, il che, come subito vedremo, non è, per varie ragioni.
aa) In primo luogo, per quanto in particolare concerne le conseguenze in punto di effetti del lodo, l’argomento si risolve, abbastanza
manifestamente, in una petizione di principio, in quanto la giurisdizionalità, desunta dall’attribuzione al lodo degli effetti di sentenza, reagisce su
questi ultimi, con un’evidente inversione del rapporto causa-effetto, venendo utilizzata per individuare la latitudine degli effetti medesimi. Qui si
ha cioè un ente (la giurisdizionalità), il quale da un lato, in quanto viene
derivato da un altro (gli effetti di sentenza), rappresenta la conseguenza di
quest’ultimo, dall’altro, in quanto viene utilizzato per determinare la
consistenza dello stesso, ne rappresenta però, al tempo stesso, il presupposto. Detto ancora diversamente, in questo modo si pretende di adoperare quale criterio interpretativo di una previsione, una caratteristica
desunta dalla previsione medesima.
bb) In secondo luogo, e più in generale, con riferimento cioè a
qualunque tipo di conseguenza, vuoi in punto di effetti del lodo, vuoi in
punto di regime dello stesso, vuoi in punto di regole del processo arbitrale,
la giurisdizionalità, quale fonte di tali conseguenze, rappresenta in realtà
un medio inutile. Delle conseguenze in discorso non ve n’è infatti alcuna,
a quanto mi pare, che non sia ugualmente derivabile, con l’utilizzo degli
ordinari strumenti interpretativi, ed essenzialmente dell’analogia, già sulla
base della previsione relativa agli effetti di sentenza. La giurisdizionalità
non aggiunge cioè, a tale previsione, alcuna connotazione ulteriore, tale
che, in sua assenza, le implicazioni della previsione medesima dovrebbero
ritenersi per un verso o per l’altro minori.
cc) In terzo luogo, qualora così non fosse, qualora cioè vi fossero
effettivamente conseguenze, che la previsione relativa agli effetti di sentenza di per sé non supporta, e per le quali la giurisdizionalità rappresenta
dunque una condicio sine qua non, in tali limiti quest’ultima si risolverebbe in una sorta di moltiplicatore delle ricadute della suddetta previsione, al quale non mi pare possa essere riconosciuta validità. Anche
ammesso che la previsione relativa agli effetti di sentenza giustifichi la
qualificazione in termini di giurisdizionalità, quest’ultima, in quanto derivata da tale previsione, ha infatti in essa i suoi confini e i suoi limiti, e non
può quindi essere utilizzata per amplificarne gli effetti.
Mutatis mutandis, e riprendendo il parallelo effettuato poc’anzi, sarebbe un po’ come se, desunto che il contratto, avendo forza di legge, ha
natura normativa, da tale qualificazione si pretendesse poi di sostenere, ad
esempio, che i suoi effetti si producono, di regola, dopo 15 giorni dalla
stipulazione (se non dalla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale): anche
ammessa la validità del primo passaggio, è evidente che il secondo
risulterebbe ultroneo, proprio in quanto scollegherebbe il riconoscimento
della natura normativa dalla previsione dalla quale discende e dipende.
263
Delle due, insomma, l’una: finché in questione sono conseguenze, che
possono già derivarsi dalla previsione relativa agli effetti di sentenza, il
medio della giurisdizionalità è inutile [questa l’obiezione sub bb)]; laddove
viceversa in questione dovessero essere conseguenze diverse ed ulteriori,
il suddetto medio risulterebbe artificioso, e dunque inutilizzabile [questa
l’obiezione sub cc)].
Tirando le fila dei rilievi che precedono, la conclusione, anche con
riferimento all’assunto in esame, non può dunque che essere analoga a
quella già raggiunta con riferimento ai precedenti. Alla luce delle considerazioni svolte è cioè evidente che l’asserita giurisdizionalità dell’arbitrato rituale rappresenta una connotazione priva di rilevanza concreta. Il
problema vero, l’interrogativo che occorre porsi, accantonando tale connotazione, è quali siano gli effetti del lodo rituale, ed in particolare se essi
siano o meno realmente uguali a quelli della sentenza del giudice, vuoi
quanto a tipologia, vuoi quanto a portata (38). Appurato questo, a tal
punto la giurisdizionalità o meno dell’arbitrato rituale rappresenta, al
solito, un problema esclusivamente classificatorio, dipendente dal criterio
che si ritenga di adottare in merito alla distinzione fra negozialità e
giurisdizionalità.
Ribadita tale conclusione, e terminata in tal modo la parte critica
della presente indagine, veniamo ora a quella propositiva.
6. Per la definizione di una controversia esistono due canali: quello
pubblico e quello privato. Il primo è quello del processo davanti al giudice.
All’interno del secondo si danno tre possibilità (la prima autonoma, la
seconda e la terza eteronome): l’accordo delle parti; l’arbitrato irrituale;
l’arbitrato rituale.
Per ciò che attiene alle condizioni di accesso a tali strumenti, esiste
una differenza essenziale fra il canale pubblico e quello privato: mentre il
primo può essere utilizzato liberamente, il secondo presuppone invece il
consenso delle parti [quanto alla prima prospettiva (l’accordo delle parti),
direttamente sulla soluzione da adottare; quanto alla seconda ed alla terza
(l’arbitrato irrituale e quello rituale), sulla devoluzione della controversia
ad un terzo].
In punto di effetti — che è ciò a cui si riferiscono le presenti
considerazioni — il problema che tale ventaglio di prospettive pone è se
gli atti, nei quali esse si traducono o sfociano, vale a dire l’accordo delle
parti, il lodo, rituale o irrituale, e la sentenza del giudice, abbiano tutti i
medesimi effetti, oppure no. Formulato in questi termini, il problema
(38) Vale ovviamente anche qui quanto anticipato in fine del § 4, a proposito della
necessità di distinguere fra l’effetto di accertamento e gli altri effetti, accessori e/o collaterali al
primo.
264
risulta peraltro eccessivamente ampio e generico. Preliminarmente ricordata e ribadita, in generale, la necessità di mettere da parte la tematica
della negozialità/giurisdizionalità dei vari strumenti, esso va dunque intanto delimitato e poi tradotto in interrogativi più specifici.
Dal primo punto di vista, occorre distinguere nettamente, secondo
quanto già anticipato (39) fra l’effetto di accertamento e gli altri effetti,
accessori e/o collaterali al primo, possibilmente ricollegati ad un atto volto
a risolvere una controversia (e, si aggiunga, dipendenti non dal contenuto
di tale atto, bensì da circostanze estrinseche a questo, quali la sua provenienza da un pubblico potere o meno, la sua natura di atto pubblico
oppure di scrittura privata non autenticata, o anche solo la scelta di diritto
positivo del legislatore (40)), quali l’efficacia di titolo esecutivo, la possibilità di dar luogo a trascrizione o ad annotazione, l’allungamento del
termine delle prescrizioni brevi (41).
Operata tale distinzione, e chiarito che quello che qui interessa è
unicamente l’effetto di accertamento, dal secondo punto di vista (necessità
di specificare il problema), gli interrogativi che, alla luce di quanto detto
nei paragrafi precedenti, gradatamente si pongono sono: a) se — ferma
restando la possibilità, autonomamente o tramite terzi, di eliminare il
vecchio rapporto e di crearne uno nuovo — i privati possano anche dar
vita ad un accertamento ed eventualmente se possano farlo solo autonomamente, solo tramite terzi o in entrambi i modi; b) ammesso che la
risposta al primo interrogativo sia positiva, se tale accertamento abbia
effetti di portata analoga a quella dell’accertamento del giudice.
Ciò chiarito, e premesso, da un lato che di tali interrogativi vanamente, a mio avviso si ricercherebbe la risposta nel diritto positivo (per
unanime riconoscimento equivoco ed imperfetto) (42), dall’altro che questa non può e non vuol essere una trattazione compiuta ed esaustiva (non
(39) Cfr. i §§ 4 e 5 nota 3.
(40) Sul punto, da prospettive opposte, v. F. AULETTA, Commento all’art. 824 bis, in La
nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario agli artt. 806.840 c.p.c. Aggiornato alla legge 18
giugno 2009 n. 69, a cura di S. MENCHINI, Padova, 2010, 420 ss., e F.P. LUISO, L’articolo 824-bis,
cit., 247.
(41) Su quest’ultima, con riferimento all’arbitrato rituale, v. F. AULETTA, Commento, cit.,
427; G. BONATO, La natura, 259 ss.; F. CARPI, Commento, cit., 595; E. D’ALESSANDRO, Commento,
cit., 960 ss.; L. SALVANESCHI, Arbitrato, cit., 814.
(42) Rapidissimamente, noto:
— quanto agli “effetti di sentenza”, di cui all’art. 824-bis, ed alla “determinazione
contrattuale”, di cui all’art. 808-ter, che essi in tanto potrebbero avere assumere un significato
di una qualche consistenza in punto di effetti (e non si riferiscano invece al regime degli atti in
questione), in quanto gli effetti della sentenza fossero diversi da quelli del negozio, il che, come
stiamo cercando di dire, è però dubbio, e comunque va dimostrato;
— quanto al fatto che la pattuizione di un arbitrato irrituale avvenga “in deroga a quanto
disposto dall’art. 824-bis”, che quest’ultimo non può essere considerato isolatamente; esso
rappresenta infatti la premessa del complesso normativo che, al termine di quello relativo alla
regolamentazione del processo arbitrale, disciplina il prodotto dell’arbitrato, dettando appunto
la regola di carattere generale, relativa all’immediata efficacia di massima del lodo, salva la
265
solo degli effetti tout court, ma neppure, più limitatamente) dell’effetto di
accertamento dei vari atti in questione (trattazione per la quale sarebbe
evidentemente necessario uno spazio ed un impegno assai maggiori), qui
di seguito ci si soffermerà soprattutto sul primo interrogativo. Quanto
invece al secondo, ci si limiterà ad una trattazione di carattere più
generale, principalmente volta a chiarire i termini del problema ed a
distinguere fra loro i diversi profili, dai quali quest’ultimo risulta composto; non per questo mancando peraltro di manifestare l’opinione di chi
scrive in merito alla soluzione preferibile (soluzione che, come del resto
già anticipato (43), sarà senz’altro nel senso di una tendenziale equiparazione fra gli effetti dei vari atti in questione).
7. Il primo, fondamentale, interrogativo consiste, come appena
detto, in ciò: se quello, con il quale le parti e/o l’arbitro, rituale, ma
soprattutto irrituale (il problema, come riferito (44), si pone, allo stato,
solo per il secondo), definiscono una controversia, sia o meno un accertamento. L’alternativa, come visto (45), è quella, secondo la quale la
definizione in discorso si realizzerebbe tramite un meccanismo innovativo,
consistente nell’eliminazione del rapporto preesistente e nella creazione di
uno nuovo.
La risposta a tale interrogativo sembrerebbe presupporre che prima si
chiarisca in cosa consiste l’accertamento. A parte il fatto che, in generale,
di nessun ente può predicarsi l’appartenenza oppure l’estraneità ad una
categoria, se prima non si sia definita quest’ultima, la necessità di tale
chiarimento sembrerebbe risultare nella fattispecie particolarmente evidente, proprio tenendo conto dei termini della riferita alternativa. Laddove l’effetto di accertamento, in generale, consistesse nell’eliminazione
del rapporto, che ne è oggetto, e nella creazione di uno nuovo, il problema
non avrebbe, infatti, ragion d’essere: semplicemente, non esisterebbe
alcun effetto di accertamento, diverso da quello, in ipotesi ricollegabile
all’accordo delle parti e/o al lodo, dal quale quest’ultimo effetto potrebbe
discostarsi.
Peraltro, se veramente, per fornire risposta all’interrogativo di cui
sopra, occorresse previamente identificare l’effetto di accertamento, tanto
varrebbe lasciar perdere. Quello, relativo a tale effetto, rappresenta
infatti, notoriamente, un tema estremamente complesso e controverso,
che non può certo essere affrontato incidentalmente, nell’ambito della
deroga di cui all’art. 825, per quanto concerne l’efficacia esecutiva, e ferme restando le
impugnazioni di cui agli artt. 827 ss.; l’“in deroga a quanto disposto dall’art. 824-bis” va dunque
a mio avviso inteso come riferito, più comprensivamente, a tale complesso normativo.
(43) V. il § 2.
(44) V. il § 2.
(45) V. i §§ 2 e 3.
266
presente, limitata, indagine (46). Per fortuna, un siffatto approfondimento
non è realmente necessario. Proprio da quanto appena detto emerge
infatti che ciò che qui interessa non è stabilire con precisione come operi
l’accertamento, bensì, assai più limitatamente, porre appunto l’alternativa
fra un modello estintivo-costitutivo ed uno di diverso tipo, senza necessità
di approfondire quale sia, più specificamente, il meccanismo di quest’ultimo.
Dopodiché, si aggiunga, neppure tale alternativa necessita, in questa
sede, di essere effettivamente sciolta. Dati tali due modelli, infatti, qualora
si ritenga che l’accertamento, in generale, operi secondo il primo di essi, il
discorso, come detto, è chiuso in partenza, l’ipotetico meccanismo operativo dell’accordo delle parti e/o del lodo non differendo in nulla da quello
della sentenza del giudice, nel comune segno dell’innovatività della definizione della controversia. Il modello da prendere in considerazione è
dunque senz’altro il secondo, solo in tale prospettiva ponendosi il problema se veramente l’accordo delle parti e/o il lodo operino secondo un
meccanismo diverso da quello, quale che sia, della sentenza del giudice.
Specificando, alla luce di quanto appena detto, l’interrogativo sopra
posto, questi, dunque, in sintesi e più esplicitamente, i termini del problema: ammesso che l’accertamento non si concreti, in generale, nell’eliminazione del rapporto preesistente e nella creazione di uno nuovo, bensì
operi altrimenti, si tratta di un effetto che può essere prodotto anche dalle
parti e/o dall’arbitro, oppure la definizione della controversia da parte di
questi ultimi avviene per forza tramite il modello innovativo in discorso?
Questo essendo l’interrogativo, la risposta, come già detto (47), non è
necessariamente unitaria per la soluzione autonoma (vale a dire dettata
direttamente dalle parti) e per le due eteronome (vale a dire dettate
dall’arbitro rituale e dall’arbitro irrituale). A parte le prospettive, opposte,
di una soluzione generalizzatamente negativa e di una generalizzatamente
positiva, potrebbe infatti anche essere, come appunto detto, che, dovendo
ritenersi essenziale, per potersi avere un accertamento, la verifica storica
circa il modo di essere della realtà accertanda, solo la definizione della
controversia ad opera dell’arbitro, rituale o irrituale, sia un vero accertamento, mentre quella ad opera delle parti operi innovativamente; oppure
potrebbe essere che, dovendo ritenersi che lo spazio dell’accertamento
eteronomo non giudiziale sia esaurito dall’arbitrato rituale, di accertamento vero possa parlarsi solo per la definizione della controversia ad
(46) Personalmente, ritengo, come in altre sedi sostenuto (cfr. M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 221 ss., in part. 270 ss., e ID., Il negozio di accertamento, cit., 37 ss., in part. 52 ss.),
che l’effetto di accertamento consista nel vincolo, per il giudice, di attenersi alla configurazione
della realtà, contenuta nell’accertamento medesimo. Ai presenti fini, come subito vedremo, tale
ricostruzione non riveste tuttavia una specifica rilevanza.
(47) V. il § 3.
267
opera delle parti e appunto dell’arbitro rituale, e non anche per quella ad
opera dell’arbitro irrituale (48). Questo, è bene dirlo subito, vale peraltro
esclusivamente in astratto. In concreto, come subito vedremo, non esiste
infatti alcuna valida ragione per la quale tanto le parti direttamente,
quanto l’arbitro, rituale come irrituale, non dovrebbero poter dar vita ad
un vero accertamento.
In linea generale occorre intanto notare che non si vede in nome di
cosa ai privati dovrebbe essere preclusa la possibilità di porre in essere tale
effetto e/o di delegare a terzi il compito di farlo. Al di là di altre
considerazioni, più tecniche, in punto di collegamento fra il potere di
disporre dei propri interessi e quello di accertare, svolte altrove ed alle
quali si rinvia (49), proprio questo è infatti, di fondo, il punto, e cioè che la
ritrosia e la cautela nei confronti dell’accertamento privato non hanno
alcuna ragion d’essere: posto che, pacificamente, i privati sono arbitri dei
propri interessi, perché mai, oltre che disporre dei loro diritti, non dovrebbero poterne anche accertare la sussistenza e la consistenza?
(48) Per quanto concerne la prospettiva, secondo la quale solo l’arbitrato rituale darebbe
vita ad un vero accertamento, la definizione della controversia ad opera delle parti e dell’arbitro
irrituale avendo invece natura innovativa, essa si fonda, come visto (cfr. il § 3), sulla distinzione
fra negozialità e giurisdizionalità, che, come parimenti visto (cfr. ancora il § 3 e più in generale
i §§ 3-5), non fornisce però alcun reale ausilio per la soluzione dei problemi in esame. Questa
prospettiva risulta, cioè, senz’altro già esclusa e non necessita, dunque, di essere ulteriormente
presa in considerazione.
(49) V. M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 332 ss., e ID., Il negozio di accertamento, cit., 61
s. In estrema sintesi, l’argomento in questione consiste in ciò, che il vincolo alla libertà di
giudizio del giudice — nel quale si risolve, a mio avviso, come detto (v. la nota 46), l’effetto di
accertamento — lungi dal dover essere considerato come un fenomeno anomalo e preoccupante, rappresenta in realtà la conseguenza normale di qualunque atto di disposizione. Non si
vede, dunque, per quale ragione non dovrebbe essere ammesso che esso possa rappresentare,
anziché l’effetto collaterale di un atto, principalmente rivolto ad altri scopi, l’obiettivo principale, perseguito dalle parti.
Contra, nel senso che “l’accertamento giurisdizionale costituisce un unicum nell’ordinamento giuridico”, che “un risultato perfettamente corrispondente a quello che si raggiunge con
il processo — l’incontrovertibile accertamento di un diritto soggettivo, di uno status o di altra
posizione giuridica soggettiva — non può assolutamente ottenersi sul piano extraprocessuale”
e che “se è vero [...] che il negozio giuridico assolve una funzione di modificazione dei rapporti
preesistenti tra le parti, non si può ritenere che la funzione di mero accertamento sia compresa
nelle più ampia funzione dispositiva”, in quanto “l’accertamento è un’entità essenzialmente
diversa dell’atto di disposizione e non ne costituisce un semplice facoltà accessoria”, v. M.
MARINELLI, La natura, cit., 112 ss., le cui argomentazioni peraltro non mi convincono. Al di là
dell’assunto, aprioristico, come già detto (v. il § 3), secondo il quale il negozio sarebbe per
definizione dispositivo, una cosa è infatti dire che accertare i diritti sia attività diversa dal
disporne e non compresa nella relativa facoltà, un’altra, non necessariamente implicata, che
dalla spettanza, ai privati, del potere di disporre dei propri diritti non si possa argomentare la
spettanza agli stessi anche di quello di accertarli. Il fatto che il secondo potere non faccia parte
del primo non significa, cioè, che dalla sussistenza di questo non si possano trarre argomenti
logico-giuridici a sostegno della sussistenza anche di quello. Né, per altro verso, diversamente
da quanto mostra di ritenere l’Autore, mi pare che dimostri alcunché, nella direzione voluta, la
considerazione, secondo la quale “l’accertamento opera rispetto al caso concreto come lex
specialis”. Non si vede infatti per quale motivo (che non sia il pregiudizio di cui diremo subito
nel testo) la formulazione di tale lex specialis dovrebbe essere riservata al giudice e non
dovrebbe invece essere consentita anche ai privati.
268
Del resto, se, com’è indiscusso — e rappresenta anzi, come visto, la
ricostruzione alternativa del fenomeno — essi possono eliminare il rapporto preesistente e crearne uno nuovo, tale che l’assetto dei propri
rapporti corrisponda a quello che si avrebbe in forza del rapporto eliminato, per quale ragione non dovrebbero poter più semplicemente e
direttamente accertare quest’ultimo? O ai privati si preclude di produrre
effetti retroattivi, e dunque, appunto, di creare ex novo una situazione
analoga a quella derivante da un rapporto preesistente, oppure non ha
senso precludergli la possibilità di accertare quest’ultimo.
Né, da altro punto di vista, si potrebbe sostenere che lo Stato debba
avere il monopolio dell’accertamento. Quello che lo Stato deve assicurare
è infatti che chiunque possa ottenere tale accertamento, anche in assenza
del consenso della controparte (50). Ma quando questo consenso vi sia,
pretendere di dover comunque coinvolgere lo Stato non ha senso. A ben
vedere, l’accertamento privato sta a quello pubblico non diversamente da
come l’adempimento spontaneo sta all’esecuzione forzata: tanto sul piano
della cognizione, quanto su quello dell’esecuzione, si tratta, da parte dello
Stato, di mettere a disposizione dei privati uno strumento “coattivo”, non
dipendente cioè dal consenso della controparte, tale che chi lo voglia
possa imporre al proprio avversario da un lato un giudizio, dall’altro
l’esecuzione della prestazione. Ma questo vale appunto in assenza del
consenso della controparte. Laddove viceversa tale consenso vi sia, pretendere che, per avere un accertamento, il privato sia costretto a ricorrere
comunque allo Stato sarebbe come pretendere che, a fronte della disponibilità dell’obbligato ad eseguire la prestazione, si dovesse comunque
ricorrere all’esecuzione forzata.
Ciò premesso, come detto in linea generale, per il resto non mi pare
che vi siano argomenti specifici, che giustifichino una conclusione di segno
diverso per quanto in particolare concerne l’accordo delle parti e/o
l’arbitrato irrituale.
Da un primo punto di vista, è probabilmente vero che, finché l’arbitrato rituale non omologato non aveva alcun tipo di effetto (51), difficilmente l’arbitrato irrituale, posto che fosse ammissibile (52), avrebbe potuto essere configurato in termini accertativi. La scelta normativa, nel
senso di confinare il ruolo dell’arbitro rituale ad una fase meramente
prodromica e preparatoria, non autonomamente rilevante prima ed in
assenza del recepimento della pronuncia da parte dello Stato, era infatti
indice assai chiaro della volontà del legislatore di riservare alla dimensione
(50) Come detto (v. il § 6), la differenza fra il canale pubblico e quello privato di
definizione delle controversie consiste proprio in questo, che il secondo presuppone il consenso
delle parti.
(51) Sul punto v. da ultimo C. PUNZI, Le nuove frontiere, cit., 8 testo e nota 26.
(52) Sulla natura eversiva del fenomeno v. M. BOVE, Note, cit., 692.
269
pubblica la funzione accertativa. Tale ostacolo è però sicuramente venuto
meno già a partire dalla riforma del 1983. Né, per altro verso, in tale
riforma, o nelle successive, vi sono segni univoci di una volontà del
legislatore di restringere al solo arbitrato rituale la possibilità, per i privati,
di ottenere un accertamento senza passare per il giudice.
Da un secondo punto di vista, di certo non si può poi affermare che
l’arbitrato irrituale, ove costruito in termini accertativi, risulterebbe superfluo (53). Per un verso, infatti, fra i due arbitrati sussiste tutt’oggi, in punto
di effetti, la fondamentale differenza che — quantomeno di regola (54) —
solo il primo può, tramite l’omologazione, acquisire efficacia esecutiva, e
dunque imporre l’esecuzione della prestazione prima della verifica giudiziale della sua validità (55). Per altro verso, ed ancor più decisivamente (la
differenza in punto di esecutività è contingente e può venire meno in ogni
momento, in generale oppure con riferimento a casi particolari (56)), fra i
due arbitrati sussiste una profonda differenza di regime. Anche ammesso
che un domani essi fossero perfettamente sovrapponibili in punto di effetti,
la loro coesistenza risulterebbe dunque ugualmente giustificata, proprio in
ragione di tale differenza. Non diversamente, si aggiunga, da come il fatto
che l’arbitrato rituale abbia i medesimi effetti della sentenza non lo rende
inutile; o da come, in altro ambito, il fatto che la servitù coattiva, ove costituita volontariamente, non sia diversa da quella costituita dal giudice non
rende inutile la relativa costituzione volontaria.
Certo, nella scelta dell’arbitrato rituale invece che del processo davanti al giudice, così come in quella della costituzione volontaria della
servitù invece che di quella giudiziale, rilevano anche altri aspetti, quali, in
particolare, nel primo caso la maggiore rapidità dell’arbitrato e la possibile
maggiore competenza dell’arbitro, nel secondo caso del pari la maggiore
rapidità della soluzione contrattuale e la sua maggiore economicità. Per un
verso la presenza di questi ulteriori aspetti non toglie peraltro che fra le
possibili ragioni del ricorso all’arbitrato rituale ed alla costituzione volontaria della servitù vi sia anche il diverso regime di tali soluzioni. Per altro
verso, e più in generale, quello che con gli esempi addotti si vuole
dimostrare è che l’identità di effetti fra due strumenti non basta, di per sé,
a far ritenere uno dei due superfluo (57).
Da un terzo punto di vista, neppure può inoltre sostenersi che,
(53) In tali termini v. M. BOVE, Note, cit., 715 s. e 743, e ID., Commento, cit., 71 s. e 101.
(54) V. la nota 56.
(55) Sull’importanza di tale caratteristica (oltre che di quella della presenza, solo nell’arbitrato rituale, di un termine di decadenza per far valere l’invalidità) nella scelta delle parti
a favore dell’uno o dell’altro strumento, v. F.P. LUISO, Diritto processuale civile, V7, Milano,
2013, 113 s.
(56) Come, già attualmente, quelli di cui agli artt. 4124 e 412-quater10 c.p.c.
(57) A scanso di equivoci, è bene ricordare che, come già detto in precedenza (v. il § 3),
i privati rimangono liberi, se lo preferiscano, di optare per una soluzione non accertativa, ma
270
concependo l’arbitrato irrituale in termini accertativi, anziché innovativi,
questo farebbe sì il giudice, in presenza di una convenzione d’arbitrato
irrituale, dovrebbe rigettare la domanda in rito e che questo cozzerebbe
contro il divieto di creare presupposti processuali innominati (58). Corretta
la premessa, relativa alla necessità di rigetto in rito, in presenza di una
convenzione d’arbitrato irrituale (59), per quanto concerne il fatto che
questo sarebbe impedito dal divieto di creare presupposti processuali
innominati, è abbastanza agevole replicare che, anche ammesso che tale
ostacolo sussistesse in precedenza (60), esso è oggi sicuramente venuto
meno, dopo che, a seguito della riforma del 2006, l’arbitrato irrituale ha
ricevuto espresso riconoscimento quale istituto di carattere generale.
Da un quarto, ed ultimo, punto di vista, scarsamente efficace si
rivelerebbe, infine, l’invocazione della necessità, per aversi un accertamento, della previa verifica storica circa il modo di essere della realtà
accertanda. Anche ammesso, infatti, che tale impostazione fosse corretta (61), essa potrebbe tutt’al più precludere l’accertamento delle parti,
ma non quello dell’arbitro irrituale, della cui attività la verifica storica è
senz’altro componente essenziale e caratterizzante, non meno che di
quella del giudice e dell’arbitro rituale (62). Né, si noti, potrebbe sostenersi
che questo valga solo per l’arbitrato rituale e non anche per quello
irrituale. Scopo del secondo, al pari che del primo, è infatti di statuire in
merito alla ragione ed al torto delle parti, non di cercare una soluzione di
compromesso. L’arbitro irrituale, non diversamente da quello rituale, è
cioè, a tutti gli effetti e nello stesso identico modo, giudice (non statale) e
non arbitratore della transazione (63).
consistente nell’eliminazione del rapporto preesistente e nella creazione di uno nuovo. Dunque,
la configurazione dell’arbitrato irrituale in termini accertativi non riduce in alcun modo le loro
possibilità di scelta, ma semmai le arricchisce.
(58) In tal senso v., ancora, M. BOVE, Note, cit., 729 s., e ID., Commento, cit., 77.
(59) Su tale tematica v., se vuoi, M. FORNACIARI, Natura, di rito o di merito, della questione
circa l’attribuzione di una controversia ai giudici statali oppure agli arbitri, in Corr. giur., 2003,
463 ss.
(60) Contra, ed a mio avviso correttamente, nel senso che già prima del 2006, in virtù dei,
pur settoriali, riferimenti all’arbitrato irrituale, questo doveva considerarsi un istituto presente
in generale nel nostro ordinamento, v. però C. CECCHELLA, L’arbitrato nelle controversie di
lavoro, Milano, 1990, 419.
(61) Contra v. però M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 75 ss., e ID., Il negozio di accertamento, cit., 9 ss., dove per un verso si evidenzia la netta distinzione fra accertamento quale
verifica storica e accertamento quale effetto, per altro verso si chiarisce che la prima, pur
possibilmente necessaria in relazione a specifiche incarnazioni dell’accertamento (così, sicuramente, per quello giudiziale), non è, in generale, requisito imprescindibile dello stesso, quale
istituto di carattere generale.
(62) In quest’ottica — che, si ripete, non è condivisibile, l’accertamento non richiedendo
imprescindibilmente la verifica storica — l’accertamento non giudiziale sarebbe cioè un fenomeno al quale i privati potrebbero dar vita solo tramite terzi.
(63) In contrario non appaiono convincenti le considerazioni di M. BOVE, Note, cit., 708
ss. e 716 ss., in merito al diverso significato che assumerebbe il giudizio nell’ambito dell’attività
giurisdizionale, da un lato, e di quella negoziale, dall’altro.
271
Sotto ogni possibile profilo, risulta insomma senz’altro confermato
che, quantomeno tramite terzi (ma a mio avviso anche direttamente (64)),
i privati possono senz’altro dar vita ad un accertamento. Da questo
consegue dunque che la definizione della controversia da parte dell’arbitro, non solo rituale (ciò che, come detto (65), è allo stato pacifico), ma
anche irrituale, è senz’altro accertativa e non innovativa (66).
8. Passando a questo punto al secondo degli interrogativi, sopra
posti (67), vale a dire quello se l’accertamento delle parti e/o dell’arbitro
(irrituale e/o rituale) abbia effetti della medesima portata di quello del
giudice, ricordato che, come avvertito (68), a questo proposito le presenti
considerazioni sono finalizzate più ad un inquadramento di carattere
generale della materia che alla ricerca di una soluzione compiuta ed
esaustiva delle varie questioni, occorre innanzitutto evidenziare che il
tema presenta una pluralità di profili. Alcuni di questi sono già emersi (69),
vale a dire: la resistenza allo ius superveniens retroattivo; l’efficacia verso
terzi; il coinvolgimento nel giudicato del rapporto giuridico fondamentale;
la riflessione dello stesso sui rapporti dipendenti.
Preliminarmente a tali profili, occorre tuttavia a mio avviso affrontarne un altro, di solito non al centro dell’attenzione degli studiosi e
Al netto del riferimento alla tematica della giurisdizionalità/negozialità, come visto priva
di effettiva rilevanza (cfr. i §§ 3-5), e parlando piuttosto di attività accertativa ed attività
innovativa, è senz’altro vero, infatti, che il giudizio ha, in tali due attività, ruoli differenti: verifica
storica circa il modo di essere della realtà esistente, volta a dare contenuto all’atto di fissazione
di tale realtà, nel caso dell’attività accertativa; valutazione di convenienza, volta a dare
contenuto ad una modifica della suddetta realtà, nel caso dell’attività innovativa. È altrettanto
vero, però, ed emerge chiaramente da quanto appena detto, che la differenza, oltre e prima che
nei ruoli, è anche nei contenuti: verifica storica nel primo caso, valutazione di convenienza nel
secondo.
Pretendere, in nome dell’assunto (arbitrario, come detto in precedenza: v. il § 3) circa la
necessaria (negozialità, e dunque) innovatività dell’attività (delle parti e) dell’arbitro irrituale,
di attribuire a quella che è, inequivocabilmente, una verifica storica circa il modo di essere della
realtà esistente, il ruolo di porre la base di una modifica di tale realtà, camuffandola da
valutazione di convenienza, non può dunque funzionare.
In realtà, è abbastanza evidente — o quantomeno a me pare che lo sia — che il
ragionamento deve essere esattamente ribaltato: anziché partire dalla qualificazione come
necessariamente innovativa dell’attività (delle parti e) dell’arbitro irrituale, e poi, in ragione di
tale qualificazione, manipolare il dato di realtà (le caratteristiche della valutazione compiuta dal
suddetto arbitro), occorre partire da quest’ultimo e, una volta preso atto che in questione è,
come detto, una verifica storica, concludere che nulla osta, da questo punto di vista, a qualificare
quella dell’arbitro irrituale quale attività accertativa.
(64) L’unico possibile ostacolo alla possibilità di un accertamento autonomo (ma non a
quella di un accertamento eteronomo) si avrebbe, come appena visto, ritenendo che l’accertamento implichi necessariamente la verifica storica circa il modo di essere della realtà accertanda.
Tale impostazione — sia detto ancora una volta — non è però, a mio avviso, corretta.
(65) V. il § 2 e poi all’inizio del presente paragrafo.
(66) In tal senso v. B. SASSANI, L’arbitrato, cit., 39 s., e ID., Commento, cit., 133 s.
(67) V. il § 6.
(68) V. ancora il § 6.
(69) V. il § 2.
272
nondimeno a mio avviso di importanza fondamentale, per comprendere
appieno il problema degli effetti dell’accertamento. Mi riferisco al problema dell’intensità di questi ultimi.
Premesso che un accertamento in tanto può configurarsi come un
fenomeno giuridico e non come una mera opinione, in quanto produca un
qualche tipo di vincolo, quest’ultimo può nondimeno essere più o meno
stringente. Banalmente, una cosa è un accertamento non contestabile in
alcun modo ed in alcuna sede, un’altra uno che determini soltanto
un’inversione dell’onere della prova: tanto nel primo caso quanto nel
secondo la libertà di valutazione del soggetto, chiamato a nuovamente
ricostruire quella certa realtà, giuridica o fattuale (l’accertamento può
avere ad oggetto tanto situazioni giuridiche quanto situazioni di fatto: si
pensi alla querela di falso (70)), incontra un limite; questo è però in un caso
assoluto, nell’altro assai blando.
Per fornire le coordinate di un accertamento è dunque fondamentale
identificare che tipo di vincolo esso produca.
A tale proposito, a suo tempo avevo creduto di poter identificare
quattro livelli: vincolo fino a prova contraria; vincolo fino ad una determinata prova contraria; vincolo fino a rimozione dell’accertamento tramite uno specifico mezzo giuridico; vincolo assoluto (71).
Melius re perpensa, ritengo che tale classificazione vada rivista. Non
perché essa sia tout court errata, ma in quanto il quadro è in realtà più
articolato. E soprattutto — aspetto sul quale va posto fortemente l’accento — in quanto è fondamentale distinguere in modo netto ciò che
attiene all’efficacia dell’accertamento da ciò che attiene alla validità
dell’atto che lo contiene (72). Altro è infatti il problema se un accertamento vincoli in assoluto, oppure, ad esempio, solo fino a che esso non
risulti contrario all’ordine pubblico, altro è quello se la nullità dell’atto,
che contiene l’accertamento, possa essere fatta valere solo tramite impugnazione entro un certo termine, oppure in ogni sede ed in ogni tempo: il
primo profilo attiene all’efficacia dell’accertamento e le due ipotesi individuano due diversi livelli di tale efficacia; il secondo attiene invece alla
validità dell’atto e le due ipotesi, pur individuando due diversi livelli di
quella che potremmo genericamente indicare quale “forza” dell’accertamento, non incidono sulla sua efficacia; detto diversamente, dati due atti,
aventi contenuto di accertamento, la cui invalidità possa essere fatta
valere in tempi e modi tanto radicalmente differenti quanto quelli ipotizzati, sarebbe comunque errato affermare che, in ragione di questo, l’efficacia dei relativi accertamenti è diversa.
(70) Sull’accertamento di fatti v. M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 215 ss., e ID., Il negozio
di accertamento, cit., 36 s.
(71) V. M. FORNACIARI, Lineamenti, cit., 82, 226 ss., 280 e 338, e ID., Il negozio di
accertamento, cit., 39 s.
(72) Più in generale sulla necessità di non fare confusione fra ciò che attiene agli effetti
di un atto e ciò che attiene al suo regime, v. già i §§ 1 e 5.
273
Il punto è essenziale ed occorre chiarirlo bene.
A fronte di un atto, il quale contenga un accertamento, possono porsi
due domande: — se ed in quali limiti esso osti ad una diversa ricostruzione
di quella certa realtà, giuridica o fattuale, oggetto dell’accertamento; — se
ed in quali limiti sia possibile farne valere l’invalidità.
Per quanto entrambi i versanti concorrano a determinare quella che
abbiamo poc’anzi indicato quale “forza” dell’accertamento, nondimeno
essi sono indiscutibilmente diversi e non sovrapponibili. Non è dunque
corretto pretendere di valutare se un certo atto abbia o meno efficacia di
giudicato sostanziale, in base al fatto che esso sia più o meno ampiamente
attaccabile in punto di validità (73). Il giudicato sostanziale attiene infatti
al primo dei predetti versanti, vale a dire al vincolo alla ricostruzione della
realtà, oggetto dell’accertamento, contenuto in quel certo atto. In tanto
potrà dunque negarsi che quest’ultimo abbia la suddetta efficacia, in
quanto la suddetta ricostruzione sia liberamente disattendibile. Laddove
così non sia, il giudicato esiste, per quanto ampia possa essere la possibilità
di contestare la validità dell’atto. Tale contestabilità, per quanto, appunto,
possibilmente ampia, non potrà infatti mai consentire di mettere in
discussione il contenuto dell’accertamento.
Del resto, immaginiamo che domani il legislatore abroghi l’art. 161
cpc e che dunque l’invalidità della sentenza non sia più soggetta ai tempi
ed alle forme delle impugnazioni: diremmo forse che l’efficacia di giudicato delle sentenze si è affievolita? Ovviamente no — ritengo — e la
ragione è appunto quella detta: in questione non sarebbe, appunto,
l’efficacia della sentenza, bensì i tempi ed i modi di far valere la sua
invalidità; ed il giudice, adito successivamente, per quanto potesse valutare liberamente la validità della precedente pronuncia, una volta ritenutala valida non potrebbe sindacare il contenuto dell’accertamento con
alcuna maggiore ampiezza di quanto possa farlo attualmente (altrettanto
vale, senza bisogno di addurre in proposito uno specifico esempio, laddove, anziché dei tempi e dei modi per far valere l’invalidità, fosse in
questione l’ampliamento dei vizi della sentenza, che la determinano).
Chiarito quanto precede, e tornando dunque a quanto dicevamo
sopra a proposito dei livelli di efficacia, credo che, volendo essere completi, non sia possibile stilare, in proposito, una classificazione unica, da un
vincolo minore ad uno progressivamente maggiore, ma occorra tenere
conto di una pluralità di punti di vista. Per l’esattezza, tali punti di vista
sono individuati, a quanto mi pare, dai seguenti interrogativi:
a) se il contenuto dell’accertamento possa essere messo in discussione in qualunque sede oppure solo con un determinato mezzo giuridico
(es.: un certo mezzo d’impugnazione);
(73)
274
Sul punto, a proposito della transazione, v. F.P. LUISO, L’articolo 824-bis, cit., 241.
b) se il contenuto dell’accertamento possa essere messo in discussione senza limiti di tempo oppure solo entro un certo termine;
c) se il contenuto dell’accertamento possa essere messo in discussione sotto qualunque profilo oppure solo con riferimento a determinati
aspetti (es.: rilevanza di qualunque violazione di legge oppure solo della
contrarietà all’ordine pubblico);
d) se, in punto di fatto, l’accertamento lasci immutato l’onere della
prova oppure ne determini un’inversione;
e) se, sempre in punto di fatto, l’accertamento consenta l’utilizzo di
qualunque mezzo di prova contraria oppure determini in proposito una
restrizione.
Questi essendo i punti di vista, è evidente che: laddove l’accertamento
possa essere messo in discussione in qualunque sede, senza limiti di tempo,
sotto qualunque profilo, senza inversione dell’onere della prova e senza
restrizione dei mezzi di prova contraria utilizzabili, esso non determina
alcun vincolo e dunque, in sostanza, non è un accertamento; laddove,
all’opposto, l’accertamento non possa essere messo in discussione in alcun
modo e con riferimento ad alcun aspetto, esso determina un vincolo
assoluto. All’interno di questa forbice si danno tutte le varie forme ed i
vari gradi di vincolo, a seconda della combinazione dei diversi punti di
vista.
Per completezza, e per una migliore comprensione della materia,
mette conto segnalare che quanto detto vale, mutatis mutandis, anche in
punto di validità. Anche con riferimento a tale versante si dà cioè una
pluralità di punti di vista, in parte analoghi ai precedenti, a loro volta
individuati, sempre a quanto mi pare, dai seguenti interrogativi:
a) se un determinato vizio provochi o meno l’invalidità dell’atto,
contenente l’accertamento;
b) se l’invalidità dell’atto, contenente l’accertamento, possa essere
fatta valere in qualunque sede oppure solo con un determinato mezzo
giuridico (es.: un certo mezzo d’impugnazione);
c) se l’invalidità dell’atto, contenente l’accertamento, possa essere
fatta valere senza limiti di tempo oppure solo entro un certo termine;
d) se l’invalidità dell’atto, contenente l’accertamento, possa essere
fatta valere con riferimento a qualunque vizio (di quelli che provocano
l’invalidità) oppure solo con riferimento a taluno di essi (es: rilevanza solo
della violazione del contraddittorio, oppure di qualunque nullità, anche
formale).
Ribadito che il regime della validità non incide sull’efficacia dell’accertamento, e che pertanto, per quanto ampia possa essere la possibilità di
far valere l’invalidità dell’atto, questo di per sé lascia del tutto immutata
la suddetta efficacia, volendo ragionare, più comprensivamente, di “forza”
dell’accertamento (per tale intendendo, secondo quanto sopra chiarito, la
sintesi della resistenza in punto di efficacia e di quella in punto di validità),
275
dovrà dunque dirsi che quest’ultima va valutata su due distinti versanti
(quello della validità e quello dell’efficacia, appunto) e, all’interno di
ciascuno di essi, in base ad una pluralità di punti di vista.
Posto che quanto precede sia corretto, per quanto concerne il confronto fra la sentenza del giudice, il lodo, rituale come irrituale, e l’accordo
delle parti, è allora abbastanza evidente, rapidamente concludendo sul
punto e senza bisogno di scendere nei dettagli, che i relativi accertamenti
sono dotati — beninteso: positivamente e contingentemente, non già per
intrinseca necessità (74) — di “forza” differente, tanto in punto di validità
quanto in punto di efficacia.
Per non portare in proposito che un solo esempio, relativo a quest’ultima — che è quella che qui principalmente interessa — mentre per
quanto concerne l’arbitrato rituale la contrarietà all’ordine pubblico può
essere fatta valere solo nei modi e nei tempi dell’impugnazione per
nullità (75) (il che non toglie, è forse il caso di sottolinearlo, che quello in
questione, in quanto relativo alla correttezza o meno dell’accertamento, è
nondimeno, chiaramente, un profilo di efficacia), per quanto concerne
quello irrituale, ammesso, come credo, che la previsione dei motivi di
annullabilità di cui all’art. 808-ter2 c.p.c. non ne precluda la rilevanza quale
causa di nullità (76), essa può essere fatta valere in ogni tempo ed in ogni
sede.
9. Per quanto concerne gli altri profili, relativi alla portata dell’accertamento, vale a dire la resistenza allo ius superveniens retroattivo,
l’efficacia verso terzi, il coinvolgimento del rapporto giuridico fondamentale e la riflessione sui rapporti dipendenti (77), il discorso sarà assai più
breve.
Premesso che, in generale, mi riesce difficile comprendere per quale
ragione l’accertamento delle parti e/o dell’arbitro (rituale e/o irrituale)
dovrebbe comportarsi, con riferimento alle tematiche in questione, diversamente da quello del giudice, nello specifico osservo, telegraficamente,
quanto segue.
(74) Sul fatto che fra negozio e sentenza non vi sono, in punto di effetti, differenze
ontologiche, v. già retro, §§ 1 e 2.
(75) Nel senso che la contrarietà all’ordine pubblico determina l’inesistenza del lodo e
può dunque essere fatta valere indipendentemente dalle forme e dai termini dell’azione di
nullità, v. peraltro G. BONATO, La natura, 259 ss., ed ivi ulteriori indicazioni.
(76) In tal senso v. F.P. LUISO-B. SASSANI, La riforma del processo civile. Commentario
breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano, 2006, 264; B. SASSANI,
L’arbitrato, cit., 32; ID., Commento, cit., 120; G. TOTA, Commento, cit., 559 s.
(77) Come già si disse (v. il § 2), si tratta di profili emersi con riferimento all’arbitrato
rituale, ma in relazione ai quali il problema si pone anche per quello irrituale. Né, si aggiunga,
vi sono a mio avviso ragioni per differenziare le relative analisi. Come subito vedremo, sotto
nessuno dei detti profili l’accertamento privato in genere si differenzia infatti rispetto a quello
del giudice.
276
Per quanto concerne lo ius superveniens retroattivo, la migliore
replica, a chi sostiene che l’accertamento delle parti e/o dell’arbitro
(rituale e/o irrituale) ne verrebbe travolto, è rappresentata dalla giurisprudenza (78) e dalla normativa (79) in punto di resistenza della transazione al
suddetto ius superveniens. Come già da altri notato (80), tale giurisprudenza testimonia, in modo eloquente, che in questo tipo di questioni è
semplicistico porre a confronto la sentenza con il negozio, genericamente
inteso, il parallelo dovendo invece essere effettuato fra la prima e, più
specificamente, l’accordo (impregiudicata la sua natura negoziale o giurisdizionale (81)), il quale abbia, quale propria causa, la risoluzione della
controversia. Dopodiché è del tutto evidente — o almeno così pare a me
— che, proprio in ragione di tale causa (l’accordo per la risoluzione della
controversia svolge esattamente la medesima funzione della sentenza:
definire una volta per tutte la questione), non vi è ragione per la quale un
siffatto accordo dovrebbe essere meno resistente allo ius superveniens
retroattivo di quanto lo sia una sentenza.
Per quanto concerne l’efficacia verso terzi, il problema esiste o meno,
a seconda di quello che si ritenga a proposito del c.d. valore assoluto della
sentenza.
Per chi ritenga che la sentenza abbia senz’altro, generalizzatamente,
effetti verso terzi, non c’è dubbio che, sotto questo profilo, fra sentenza, da
un lato, ed accordo delle parti e lodo, tanto irrituale quanto rituale,
dall’altro, sussista una differenza. Una siffatta estensione soggettiva degli
effetti è infatti pacificamente estranea ai secondi.
Altrettanto non può invece dirsi laddove si ritenga che in realtà
neppure la sentenza produca, in linea di principio, effetti verso terzi e che
ciò si verifichi (oltre che per gli aventi causa dopo la litispendenza) solo in
presenza di una struttura sostanziale, tale che il rapporto coinvolgente il
terzo rimanga soggetto a qualunque modifica, quale che ne sia la fonte, di
quello, pregiudiziale, coinvolgente la parte; solo, cioè, laddove un’altrettale estensione soggettiva avrebbe anche l’accordo delle parti (82).
(78) Cfr. Cass. 17 gennaio 2001 n. 576; Cass. 4 luglio 1992 n. 8174; Cass. 23 marzo 1991
n. 3270, in Giur. it., 1992, I, 1, 1139; Cass. 10 giugno 1988 n. 3956, in Arch. loc., 1989, 78; Cass.
19 giugno 1984 n. 3634; Cass. 28 luglio 1984 n. 4496, in Giust. civ., 1985, I, 820, con nota di F.
SALARIS, Diritto di ripresa, esclusione della proroga legale e controversie giudiziarie instaurate
precedentemente alla legge n. 203 del 1982. Più in generale sull’identità di effetti fra transazione
e cosa giudicata materiale (talché anche l’exceptio rei transactae è rilevabile anche d’ufficio in
sede di legittimità), v. T. Padova 6 dicembre 2004, in Dejure.
(79) Cfr. l’art. 53 l. 3 maggio 1982 n. 203.
(80) V. F.P. LUISO, L’articolo 824-bis, cit., 238 ss., al quale si rinvia anche per altre
considerazioni sul punto.
(81) Sul punto v. retro, §§ 3-5 e infra, § 10.
(82) In tal senso, e in generale sul problema, v. F.P. LUISO, L’articolo 824-bis, cit., 244 ss.,
e, più ampiamente, ID., Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi,
Milano, 1981, in part. 80 ss.
277
Poiché personalmente ritengo corretta la seconda impostazione (la
impone, in modo che francamente ritengo difficile contrastare, il principio
del contraddittorio), a mio avviso il problema non sussiste.
Per quanto concerne il coinvolgimento del rapporto giuridico fondamentale e la riflessione sui rapporti dipendenti, confesso di non riuscire a
comprendere come possa anche solo ipotizzarsi una minor portata dell’accertamento delle parti e/o dell’arbitro, irrituale e/o rituale, rispetto a
quello del giudice.
Mi sembra infatti ovvio che l’accordo delle parti, a seconda dei casi,
si estenda al rapporto fondamentale o si rifletta su quello dipendente. Per
non portare in proposito che due esempi, da un lato si immagini che,
insorta controversia fra Tizio, quale venditore, e Caio, quale compratore,
in merito ad un vizio della cosa venduta, Tizio, si impegni a ripararla,
oppure a sostituirla: è pensabile che in seguito Caio, ottenuta la riparazione o la sostituzione, si rifiuti di pagare il corrispettivo, sostenendo che
si trattava di una donazione? Dall’altro lato si immagini che, insorta
controversia in merito alla proprietà di un bene, Tizio e Caio si accordino
nel senso della proprietà del primo: è pensabile che in seguito, reclamando
Tizio da Caio il risarcimento del danno per avere il secondo danneggiato
il bene, questi possa sostenere che il bene non è di Tizio?
Ebbene, posto da un lato che in entrambi i casi la risposta non può a
mio avviso che essere negativa, dall’altro che, se questo è vero per
l’accordo delle parti, non vedo come altrettanto potrebbe non valere per
il lodo, rituale e/o irrituale, ne consegue che sotto questo profilo non
sussiste alcuna differenza fra tali atti e la sentenza del giudice (83).
10. Quelli che precedono sono, a mio avviso, i reali termini nei quali,
sfrondato dell’ingannevole ed illusoria prospettiva della negozialità/giurisdizionalità, si pone il problema degli effetti dell’arbitrato.
Quanto poi a tale alternativa, si tratta, come detto (84), di questione
meramente classificatoria, che dipende dal criterio di distinzione fra
negozialità e giurisdizionalità, che si ritenga di adottare.
A tale proposito, di fondo, come parimenti detto (85), si danno due
criteri, uno soggettivo ed uno contenutistico. In base al primo è giurisdizionale l’attività posta in essere dal giudice e negoziale quella posta in
essere dai privati. In base al secondo è giurisdizionale l’attività accertativa
e negoziale quella innovativa.
Sono peraltro pensabili anche altre opzioni. Ad esempio, si potrebbe
ritenere che qualificante della giurisdizionalità sia la produzione della
(83) Per considerazioni consimili v. F.P. LUISO, L’articolo 824-bis, cit., 242 ss.
(84) V. i §§ 3-5.
(85) V. i §§ 3 e 4.
278
totalità degli effetti della sentenza e che dunque un’attività possa definirsi
giurisdizionale solo se l’atto conclusivo produca appunto tutti tali effetti,
nessuno escluso. Oppure si potrebbe pensare che a tal fine siano determinanti solo alcuni degli effetti medesimi e che, dunque, pur rimanendo
nell’ottica del medesimo tipo di criterio, le maglie della giurisdizionalità
siano più larghe. Sempre in punto di effetti, ma in una prospettiva (anche)
qualitativa, anziché (od oltre che) quantitativa, si potrebbe poi ipotizzare
che connotato della giurisdizionalità sia la produzione di effetti altrettanto
forti, od altrettanto intensi (86), di quelli della sentenza (in questione
debbano poi essere tutti gli effetti in questione oppure solo alcuni di essi).
Diversamente, si potrebbe ancora sostenere che il criterio distintivo fra
negozialità e giurisdizionalità — di fatto coincidente con quello soggettivo,
ma solo contingentemente — sia dato dalla necessità o meno del consenso
delle parti per investire della controversia quel certo soggetto (o più
direttamente, nel caso dell’accordo delle parti, per individuare la soluzione della controversia).
Dal punto di vista del significato etimologico di giurisdizione (iuris
dictio), sembrerebbe doversi adottare il criterio contenutistico (87). In tal
caso, dovrebbe peraltro accettarsi che (non solo l’arbitro rituale, ma)
anche l’arbitro irrituale, ed anche le parti, quando definiscono direttamente la controversia, danno luogo ad attività giurisdizionale, cosa che
non so quanti siano disposti ad accettare. Tenendo conto delle sentenze
costitutive, che hanno un contenuto (anche) innovativo (oltre che accertativo), sembrerebbe viceversa doversi adottare il criterio soggettivo. In
tal caso, anche l’operato dell’arbitro rituale, oltre che quello dell’arbitro
irrituale e delle parti, dovrebbe però essere “retrocesso” ad attività
negoziale, contrariamente a quella che abbiamo constatato essere, allo
stato, la convinzione prevalente (88). Volendo continuare, anche a sostegno delle altre opzioni potrebbero poi probabilmente rinvenirsi delle
buone ragioni a favore ed altre contro.
La questione non necessita peraltro di essere, in questa sede, non solo
risolta, ma neppure approfondita. Ai fini del presente lavoro, come detto,
essa è infatti irrilevante. Neppure più in generale essa mi appare peraltro
particolarmente appassionante. Quelli in discorso sono infatti punti di
vista tutti legittimi, la scelta fra i quali si risolve in definitiva in un fatto di
preferenza personale (per quanto mi riguarda, propendo per il criterio
soggettivo (89) e dunque, come anticipato (90), per la negozialità dell’arbitrato, tanto irrituale quanto rituale).
(86) Per la differenza fra la forza e l’intensità degli effetti v. il § 8.
(87) Sul fatto che gli arbitri ius dicunt (e però negando la giurisdizionalità dell’attività
degli arbitri) v. F. CARPI, op. e loc. cit. nella nota 14.
(88) V. il § 2.
(89) Un po’ più ampiamente sul punto v., se vuoi, M. FORNACIARI, Natura, cit., 466 s.
(90) V. il § 1.
279
L’importante è essere chiari in merito a quello prescelto e consapevoli
della relatività del punto di vista che esso esprime. Ma soprattutto, sia
consentito ribadirlo ancora una volta, evitare, vuoi con riferimento agli
effetti del lodo, rituale come irrituale, vuoi con riferimento al regime del
lodo medesimo, vuoi con riferimento alle regole del processo arbitrale, di
nuovo rituale come irrituale, di ragionare in chiave di negozialità/giurisdizionalità, facendo della qualificazione in un senso o nell’altro la premessa
di qualsivoglia conclusione. Il punto, come già detto (91), non è la negozialità/giurisdizionalità, bensì l’utilizzo degli abituali canoni interpretativi,
ed in particolare dell’analogia.
Del resto, la stessa Corte costituzionale, nell’ammettere l’arbitro
rituale a sollevare la questione di costituzionalità, non solo non si è
appellata alla presunta giurisdizionalità del processo arbitrale, ma, tutto
all’opposto, ha espressamente chiarito la non necessità, per la relativa
decisione, di affrontare tale problema (92). Né, si aggiunga, nella più
recente pronuncia di incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c., che ha introdotto la traslatio iudicii fra giudice ed arbitro (93), la Corte ha mutato
approccio. Anche in tale sentenza, infatti, nulla viene detto in merito alla
natura, giurisdizionale o meno, dell’arbitrato, puntandosi piuttosto —
analogamente a quanto fatto nel precedente intervento — sulla fungibilità
fra il giudizio davanti al giudice e quello davanti all’arbitro. Ecco, proprio
(91) V. il § 5.
(92) Cfr. Corte cost. 28 novembre 2001 n. 376, in Foro it., 2002, I, 1648, con osservazione
di R. ROMBOLI, Giur. it., 2002, 689, con nota di G. CANALE, Anche gli arbitri rituali possono
sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma, Giust. civ., 2001, I, 2883, con nota
di R VACCARELLA, Il coraggio della concretezza in una storia decisione della Corte costituzionale,
Riv. dir. proc., 2002, 351, con nota di E.F. RICCI, La “funzione giudicante” degli arbitri e
l’efficacia del lodo (un grand arrêt della Corte costituzionale), Corr. giur., 2002, 1009, con nota
di M. FORNACIARI, Arbitrato come giudizio a quo: prospettive di una possibile ulteriore evoluzione, in questa Rivista, 2001, 657, con nota di A. BRIGUGLIO, Merito e metodo nella pronuncia
della Consulta che ammette gli arbitri alla rimessione pregiudiziale costituzionale, Riv. amm.,
2001, 965, con nota di D. GIACOBBE, Brevi osservazioni sulla legittimazione degli arbitri a
sollevare la questione di costituzionalità in via incidentale: un contrasto tra la corte costituzionale
e la corte di cassazione, Foro amm. CDS, 2002, 36, con osservazione di R. IANNOTTA.
Dato tale espresso chiarimento, non mi pare dunque possa affermarsi che, in tale
sentenza, la Corte abbia “abbracciato le tesi giurisdizionalistiche” (così L. SALVANESCHI, Arbitrato, cit., 146) o si sia “oggettivamente allineata alle posizioni giurisdizionaliste” (così P.
BIAVATI, Commento, cit., 162).
(93) Cfr. Corte cost. 23 luglio 2013 n. 223, in Foro it., 2013, I, 2690, con note di E.
D’ALESSANDRO, Finalmente! La Corte costituzionale sancisce la salvezza degli effetti sostanziali
e processuali della domanda introduttiva nei rapporti tra arbitro e giudice, M. ACONE, “Translatio
iudicii” tra giudice ed arbitro: una decisione necessariamente incompiuta o volutamente pilatesca?, R. FRASCA, Corte cost. n. 223 del 2013 e art. 819 ter c.p.c.: una dichiarazione di incostituzionalità veramente necessaria?, Giur. it., 2014, 1381 (solo massima), con nota di P. BUZZANO,
Estensione della translatio iudicii ai rapporti tra giudizio ordinario e arbitrato rituale, e C.
ASPRELLA, Translatio iudicii nei rapporti tra arbitrato e processo, in questa Rivista, 2014, 81, con
commenti di M. BOVE, A. BRIGUGLIO, S. MENCHINI e B. SASSANI, Corr. giur., 2013, 1107, con nota
di C. CONSOLO, Il rapporto arbitri-giudici ricondotto, e giustamente, a questione di competenza
con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata e viceversa.
280
tali precedenti rappresentano, mi pare, la migliore riprova del fatto che le
svariate questioni poste dall’arbitrato, rituale come irrituale, possono
essere tranquillamente risolte senza bisogno di coinvolgere l’inaffidabile
tematica della negozialità/giurisdizionalità.
The writing considers the issue of the effects of both “rituale” and “irrituale”
arbitration award. In the first part, the Author makes it clear that, with regard to the
study, the never-ending dispute about the “negoziale” or “giurisdizionale” nature of
arbitration is not to be taken into account. After clearing the field of this dispute, in
the second part the Author claims that the settlement of the dispute by both “rituali”
and “irrituali” arbitrators (as well as the one by the parties themselves) occurs
through a real declaration, whose effects have generally the same range as those of
the judicial judgment.
281
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) COMUNITARIA E ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA (Grande Sezione), sentenza
pregiudiziale 13 maggio 2015, C-536/13; SKOURIS Pres.; SAFJAN Est.; WATHELET Avv.
Gen.; Gazprom (avv. Audzvedičius).
Regolamento (CE) n. 44/2001 - Ambito di applicazione - Arbitrato - Art. 1, lett. d)
- Esclusione - Riconoscimento ed esecuzione di lodi arbitrali stranieri Provvedimento inibitorio dell’avvio o della prosecuzione di un procedimento
giurisdizionale dinanzi al giudice di uno Stato membro pronunciato da un
collegio arbitrale - Compatibilità.
Il regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni
in materia civile e commerciale dev’essere interpretato nel senso che non osta a che
il giudice di uno Stato membro riconosca ed esegua, né a che si rifiuti di riconoscere
ed eseguire, un lodo arbitrale che vieti ad una parte di presentare talune domande
dinanzi ad un giudice di tale Stato membro, in quanto detto regolamento non
disciplina il riconoscimento e l’esecuzione, in uno Stato membro, di un lodo
arbitrale emesso da un collegio arbitrale in un altro Stato membro.
CENNI DI FATTO. — La società Gazprom, operativa nel settore del gas, con un
accordo di compravendita di azioni siglato in data 24 gennaio 2004 acquisisce una
partecipazione del 37% nel capitale della Lietuvos dujos AB, società per azioni di
diritto lituano, la cui attività economica consiste nell’acquistare gas dalla
Gazprom. Tra gli altri azionisti della Lietuvos dujos AB figura, per il 17%, anche
la Repubblica lituana, operativa attraverso il proprio Ministero dell’energia.
L’accordo di compravendita, sottoposto al diritto lituano, prevede che gli azionisti
debbano mirare ad assicurare il mantenimento della fornitura a condizioni
reciprocamente accettabili e vantaggiose. Nell’accordo (vincolante per tutti gli
azionisti, incluse Gazprom e la Repubblica lituana, i.e. il Ministero dell’energia
lituano) è inserita una clausola compromissoria, la quale prevede che ogni
domanda relativa all’accordo, alla violazione, validità ed efficacia del medesimo
debba essere sottoposta ad arbitrato, avente sede a Stoccolma e da svolgersi in
lingua inglese, ai sensi del regolamento dell’Arbitration Institute della Camera di
283
commercio di Stoccolma. Nel febbraio 2011 il Ministero dell’energia lituano si
rivolge al direttore generale della Lietuvos dujos AB, nonché a due membri del
consiglio di amministrazione della società, nominati dalla Gazprom, per contestare loro di non aver agito nell’interesse della azienda lituana in occasione delle
modifiche apportate alla formula di calcolo della tariffa inserita nel contratto di
fornitura di gas a lungo termine. Per effetto di tale modifica, il prezzo al quale la
Lietuvos dujos AB acquistava gas dalla Gazprom, era divenuto iniquo. Il mese
successivo, il Ministero dell’energia agisce dinanzi al tribunale regionale di Vilnius
citando in giudizio la Lietuvos dujos AB, nonché i due membri del consiglio di
amministrazione nominati dalla Gazprom per chiedere che sia avviata una
inchiesta sull’attività della società lituana. Si chiede inoltre la rimozione dei due
consiglieri di amministrazione nominati da Gazprom nonché di obbligare la
Lietuvos dujos AB ad avviare un negoziato con Gazprom al fine di contrattare un
equo prezzo per la fornitura di gas. Nell’agosto 2011 la Gazprom, reputando tale
iniziativa in contrasto con la clausola compromissoria, propone domanda di
arbitrato nei confronti del Ministero dell’energia lituano davanti alla camera
arbitrale di Stoccolma. Medio tempore, nel dicembre 2011, il Ministero dell’energia modifica le richieste originariamente formulate dinanzi al tribunale regionale
di Vilnius, segnatamente abbandonando quella di rimozione dei due amministratori ma mantenendo quella con la quale si chiedeva di obbligare la Lietuvos dujos
AB ad avviare un negoziato con Gazprom. Con lodo arbitrale pronunciato nel
luglio 2012 il tribunale arbitrale dichiara che il procedimento instaurato dinanzi al
tribunale di Vilnius viola parzialmente la clausola compromissoria contenuta nel
patto tra azionisti e contestualmente ordina al Ministero degli esteri lituano di
rinunciare alla domanda con la quale si chiedeva di obbligare la Lietuvos dujos
AB ad avviare un negoziato con Gazprom. Il mese successivo il tribunale
regionale di Vilnius accoglie la domanda del Ministero degli esteri e nomina la
commissione di inchiesta. La decisione viene impugnata dinanzi alla Corte
d’appello e, quindi, dinanzi alla locale corte di cassazione. Contestualmente la
Gazprom domanda il riconoscimento e l’esecuzione in Lituania del lodo emesso
dal tribunale arbitrale di Stoccolma. La richiesta è rigettata sulla base di
molteplici argomentazioni, incluse la circostanza per cui trattasi di lodo reso su
controversia non arbitrabile ai sensi del diritto lituano e quella per cui il lodo,
limitando la capacità dello Stato lituano di agire in giudizio dinanzi alla locale
autorità giurisdizionale e negando la potestas dei giudici lituani a pronunciarsi
sulla propria competenza, viola l’ordine pubblico lituano. Il provvedimento di
diniego del riconoscimento del lodo è impugnato dinanzi al giudice lituano di
ultima istanza, il quale effettua un rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di
giustizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte
sull’interpretazione del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2001, L 12, pag. 1).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso proposto dalla
« Gazprom » OAO (in prosieguo: la « Gazprom »), società con sede a Mosca
(Federazione russa), avverso il diniego di riconoscimento e di esecuzione in
Lituania di un lodo arbitrale reso il 31 luglio 2012.
284
[...]
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
3. Il regolamento n. 44/2001 è stato abrogato dal regolamento (UE) n.
1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU L 351, pag. 1), applicabile dal 10 gennaio
2015. Tuttavia, il regolamento n. 44/2001 continua ad applicarsi a fattispecie come
quelle oggetto del procedimento principale.
4. Dal considerando 2 del regolamento n. 44/2001 emergeva che quest’ultimo era volto, nell’interesse del buon funzionamento del mercato interno, ad
adottare « disposizioni che consentano di unificare le norme sui conflitti di competenza in materia civile e commerciale e di semplificare le formalità affinché le
decisioni emesse dagli Stati membri vincolati dal presente regolamento siano
riconosciute ed eseguite in modo rapido e semplice ».
5. I considerando 7 e 11 di detto regolamento enunciavano quanto segue:
« (7) Si deve includere nel campo d’applicazione del presente regolamento la
parte essenziale della materia civile e commerciale, esclusi alcuni settori ben
definiti.
(...)
(11) Le norme sulla competenza devono presentare un alto grado di prevedibilità ed articolarsi intorno al principio della competenza del giudice del domicilio del convenuto, la quale deve valere in ogni ipotesi salvo in alcuni casi
rigorosamente determinati, nei quali la materia del contendere o l’autonomia delle
parti giustifichi un diverso criterio di collegamento (...) ».
6. L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, lettera d), di detto regolamento, collocato nel
capo I, intitolato « Campo d’applicazione », disponeva quanto segue:
« 1. Il presente regolamento si applica in materia civile e commerciale,
indipendentemente dalla natura dell’organo giurisdizionale. Esso non concerne, in
particolare, la materia fiscale, doganale ed amministrativa.
2. Sono esclusi dal campo di applicazione del presente regolamento:
(...)
d) l’arbitrato ».
7. L’articolo 71, paragrafo 1, del regolamento n. 44/2001 così disponeva:
« Il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni, di cui gli Stati
membri siano parti contraenti, che disciplinano la competenza giurisdizionale, il
riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari ».
Diritto lituano
8. Il capo X della parte II del secondo libro del codice civile è intitolato
« Inchiesta sulle attività di una persona giuridica » e comprende gli articoli da 2.124
a 2.131.
9. L’articolo 2.124 del codice civile, intitolato « Oggetto dell’inchiesta sulle
attività di una persona giuridica », dispone quanto segue:
285
« Le persone di cui all’articolo 2.125 (...) hanno la facoltà di chiedere al
giudice di nominare esperti che esaminino se una persona giuridica o gli organi
amministrativi di una persona giuridica o i suoi membri abbiano agito in modo
corretto e, nel caso di constatazione di attività inappropriate, di applicare le misure
specificate all’articolo 2.131 (...) ».
10. Ai sensi dell’articolo 2.125, paragrafo 1, punto 1, di detto codice, uno o
più azionisti che detengano almeno 1/10 delle azioni della persona giuridica
possono presentare tale ricorso.
11. Le misure previste all’articolo 2.131 di questo stesso codice includono, in
particolare, l’annullamento delle decisioni adottate dagli organi amministrativi
della persona giuridica, l’esclusione o la sospensione temporanea dei poteri dei
membri dei suoi organi e la possibilità di obbligare la persona giuridica ad
intraprendere o meno talune azioni.
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
12. Dalla decisione di rinvio e dal fascicolo a disposizione della Corte risulta
che, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, i principali azionisti della
« Lietuvos dujos » AB (in prosieguo: la « Lietuvos dujos ») erano la E.ON
Ruhrgas International GmbH, società di diritto tedesco titolare del 38,91% del
capitale sociale, la Gazprom, che deteneva il 37,1% del capitale sociale, e lo Stato
lituano che ne deteneva il 17,7%.
13. Il 24 marzo 2004 la Gazprom ha concluso un patto fra azionisti (in
prosieguo: il « patto fra azionisti ») con la E.ON Ruhrgas International GmbH e lo
State Property Fund (Fondo dei beni dello Stato), che agiva per conto della
Lietuvos Respublika (Repubblica di Lituania), il quale è stato sostituito successivamente dalla Lietuvos Respublikos energetikos ministerija (Ministero per l’Energia della Repubblica di Lituania; in prosieguo: la « ministerija »). Tale patto fra
azionisti conteneva, all’articolo 7.14, una clausola compromissoria secondo cui
« [o]gni domanda, controversia o obiezione relativa al presente patto, o alla
violazione, alla validità, all’efficacia o alla risoluzione del medesimo, è sottoposta
ad arbitrato ».
14. Il 25 marzo 2011, la Lietuvos Respublika, rappresentata dalla ministerija, ha depositato dinanzi al Vilniaus apygardos teismas (tribunale regionale di
Vilnius) un ricorso in cui si chiedeva l’apertura di un’inchiesta sulle attività di una
persona giuridica.
15. Questo ricorso riguardava la Lietuvos dujos nonché il sig.
Valentukevičius, direttore generale della società, e i sigg. Golubev e Seleznev,
cittadini russi membri del suo consiglio di amministrazione, nominati dalla
Gazprom. Con il citato ricorso, la ministerija ha anche chiesto l’applicazione di
talune misure correttive previste dall’articolo 2.131 del codice civile lituano, se tale
inchiesta avesse stabilito che le attività della società stessa o delle persone citate
erano inappropriate.
16. Ritenendo che tale ricorso violasse la clausola compromissoria prevista
all’articolo 7.14 del patto fra azionisti, il 29 agosto 2011 la Gazprom ha presentato
presso l’istituto arbitrale della camera di commercio di Stoccolma una domanda di
arbitrato nei confronti della ministerija.
286
17. La Gazprom ha chiesto in particolare al collegio arbitrale costituito
dall’istituto arbitrale della camera di commercio di Stoccolma di ordinare alla
ministerija di porre fine all’esame della controversia pendente dinanzi al Vilniaus
apygardos teismas.
18. Con lodo del 31 luglio 2012, detto collegio arbitrale ha rilevato la
violazione parziale della clausola compromissoria contenuta nel patto fra azionisti
e ha ingiunto alla ministerija, in particolare, di ritirare o ridurre talune delle
domande presentate dinanzi a detto giudice (in prosieguo: il « lodo arbitrale del 31
luglio 2012 »).
19. Con ordinanza del 3 settembre 2012, il Vilniaus apygardos teismas ha
ordinato l’apertura di un’inchiesta sulle attività della Lietuvos dujos. Ha altresì
rilevato che la domanda di inchiesta sulle attività di una persona giuridica
rientrava nella propria competenza e in virtù del diritto lituano non poteva
costituire oggetto di arbitrato.
20. La Lietuvos dujos nonché i sigg. Valentukevičius, Golubev e Seleznev
hanno impugnato tale decisione dinanzi al Lietuvos apeliacinis teismas (Corte
d’appello della Lituania). Inoltre la Gazprom, nell’ambito di un altro procedimento, ha adito questo stesso giudice chiedendo il riconoscimento e l’esecuzione
in Lituania del lodo arbitrale del 31 luglio 2012.
21. Con una prima ordinanza del 17 dicembre 2012, il Lietuvos apeliacinis
teismas ha respinto quest’ultima domanda. Il giudice lituano ha ritenuto, da un
lato, che il collegio arbitrale che aveva emesso il citato lodo arbitrale non potesse
decidere su una questione già sollevata dinanzi al Vilniaus apygardos teismas ed
esaminata da quest’ultimo e, dall’altro lato, che, pronunciandosi su tale questione,
il collegio arbitrale non avesse rispettato l’articolo V, paragrafo 2, lettera a), della
convenzione concernente il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali
straniere conclusa a New York il 10 giugno 1958 (Recueil des traités des Nations
unies, vol. 330, pag. 3; in prosieguo la « convenzione di New York »).
22. Inoltre, il Lietuvos apeliacinis teismas ha rilevato che, con il lodo
arbitrale del 31 luglio 2012, di cui sono stati chiesti il riconoscimento e l’esecuzione, detto collegio arbitrale non solo ha limitato la capacità della ministerija di
agire dinanzi al giudice lituano per l’avvio di un’inchiesta sulle attività di una
persona giuridica, ma ha altresì negato a questo giudice nazionale il potere, di cui
dispone, di pronunciarsi sulla propria competenza. In tal modo, lo stesso collegio
arbitrale avrebbe violato la sovranità nazionale della Repubblica di Lituania, in
contrasto con l’ordine pubblico lituano e internazionale. Secondo il Lietuvos
apeliacinis teismas, il diniego di riconoscimento del lodo era fondato anche
sull’articolo V, paragrafo 2, lettera b), della citata convenzione.
23. Con una seconda ordinanza del 21 febbraio 2013, il Lietuvos apeliacinis
teismas ha respinto l’appello della Lietuvos dujos nonché dei sigg.
Valentukevičius, Golubev e Seleznev avverso la decisione del Vilniaus apygardos
teismas, del 3 settembre 2012, di avviare un’inchiesta sulle attività della Lietuvos
dujos. Ha inoltre confermato la competenza dei giudici lituani ad esaminare la
controversia.
24. Le due ordinanze della Lietuvos apeliacinis teismas, del 17 dicembre
2012 e del 21 febbraio 2013, sono state entrambe oggetto di ricorso per cassazione
dinanzi alla Lietuvos Aukščiausiasis Teismas (Corte suprema della Lituania).
Quest’ultima ha deciso, con ordinanza del 20 novembre 2013, di sospendere il
287
giudizio sul ricorso avverso la seconda di tali ordinanze, fino alla decisione del
ricorso concernente il riconoscimento e l’esecuzione del lodo arbitrale del 31 luglio
2012.
25. Il giudice del rinvio si chiede, alla luce della giurisprudenza della Corte
in materia e dell’articolo 71 del regolamento n. 44/2001, se il riconoscimento e
l’esecuzione del citato lodo arbitrale, da lui qualificato come « anti-suit injunction », possano essere negati in base al rilievo che, in seguito ad un tale riconoscimento e a una tale esecuzione, l’esercizio da parte di un giudice lituano del
potere di pronunciarsi sulla propria competenza a decidere della domanda di avvio
di un’inchiesta sulle attività di una persona giuridica risulterebbe limitato.
26. Alla luce di quanto sopra, il Lietuvos Aukščiausiasis Teismas ha deciso
di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le questioni pregiudiziali
che seguono:
« 1) Qualora un collegio arbitrale pronunci una “anti-suit injunction” che
vieta ad una parte di presentare determinate domande dinanzi ad un giudice di
uno Stato membro, il quale, ai sensi delle norme sulla competenza del regolamento
[n.44/2001], è competente a conoscere il merito della causa civile, se il giudice dello
Stato membro abbia il diritto di negare il riconoscimento di un simile lodo
arbitrale perché esso limita il diritto del giudice di pronunciarsi esso stesso sulla
propria competenza a conoscere della causa, ai sensi delle norme sulla competenza
del regolamento [n. 44/2001].
2) In caso di risposta affermativa alla prima questione, se ciò valga anche nel
caso in cui la “anti-suit injunction” pronunciata dal collegio arbitrale imponga ad
una parte del procedimento di limitare le sue domande in una causa pendente in
un altro Stato membro, sulla quale il giudice di quest’ultimo Stato membro è
competente ai sensi delle norme sulla competenza del regolamento n. 44/2001.
3) Se un giudice nazionale, che intenda garantire la prevalenza del diritto
dell’Unione europea e la piena applicazione del regolamento [n. 44/2001], possa
negare il riconoscimento del lodo di un organo arbitrale qualora esso limiti il
diritto del giudice nazionale di pronunciarsi sulla propria competenza e sui propri
poteri, in una causa che rientra nell’ambito di applicazione del regolamento [n.
44/2001] ».
Sulle questioni pregiudiziali
27. Con le sue questioni, che è opportuno esaminare congiuntamente, il
giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il regolamento n. 44/2001 debba essere
interpretato nel senso che osta a che il giudice di uno Stato membro riconosca ed
esegua, o a che detto giudice si rifiuti di riconoscere ed eseguire, un lodo arbitrale
che vieti ad una parte di proporre talune domande dinanzi ad un giudice di tale
Stato membro.
28. Occorre anzitutto precisare che detto regolamento, all’articolo 1, paragrafo 2, lettera d), esclude l’arbitrato dal proprio ambito di applicazione.
29. Per stabilire se una controversia rientri nell’ambito di applicazione del
regolamento n. 44/2001, deve essere preso in considerazione soltanto l’oggetto di
tale controversia (sentenza Rich, C-190/89, EU:C:1991:319, punto 26).
30. Per quanto concerne l’oggetto del procedimento principale, occorre
precisare che dalla decisione di rinvio si ricava che il Lietuvos Aukščiausiasis
288
Teismas è investito di un ricorso avverso l’ordinanza del Lietuvos apeliacinis
teismas che ha negato il riconoscimento e l’esecuzione del lodo arbitrale, qualificato dal giudice di rinvio come « anti-suit injunction », con cui un collegio arbitrale
ha ingiunto alla ministerija di ritirare o ridurre talune delle domande formulate
dinanzi ai giudici lituani. Parallelamente, il giudice del rinvio è anche investito di
un ricorso avverso un’ordinanza del Lietuvos apeliacinis teismas che ha confermato la decisione del Vilniaus apygardos teismas di avviare un’inchiesta sulle
attività della Lietuvos dujos, che, secondo il giudice del rinvio, rientra nella
materia civile ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 44/2001.
31. Secondo il giudice del rinvio, un lodo arbitrale che vieti ad una parte di
presentare talune domande dinanzi ad un giudice nazionale potrebbe pregiudicare
l’effetto utile del regolamento n. 44/2001, nel senso che potrebbe limitare l’esercizio, da parte di un tale giudice, del potere di pronunciarsi esso stesso sulla
propria competenza ad esaminare una controversia rientrante nell’ambito di
applicazione di detto regolamento.
32. A tal proposito, è opportuno ricordare che la Corte, nella sua sentenza
Allianz e Generali Assicurazioni Generali (C-185/07, EU:C:2009:69), ha ritenuto
che un provvedimento inibitorio emesso da parte di un giudice di uno Stato
membro che vieti ad una persona di ricorrere ad un procedimento diverso
dall’arbitrato nonché di continuare il procedimento dinanzi ad un giudice di un
altro Stato membro, competente ai sensi del regolamento n. 44/2001, è incompatibile con detto regolamento.
33. Infatti, un provvedimento inibitorio emesso da un giudice di uno Stato
membro che obblighi la parte di un arbitrato a non continuare un procedimento
dinanzi ad un giudice di un altro Stato membro non rispetta il principio generale
elaborato dalla giurisprudenza della Corte secondo cui ciascun giudice adito
accerta esso stesso, in forza delle disposizioni applicabili, la propria competenza a
pronunciarsi sulla controversia sottopostagli. Al riguardo si deve ricordare che il
regolamento n. 44/2001 non autorizza, salvo limitate eccezioni, il sindacato della
competenza di un giudice di uno Stato membro da parte di un giudice di un altro
Stato membro. Tale competenza è determinata direttamente dalle norme stabilite
da detto regolamento, tra cui quelle riguardanti il suo ambito di applicazione. Un
giudice di uno Stato membro non è quindi in nessun caso più qualificato a
pronunciarsi sulla competenza del giudice di un altro Stato membro (v. la sentenza
Allianz e Generali Assicurazioni Generali, C-185/07, EU:C:2009:69, punto 29).
34. In particolare, la Corte ha ritenuto che un ostacolo, attraverso un tale
provvedimento inibitorio, all’esercizio da parte di un giudice di uno Stato membro
dei poteri che lo stesso regolamento gli attribuisce vada in senso opposto alla
fiducia che gli Stati membri accordano reciprocamente ai loro sistemi giuridici e
alle loro istituzioni giudiziarie e possa impedire, al ricorrente che considerasse un
accordo arbitrale caduco, inoperante o inapplicabile, l’accesso al giudice nazionale
da lui nondimeno adito (v., in tal senso, sentenza Allianz e Generali Assicurazioni
Generali, C-185/07, EU:C:2009:69, punti 30 e 31).
35. Nella presente causa, tuttavia, il giudice del rinvio interroga la Corte non
sulla compatibilità con il regolamento n. 44/2001 di un tale provvedimento inibitorio emesso da un giudice di uno Stato membro, ma sulla compatibilità con tale
regolamento dell’eventuale riconoscimento ed esecuzione, da parte di un giudice
di uno Stato membro, di un lodo arbitrale che contenga un provvedimento
289
inibitorio che obbliga una parte di un procedimento arbitrale a ridurre la portata
delle domande formulate nell’ambito di un procedimento pendente dinanzi a un
giudice di questo stesso Stato membro.
36. A tal proposito, occorre innanzitutto ricordare che, come indicato al
punto 28 della presente sentenza, l’arbitrato non rientra nell’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001, il quale si limita a disciplinare i conflitti di
competenza tra gli organi giurisdizionali degli Stati membri. Poiché i collegi
arbitrali non sono organi giurisdizionali statali, non si configura, nel procedimento
principale, un tale conflitto ai sensi di detto regolamento.
37. In secondo luogo, riguardo al principio di reciproca fiducia, che gli Stati
membri accordano ai rispettivi sistemi giuridici e alle rispettive istituzioni giudiziarie, il quale si traduce nell’armonizzazione delle regole di competenza degli
organi giurisdizionali, sulla base del sistema stabilito dal regolamento n. 44/2001,
occorre rilevare che, nelle circostanze del procedimento principale, poiché il
provvedimento inibitorio è stato pronunciato da un collegio arbitrale, non si
configura una violazione di detto principio per l’ingerenza di un giudice di uno
Stato membro nella competenza di un giudice di un altro Stato membro.
38. Analogamente, in tali circostanze, il divieto emesso da un collegio
arbitrale e rivolto ad una parte di presentare talune domande dinanzi ad un giudice
di uno Stato membro non può privare questa parte della protezione giurisdizionale
cui si fa riferimento al punto 34 della presente sentenza, dato che, nell’ambito della
procedura di riconoscimento ed esecuzione di tale lodo arbitrale, da un lato, detta
parte potrebbe opporsi a questo riconoscimento e a questa esecuzione e, dall’altro,
il giudice adito dovrebbe determinare, sulla base del diritto processuale nazionale
e del diritto internazionale applicabili, se si debba o meno procedere al riconoscimento e all’esecuzione di tale lodo arbitrale.
39. Così, in dette circostanze, né il citato lodo arbitrale, né la decisione con
cui, se del caso, il giudice di uno Stato membro lo riconosce, sono idonei a
pregiudicare la reciproca fiducia tra i giudici dei diversi Stati membri su cui si
fonda il regolamento n. 44/2001.
40. Infine, a differenza del provvedimento inibitorio contestato nel procedimento che ha dato luogo alla sentenza Allianz e Generali Assicurazioni Generali
(C-185/07, EU:C:2009:69, punto 20), il mancato rispetto del lodo arbitrale del 31
luglio 2012 da parte della ministerija nell’ambito del procedimento relativo all’avvio di un’inchiesta sulle attività di una persona giuridica non comporta l’irrogazione, contro quest’ultima, di sanzioni da parte di un giudice di un altro Stato
membro. Ne consegue che gli effetti giuridici di un lodo arbitrale quale quello di
cui al procedimento principale si distinguono dagli effetti del provvedimento
inibitorio di cui al procedimento che ha dato luogo alla citata sentenza.
41. Pertanto, la procedura di riconoscimento ed esecuzione di un lodo
arbitrale quale quello di cui al procedimento principale è regolata dal diritto
nazionale e dal diritto internazionale applicabili nello Stato membro in cui tale
riconoscimento e tale esecuzione sono richiesti, e non dal regolamento n. 44/2001.
42. Nelle circostanze di cui al procedimento principale, quindi, l’eventuale
limitazione dei poteri attribuiti ad un giudice di uno Stato membro investito di una
controversia parallela di pronunciarsi sulla propria competenza potrebbe derivare
unicamente dal riconoscimento e dall’esecuzione da parte di un giudice dello
stesso Stato membro di un lodo arbitrale, come quello di cui al procedimento
290
principale, ai sensi del diritto processuale di tale Stato membro e, se del caso, della
convenzione di New York, che regolano questa materia esclusa dall’ambito di
applicazione del regolamento n. 44/2001.
43. Poiché la convenzione di New York disciplina un settore escluso dall’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001, essa non è relativa, segnatamente, ad una « materia particolare », ai sensi dell’articolo 71, paragrafo 1, di detto
regolamento. Infatti, l’articolo 71 di detto regolamento disciplina solamente i
rapporti tra lo stesso e le convenzioni relative alle materie particolari che rientrano
nell’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 (v., in tal senso, sentenza
TNT Express Nederland, C-533/08, EU:C:2010:243, punti 48 e 51).
44. Come emerge dall’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alle questioni sollevate dichiarando che il regolamento n. 44/2001 dev’essere interpretato nel senso che non osta a che il giudice di uno Stato membro
riconosca ed esegua, né a che si rifiuti di riconoscere ed eseguire, un lodo arbitrale
che vieti ad una parte di presentare talune domande dinanzi ad un giudice di tale
Stato membro, in quanto detto regolamento non disciplina il riconoscimento e
l’esecuzione, in uno Stato membro, di un lodo arbitrale emesso da un collegio
arbitrale in un altro Stato membro.
Volli, sempre volli, fortissimamente volli: la Corte di giustizia si pronuncia
sul caso Gazprom.
1. Nel procedimento pregiudiziale che ha dato origine alla sentenza
in epigrafe, la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulla
compatibilità con il sistema della cooperazione giudiziaria in materia
civile, rectius con il regolamento n. 44/2001, di un provvedimento inibitorio emesso da un collegio arbitrale nei confronti di una delle parti tenute
dalla convenzione di arbitrato, con il quale si ordinava di ridurre l’oggetto
di un procedimento pendente dinanzi al giudice di uno Stato membro,
segnatamente quello lituano. Ciò sul presupposto che si trattasse di un
comportamento lesivo del patto di arbitrato.
In precedenza, lo si ricorderà, la Corte era intervenuta due volte su
tematiche analoghe: dapprima nella causa Turner c. Grovit (1), nella quale
(1) Corte di giustizia, 27 aprile 2004, causa C-159/02 (ECLI:EU:C:2004:228I), Turner c.
Grovit, secondo cui è incompatibile con il sistema di Bruxelles l’emissione, da parte di un
giudice di uno Stato membro, di un provvedimento inibitorio diretto a vietare ad una persona
di iniziare o proseguire un procedimento dinanzi alle autorità giurisdizionali di altro Stato
membro. La Corte di giustizia era stata sollecitata a pronunciarsi in riferimento ad una
fattispecie in cui l’anti-suit injunction era stata utilizzata per impedire ad una parte di iniziare o
proseguire un processo dinanzi ad un’autorità giurisdizionale di altro Stato membro, in
pendenza di un giudizio inglese. La decisione è commentata (in maniera adesiva) da MERLIN, Le
anti-suit injunctions e la loro incompatibilità con il sistema processuale comunitario, in Int’l Lis,
2005, 14 ss. nonché in CONSOLO, DE CRISTOFARO, Il diritto processuale internazionale visto da Int’l
Lis dal 2002 ad oggi, Milano, 2006, 1174 ss.; ANDREWS, Abuse of process and obstructive tactics
under the Brussels jurisdictional system: Unresolved problems for the European authorities Erich
Gasser GmbH v MISAT srl Case C-116/02 (9 dicember 2003) and Turner v Grovit Case C-159/02
291
si era pronunciata nel senso dell’incompatibilità dell’istituto inglese delle
anti-suit injunctions emesse a tutela della giurisdizione con il sistema della
(all’epoca vigente) Convenzione di Bruxelles del 1968 e, quindi, nella
vicenda West Tankers (2). In questa seconda occasione, la Corte di giustizia, pur essendo l’arbitrato escluso dall’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001, ha reputato incompatibili con il c.d. effetto utile del
regolamento le anti-suit injunctions pronunciate dal giudice inglese a
protezione (non già di un procedimento giurisdizionale ma, invece) di un
arbitrato avente sede in tale Stato membro.
Due gli elementi che differenziano il caso Gazprom dalla vicenda
West Tankers e che, pertanto, hanno determinato la necessità di un nuovo
rinvio pregiudiziale:
1) nella vicenda Gazprom il provvedimento inibitorio non era stato
emesso da un’autorità giurisdizionale di altro Stato membro ma, viceversa,
da un tribunale arbitrale, costituito nel contesto di un arbitrato amministrato dalla camera arbitrale di Stoccolma (3);
(27 April 2004), in Zeitschrift für Gemeinschaftsprivatrecht, 2005, 8 ss.; DUTTA, HEINZ, Prozessführungsverbote im englischen und europäischen Zivilverfahrensrecht, in ZEuP, 2005, 428 ss.;
KRUGER, The Anti-Suit Injunction in the European Judicial Space: Turner v Grovit, in International and Comparative Law Quarterly, 2004, 570 ss.; RAUSCHER, Unzulässigkeit einer anti-suit
injunction unter Brüssel I, in IPRax, 2004, 405 ss.
(2) Corte di giustizia, 10 febbraio 2009, causa C-185/07 (ECLI:EU:C:2009:69), Allianz
s.p.a. e Generali assicurazioni s.p.a. c. West Tankers, in questa Rivista, 2009, 74 ss. con ns. nota,
La Corte di giustizia dichiara le anti-suit injunctions a tutela dell’arbitrato inglese incompatibili
con il sistema del reg. n. 44/2001; in Int’l Lis, 2009 123 ss. con nota di FRADEANI, Le anti-suit
injunctions, anche a “protezione” dell’arbitrato internazionale, tra incompatibilità con il sistema
processuale comunitario e riconoscimento quale legittimo rimedio a salvaguardia delle clausole di
deroga alla giurisdizione; in Riv. dir. proc., 2009, 971 ss. con nota di MERLIN, Proroghe pattizie
e principio di « pari autorità » nell’accertamento della competenza internazionale nel Reg. CE
44/2001; in Revue de l’arbitrage, 2009, 413 ss. con nota di BOLLÉE; in Rev. critique droit
international privé, 2009, 815 ss. con nota di MUIR WATT; in Journal du droit international
(Clunet), 2009, 1285 ss. con nota (senza titolo) di AUDIT; in Journal of international arbitration,
2009, 891 ss. con nota di GRIERSON, Comment on West Tankers Inc. v. RAS Riunione adriatica
di sicurta s.p.a. (The Front Comor) ed altresì commentata (senza pretesa di completezza) da
FENTIMAN, Arbitration and Antisuit Injunctions in Europe, in The Cambridge Law Journal, 2009,
278 ss.; ILLMER, Anti-suit injunctions zur Durchsetzung von Schiedsvereinbarung in Europa- der
letzte Vorhang ist gefallen, in IPRax, 2009, 312 ss.; MARONGIU BUONAIUTI, Emanazione di
provvedimenti inibitori a sostegno della competenza arbitrale e reciproca fiducia tra i sistemi
giurisdizionali degli Stati membri dell’Unione europea, in questa Rivista, 2009, 245 ss.; DUTTAHEINZ, Anti-suit injunctions zum Schutz von Schiedsvereinbarungen, in RIW, 2007, 411 ss.;
PERILLO, Arbitrato comunitario e anti-suit injunctions nella sentenza West Tankers della Corte di
giustizia, in Dir. comm. int., 2009, 351 ss. THERY, Aux frontières du règlement 44/2001: arbitrage,
injonction et confiance mutuelle, in Rev. trim. droit civil, 2009, 357 ss.
Nel caso de quo, come ricordato nel testo, la Corte di giustizia reputò incompatibile con
l’allora vigente regolamento n. 44/2001 l’emissione, da parte di un giudice di uno Stato membro,
di un provvedimento inibitorio diretto a vietare ad una persona di avviare o proseguire un
procedimento instaurato dinanzi ai giudici di un altro Stato membro, in violazione una
convenzione di arbitrato.
(3) Come noto, si controverte in dottrina in riferimento alla possibilità, per gli arbitri, di
pronunciare quelle che comunemente sono denominate anti-suit injunctions, rectius ordini
finalizzati ad inibire le parti dal cominciare o proseguire un procedimento giurisdizionale in
292
2) nella vicenda Gazprom l’inibitoria non era una anti-suit injunction
disciplinata dal diritto inglese, la cui caratteristica, come ricordato dalla
Corte di giustizia al punto 40 della sentenza in epigrafe, consiste:
spregio ad una convenzione di arbitrato (non necessariamente regolata dal diritto processuale
inglese ovvero di un ordinamento di common law che tale istituto contempli). In arg. si vedano,
ex multis, CLAVEL, Antisuit injunctions et arbitrage, in Rev. arb., 2001, 669 ss., spec. 699-700;
GAILLARD (a cura di), Anti-Suit Injunctions in International Arbitration, New York, 2005, 1 ss.;
spec. 237, il quale si pronuncia a favore di una siffatta potestas, ancorandola al potere degli
arbitri, previsto inter alia da molti regolamento arbitrali, di adottare le misure più appropriate
per garantire l’effettività del futuro lodo arbitrale; ID., Il est interdit d’interdire: réflexions sur
l’utilisation des anti-suit injunctions dans l’arbitrage commercial international, in Rev. arb., 2004,
47 ss.; LÉVY, Anti-Suit Injunctions Issued by Arbitrators, in GAILLARD (a cura di), Anti-Suit
Injunctions in International Arbitration, cit., 115 ss.; SERIKI, Injunctive Relief and International
Arbitration, New York, 2015, 81 ss, e, da ultimo, VISHENEVSKAYA, Anti-suit Injunctions from
Arbitral Tribunals in International Commercial Arbitration: A Necessary Evil?, in Journal of
International Arbitration, 2015, 173 ss., spec. 175 ss., ove si afferma che il potere degli arbitri di
pronunciare una simile injunction si deve basare sull’accordo diretto delle parti (segnatamente,
l’accordo deve contemplare la facoltà, per gli arbitri, di pronunciare interim measures), oppure
mediato, i.e. tramite adesione delle medesime ad un regolamento arbitrale che consenta agli
arbitri di pronunciare misure provvisorie a garanzia dell’effettività dell’arbitrato, e, in via
residuale, sulla legge processuale applicabile, la quale assumerà un rilievo decisivo soprattutto
nel caso in cui una delle parti non si adegui spontaneamente all’order. A fronte di siffatta
eventualità, segnatamente, occorrerà valutare se l’ordinamento in cui ha sede l’arbitrato
preveda, per tale fattispecie, degli strumenti di coazione applicabili anche ove si tratti di
provvedimenti pronunciati non già dall’autorità giurisdizionale ma, piuttosto, dall’arbitro.
Nei paesi che hanno conformato la propria normativa sull’arbitrato all’UNCITRAL
Model Law, la possibilità, per gli arbitri, di pronunciare provvedimenti inibitori sussiste ai sensi
dell’art. 26 della versione 2010 delle Rules (in precedenza, art. 17), nella parte in cui si consente
al tribunale arbitrale di ordinare ad una delle parti « to take action that would prevent, or refrain
from taking action that is likely to cause.....prejudice to the arbitral process itself ». In proposito
v. BINDER, Analytical Commentary to the UNCITRAL Arbitration Rules, London, 2013, 241 ss.
Ove, invece, non sia consentita la possibilità di pronunciare siffatti orders, ovvero quando
l’inibitoria sia stata pronunciata ma non sia stata osservata dalla parte o dalle parti destinatarie,
a seconda della legge che regola l’arbitrato, si potrà fare impiego di un ulteriore strumento a
tutela dell’operatività della convenzione di arbitrato conosciuto, ad esempio, dall’ordinamento
inglese (e tuttavia meno efficace poiché trattasi di rimedio esperibile ex post, a convenzione già
violata), il quale consiste nel concedere tutela risarcitoria (da parte dell’arbitro o del giudice)
nell’ipotesi in cui una delle parti adisca l’autorità giurisdizionale in spregio all’accordo arbitrale:
sul tema v. DUTSON, Breach of an Arbitration or Exclusive Jurisdiction Clause: The Legal
Remedies it if Continues, in Arbitration International, 2000, 89 ss. e, da noi, C. GAMBINO, La
legittimità delle azioni risarcitorie per violazione di clausole compromissorie dopo la giurisprudenza West Tankers, in Riv. dir. int. priv. proc., 2010, 949 ss. In tema v. anche la nota 87 delle
conclusioni dell’avv. gen. WATHELET, presentate il 4 dicembre 2014, ove si reputa compatibile
con il sistema di Bruxelles la facoltà di un arbitro o di un giudice statale di condannare, su
richiesta della controparte, il soggetto che ha instaurato un procedimento dinanzi al giudice in
violazione dell’accordo compromissorio al risarcimento dei danni per un importo « pari alle
somme alle quali avrebbe eventualmente condannato la parte lesa », argomentando dal fatto
che ciò è quanto si verifica nell’ordinamento inglese. L’avv. gen. cita, a sostegno della propria
posizione, anche il considerando M della risoluzione del Parlamento europeo del 7 settembre
2010 sull’attuazione e la revisione del regolamento n. 44/2001 il quale auspicava che continuassero ad essere disponibili « i vari meccanismi processuali nazionali sviluppati per tutelare la
giurisdizione arbitrale (« anti-suit injunctions » nella misura in cui sono conformi alla libera
circolazione delle persone e ai diritti fondamentali, dichiarazioni di validità di una clausola
compromissoria, concessione di risarcimenti del danno per violazione di clausole compromissorie, effetto negativo del principio « Kompetenz-Kompetenz », ecc.) ».
293
i) per un verso, nel fatto di essere destinata alle parti del procedimento straniero, comunque soggette (anche) alla giurisdizione inglese;
ii) per altro verso, nel fatto che la sua effettività è garantita dalla
sanzione, parimenti emessa dal giudice anglosassone, del contempt of
court (4).
Segnatamente, nel caso di specie l’inibitoria arbitrale (almeno così
risulta dal testo della sentenza in epigrafe) era rivolta al Ministero dell’energia lituano, parte del procedimento arbitrale, ma non era assistita
dalla possibilità di ottenere un provvedimento giurisdizionale coercitivo
emesso da un giudice di altro Stato membro e finalizzato a garantirne
l’attuazione (5).
In altri termini, l’attuazione dell’inibitoria restava rimessa alla libera
volontà della parte destinataria, ossia, come ricordato, il Ministero dell’energia lituano. Tuttavia, essendo tale parte quella che aveva instaurato
il procedimento giurisdizionale, in mancanza di una efficace sanzione per
il suo inadempimento, un suo volontario abbandono del giudizio lituano
(rectius come richiesto dal lodo, almeno una riduzione dell’oggetto della
controversia in tale sede proposta) era difficilmente immaginabile. Ciò
induce conseguentemente a chiedersi perché Gazprom abbia ciononostante insistito per l’ottenimento di un siffatto dictum.
Invero, come risulta dal testo del lodo arbitrale emesso il 31 luglio
2012 (6) in primis la Gazprom, in data 13 giugno 2011, aveva iniziato un
expedited arbitration finalizzato ad ottenere che l’emergency arbitrator,
individuato nella persona del prof. van den Berg, ordinasse al Ministero
In Italia, un tentativo in siffatta direzione è stato compiuto da Trib. Verona, 22 novembre
2012, www.altalex.it., il quale ha condannato per lite temeraria l’attore che aveva agito in
giudizio in violazione di un patto compromissorio.
(4) In proposito cfr. il punto 14 delle Conclusioni dell’avv. gen. KOKOTT nella causa West
Tankers presentate il 4 settembre 2008 (ww.curia.europa.eu, ricerca per numero di causa)
nonché il punto 65 delle Conclusioni dell’avv. gen. WATHELET nella causa Gazprom presentate
il 4 dicembre 2014.
(5) Come nota LAYTON, Anti-arbitration Injunctions and Anti-suit Injunctions: An AngloEuropean Perspective, in F. FERRARI (a cura di), Forum Shopping in the International Commercial Arbitration Context, Munich, 2013, 131 ss., spec. 144 « of course, an arbitrator’s anti-suit
award will only have contractual force and hence will not have the same teeth as a court
injunction, which can be enforced by processes of contempt ». L’A. si domanda altresì —
ponendosi un quesito che il Ministero dell’energia lituano non aveva formulato nella vicenda in
esame e che il giudice evidentemente non aveva ritenuto di sollevare d’ufficio — se un siffatto
interim award sia riconoscibile ai sensi della Convenzione di New York del 1958, rispondendo
che un tale lodo « is probably non enforceable under the New York Convention ».
La circostanza per cui l’attuazione dei provvedimenti inibitori emessi dal tribunale
arbitrale è in buona sostanza rimessa alla volontà delle parti, anche ove si applichi la legge
modello dell’Uncitral, a meno che l’ordinamento della sede dell’arbitrato non consenta al
giudice statale di intervenire per favorire l’attuazione della misura arbitrale sanzionare era stata
messa in luce anche da BINDER, International Commercial Arbitration and Conciliation in
UNCITRAL Model Law Jurisdictions, 3 Ed., London, 2010, 236 ss.
(6) Disponibile all’indirizzo web: http://globalarbitrationreview.com/cdn/files/gar/articles/Gazprom_v_Lithuania_Final_Award.pdf.
294
dell’energia lituano (7) « to (i) move for a stay of the Initial Claim pending
the rendering of a final award by the tribunal to be constituted pursuant to
the SCC Rules to hear the present dispute, and (ii) refrain from any further
actions before the Vilnius court or any State court in relation to the dispute
described above pending the rendering of a final award by the tribunal to be
constituted pursuant to the SCC Rules ».
Si sarà peraltro notato che, pur essendo l’inglese la lingua del procedimento, non viene mai utilizzata l’espressione anti-suit injunction benché
essa sia convenzionalmente impiegata, anche dalla dottrina, in riferimento
all’arbitrato internazionale. Nel contesto dell’arbitrato internazionale,
segnatamente, il sostantivo è utilizzato per denominare il potere dell’arbitro di inibire alle parti l’instaurazione o la prosecuzione di un procedimento giurisdizionale, in maniera cioè svincolata dal necessario riferimento al diritto processuale inglese ovvero al diritto processuale di un
ordinamento di common law che tale istituto contempli (ad esempio: Stati
Uniti, Canada, Australia).
Nel caso in esame, l’emergency arbitrator aveva rigettato la richiesta
della Gazprom a motivo della carenza del requisito dell’urgenza (« mainly
in the light of the lack of urgency »), osservando tuttavia che la società
russa aveva, a suo giudizio, una « reasonable possibility of success on the
merits ».
Successivamente, il 29 agosto 2011, la Gazprom aveva proposto una
domanda di arbitrato, dinanzi alla medesima camera, da svolgersi ai sensi
delle SCC Arbitration Rules (regolamento dell’Arbitration Institute della
Camera di commercio di Stoccolma). La legge applicabile al merito della
controversia era quella lituana. Tale legge disciplinava anche la validità
della clausola compromissoria. Su tale punto, del resto, non era mai sorta
controversia tra le parti.
Nel corso del procedimento arbitrale la Gazprom aveva rinnovato la
richiesta finalizzata ad ottenere un provvedimento arbitrale che ordinasse
al Ministero dell’energia lituano di rinunciare agli atti del provvedimento
giurisdizionale pendente in Lituania.
La Gazprom sosteneva che il collegio arbitrale aveva il potere di
emettere una siffatta inibitoria, la quale sarebbe stata the « most appropriate remedy in the event of a breach of arbitration agreement » ed
invocava a sostegno della propria tesi la prassi, in tal senso orientata, degli
(7) Pare opportuno precisare che il Ministero dell’energia lituano, che agiva per conto
della Repubblica lituana era anch’esso vincolato alla convenzione di arbitrato (la quale, come
noto, riguardava tutti gli azionisti della Lietuvos dujos AB) in ragione del fatto che la
Repubblica lituana deteneva un pacchetto di azioni di tale società. Non a caso al punto 81 della
motivazione del lodo del 31 luglio 2012 si trova scritto che « it is undisputed that Gazprom and
the Ministry are bound by an arbitration agreement ».
295
arbitrati ICSID. In particolare, era citato il provvedimento inibitorio
contenuto nel lodo ICSID emesso nel caso ATA v. Jordan (8).
In effetti, nel lodo del 31 luglio 2012 il Tribunale arbitrale, constatato
che il Ministero dell’energia non aveva contestato il potere degli arbitri di
emanare provvedimenti inibitori, e dopo aver dichiarato che la sua iniziativa di instaurare e coltivare un procedimento giurisdizionale in Lituania
parzialmente costitutiva una violazione dell’accordo compromissorio
(« was partially in breach of the arbitration agreement »), aveva ordinato al
medesimo « to withdraw its requests under points 1.1., 1.3 and 1.4 of its
Revisited Claim, dated December 9, 2011 and to limit its request under point
1.6 of such Revisited Claim to measures that would no jeopardize the rights
and the obligations established in the SHA ».
Il sostantivo anti-suit injunction non ricorre nel lodo arbitrale. Esso è
utilizzato, per la prima volta, dal giudice di vertice lituano al momento in
cui si è trattato di formulare il quesito interpretativo da sottoporre alla
Corte di giustizia. Il giudice a quo, a sua volta, lo ha preso a prestito dalle
difese del Ministero dell’energia, il quale aveva per l’appunto sostenuto
che tale lodo si sostanziava in una anti-suit injunction.
L’espressione « anti-suit injunction » è stata quindi ripresa dall’avvocato generale Wathelet nelle sue conclusioni presentate il 4 dicembre
2014 (9).
La Corte di giustizia, invece, più propriamente (analogamente a
quanto aveva fatto nelle sentenze Turner e West Tanker, nel cui dispositivo, sia nella versione italiana che in quella inglese, non compare l’espressione anti-suit injunction) si esprime in termini di « lodo arbitrale che vieti
ad una parte di presentare talune domande dinanzi ad un giudice » di uno
Stato membro (anche nella versione inglese: « an arbitral award prohibi(8) Nella vicenda de qua, con lodo del 18 maggio 2010 (ICSID Case No. ARB/08/2) il
tribunale arbitrale aveva ordinato « that the ongoing Jordanian court proceedings in relation to
the Dike No. 19 dispute be immediately and unconditionally terminated, with no possibility to
engage further judicial proceedings in Jordan or elsewhere on the substance of the dispute ».
Segnatamente, nel contesto dell’arbitrato ICSID la possibilità di emanare injunctions è
fatta derivare dalla possibilità, per il tribunale, di concedere interim measures finalizzate ad
assicurare l’effettività dell’arbitrato. In proposito v. KERAMEUS, Anti-suit Injunctions in ICSID
Arbitration, in GAILLARD (a cura di), Anti-suit Injunctions in International Arbitration, cit., 136
ss.; SERIKI, op. cit., 81 ss. nonché l’opinione critica di BACHAND, The UNCITRAL Model Law’s
Take on Anti-Suit Injunctions, ivi, 101 ss., spec. 102, nota n. 32.
(9) L’avv. gen., tuttavia, si era domandato se si vertesse effettivamente in presenza di una
anti-suit injunction (ivi, punti 62 ss.), tale e quale a quelle conosciute dalla common law. Dopo
aver condiviso le affermazioni del governo francese, il quale aveva osservato che, a differenza
delle anti-suit injunctions il lodo in questione, nell’ipotesi di una sua inosservanza, non avrebbe
comportato l’applicazione di alcuna misura coercitiva, né da parte degli arbitri, né da parte del
giudice svedese (luogo della sede dell’arbitrato), l’avv. gen. aveva sostenuto che, essendo il
provvedimento inibitorio pronunciato dagli arbitri potenzialmente idoneo a distogliere il
Ministero dell’energia lituano dal proseguire la causa dinanzi all’autorità giurisdizionale, esso
risultava in linea di principio in grado di pregiudicare l’effetto utile del regolamento n. 44/2001,
analogamente alle anti-suit injunctions inglese prese ad esame nella vicenda West Tankers.
296
ting a party from bringing certain claims before a court of that Member
State »), sottolineando, anche a mo’ di distinguishing, che gli effetti del
lodo arbitrale emesso a Stoccolma si differenziano da quelli della anti-suit
injunction inglese, a cui faceva riferimento la pronuncia West Tankers, per
le ragioni in precedenza indicate sub 2ii) ed, in particolare, per il fatto di
non essere (almeno nel caso di specie) la sua inosservanza accompagnabile
da una misura coercitiva emessa da un’autorità giurisdizionale di altro
Stato membro, quale il contempt of court.
2. Nella vicenda in esame, il rinvio pregiudiziale interpretativo che
ha dato origine alla decisione della Corte di giustizia era stato effettuato
dalla Corte di vertice lituana nel corso del procedimento finalizzato
all’ottenimento del riconoscimento e della esecuzione del lodo in Lituania
ai sensi della Convenzione di New York del 1958.
La domanda di riconoscimento ed esecuzione del lodo era stata
rigettata in prime cure vuoi ai sensi dell’art. V, paragrafo 2, lettera a, di
detta Convenzione (10), ossia perché il patto compromissorio risultava
essere invalido per la legge lituana, vertendo su materia non compromettibile (ciò, sebbene il tribunale arbitrale di Stoccolma, parimenti applicando al merito della controversia la legge lituana, fosse giunto ad opposta
conclusione), vuoi ai sensi dell’art. V, paragrafo 2, lettera b, della Convenzione, in quanto il lodo era stato reputato contrario all’ordine pubblico
lituano, per via del fatto che esso (indirettamente) negava la competenza
dei giudici lituani e, con essa, il principio dell’indipendenza delle autorità
giudiziarie.
Nel giudizio di legittimità, instaurato a seguito della proposizione di
un’impugnazione da parte di Gazprom, il Ministero dell’energia lituano
aveva equiparato il lodo emesso a Stoccolma ad una anti-suit injunction e
sosteneva che, perciò, il suo riconoscimento e la sua esecuzione sarebbero
risultati contrari al regolamento n. 44/2001 perché idonei a limitare il
diritto del giudice lituano a pronunciarsi sulla propria competenza e,
conseguentemente, a decidere la causa. Su questo punto veniva effettuato
il rinvio pregiudiziale. Le questioni sottoposte all’attenzione della Corte di
giustizia erano le seguenti tre:
1) quando un collegio arbitrale pronunci una anti-suit injunction che
vieta ad una parte di presentare determinate domande dinanzi ad un
giudice di uno Stato membro, il quale, ai sensi delle norme del regolamento n. 44/2001 è competente a conoscere il merito della causa civile, se
il giudice dello Stato membro abbia il diritto di negare il riconoscimento
di un simile lodo perché esso limita il diritto del giudice di pronunciarsi
(10) A cui commento v., per tutti, NACIMIENTO, in KRONKE, OTTO, PORT, Recognition and
Enforcement of Foreign Arbitral Awards, Alphen aan den Rijn, 2010, 205 ss.
297
esso stesso sulla propria competenza a conoscere della causa, ai sensi delle
norme sulla competenza del regolamento;
2) in caso di risposta affermativa alla prima questione, se ciò valga
anche nel caso in cui la anti-suit injunction pronunciata dal collegio
arbitrale imponga ad una parte del procedimento di limitare le sue
domande in una causa pendente in un altro Stato membro, sulla quale il
giudice di quest’ultimo Stato è competente ai sensi delle norme del
regolamento n. 44/2001;
3) se un giudice nazionale, che intenda garantire la prevalenza del
diritto dell’Unione europea, possa negare il riconoscimento del lodo di un
organo arbitrale, qualora esso limiti il diritto del giudice nazionale di
pronunciarsi sulla propria competenza e sui propri poteri, in una causa che
rientra nell’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001.
In considerazione del tenore dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE, che limita l’operatività del rinvio pregiudiziale interpretativo alle fattispecie in cui dinanzi al giudice nazionale occorra applicare
delle norme di diritto (nel caso di specie processuale) dell’Unione europea, il primo problema che si poneva nella vicenda in esame era quello
della ricevibilità del rinvio pregiudiziale.
La questione si presentava in quanto il riconoscimento e l’esecuzione
del lodo in Lituania sarebbero dovuti avvenire esclusivamente ai sensi
della Convenzione di New York del 1958, e non già in base ad un atto
normativo dell’Unione europea. Il giudice lituano, dunque, da questo
punto di vista, nel corso del procedimento dinanzi a lui pendente, non si
trovava nella necessità di applicare una normativa europea, sul cui contenuto nutriva dubbi interpretativi.
A dire il vero, come ricorda l’avvocato generale Wathelet nelle sue
conclusioni (11), il giudice di rinvio riteneva che il suo quesito rientrasse
nell’ambito di operatività dell’art 267 del Trattato sul funzionamento
dell’UE in considerazione del fatto che, a suo avviso, si sarebbero dovuti
applicare congiuntamente sia la Convenzione di New York del 1958 che il
regolamento n. 44/2001, in particolare l’art. 71, par. 2, 2º comma. Tale
norma prevede(va) che « se una convenzione relativa ad una materia
particolare di cui sono parti lo Stato membro di origine e lo Stato membro
richiesto determina le condizioni del riconoscimento e dell’esecuzione
delle decisioni, si applicano tali condizioni ».
Trattavasi, però, di una erronea convinzione posto che, come prontamente sostenuto dal governo tedesco e da quello svizzero, e come
ribadito dalla Corte di giustizia (12), la previsione di cui all’art. 71 del
regolamento n. 44/2001 si riferisce alle fattispecie in cui esiste una con(11) Punto 70 e ss.
(12) Sia nella sentenza in epigrafe che nella decisione 4 maggio 2010, causa C-533/08
(ECLI:EU:C:2010:243), TNT Express Nederland, punti 48 e 51 della motivazione.
298
venzione bilaterale che disciplina il riconoscimento e l’esecuzione di
decisioni suscettibili di circolare (anche) ai sensi del regolamento n.
44/2001 (per le controversie instaurate a partire dal 10 gennaio 2015: ai
sensi del regolamento n. 1215/2012). Il che non accadeva nel caso di
specie, considerato che la circolazione dei lodi arbitrali è pacificamente
esclusa sia dall’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 che da
quello del regolamento n. 1215/2012.
Ciononostante, benché non si trattasse di una controversia in cui
avrebbe dovuto applicarsi il regolamento n. 44/2001, e dunque, benché a
rigore non fossero propriamente integrati gli estremi dell’art. 267 del
Trattato sul funzionamento dell’UE, la Corte di giustizia ha deciso egualmente di rispondere al quesito interpretativo sottopostole (13).
Verosimilmente, la Corte ha scelto di rispondere alla questione
interpretativa per via del c.d. effetto utile del regolamento n. 44/2001. In
altri termini: poiché la giurisdizione del giudice lituano per la decisione
della controversia instaurata nei confronti della Lietuvos dujos AB e dei
due membri del consiglio di amministrazione nominati dalla Gazprom
(questi ultimi domiciliati nella Federazione Russa) era fondata, rispettivamente, sugli artt. 2 e 4 del regolamento n. 44/2001, vi era l’ipotetico
rischio che il riconoscimento del lodo finisse per compromettere — sia
pure indirettamente — la giurisdizione del giudice lituano, anche se
l’inibitoria arbitrale non poteva contare su misure coercitive (emesse da
un’autorità giurisdizionale di altro Stato membro) in grado di assicurarne
l’effettività ma soltanto sulla sua spontanea attuazione da parte del
Ministero dell’energia. Si trattava, mutatis mutandis, di una situazione in
cui, in linea di principio (ma molto meno da un punto di vista « concreto »)
avrebbe potuto essere messo a repentaglio quel medesimo effetto utile del
regolamento che, nella vicenda West Tankers, aveva indotto i giudici del
Lussemburgo a considerare contrarie al sistema di Bruxelles le anti-suit
injunctions a tutela dell’arbitrato.
3. Nelle proprie conclusioni, l’avv. gen. Wathelet ha tentato di
superare la lettura che dei rapporti tra anti-suit injunctions a tutela
(13) L’avv. gen. WATHELET, ai punti 58-61 delle proprie conclusioni, si poneva anche un
problema di mancata integrazione di un ulteriore requisito a cui costantemente la Corte di
giustizia subordina la ricevibilità nel merito della richiesta di pronuncia interpretativa, ossia la
concreta rilevanza del quesito ai fini della decisione della causa nazionale. In arg. per tutti v.
BRIGUGLIO, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova, 1996, 43 ss. e, si vis, D’ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2012,
spec. 37 ss. Il problema era in effetti sussistente posto che, a prescindere dalla soluzione data al
quesito, ad avviso delle autorità giurisdizionali lituane il lodo sarebbe stato comunque irriconoscibile per integrazione del requisito ostativo di cui all’art. V, paragrafo 2, lett. a, della
Convenzione di New York. Anche questo aspetto, che avrebbe potuto condurre ad una
irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, non è stato preso in considerazione dalla
Corte di giustizia.
299
dell’arbitrato e spazio giudiziario europeo ha dato la pronuncia West
Tankers, in considerazione delle critiche avanzate nei confronti di tale
dictum da parte della dottrina, in specie quella inglese.
L’apprezzabile tentativo esegetico ispirato ad un favor arbitrati posto
in essere dall’avv. gen. Wathelet fa leva sul sopraggiunto testo del regolamento n. 1215/2012 (non applicabile ratione temporis alla vicenda de
qua) il quale, pur escludendo l’arbitrato dal suo ambito di applicazione,
senza soluzione di continuità rispetto alla Convenzione di Bruxelles e al
regolamento n. 44/2001, per un verso precisa — al suo art. 73, par. 2, — che
il regolamento n. 1215/2015 lascia impregiudicata l’operatività della Convenzione di New York del 1958 e, per altro verso, al suo considerando n.
12, prevede che la decisione dell’autorità giurisdizionale di uno Stato
membro relativa alla nullità, inoperatività o inapplicabilità di una convenzione arbitrale non dovrebbe essere assoggettata alle disposizioni del
regolamento n. 1215/2012 (14).
Secondo l’avv. gen. tale ultimo inciso sta a significare che « fatta salva
la nullità o inapplicabilità manifesta della convenzione arbitrale, le parti
debbono essere tenute a rispettarla » e debbono essere pertanto rinviate
davanti al tribunale arbitrale (arg. ex art. II, par. 3, Convenzione di New
York).
In base a tale argomentazione, Wathelet afferma che sia le autorità
(14) Circa i rapporti tra l’arbitrato e il regolamento n. 1215/2012 alla luce del considerando n. 12, il cui significato non appare propriamente chiaro, in dottrina v. BERTOLI, Arbitration, the Brussels I recast and the need for european arbitration law, in Dir. un. eur., 2014, 81 ss.;
BOLLÉE, L’arbitrage et le nouveau réglement Bruxelles I, in Revue de l’arbitrage, 2013, 979 ss.;
CAMILLERI, Recital 12 of the Recast Regulation: a new hope?, in International and Comparative
Law Quarterly, 2013, 899 ss.; CARBONE, Gli accordi di proroga della giurisdizione e le convenzioni arbitrali nella nuova disciplina del regolamento (UE) 121572012, in Dir. comm. int., 2013,
651 ss.; CARDUCCI, The New EU Regulation 1215/2012 of 12 December 2012 on Jurisdiction and
International Arbitration, in Arbitration International, 2013, 467 ss.; CELLERINO, LA MATTINA,
L’arbitrato e il nuovo regolamento (UE) 1215/2012: vecchie questioni e nuovi problemi aperti, in
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Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 245 ss.; FERNÁNDEZ ROZAS, El
Reglamento Bruselas I revisado y el arbitraje: crónica de un desencuentro, in La Ley Unión
Europea, 2013, 5 ss.; HARTLEY, The Brussels I Regulation and Arbitration, in International and
Comparative Law Quarterly, 2014, 1 ss.; HAUSER, Brüssel I-VO reloaded: Torpedoschutz für
Schiedsverfahren?, in Ecolex, 2013, 526 ss.; IZZO, L’arbitrato nello spazio giuridico europeo alla
luce del regolamento (UE) n. 1215/2012, in Giusto proc. civ., 2014, 879 ss.; LEFÈVRE, VAN DER
HAEGEN, Arbitration and Brussels I Regulation: before and after West Tankers, in Hommage à
Guy Keutgen pour son action de promotion de l’arbitrage, a cura di FLAMÉE e LAMBRECHT,
Bruylant, 2012, 285-302; MALATESTA, Il nuovo regolamento Bruxelles I-bis e l’arbitrato: verso un
ampliamento dell’arbitration exclusion, in Riv. dir. int. priv. proc., 2014, 5 ss.; RASIA, Il nuovo
regolamento UE n. 1215 del 2012 e l’arbitrato: A storm in a teacup, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2014, 193 ss.; SALERNO, Il coordinamento tra arbitrato e giustizia civile nel regolamento (UE) n.
1215/2012, in Riv. dir. int., 2013, 1146 ss.; R. TREVES, Post West Tankers Strategies and the
Brussels I Recast, in Dir. comm. int., 2014, 65 ss.; ZARRA, Il ricorso alle anti-suit injunctions per
risolvere i conflitti internazionali di giurisdizione e il ruolo dell’international comity”, in Riv. dir.
int. priv. proc., 2014, 561 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, Giudice italiano ed exceptio compromissi
per arbitrato estero, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 741 ss.
300
giurisdizionali, nella loro qualità di giudici di sostegno all’arbitrato, sia gli
arbitri, possono pronunciare anti-suit injunctions, in quanto trattasi di
misure finalizzate a garantire il rispetto della convenzione di arbitrato.
Senza che a ciò ostino le norme sulla cooperazione giudiziaria in materia
civile.
Inoltre, secondo l’avv. gen., quando le misure inibitorie siano pronunciate nel contesto di un arbitrato, un ulteriore argomento a sostegno della
conclusione de qua è costituito dal fatto che gli arbitri non possono essere
vincolati al principio della reciproca fiducia sancito dal regolamento (in
passato dal regolamento n. 44/2001, attualmente dal regolamento n. 1215/
2012), posto che quest’ultimo riguarda unicamente le autorità giurisdizionali.
Per Wathelet, insomma, il testo del regolamento n. 44/2001 avrebbe
dovuto essere applicato al caso di specie ma alla luce delle novità contenute nel regolamento n. 1215/2012.
La Corte di giustizia, però, non ha ritenuto di fare propria questa
interpretazione pro arbitrato che si sarebbe sostanziata in un revirement
rispetto alla decisione West Tankers e, timidamente, ha preferito risolvere
il quesito interpretativo in modo più semplice, ossia:
— per un verso, valorizzando le differenze sussistenti tra la vicenda
West Tankers e quella Gazprom (supra, § 1), in primis la mancanza di un
provvedimento coercitivo emesso dal giudice di un altro Stato membro a
sostegno dell’inibitoria pronunciata dagli arbitri, il quale avrebbe (verosimilmente) indirettamente inciso sulla potestas decidendi delle autorità
giurisdizionali lituane;
— per altro verso, valorizzando la circostanza per cui il lodo arbitrale
reso a Stoccolma, non era concretamente idoneo a limitare la possibilità di
conoscere la causa da parte del giudice lituano e non soltanto per mancanza di strumenti coercitivi finalizzati a rendere effettiva l’inibitoria ma
anche perché il lodo, per sortire un siffatto risultato (15), avrebbe dovuto
essere in primo luogo dichiarato produttivo di effetti in Lituania.
Come già segnalato, il riconoscimento e l’esecuzione in territorio
lituano del lodo emanato dalla camera arbitrale di Stoccolma, risultano
subordinati alla mancata integrazione di alcuno dei requisiti ostativi di cui
all’art. V della Convenzione di New York del 1958.
Nel caso di specie, è ragionevole ritenere che la corte di legittimità
lituana, davanti alla quale proseguirà il giudizio di riconoscimento ed
esecuzione del lodo, confermerà la precedente pronuncia di diniego di
efficacia, a tacer d’altro a causa dell’integrazione del requisito di cui all’art.
V, paragrafo 2, lettera a, di detta Convenzione, ossia per invalidità del
(15) La sentenza in epigrafe, al punto 42, fa riferimento alla esecuzione del lodo da parte
del giudice. Più propriamente si tratterebbe, invece, di una esecuzione del lodo ad opera delle
parti destinatarie del medesimo.
301
patto compromissorio, in quanto relativo a materia non compromettibile
ai sensi legge lituana. Non a caso, proprio in considerazione di questo
aspetto, l’avv. gen. Wathelet aveva espresso dubbi a proposito della
concreta rilevanza nel giudizio a quo del quesito interpretativo sottoposto
alla Corte di giustizia.
È in base a questi due argomenti che i giudici del Lussemburgo sono
giunti alla condivisibile conclusione per cui il riconoscimento di un siffatto
lodo è questione indifferente al sistema della cooperazione giudiziaria in
materia civile, in quanto totalmente riservata alla Convenzione di New
York del 1958. Gli arbitri, cioè, non sono tenuti a rispettare il principio
della reciproca fiducia contenuto, ad oggi, nel regolamento n. 1215/2012,
inapplicabile alla fattispecie de qua (16).
La risultante è che, nella vicenda in esame, non soltanto il giudice
lituano non doveva (ne dovrà) applicare alcuna disposizione di diritto
dell’Unione europea al fine di decidere il giudizio sul riconoscimento e
l’esecuzione del lodo reso a favore di Gazprom in Lituania ma, in
concreto, non doveva né dovrà neppure avere a che fare con il c.d. effetto
utile su cui si fondava la pronuncia West Tankers.
Ex post, pertanto, non si può che constatare che si verte totalmente al
di fuori dell’ambito di operatività dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE.
4. La conclusione a cui giunge la Corte di giustizia in riferimento alla
peculiare fattispecie de qua è condivisibile, a prescindere dai dubbi che
suscitava la quaestio dal punto di vista della sua ricevibilità e alla riscontrata mancata volontà di prendere posizione circa il modo con cui l’avv.
gen. aveva ricostruito i rapporti tra arbitrato e sistema della cooperazione
giudiziaria in materia civile. Non v’è dubbio che la vicenda che ha dato
origine al rinvio pregiudiziale si differenziasse dal caso West Tankers e,
dunque, giustificasse un distinguishing. Si ha però la sensazione che se non
la Corte di giustizia, quantomeno l’avv. gen. Wathelet fosse consapevole
del fatto che qualcos’altro è cambiato rispetto al momento storico in cui fu
pronunciata la sentenza West Tankers e che, pertanto, ben al di là di quel
(16) Viene da chiedersi se la soluzione sarebbe stata la medesima nel caso in cui la legge
processuale del luogo (in ipotesi uno Stato membro diverso da quello in cui risultava pendente
un procedimento giurisdizionale) in cui era radicato l’arbitrato avesse consentito alla parte
interessata, in caso di inosservanza dell’inibitoria, di rivolgersi all’autorità giurisdizionale per
ottenere un provvedimento coercitivo, finalizzato a garantirne l’effettività. In una fattispecie di
tal fatta, a creare problemi di compatibilità con l’effetto utile del regolamento n. 1215/2012, non
sarebbe tanto il lodo arbitrale (per le ragioni espresse nella decisione in epigrafe), quanto,
piuttosto, il correlato provvedimento inibitorio emesso dall’autorità giurisdizionale di altro
Stato membro, in riferimento al quale, salvo futuri ripensamenti della Corte di giustizia (v. § 4)
ad oggi appaiono estensibili le argomentazioni di West Tankers.
302
distinguishing vi fossero i germi già maturi per un futuro overruling della
decisione sulla vicenda siracusana.
In primo luogo è stato emanato ed è entrato in vigore il regolamento
n. 1215/2012, il quale, con soluzione di continuità rispetto a quanto
previsto dal regolamento n. 44/2001, cerca anche di evitare che una delle
parti, sfruttando l’operare della norma sulla litispendenza, ostacoli il
pratico funzionamento di un patto attributivo della giurisdizione ad un
determinato giudice statale ubicato in uno Stato membro. Il riferimento è
all’art. 31, par. 2, del regolamento n. 1215/2012 (17). Secondo l’avv. gen.,
come si è detto, lo stesso atteggiamento protettivo nei confronti della
comune volontà delle parti sarebbe tenuto proprio dal considerando n. 12
nei confronti della convenzione arbitrale.
In secondo luogo, per effetto della emanazione della pronuncia
Gothaer (18), non è più vero che — come affermato nella pronuncia West
Tankers — ciascun giudice ubicato in uno Stato membro è in ogni caso
libero di valutare in autonomia la sussistenza della propria potestas
decidendi. Ciò in considerazione della idoneità a circolare nello spazio
comune (con vincolo anche sui motivi portanti della decisione) delle
decisioni declinatorie della giurisdizione per sussistenza di una valida
clausola attributiva della giurisdizione disciplinata vuoi dai regolamenti n.
(17) In proposito, giova forse ricordare che la Cour de cassation francese, già nel 2009
(nello stesso anno in cui fu pronunciata la sentenza West Tankers), relativamente ad una
fattispecie esorbitante rispetto all’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 aveva
affermato che un’anti-suit injunction emessa dal giudice statunitense a tutela di una clausola
attributiva della giurisdizione a favore del foro americano è da reputare compatibile con il
sistema della cooperazione giudiziaria civile europea, posto che essa mira ad impedire la
violazione di un preesistente obbligo contrattuale, liberamente sorto tra le parti, e non già a
limitare la libertà del giudice francese di valutare la sussistenza della propria potestas decidendi.
Ci riferiamo a Cour de cassation, 1 ch. civ., 14 ottobre 2009, N. 08-16369/08-16549, in Int’l Lis,
2009, 122 con nota di FRADEANI, Le anti-suit injunctions, cit.
(18) Corte di giustizia, 15 novembre 2012, causa C-456/11 (ECLI:EU:C:2012:9520),
Gothaer Allgemeine Versicherung, la quale ha chiarito che, per un verso le decisioni declinatorie
della giurisdizione, benché di rito, sono idonee a circolare nello spazio giudiziario europeo ai
sensi degli artt. 32 e segg. del regolamento n. 44/2001 (attualmente artt. 34 e segg. del
regolamento n. 1215/2012) e, per altro verso, che la pronuncia, passata in giudicato, con la quale
il giudice di uno Stato membro ha dichiarato la carenza della propria giurisdizione sulla base
della sussistenza, di una valida clausola attributiva di tale competenza vincola i giudici dello
spazio giudiziario europeo sia per la sua parte negativa, sia in riferimento all’accertamento della
validità della clausola, benché contenuto nella motivazione del provvedimento. La pronuncia
Gothaer è pubblicata in Int’l Lis 2014, 16 con nota di DALFINO, Un giudicato “europeo” sulla
competenza giurisdizionale?, e postilla di CONSOLO, PENASA, STELLA; in Foro it., 2013, IV, 32 ss.
con nota di D’ALESSANDRO, Pronunce declinatorie di giurisdizione: la Corte di giustizia impone
limiti di efficacia europei; in EuZW 2013, 56 con nota di BACH, Deine Rechtskraft? Meine
Rechtskraft!; in Rev. cr. dr. int. privé, 2013, 690, con nota (senza titolo) di NIOCHE. La decisione
è altresì criticamente commentata da ROTH, Europäischer Rechtskraftbegriff im Zuständigskeitsrecht?, in IPRax, 2014, 136 ss., da LOPES PEGNA, Quali effetti ai sensi del regolamento
« Bruxelles I » della decisione con cui il giudice adito dichiara la propria incompetenza?, in Riv.
dir. int., 2013, 154 ss. e da TORRALBA-MENDIOLA e RODRÍGUEZ-PINEAU, Two’s company, three’s a
Crowd: Jurisdiction, Recognition and Res Judicata in the European Union, in Journal of Private
International Law, 2014, 403 ss.
303
44/2001 o 1215/2012, vuoi dalla Convenzione di Lugano; clausola attributiva della giurisdizione che condivide con la convenzione di arbitrato la
natura di negozio processuale ed inoltre (se esclusiva) la circostanza per
cui attribuisce la potestas decidendi ad una sola e determinata autorità che
in quel caso è giurisdizionale (ed è invece privata, nell’ipotesi dell’arbitrato).
La Corte di giustizia ha limitato la portata della pronuncia Gothaer
agli accordi attributivi della giurisdizione (e, del resto, non avrebbe potuto
fare diversamente, in primo luogo in considerazione del tenore del quesito
rimessole) e la ha basata sul principio della fiducia reciproca che deve
sussistere tra giudici di differenti Stati membri valorizzando la circostanza
per cui gli accordi attributivi della giurisdizione sono disciplinati in maniera uniforme dai regolamenti n. 44/2001 o 1215/2012, ovvero dalla
Convenzione di Lugano. Tuttavia, come non si è mancato di osservare,
l’argomentazione non è di quelle « a tenuta stagna » considerato che i due
regolamenti (e parimenti la Convenzione) non disciplinano in modo
eurounitario i requisiti di validità (sostanziale) dell’accordo, i.e. i requisiti
di efficacia diversi da quelli formali e da quello consistente nella elezione
di un foro ubicato in uno Stato membro (19). In proposito, segnatamente,
il regolamento n. 44/2001 taceva (e la materia è altresì esclusa dalla sfera
di operatività del regolamento Roma I), mentre il regolamento n. 1215/
2012, al suo art. 25, espressamente stabilisce che la validità sostanziale
dell’accordo è disciplinata dalla legge dell’ordinamento in cui è ubicata la
corte a cui è attribuita giurisdizione esclusiva (20). Dimodoché, per fare
operare il dispositivo della sentenza Gothaer, ossia al fine di ammettere,
senza eccezione alcuna, la vincolatività per gli altri giudici dell’Unione di
sentenze declinatorie della giurisdizione fondate sulla sussistenza di un
valido accordo attributivo della potestà decisionale, occorre necessariamente postulare che la regola del mutual trust non riguardi soltanto il
modo con cui i giudici dei singoli Stati membri applicano le norme
uniformi contenute (oggi) nell’art. 25 del regolamento n. 1215/2012 ovvero
nella Convenzione di Lugano ma, piuttosto, si estenda anche all’applicazione che il giudice adito ha fatto della legge sostanziale dell’ordinamento
al quale appartiene l’autorità giurisdizionale menzionata dalla clausola
attributiva della giurisdizione, al fine di vagliarne la validità sotto il profilo
sostanziale.
(19) DALFINO, loc. ult. cit.; LOPES PEGNA, Quali effetti, cit., 152; TORRALBA-MENDIOLA e
RODRÍGUEZ-PINEAU, Two’s company, cit., spec. 411 ss.
(20) Peraltro, non è chiaro se il riferimento alla legge dello Stato membro dell’autorità
giurisdizionale prescelta sia da intendersi come valevole anche ai fini della valutazione della
capacità delle parti ovvero se, per apprezzare quest’ultima, si debba fare piuttosto riferimento
ad un’altra legge nazionale, ossia quella dello Stato di nazionalità dei contraenti. In ambedue i
casi, per ciò che qui rileva, a venire in gioco sarà comunque una normativa nazionale e non già
eurounitaria.
304
Se è così, allora, diventa un poco più difficile spiegare in maniera
convincente perché (e l’opinione dell’avv. gen. Wathelet pare esprimere
questo disagio):
— una pronuncia declinatoria della giurisdizione per sussistenza di
un accordo attributivo della giurisdizione non emessa per effetto dell’applicazione di sole norme uniformi di diritto europeo e che impedisce al
giudice di altro Stato membro di valutare autonomamente la sussistenza
della propria giurisdizione sia compatibile con il sistema di Bruxelles (in
virtù della prevalente esigenza di evitare conflitti negativi di giurisdizione);
— viceversa non lo sia — per contrasto con il c.d. effetto utile del
regolamento — la decisione (non già arbitrale, poiché essa, come coerentemente sostenuto dalla decisione in epigrafe è in linea di principio
ammissibile, ma invece) giurisdizionale che reputa valido un accordo
compromissorio e che, sulla base di tale presupposto, invita le parti a non
continuare un procedimento giurisdizionale pendente in altro Stato membro.
Anche in questo secondo caso si priva il giudice di altro Stato membro
della facoltà di valutare autonomamente la sussistenza della propria
potestas decidendi in base alla applicazione di una normativa non uniforme
ed anche in questo secondo caso la finalità è quella di evitare un diniego
di giustizia e, parimenti, di salvaguardare l’effettività di un accordo
negoziale, che, nel caso di specie, è quello compromissorio.
ELENA D’ALESSANDRO
305
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni Unite civili, ordinanza 25 ottobre 2013, n. 24153;
ROVELLI Pres.; SEGRETO Est.; Luxury Goods International SA c. Swaili Diffusioni
S.r.l. in liquidazione.
Arbitrato estero - Convenzione di New York del 1958 - Accordo compromissorio
- Eccezione dinanzi al giudice italiano - Eccezione di giurisdizione - Regolamento preventivo di giurisdizione - Ammissibile.
L’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo
stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si
configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga
alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella
sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione.
In presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di
compromesso, attesa la natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice
ordinario da attribuirsi all’arbitrato rituale in conseguenza della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n.
40, deve ricomprendersi, a pieno titolo, nel novero di quelle di rito, dando così luogo
ad una questione di giurisdizione e rendendo ammissibile il regolamento preventivo
di cui all’art. 41 c.p.c., precisandosi, peraltro, che il difetto di giurisdizione nascente
dalla presenza di una clausola compromissoria siffatta può essere rilevato in
qualsiasi stato e grado del processo a condizione che il convenuto non abbia
espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e dunque solo
qualora questi, nel suo primo atto difensivo, ne abbia eccepito la carenza.
In tema di arbitrato internazionale, nel sistema delineato dalla convenzione di
New York del 10 giugno 1958, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 19
gennaio 1968, n. 62, spetta al giudice adito, in via assolutamente preliminare, senza
efficacia di giudicato e sulla base della domanda della parte che invochi l’esistenza
di una clausola arbitrale, verificarne la validità, l’operatività e l’applicabilità e,
all’esito positivo, rimettere le parti dinanzi agli arbitri, mentre solo qualora egli
ritenga, affermandola, la propria giurisdizione, la decisione sulla validità del patto
avrà efficacia di giudicato.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La società di diritto svizzero, Luxury Goods
International SA, si è opposta davanti al tribunale di Firenze ad ingiunzione
chiesta da Swaili Diffusioni s.r.l. per Euro 229.613,59 per compensi portati da 4
fatture. Luxury ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendo
stata inter partes pattuita la clausola (art. 14) di compromesso per arbitri, disciplinato dalle regole della CCIA del Cantone Ticino. Si è opposta a tale eccezione la
Swaili Diffusioni s.r.l. in liquidazione.
La Luxury Goods International SA ha proposto regolamento preventivo di
giurisdizione, al quale resiste la Swaili, eccependo l’inammissibilità dello stesso,
non essendo la questione di competenza arbitrale estera una questione di giurisdizione ed in ogni caso eccependo la nullità della clausola compromissoria.
307
2.1. Secondo la ricorrente nella fattispecie sussisterebbe non la giurisdizione
del giudice italiano, ma quella del collegio arbitrale svizzero individuato secondo
le regole del CCIA del cantone Ticino, stante l’espressa clausola in questo senso,
con cui le parti nel contratto avevano derogato alla giurisdizione italiana.
2.2. Ritengono, anzitutto queste Sezioni unite, rimeditando il proprio precedente orientamento, che non sia inammissibile il regolamento di preventivo di
giurisdizione in presenza di compromesso (o clausola compromissoria) che preveda che le controversie siano devolute alla decisione di arbitri, e quindi anche in
ipotesi di arbitrato estero, come nella fattispecie in esame.
2.3. Secondo l’originaria giurisprudenza di questa Corte, anteriore all’arresto S.U. n. 527 del 2000, il compromesso per arbitrato estero, che valesse a
sottrarre al giudice italiano una determinata controversia, implicava, in mancanza
di una diversa norma di legge o convenzione internazionale, il difetto di giurisdizione del medesimo giudice italiano, e ciò anche sul ricorso per accertamento
tecnico preventivo inerente a detta controversia (Cass. S.U. 5049/1985; n. 6017/
1979; n. 9380/1992). Ciò comportava che era ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione (Cass. S.U. n. 5397/1995; n. 58/2000).
2.4. Invece, con riferimento alla clausola compromissoria per arbitrato
rituale italiano, si riteneva che l’exceptio compomissi configurasse una questione di
competenza.
La contestazione delle attribuzioni del giudice ordinario, sotto il profilo della
devoluzione della controversia alla cognizione di arbitri in forza di compromesso
o clausola compromissoria, non implicava un problema di giurisdizione, bensì di
competenza, in quanto riguarda una ripartizione di compiti nell’ambito del medesimo ordine giurisdizionale, e, pertanto, non era deducibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione (Cass. S.U. n. 2149/84; n. 5568/1982; n. 1471/
1976; n. 4360/81, n. 242/80; 1303/1987; n. 3767/1988).
2.5. In modo più articolato si era giunti a sostenere che dalla natura
giurisdizionale (e sostitutiva della funzione del giudice ordinario) dell’attività degli
arbitri rituali (il cui lodo, una volta reso esecutivo dal pretore, equivaleva, finché
non ne fosse pronunciato l’annullamento, ad una sentenza avente efficacia esecutiva) conseguiva che, mentre lo stabilire se una controversia appartenesse alla
cognizione del giudice ordinario o degli arbitri si configurava come questione di
competenza, lo stabilire se una controversia appartenesse alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario, e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri
rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo configurava, invece, una questione di giurisdizione. (Cass. S.U. n. 4360/1981).
3.1. A fronte di detto orientamento costante, le S.U. di questa Corte con
sentenza del 3.8.2000, n. 527, hanno effettuato un revirement per effetto del quale
la pronunzia arbitrale ha assunto natura di atto di autonomia privata e correlativamente il compromesso si è configurato quale deroga alla giurisdizione. Pertanto,
il contrasto sulla non deferibilità agli arbitri di una controversia per essere questa
devoluta, per legge, alla giurisdizione di legittimità o esclusiva del giudice amministrativo costituisce questione, non già di giurisdizione in senso tecnico, ma di
merito, in quanto inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria.
3.2. Per effetto di questo orientamento è inammissibile anche il regolamento preventivo di giurisdizione rivolto a far valere la carenza di giurisdizione del
308
giudice adito, così come di ogni altro giudice della Repubblica Italiana, a fronte
della presenza di un compromesso, o di una clausola compromissoria, che prevedano il ricorso ad un arbitrato estero, determinandosi in tal caso l’insorgere di una
questione, non già di giurisdizione (posto che il “dictum” arbitrale è un atto di
autonomia privata, non esercitando gli arbitri funzioni giurisdizionali), ma di
merito, inerente all’accertamento, da effettuarsi dal giudice fornito di giurisdizione
secondo i normali criteri di sua determinazione, della validità del patto prevedente
l’arbitrato estero, il quale comporta la rinuncia ad ogni tipo di giurisdizione, sia
essa italiana o straniera (Cass. S.U., 5.1.2007, n. 35; Cass. S.U. 28.1.2005, n. 1735;
Cass. Sez. Unite, 18.4.2003, n. 6349; Cass. Sez. Unite, 22.07.2002, n. 10723; n.
10896/2003; Cass. 21.10.2009, n. 22236).
4.1. Ritiene questa Corte che tale orientamento vada rimeditato, anche alla
luce delle ultime modifiche legislative. La tesi sulla natura negoziale del lodo
rituale, e così anche sulla “unitarietà” del fenomeno arbitrale, è stata accolta dalla
giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. S U., 3.8.2000, n. 527, seguita da
molte sentenze successive che ha definito il procedimento di arbitrato rituale)
come attinente ad istituto “ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale”
perché formato sulla “rinunzia all’azione giudiziaria”. Rimane, secondo questo
filone giudiziario, un tratto distributivo tra le due figure di arbitrato. Con l’arbitrato rituale le parti vogliono un negozio suscettibile di divenire esecutivo con le
forme e gli effetti di cui agli artt. 825 ss. c.p.c., mentre nell’arbitrato libero “esse
intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo attraverso lo
strumento negoziale”. La soluzione in chiave schiettamente negoziale del dictum
arbitrale nell’arbitrato rituale (mettendo fuori gioco la tradizionale dicotomia tra
arbitrato rituale/sostitutivo del giudizio statale ed arbitrato libero/negozio) è valsa
a risolvere in senso negativo la questione concernente l’ammissibilità del regolamento di competenza, che prima del revirement giurisprudenziale la nostra
giurisprudenza ammetteva, anche se esclusivamente contro la sentenza con cui il
giudice statale declinava la propria competenza in favore del foro arbitrale,
nonché l’ammissibilità del regolamento di giurisdizione.
4.2. Osserva questa Corte che la spinta alla ricostruzione in chiave esclusivamente privatistica del dictum arbitrale (nell’arbitrato rituale) nasce dalla preoccupazione che soltanto questa mette l’istituto al riparo da rischio di incostituzionalità ex art. 102 Cost..
Il problema che si pone è se il legislatore possa equiparare a certe condizioni
le pronunce arbitrali che rispettino un determinato iter processuale alle sentenze
dei giudici civili, giurisdizionalizzandole, senza collidere con i principi costituzionali, in tema di tutela dei diritti.
4.3. Su questa premessa, anche dopo che il legislatore, con la riforma del
1994, ha compiuto il passo decisivo per riconoscere agli arbitri, nell’ambito delle
facoltà loro attribuite dalle parti, poteri (inequivocabilmente) giurisdizionali,
autorevole dottrina ribadisce che “poiché l’arbitrato è un valore irrinunciabile
della moderna esperienza giuridica, per salvarlo nella vigenza della Costituzione
del 1948, occorre ricostruirlo in chiave rigorosamente privatistica”.
4.4. Senonché con sentenza 14.7.1977, n. 127 la Corte costituzionale ha
rilevato che “il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta
delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di
disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24 Cost., comma 1) può
309
derogare al precetto contenuto nell’art. 102 Cost.”. Ciò, in effetti, soggiunge la
Corte “corrisponde al criterio di interpretazione sistematica del testo costituzionale (nel quale la portata di una norma può essere circoscritta soltanto da altre
norme dello stesso testo (...); e corrisponde anche alla garanzia costituzionale
dell’autonomia dei soggetti (...) autonomia che, mentre ad altro proposito è
tutelata dagli artt. 41-44 Cost., nella materia che ne occupa e per le situazioni di
vantaggio compromettibili è appunto garantita dall’art. 24 Cost., comma 1”.
Si specifica così che la “fonte dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in
una legge ordinaria o più generalmente, in una volontà autoritativa: ed il principio
fissato dall’art. 806 c.p.c. (...) (le parti possono far decidere da arbitri le controversie fra loro insorte ...) assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell’intero ordinamento”.
4.5. In primo luogo, va sottolineata la correlazione necessaria fra potere di
azione e giurisdizione che porta al coordinamento dell’art. 102 con l’art. 24 Cost.,
comma 1. In secondo luogo va valorizzato il rapporto di complementarietà
individuato fra comma 1 e comma 2 dell’art. 102, talché il monopolio della
giurisdizione statale, non va inteso in senso assoluto, ma nel quadro del divieto di
istituzione di giudici straordinari o speciali. Se la Corte avesse insistito sulla natura
soltanto negoziale e privata dell’attività arbitrale, in quel caso paradossalmente,
avrebbe finito per legittimare arbitrati obbligatori non sostenuti dalla “concorde
volontà” delle parti, e per eludere così, la “sostanza” del precetto costituzionale.
Il nucleo fondamentale che si estrae dalla sentenza, è dunque l’affermazione di
compatibilità dell’istituto dell’arbitrato con il monopolio della giustizia statale nei
limiti in cui esso non sia obbligatorio.
4.6. Si può trarre la conclusione che, come regola, la funzione giurisdizionale sui diritti si esercita davanti ai giudici ordinari, essendo tuttavia consentito alle
parti, nell’esercizio di una libera ed autonoma scelta, di derogare a tale regola
agendo “a tutela dei propri diritti” davanti a giudici privati, riconosciuti tali dalla
legge, in presenza di determinate garanzie. L’autonomia delle parti si manifesta
qui, non già (come è ovviamente possibile, e come avviene nell’arbitrato “contrattuale”) come atto di disposizione del diritto, ma come atto incidente sull’esercizio del potere di azione che a quel diritto è connesso.
L’autonomia delle parti, nel settore dei diritti disponibili, opera come presupposto del potere, loro attribuito, di far decidere controversie ad arbitri privati,
nelle forme e secondo le modalità stabilite dall’ordinamento giuridico.
Sulla base di questa premessa di compatibilità costituzionale, affinché il
ricorso all’arbitrato possa considerarsi legittimo, occorre: a) che la deroga consacrata da volontà concorde delle parti su diritti disponibili operi nei confronti di una
controversia conoscibile dal giudice ordinario; b) che l’arbitrato sia disciplinato da
norme di legge che assicurino idonee garanzie processuali, non soltanto sul piano
dell’imparzialità dell’organo giudicante, ma anche del rispetto del contraddittorio;
c) la possibilità di impugnativa (nei limiti in cui l’ordinamento processuale tipizza
fattispecie di nullità) davanti agli organi della giurisdizione ordinaria.
Tali caratteri appaiono, per l’arbitrato rituale, tali da integrare i requisiti
(attitudine dell’organo, ancorché diverso da una struttura giudiziaria, ad espletare
una funzione giudiziaria assicurando alle parti una “soluzione giurisdizionale della
controversia”) richiesti dalla Corte Europea sui diritti dell’uomo per rispettare il
6 della Convenzione di Roma del 4 novembre 1950.
310
4.7. La normativa, in parte introdotta con la L. n. 25 del 1994 ed in parte con
il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, pare contenere sufficienti indici sistematici per
riconoscere natura giurisdizionale al lodo arbitrale, e per soddisfare quelle indicazioni, (sopra riportate) sui limiti entro i quali la scelta di un giudice diverso da
quello statale può essere, dall’ordinamento, affidata alla autonomia dei privati. In
base alla riforma del 1994, la proposizione dei mezzi di impugnazione non è più
(art. 827 c.p.c., comma 2) condizionata dall’emanazione del decreto di esecutività
del lodo. È dunque quest’ultimo, e non la “sentenza arbitrale” (“in due pezzi”),
oggetto dell’impugnazione prevista dalla legge processuale avanti agli organi della
giurisdizione ordinaria.
Il termine per la proponibilità dell’impugnazione per nullità, se il lodo è
notificato, è quello “breve” di novanta giorni dalla notificazione, altrimenti è
quello annuale decorrente dalla data dell’ultima sottoscrizione. Il lodo rimane
autonomamente impugnabile, con l’azione di nullità, indipendentemente dall’exequatur, in virtù della stessa efficacia della sentenza pronunziata dall’Autorità
Giudiziaria, fin dal momento in cui interviene l’ultima sottoscrizione (art. 824 bis
c.p.c.). Il deposito del lodo, peraltro, si ricollega, oltre che alla sua esecutività (ed
attitudine all’iscrizione ipotecaria, in virtù dell’art. 2819 c.c.) anche alla sua
trascrivibilità, e conseguente efficacia anche verso terzi (v. art. 824 bis — efficacia
della sentenza — ed art. 825 c.p.c. — deposito ed esecutività del lodo).
4.8. Correlativamente si sono concesse, contro il lodo, anche la revocazione
straordinaria e l’opposizione di terzo sia ordinaria che revocatoria; si è concentrata
nella Corte d’Appello la competenza funzionale a conoscere dell’impugnazione
per nullità, estesa, oltre che all’inosservanza del principio del contraddittorio,
all’ipotesi di contrarietà del lodo a sentenza passata in giudicato o ad altro
precedente lodo, non più impugnabile. Sulla scorta del modello francese, si è
condizionata la potestas iudicandi del giudice dell’impugnazione per nullità, nella
fase rescissoria, e a decidere così nel merito la controversia, alla assenza di
“concorde volontà contraria delle parti”.
4.9. Il mutamento è di grande rilievo, e addirittura decisivo, per ciò che
attiene al regime di impugnabilità del lodo, prima del deposito. Ma esso è tale da
escludere, in radice, l’eventualità di una duplice natura del lodo stesso, negoziale,
in un primo tempo, giurisdizionale dopo la dichiarazione di esecutività.
L’assimilazione in toto, alla domanda giudiziale, attribuita all’atto introduttivo dell’arbitrato, quanto alla prescrizione e alla trascrizione delle domande
giudiziali, postulano l’equiparazione alla domanda giudiziale (esercizio dell’azione
giudiziaria) dell’atto di promovimento del processo arbitrale, e l’attribuzione al
lodo dell’attitudine non di efficacia negoziale, ma dell’efficacia e della autorità
della cosa giudicata.
5.1. Quanto alla trascrizione, occorre considerare che l’effetto anticipatorio,
conferito alla trascrizione dell’atto di promovimento del giudizio arbitrale, riguarda sia le fattispecie contemplate all’art. 2652 c.c. che quelle riguardate dall’art.
2653 c.c. (ai sensi della L. 5 gennaio 1994, art. 26, che ha aggiunto un ultimo comma
ai due articoli del cod. civ.).
Entrambe le norme concernono l’efficacia dell’accertamento contenuto nel
lodo verso terzi, laddove ogni atto che trova la sua base esclusivamente sulla
volontà pattizia e dispositiva delle parti di un negozio, vale esclusivamente fra le
parti ed è sfornita di efficacia nei rapporti dipendenti. Entrambe le norme si
311
radicano alla nozione ed alla teoria dell’azione e coprono tutto lo spazio, coperto
sia dalla azione come mera aspirazione ad una sentenza di merito, sia dalla azione
in senso sostanziale, riferita cioè a situazioni che presuppongono fondata l’azione,
ed alle norme tese ad evitare che la durata del processo ridondi in danno
dell’attore, che ha ragione.
5.2. Nel caso dell’art. 2652 c.c., la disciplina sulla trascrizione si muove, non
solo sul piano degli effetti sostanziali della domanda giudiziale, ma anche su quello
degli effetti del giudicato sui rapporti dipendenti, e verso i terzi. L’attribuzione al
lodo di questa efficacia, non limitata alle parti, ma estesa ai terzi, non può che
postulare la sua equiparazione a una sentenza dei giudici dello Stato, e, in ogni
caso, ad una pronuncia giurisdizionale. E, come tale, viene considerato il lodo che
l’art. 831 c.p.c. novellato sottopone al rimedio giurisdizionale (presso la stessa
Corte d’Appello competente per l’azione di nullità) dell’opposizione di terzo,
anche ordinaria (art. 404, comma 1, codice). Ciò che presuppone, appunto,
l’efficacia del lodo pronunciato inter alios, verso il terzo titolare di una situazione
soggettiva che presenta elementi di identità con il rapporto oggetto della decisione
arbitrale.
5.3. Nel caso dell’art. 2653 c.c., la norma sulla trascrizione della domanda,
fornisce il mezzo tecnico che consente al processo di proseguire fra le parti
originarie, valendo la sentenza anche nei confronti del successore a titolo particolare, (che sia) rimasto estraneo al processo.
Ed è norma che va ad integrare quella, fondamentale, dell’art. 2909 c.c.
definendo i limiti dell’estensione soggettiva della cosa giudicata sostanziale, e
stabilisce che l’accertamento e le statuizioni contenute nel giudicato, si estendono
all’avente causa, anche se il fatto costitutivo del suo acquisto è anteriore alla
sentenza, se vi è anteriorità della trascrizione della domanda giudiziale, rispetto a
quella del titolo di acquisto.
5.4. Anche per ciò che riguarda la prescrizione, il novum è dato non tanto
dalla espressa previsione che la prescrizione è interrotta dall’atto introduttivo del
giudizio arbitrale (in base all’emendamento portato all’art. 2943 c.c.), quanto dalla
attribuzione (testo novellato dell’art. 2945 c.c., u.c.), alla notifica dell’atto di
promovimento del giudizio arbitrale, dell’effetto interruttivo-sospensivo (o di
interruzione permanente fino all’acquisto di stabilità del lodo, o al passaggio in
giudicato formale della sentenza resa sull’impugnazione) che è proprio soltanto
della domanda giudiziale, e che integra un tipico effetto sostanziale dell’atto di
esercizio dell’azione giudiziaria, “neutralizzando” l’incidenza della durata del
procedimento di cognizione, che si conclude con pronuncia di merito (favorevole
o meno all’attore) ai fini del decorso del termine prescrizionale del diritto
azionato.
Soltanto il riconoscimento della “giurisdizionalita” del processo arbitrale
consente di estendere l’effetto interruttivo della domanda al termine di decadenza,
anche in quella vasta area di fattispecie in cui la decadenza è impedita non con il
semplice esercizio del diritto, ma con l’esercizio dell’azione in giudizio.
5.5. Inoltre rilevano, al riguardo: l’art. 816 quinquies che statuisce sull’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 cod. proc. civ. in tema di successione a titolo
particolare nel diritto controverso e l’art. 819 bis c.p.c., al comma 1, n. 3, che
prevede la possibilità per gli arbitri di rimettere alla Corte costituzionale una
312
questione di legittimità costituzionale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23.
Ciò denota che gli arbitri esercitano una funzione giurisdizionale.
5.6. L’art. 819 ter c.p.c. nel disciplinare il rapporto tra cause devolute al
giudizio degli arbitri e cause proposte davanti al giudice ordinario individua il
rapporto fra i due processi in termini di “competenza”; e riconosce espressamente
l’impugnazione con regolamento di competenza avverso la sentenza emessa dal
giudice (non — invece — nell’ipotesi di declaratoria sulla competenza pronunziata
dall’arbitro).
Ciò sta, bensì, a significare che l’opzione in favore del giudizio arbitrale,
rispetto alla tutela davanti al giudice ordinario, implica, un “diverso modo” di
esercizio dell’azione.
5.7. L’art. 824 bis c.p.c. equipara gli effetti del lodo, dalla data della sua
ultima sottoscrizione, a quelli della sentenza passata in giudicato.
A questo proposito anche l’art. 829 c.p.c., n. 8, esprime chiaramente tale
attribuzione dell’attitudine del lodo a fare dell’oggetto del proprio giudizio una res
cognita, laddove, introducendo come motivo di nullità la violazione del giudicato
(esterno) equipara completamente alla “sentenza passata in giudicato” il “lodo
non più impugnabile”.
5.8. Va, infine segnalato che recentemente la stessa Corte Costituzionale,
con sentenza n. 223 depositata il 19.7.2013 ha rilevato che “con la riforma attuata
con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il legislatore ha introdotto una serie di norme
che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva
della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che
comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima
alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente
analoga a quella del dictum del giudice statale. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale
in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle
controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute
negative per i diritti oggetto delle controversie stesse”.
Sulla base dell’acclarata natura giurisdizionale e non negoziale dell’arbitrato
rituale, la corte costituzionale ha dichiarato, pertanto, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 819-ter c.p.c., comma 2, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti
tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 c.p.c.,
ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.
5.9. Affermata, quindi, la natura giurisdizionale e non negoziale dell’arbitrato rituale e, ne consegue che (giusto il precedente orientamento di questa Corte
(cfr., ex pluribus, sentt. nn. 4475 del 1997, 7013 del 1995, n. 6556 del 1987, 7315 del
1986), nei casi in cui una legge o un atto autoritativo predisponga un arbitrato
rituale per la risoluzione di determinate controversie insorte fra le parti, ovvero in
presenza di compromesso o clausola compromissoria in arbitrato rituale italiano,
il contrasto circa l’attribuzione della cognizione della controversia al collegio
arbitrale italiano o al giudice ordinario integra una questione di competenza (e
non di giurisdizione) sulla base della nota tesi del “convogliamento” dell’arbitrato
nell’ambito del giudizio ordinario per tutte le ragioni sopra esposte.
Dalla natura giurisdizionale, e sostitutiva della funzione del giudice ordinario,
dell’attività degli arbitri rituali consegue che, mentre lo stabilire se una contro313
versia appartenga alla cognizione del giudice ordinario o degli arbitri si configura
come questione di competenza (e ciò a prescindere dal fatto che il rimedio del
regolamento di competenza sia previsto ex art. 819 ter c.p.c. solo nei confronti della
sentenza del giudice ordinario, ma ciò non sposta il fondo della questione, come
nell’ipotesi di cui all’art. 46 c.p.c., che pure esclude il regolamento per le sentenze
dei giudici di pace che attengano alla competenza), lo stabilire se una controversia
appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario, e, in tale ambito,
a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo
o contabile configura, invece, una questione di giurisdizione (Cass. S.U. n. 4360 del
4.7.1981; Cass. S.U., n. 3195 del 1969).
6.1. Affermato quanto sopra in via di necessario quadro generale, può
passarsi all’esame dello specifico punto, presupposto di questo ricorso, e cioè se, in
presenza di clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dia luogo a questione di merito o a questione di giurisdizione, poiché solo
nel secondo caso sarebbe ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione.
Come si è detto l’attuale giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 6349/
2003, con riferimenti anche alla precedente pronuncia Cass. S.U. n. 10723/2002)
ritiene che, poiché la pronuncia arbitrale ha natura di atto di autonomia privata ...
per cui il lodo non è assimilabile ad una pronuncia giurisdizionale, anche allorché
si tratti di patto per arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dà luogo a
questione di merito piuttosto che di giurisdizione: “in tal caso, infatti, le parti
hanno rinunciato ad ogni tipo di giurisdizione, sia essa italiana o stranieri”.
6.2. Sennonché, una volta affermata in via generale la natura giurisdizionale
dell’arbitrato rituale, quale conseguenza delle varie novelle susseguitesi, ed essenzialmente D.Lgs. n. 40 del 2006, ciò va affermato anche per l’arbitrato estero, per
la cui natura giurisdizionale militano — anzi — ulteriori elementi, con conseguente
ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione.
Anzitutto va osservato che l’oggetto della questione sottoponibile mediante
regolamento di giurisdizione non “è se la controversia debba essere decisa dal
giudice italiano o da quello straniero”.
Al contrario la questione è sempre quella dei limiti della giurisdizione
italiana.
6.3. Il combinato disposto della L. n. 218 del 1995, art. 4, comma 2 e art. 11
equipara la deroga convenzionale alla giustizia italiana in favore di arbitrato estero
alla deroga in favore di un giudice straniero, entrambe inserendo fra i limiti alla
giurisdizione italiana definiti dal Titolo 2^ della legge e perciò fra i casi di difetto
di giurisdizione.
Infatti la L. n. 218 del 1995, art. 4, comma 2, espressamente dispone che “La
giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un
giudice straniero o di un arbitrato estero se la deroga è provata per iscritto e la
causa verte su diritti disponibili”.
6.4. Allo stesso modo viene in rilievo la previsione dell’art. 11 della legge
richiamata, secondo cui “il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia
espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana”.
Orbene, dal combinato disposto della L. n. 218 del 1995, art. 4 e art. 11, si
ricava che il difetto di giurisdizione nascente dalla presenza di una clausola
compromissoria in favore di arbitrato estero può essere rilevato in qualsiasi stato
314
e grado del processo, a condizione che il convenuto non abbia espressamente o
tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e dunque solo qualora il convenuto
abbia eccepito nel suo primo atto difensivo il difetto di giurisdizione del giudice
italiano.
6.5. Come rilevato dalla dottrina, se si ritenesse la natura negoziale dell’arbitrato estero, la relativa eccezione sarebbe di merito e non di rito, con la
conseguenza che la pronuncia del giudice statuale sulla validità o invalidità,
efficacia o inefficacia dell’accordo compromissorio spiegherebbe, per i suoi effetti
di giudicato sostanziale, insuperabile vincolo potenzialmente destinato alla esportazione in altri ordinamenti ed ivi spiegare effetti vincolanti per arbitri o giudici
esteri. L’affermazione per la quale l’eccezione fondata sull’accordo compromissorio per arbitrato estero non rappresenta, per il giudice italiano, una eccezione di
difetto di giurisdizione è, dunque, cosa intrinsecamente errata, perché non può
essere vero in assoluto ... che con quel patto le parti hanno “rinunciato ad ogni tipo
di giurisdizione sia essa italiana o straniera”. La verifica di una simile totale
rinuncia dovrebbe passare, volta per volta, attraverso l’analisi dell’ordinamento
straniero in cui l’arbitrato è destinato a radicarsi ed il lodo è destinato a produrre
i suoi effetti originari; dovrebbe cioè presupporre che anche l’ordinamento straniero nel suo complesso consideri il suo arbitrato ed il suo lodo ... avulsi e
radicalmente alternativi alla giurisdizione e non solo rispetto alla organizzazione
giudiziaria statuale. Altrimenti non potrà certo ritenersi che le parti, con quell’accordo compromissorio per arbitrato estero, abbiano rinunciato anche alla giurisdizione italiana”.
6.6. Ciò comporta che l’eccezione di arbitrato estero deve restare a pieno
titolo nel novero delle eccezioni di rito, e quindi, in base al combinato disposto
della L. n. 218 del 1995, art. 4, comma 2 e art. 11 e dell’art. 41 c.p.c., potrà “essere
sottoposta alla Cassazione mediante regolamento preventivo di giurisdizione”
(non essendo ipotizzabile nei confronti dell’arbitro estero una questione di competenza, che invece è ipotizzabile solo tra giudice ordinario ed arbitro italiano).
7.1. Né si può sostenere che la questione sia di merito e non di rito, poiché
l’art. 2, comma 3 della Convenzione di New York del 1958, ratificata dall’Italia con
L. n. 62 del 1968 impone al giudice interno l’esame sulla validità, operatività ed
applicabilità della clausola arbitrale in via preliminare rispetto alla verifica della
giurisdizione.
A parte il rilievo effettuato da attenta dottrina, secondo cui nella specie la
questione è di rito, per analogia logico-funzionale tra l’analisi preventiva compiuta
dal giudice ex art. 2 della Convenzione e quella indicata dalla L. n. 218 del 1995,
art. 7 in tema di cd. litispendenza internazionale, va osservato, quanto al sistema
di arbitrato estero retto dalla Convenzione di New York del 10 giugno 1958, che
la questione è normativamente risolta, dalla formula dell’art. 2, comma 3, della
Convenzione, laddove dispone che “Le tribunal d’un Etat contractant, saisi d’un
litige sur une question au sujet de laquelle les parties ont conclu une convention au
sens du present article, renverra les parties à l’arbitrage, a la demande de l’une
d’elles, à moins qùil ne constate que ladite convention est caduque, inoperante ou
non susceptible d’etre appliquee”. Quindi il giudice investito di una lite su una
materia al cui riguardo le parti hanno concluso una convezione arbitrale “rinvia”
le parti all’arbitrato, su domanda di una di esse, a meno che non constati che la
315
convenzione è nulla, inoperante o non suscettibile di essere devoluta ad arbitrato.
All’espressione usata dalla Convenzione (“renverra les parties à l’arbitrage; nel
testo inglese, “shall ... refer the parties to arbitration”) viene, infatti, riconosciuto
un significato generico, anche se spesso si afferma che il riconoscimento della
validità, operatività e applicabilità della clausola arbitrale comporta la sospensione
dell’esame del merito da parte del giudice adito (stay of court proceedings on the
merits).
7.2. In proposito è stato a volte sostenuto che la verifica dei presupposti per
l’esistenza della competenza arbitrale straniera, proprio perché — secondo il
sistema processuale italiano, art. 819 ter c.p.c., u.c., — rientrante nella decisione
della causa nel merito (tuttavia per l’ipotesi di controeccezione v. Cass. n.
17019/2011), dovrebbe presupporre la giurisdizione del giudice italiano adito.
In altre parole, il giudizio sulla validità, operatività e applicabilità della
clausola arbitrale dovrebbe essere compiuto soltanto dal giudice fornito di giurisdizione. Tale soluzione, però, non appare in armonia col meccanismo previsto dal
citato art. 2, comma 3, della Convenzione di New York, che attribuisce a qualunque giudice adito — sulla base della domanda di una parte che invoca l’esistenza
di una clausola arbitrale — il potere-dovere di verificare preliminarmente la
validità, operatività e applicabilità di tale clausola e, solo ad esito favorevole di tale
verifica, di rimettere le parti dinanzi agli arbitri ed in caso negativo pronunziarsi
sulla giurisdizione propria.
7.3. È vero che per pronunziarsi sulla validità, efficacia ed operatività della
clausola compromissoria il giudice adito ricorre spesso a regole appartenenti al
diritto sostanziale, ma è altrettanto vero che ciò accade egualmente allorché debba
giudicare sulla sua potestà giurisdizionale a fronte di una deroga convenzionale a
favore di giudici stranieri (L. n. 218 del 1995, ex art. 4, comma 2), senza che si formi
di norma al riguardo alcun giudicato ex art. 2909 c.c. sulla mera questione
pregiudiziale di merito (validità dell’accordo) che si pone come premessa per la
soluzione di una questione pregiudiziale di rito, facente da filtro per l’accesso
all’unico vero accertamento di merito (insomma rispetto alla Hauptsache), destinato solo esso a fare stato come giudicato materiale (sul principio secondo cui
sussiste la competenza del giudice nazionale a decidere circa l’esistenza stessa degli
elementi costitutivi del contratto, v. Cass. 14.12.1992, n. 13196, nonché Corte
Giustizia CE decisione 4 marzo 1982, n. pos. 104365 nella causa n. 38 del 1981).
In altri termini, come già affermato da Cass. S.U. n. 412 del 12.1.2007, questa
prima decisione del giudice nazionale in merito alla validità della clausola compromissoria ai fini del “rinvio” della causa all’arbitrato straniero, secondo l’art. 2
della convenzione di New York non vincola successivamente gli arbitri sulla
validità civilistica del patto, o in caso di esclusione di validità, il giudice straniero,
eventualmente individuato come dotato di giurisdizione, rimanendo impregiudicata ogni loro decisione sul punto.
7.4. Ne consegue che in questi termini può essere risolta l’apparente incongruenza che emerge dall’applicazione della norma (art. 2, comma 3) di cui alla
Convenzione in questione, per cui il giudice nazionale è chiamato a valutare la
validità della clausola compromissoria, prima ancora di decidere sulla sua giurisdizione.
Pertanto nel sistema delineato dalla convenzione di New York del 10 giugno
1958, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 19 gennaio 1968, n. 62, spetta al
316
giudice adito, in via assolutamente preliminare, e senza alcuna efficacia di giudicato, sulla base della domanda della parte che invoca l’esistenza di clausola
arbitrale, verificare validità, operatività ed applicabilità di tale clausola, ed all’esito
positivo, rimettere le parti dinanzi agli arbitri.
Solo ove il giudice adito ritenga la propria giurisdizione, la decisione sulla
validità del patto, essendo presa da giudice che ha affermato la sua giurisdizione,
avrà efficacia di giudicato. Per quanto sotto il profilo sistematico-cronologico i due
momenti decisionali siano unificati in un unico apparato argomentativo, sotto il
profilo ontologico (e quindi anche degli effetti) essi conservano la loro differenza.
7.5. In questi termini è anche la decisione della Corte giustizia Comunità
europee, n. 185 del 10.2.2009 in Causa C-185/07, secondo cui nel sistema di
competenze del regolamento n. 44/2001 non può essere impedito al giudice
nazionale di esaminare egli stesso la questione preliminare di validità o di
applicabilità dell’accordo arbitrale, altrimenti una parte potrebbe sottrarsi al
procedimento, limitandosi ad eccepire detto accordo; e il ricorrente, che considerasse quest’ultimo caduco, inoperante o inapplicabile, si vedrebbe in tal modo
impedire l’accesso al giudice nazionale da lui adito ai sensi del regolamento n.
44/2001 e sarebbe pertanto privato di una forma di tutela giurisdizionale alla quale
ha diritto.
8.1. A questo punto si pone il problema di esaminare se nella fattispecie la
clausola compromissoria sia nulla, come assume la parte resistente, perché l’art. 14
del contratto inter partes, costituito sulla base dei contratti standars utilizzati, pur
prevedendo la deroga della giurisdizione in favore di arbitrato svizzero, non è stata
oggetto di specifica approvazione per iscritto a norma degli artt. 1341 e 1342 c.c..
Secondo la resistente tale clausola è vessatoria ex art. 1341 c.c., con la
conseguenza che è nulla per mancanza di specifica approvazione secondo le
suddette norme del codice civile italiano.
8.2. Rileva preliminarmente questa Corte che ai fini dell’accertamento della
validità ed efficacia della clausola compromissoria che deroga la giurisdizione in
favore di arbitri stranieri, occorre anzitutto stabilire quali siano le norme che il
giudice debba applicare per tale esame, allorché, come nella fattispecie il contratto
risulta stipulato tra una persona giuridica di diritto italiano ed una persona
giuridica di diritto svizzero.
Per il combinato disposto della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 57, secondo la
quale le obbligazioni contrattuali sono in ogni caso regolate dalla convenzione di
Roma 19 giugno 1980 (senza pregiudizio delle altre convenzioni internazionali, in
quanto applicabili), e dell’art. 3, comma 1, di detta convenzione, “il contratto è
regolato dalla legge scelta dalle parti, le quali possono designare la legge applicabile a tutto il contratto, ovvero a una parte soltanto di esso” (Cass. 8360 del
21/04/2005).
8.3. Nella fattispecie, l’art. 14 del contratto in questione, stabilisce che il
contratto stesso è “disciplinato ed interpretato secondo il diritto svizzero, indipendentemente dai principi delle norme di conflitto. Tutte le controversie che derivassero dal presente contratto o fossero comunque allo stesso ricollegabili saranno
risolte in via definitiva da uno o più arbitri nominati secondo il regolamento
d’arbitrato di Lugano, edito dalla CCIQA del Canton Ticino. Il tribunale arbitrale
avrà sede a (Omissis)”.
317
8.4. Ne consegue che nella fattispecie, non essendo applicabile il diritto
italiano, non trova applicazione la pretesa nullità della clausola compromissoria
per violazione degli artt. 1341 e 1342 c.c..
8.5. Infondata è anche l’eccezione di inefficacia della clausola, poiché farebbe riferimento al regolamento d’arbitrato di Lugano e non al “regolamento
svizzero d’arbitrato internazionale di Lugano”.
Una volta esclusa la giurisdizione del giudice italiano, per effetto della deroga
in favore di arbitrato straniero, il procedimento di nomina di detti arbitri e le
regole che tali arbitri dovranno adottare nella decisione esulano dalla questione di
giurisdizione ormai conclusa con declaratoria di insussistenza della stessa in favore
del giudice italiano, rientrando invece esclusivamente nella giurisdizione degli
arbitri stranieri.
9. In definitiva va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Stante il mutamento della consolidata giurisprudenza, esistono giusti motivi
per compensare le spese di questo regolamento.
(Omissis).
Eccezione di patto per arbitrato estero: un nuovo revirement della Corte
di Cassazione, tra disciplina interna e Convenzione di New York.
1. Con l’ordinanza in commento (1) le Sezioni Unite tornano “all’antico” (2): abbandonano l’inquadramento negoziale dell’arbitrato (domestico e straniero) (3) e riconducono l’eccezione di patto per arbitrato
(1) Pubblicata anche in Foro It., 2013, I, 3407 con nota di D’ALESSANDRO, Le sezioni unite
mutano opinione sulla natura dell’eccezione di arbitrato estero; in NGCC, 2014, 169 con nota di
GIUSSANI, Intorno alla deducibilità ex art. 41 cod. proc. civ. dell’eccezione contestata di compromesso per arbitrato estero; in Riv. Dir. Int., 2014, 811 con nota di LEANDRO, Regolamento
preventivo di giurisdizione e arbitrato estero: riflessioni sul nuovo orientamento della cassazione
italiana; in Corr. Giur., 2014, 84 con nota di VERDE, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite
tornano all’antico. Si veda anche ZUCCONI GALLI FONSECA, Giudice italiano ed exceptio compromissi per arbitrato estero, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2014, 741; PUNZI, Dalla crisi del
monopolio statale della giurisdizione al superamento dell’alternativa contrattualità-giurisdizionalità dell’arbitrato, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1.
(2) VERDE, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico, cit.
(3) Inaugurato, rispettivamente, da Cass. Sez. Un. 3 agosto 2000 n. 527 e 22 luglio 2002
n. 10723. Cass. Sez. Un. 3 agosto 2000 n. 527 è pubblicata, fra l’altro, in questa Rivista, 2000, 699
con nota di FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla “natura” dell’arbitrato; in Riv. Dir. Proc.,
2001, 254, con nota di E.F. RICCI, La “natura” dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano
le Sezioni unite; in Corr. Giur., 2001, 51, con nota di RUFFINI - MARINELLI, Le sezioni unite fanno
davvero chiarezza sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione?; in Giust. Civ., 2001, I, 761, con nota
di MONTELEONE, Le sezioni unite della Cassazione affermano la natura negoziale e non giurisdizionale del cosiddetto “arbitrato rituale”. Cass. Sez. Un. 22 luglio 2002 n. 10723, si trova
pubblicata, fra l’altro, in Foro It., 2003, I, 1832 (v. anche il commento di CONSOLO - MARINELLI,
La Cassazione e il “duplice volto” dell’arbitrato in Italia, in Corr. Giur., 2003, 678 e 827).
Seguono la soluzione inaugurata da Cass. Sez. Un. 22 luglio 2002 n. 10723, ex pluribus, Cass. Sez.
Un. 18 aprile 2003 n. 6349 (in questa Rivista, 2004, 39 con nota di BRIGUGLIO, Le sezioni unite
e l’eccezione fondata su accordo compromissorio per arbitrato estero; in Corr. Giur., 2004, 919
con nota di CONSOLO, Soprassalti delle sezioni unite intorno all’eccezione di arbitrato estero e alla
convenzione di New York quanto all’ordine delle questioni di rito e di doppio merito e riflessioni
318
estero al difetto di giurisdizione (4). Varie decisioni hanno già consolidato
il nuovo orientamento della Corte (5).
Dopo aver brevemente ripercorso la motivazione dell’ordinanza (par.
2), ci soffermeremo sul regime dell’eccezione di accordo per arbitrato
estero, in particolare, sull’interpretazione dell’art. II della Convenzione
per il riconoscimento e l’esecuzione dei lodi stranieri, firmata a New York
il 10 giugno 1958 (6) (di seguito “Convenzione”) (par. 3 e 4). Si esaminerà,
poi, la soluzione data dalla Corte al caso concreto (par. 5).
2. Con l’ordinanza n. 24153/2013, le Sezioni Unite decidono del
ricorso ex art. 41 c.p.c. proposto dalla società (di diritto svizzero) Luxury
Goods International SA (di seguito “LG”) nell’ambito di un giudizio ex
art. 645 c.p.c.
LG aveva eccepito il difetto di giurisdizione deducendo che il contratto stipulato con controparte (la società italiana Swaili Diffusioni S.r.l.,
di seguito “SD”) conteneva una clausola per arbitrato estero (7). A sua
volta, SD aveva dedotto: (i) l’inammissibilità del regolamento preventivo
di giurisdizione; (ii) la nullità della clausola compromissoria (in quanto
non approvata per iscritto ex artt. 1341 e 1342 c.c.); e (iii) la sua inefficacia
(in quanto riferita al “regolamento d’arbitrato di Lugano e non al ‘regolamento svizzero di arbitrato internazionale di Lugano’”).
sull’art. 4 l. n. 218/1995; in Int’l Lis, 2004, 38 con nota di CONSOLO, La recente tesi della cassazione
italiana sull’eccezione di arbitrato estero come eccezione di merito e la sua compatibilità con la
Convenzione di New York; in Riv. Dir. Proc., 2005, 269 con nota di ATTERITANO, La qualificazione dell’eccezione di compromesso per arbitrato estero quale eccezione di merito: problematiche connesse di diritto interno e di diritto internazionale); Cass. Sez. Un. 5 gennaio 2007 n. 35
(pubblicata in Riv. Dir. Proc. 2007, 1293 con nota di E.F. RICCI, La cassazione si pronuncia
ancora sulla “natura” della convenzione di arbitrato rituale: tra l’attaccamento a vecchi schemi e
qualche incertezza concettuale); Cass. Sez. Un. 27 febbraio 2008 n. 5090. In giurisprudenza, si
veda anche Cass. Sez. Un. 12 gennaio 2007 n. 412 (secondo cui l’art. II, co. 3, Conv. prescrive
al giudice di delibare sommariamente l’efficacia del patto arbitrale senza che la decisione
sull’eccezione — qualificata come eccezione di merito — vincoli arbitri e giudici stranieri).
(4) In questo senso, ex pluribus, Cass. Sez. Un. 12 gennaio 1982 n. 124; Cass. Sez. Un. 7
agosto 1992 n. 9380, in questa Rivista, 1993, 615 con nota di SALVANESCHI, Sui rapporti fra
istruzione preventiva e procedimento arbitrale; Cass. 17 maggio 1995 n. 5397; Cass. 10 marzo
2000 n. 58, in Foro It., 2000, I, 2226.
(5) V. Cass. Sez. Un. 20 gennaio 2014 n. 1005 e Cass. Sez. Un. 23 settembre 2014 n. 19981,
consultabili su dejure.it.
(6) Ratificata dall’Italia con L. 19 gennaio 1968 n. 62. La bibliografia sul tema è ampia,
per tutti, BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, Padova, 1999; MINOLI, L’entrata in vigore della Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, in Riv. Dir.
Proc., 1969, 539; VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958, The Hague,
1981. V. anche PICOZZA, La convenzione di deroga alla giurisdizione italiana a favore di arbitrato
estero, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2005, 321 (anche per riferimenti).
(7) L’art. 14 del contratto stabiliva, fra l’altro, “tutte le controversie che derivassero dal ...
contratto o fossero comunque allo stesso ricollegabili saranno risolte in via definitiva da uno o più
arbitri nominati secondo il regolamento d’arbitrato di Lugano, edito dalla camera di commercio
del Canton Ticino. Il tribunale arbitrale avrà sede a Lugano”. La clausola riprende (salvo che per
l’ultimo inciso) la clausola modello edita dalla Camera di Commercio del Canton Ticino
(consultabile sul sito http://www.cc-ti.ch).
319
In via preliminare, le Sezioni Unite si interrogano sull’ammissibilità
del regolamento preventivo di giurisdizione (par. 2.2-7.5).
A tal fine esaminano la natura dell’arbitrato rituale in base alla
disciplina positiva e alla giurisprudenza (8) (par. 2.3-5.8) concludendo che
esistono “sufficienti indici sistematici per riconoscere natura giurisdizionale” al lodo rituale (par. 4.7) e che l’esistenza di un accordo compromissorio integra una questione di competenza (par. 5.9) (9). Soltanto in
seconda battuta, la Corte si interroga sulla natura dell’eccezione di accordo per arbitrato estero concludendo, in base alla disciplina interna
(par. 6.1-6.6) e internazionale (par. 7.1-7.5), che l’eccezione attiene al
difetto di giurisdizione (e non al merito della controversia) (10).
In particolare, secondo la Corte, “una volta affermata in via generale
la natura giurisdizionale dell’arbitrato” rituale, la stessa natura deve essere
“affermat[a] anche per l’arbitrato estero” (par. 6.2). Inoltre, secondo l’ordinanza, l’inquadramento dell’eccezione nell’ambito del difetto di giurisdizione è coerente con l’oggetto dell’indagine cui il giudice è chiamato
(ossia verificare i “limiti della giurisdizione italiana”, par. 6.2) e con il
disposto dell’art. 4 L. n. 218/1995 (par. 6.3-6.4). La Corte esclude poi di
dover attribuire natura di merito all’eccezione per il fatto che il giudice
l’esamina alla stregua di norme sostanziali (11) e prima di ogni altra
(8) Questione, a rigore, irrilevante dato che l’accordo richiamava un arbitrato con sede
all’estero, v. supra nt. 7.
(9) La Corte, ricordando la “nota tesi del convogliamento dell’arbitrato nell’ambito del
giudizio ordinario” (par. 5.9), conclude che l’arbitrato rituale costituisce “esercizio di giurisdizione” (per un’analisi critica del ragionamento seguito dalla Corte, ZUCCONI GALLI FONSECA,
Giudice italiano ed exceptio compromissi, cit., 745 ss. sottolineando l’eterogeneità dell’arbitrato
rispetto al “servizio-giustizia dello Stato”; v. anche PUNZI, Dalla crisi del monopolio statale, cit.,
e VERDE, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico, cit.). Secondo la Corte,
attribuire natura giurisdizionale all’arbitrato rituale è conforme agli artt. 24 e 102 Cost., i quali
consentono di derogare alla “regola” secondo cui “la funzione giurisdizionale sui diritti si
esercita davanti ai giudici ordinari” purché: (i) la deroga corrisponda a una “concorde volontà
delle parti” e riguardi una lite “relativa a diritti disponibili” “conoscibile dal giudice ordinario”;
(ii) l’arbitrato sia disciplinato da “norme di legge” che offrono “idonee garanzie sul piano
dell’imparzialità dell’organo giudicante e del contraddittorio”; e (iii) il lodo possa essere
impugnato dinanzi alla giurisdizione ordinaria “nei limiti in cui l’ordinamento processuale
tipizza la fattispecie di nullità”) (par. 4.6). Peraltro, l’ordinanza rileva che l’arbitrato con le
caratteristiche sub (i)-(iii) è conforme all’art. 6 Convenzione EDU (par. 4.6). Sulla possibile
responsabilità degli Stati nel caso in cui disciplinino l’arbitrato senza rispettare l’art. 6 della
Convenzione EDU, BESSON, Arbitration and Human Rights, in ASA Bull., 2006, 402 ss.;
JARRONSON, L’arbitrage et la convention européenne des Droits de l’Homme, in Rev. Arb., 1989,
591. Sui rapporti tra l’art. 6 della Convenzione EDU e l’arbitrato, per tutti, CONSOLO, L’equo
processo arbitrale nel quadro dell’art. 6 § 1 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in
Riv. Dir. Civ., 1994, 453; sull’applicabilità dell’art. 6 CEDU all’arbitrato non obbligatorio, ECJ,
Regent Company v. Ukraine (Application No. 773/03), 3 aprile 2008.
(10) La Corte rileva, fra l’altro, l’incoerenza insita nel ricostruire l’accordo per arbitrato
estero come una “rinuncia a ogni tipo di giurisdizione” a prescindere dal suo effetto nell’ordinamento di origine, ma anche il rischio che la decisione (in quanto di merito) possa acquisire
efficacia di giudicato e circolare all’estero, vincolando arbitri e giudici stranieri.
(11) Anche la deroga convenzionale alla giurisdizione implica un’indagine di diritto
sostanziale — rileva la Corte — senza che nessuno dubiti della sua natura processuale o
320
difesa (12). Piuttosto, secondo la Corte, l’art. II, co. 3, Conv. conferisce
all’eccezione natura processuale dato che prescrive di esaminare la validità dell’accordo in base alla domanda, “in via assolutamente preliminare”
e “senza alcuna efficacia di giudicato” vincolante per gli arbitri o i giudici
stranieri (par. 7.4). Avendo ricondotto l’eccezione al difetto di giurisdizione, la Corte dichiara ammissibile il ricorso ex art. 41 c.p.c.
Da ultimo, la Corte esamina la validità della clausola compromissoria
inserita nel contratto tra LG e SD (par. 8.1-8.5) rigettando l’eccezione:
(i) di nullità ex artt. 1341 e 1342 c.c. perché ritiene la clausola soggetta
al diritto svizzero ex artt. 57 L. n. 218/1995 e 3 Convenzione di Roma
(secondo cui “il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti”) ed ex art.
14 del contratto (par. 8.2-8.4);
(ii) di inefficacia perché “una volta esclusa la giurisdizione del giudice
italiano, per effetto della deroga in favore di arbitrato straniero, il procedimento di nomina di detti arbitri e le regole che tali arbitri dovranno adottare
nella decisione esulano dalla questione di giurisdizione oramai conclusa
con declaratoria di insussistenza ... rientrando ... esclusivamente nella
giurisdizione degli arbitri” (par. 8.5).
3. Come notato, l’ordinanza segna un (nuovo) revirement nel tormentato inquadramento dell’eccezione di accordo per arbitrato
estero (13).
La soluzione prospettata dalla Corte (che riconduce l’eccezione fra
dell’inidoneità al giudicato ex art. 2909 c.c. della relativa decisione (in quanto attinente a una
“questione pregiudiziale di merito (validità dell’accordo) che si pone come premessa per la
soluzione di una questione pregiudiziale di rito, facente da filtro per l’accesso all’unico vero
accertamento di merito”, par. 7.3).
(12) Secondo la Corte, infatti, la norma: (i) contempla un’“analisi preventiva” analoga
(dal punto di vista “logico-funzionale”) a quella prevista dall’“art. 7 l. n. 218/1995 in tema di
litispendenza internazionale” (par. 7.1); (ii) prescrive al giudice di “rinviare” le parti ad arbitrato
(i.e., sospendere l’esame del merito) quando constati l’esistenza di un valido patto arbitrale (par.
7.1); (iii) “attribuisce a qualunque giudice adito [e non soltanto al giudice munito di giurisdizione] — sulla base della domanda di una parte che invoca l’esistenza di una clausola arbitrale
— il potere-dovere di verificar[ne] preliminarmente la validità, operatività e applicabilità ... e, solo
... in caso negativo pronunziarsi sulla giurisdizione”, par. 7.2).
(13) Spesso influenzato dal dibattito sulla natura dell’arbitrato rituale domestico più che
dall’esame delle norme relative all’arbitrato estero (v., ad es., Sez. Un. 18 aprile 2003 n. 6349,
cit., che trascura di esaminare l’art. 4 L. n. 218/1995). Anche l’ordinanza n. 24153/2013 desume
la natura dell’arbitrato estero, inter alia, dalla natura dell’arbitrato rituale (par. 6.2, v. supra par.
2; ma anche par. 2.3-5.9). L’argomentazione non persuade poiché i due istituti sono soggetti a
leggi differenti e nessuna norma ne prescrive l’assimilazione a prescindere dal (o persino contro)
l’inquadramento nell’ordinamento di origine. Del resto, anche l’ordinanza n. 24153/2013 riconosce rilevanza all’inquadramento dell’arbitrato nell’ordinamento di origine, negando, su tale
presupposto, che l’accordo arbitrale costituisca rinuncia a ogni giurisdizione (supra nt. 10). In
ogni caso, l’assimilazione tra arbitrato estero e giurisdizione straniera, se ammessa, indebolirebbe la tesi dell’inapplicabilità all’arbitrato estero delle norme relative ai rapporti fra giurisdizione italiana e straniera (ad es., l’art. 7 L. n. 218/1995, fino ad oggi applicato soltanto ai
procedimenti dinanzi a “giudici” stranieri, ad es., Cass. 25 settembre 2009 n. 20688).
321
“quelle di rito” perché attinente a “una questione di giurisdizione”) merita,
in linea di principio, approvazione. Essa, infatti, consente di superare i
limiti impliciti nell’inquadramento negoziale dell’eccezione (tempestivamente evidenziati dalla dottrina) (14) ed è coerente con il dato positivo,
interno e internazionale (15).
In particolare, l’art. 4, co. 2, L. n. 218/1995 caratterizza l’effetto del patto
per arbitrato estero come deroga alla giurisdizione italiana, attribuendo
all’eccezione una rilevanza processuale non autonoma (in quanto assimilata
— per effetto — al difetto di giurisdizione) (16). Peraltro, come rileva la
Corte, la circostanza che il giudice sia chiamato a valutare la validità del
patto in base a norme di diritto sostanziale non può, di per sé, escludere la
rilevanza processuale dell’eccezione. La natura di una difesa dipende, infatti, soltanto dal rapporto in cui essa si pone rispetto alla tutela richiesta
nel giudizio (17). Inquadrare l’eccezione compromissoria in base ad un criterio diverso introdurrebbe un’(immotivata) incoerenza nel sistema.
Suscitano, però, perplessità taluni passaggi argomentativi dell’ordinanza.
Innanzitutto, non convince l’affermazione secondo cui l’art. II, co. 3,
Conv. (18) prescriverebbe di attribuire natura di rito e di difetto di giuri(14) L’ordinanza riprende (pressoché letteralmente) le osservazioni di BRIGUGLIO, Le sezioni unite e l’eccezione fondata su accordo compromissorio per arbitrato estero, cit., e CONSOLO,
Soprassalti delle sezioni unite intorno all’eccezione di arbitrato estero, cit.). V. supra nt. 10.
(15) La Corte (correttamente) applica al caso di specie l’art. II Conv., non l’art. VI della
convenzione europea sull’arbitrato commerciale internazionale (firmata a Ginevra il 21 aprile
1961 e resa esecutiva in Italia con L. 10 maggio 1970 n. 418, di seguito “Convenzione di
Ginevra”). Quest’ultimo trattato, infatti, si applica soltanto ad accordi e lodi fra “physical or
legal persons having, when concluding the agreement, their habitual place of residence or their
seat in different Contracting States” (art. I) e, pertanto, non può applicarsi alle controversie con
parti elvetiche dato che la Svizzera non l’ha ratificato (in questo senso App. Trieste 2 luglio
1982, in Giur. It., 1983, 170 con nota di FRANCHI, contra, Cass. 16 ottobre 1985 n. 5071, in Foro
It., 1985, I, 2872).
(16) Sottolinea “l’autonomia concettuale” dell’eccezione che non le consente di essere “in
alcun modo ricondotta nell’ambito né della competenza né della giurisdizione”, ZUCCONI GALLI
FONSECA, Giudice italiano ed exceptio compromissi, cit., 746.
(17) Si v. CONSOLO, L’arbitrato con sede estera, la natura della relativa eccezione e
l’essenziale compito che rimane affidato al regolamento transnazionale della giurisdizione
italiana (parte seconda), in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2009, 955 (notando che giurisprudenza e
dottrina attribuiscono natura processuale all’eccezione di deroga convenzionale alla giurisdizione e di inesistenza del credito dedotta per contestare la legittimazione del creditore nei
confronti del debitor debitoris, benché entrambe le eccezioni siano decise in base a norme
sostanziali). Data la struttura della questione compromissoria, potrebbe però dubitarsi che il
regolamento di competenza (ex art. 819-ter c.p.c.) e il regolamento di giurisdizione (ex artt. 37
e 41 c.p.c.) siano strumenti adeguati per deciderne. Entrambi gli strumenti sono, infatti,
modellati per risolvere questioni pregiudiziali interne al processo, non questioni preliminari
idonee a produrre un autonomo accertamento; pone la questione, VERDE, Obsolescenza di
norme processuali: la disciplina della giurisdizione, in Riv. Dir. Proc., 2014, 849.
(18) L’art. II Conv., nell’attuale formulazione, fu introdotto in una fase molto avanzata
delle negoziazioni (circostanza da cui dipendono i difetti di coordinamento con le altre
disposizioni convenzionali, SCHRAMM, GEISINGER, PINSOLLE, Article II, in Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards: A Global Commentary on the New York Convention a cura
322
sdizione (in particolare) all’eccezione di accordo per arbitrato estero (par.
7.1 e 7.4 dell’ordinanza).
La formulazione generica della norma non sembra, in realtà, imporre
alcuno specifico inquadramento dell’eccezione (19). L’art. II, co. 3,
Conv. (20) si limita, infatti, a prescrivere agli Stati di dare effetto agli
accordi compromissori disinteressandosi dei meccanismi “processuali”
attraverso cui raggiungere il risultato (21). In particolare, la norma descrive
con un’espressione atecnica (“refer the parties to arbitration” (22)) le
di Kronke e Nacimiento, Kluwer Law International, 2010, 39 s.). Secondo l’interpretazione maggioritaria, l’art. II Conv. si applica soltanto agli accordi per arbitrato “estero” ex art. I, co. 1 (per
tutti, POUDRET - BESSON, Droit comparé de l’arbitrage international, Bâle, 2002, 441 e ss.; in questo
senso, recentemente, ex pluribus, Corte Suprema israeliana, Siemens AG and Siemens Israel Ltd.
v. Israeli Electric Cooperation Ltd., 3331/14, 13 agosto 2014; Tribunale Federale svizzero n.
4A_436/2007, 9 gennaio 2008). Anche la giurisprudenza italiana ha applicato l’art. II, co. 3, Conv.
soltanto agli accordi relativi ad arbitrato con sede all’estero o senza sede (v. Tribunale Palmi, 9
luglio 1998, in Giur. It., 1999, 1212 con nota di GENNARI; cfr. Cass. 16 novembre 2000, n. 14860,
in Riv. Dir. Int. Priv. e Proc., 2001, 693, negando l’applicazione della Convenzione all’arbitrato
(italiano) internazionale). Autorevole, pur minoritaria, dottrina ritiene, invece, che l’art. II, co.
3, Conv. sia applicabile anche ai patti, ritenuti domestici dallo Stato richiesto del riconoscimento,
che abbiano caratteri di internazionalità (per soggetti e controversia coinvolti) (per tutti, MINOLI,
L’Italie et la Convention de New York pour la reconnaissance et l’exécution des sentences arbitrales
étrangères, in International Arbitration Liber Amicorum for Martin Domke, Sanders (ed.), The
Hague, 1968, 203; VAN DEN BERG, The New York Convention of 1958: an Overview, 9 disponibile
sul sito www.arbitration-icca.org (consultato in febbraio 2015)). Si sottolinea, in particolare, che
l’art. I Conv. fa riferimento soltanto al riconoscimento del lodo estero e che estenderne l’applicazione all’accordo compromissorio frustrerebbe il fine perseguito dalla Convenzione (promuovere l’arbitrato commerciale internazionale); nella giurisprudenza straniera, v., fra le altre,
Smith/Enron Cogeneration Ltd. v. Smith Cogeneration International Inc., 8 dicembre 1999 (198
F.3d 88), par. 22 ss.; Fred Freudensprung v. Offshore Technical Services Inc. and others, 9 agosto
2004, 03-20226; Delhi High Court, Gas Authority of India Ltd. v. SPIE-CAPAG SA and others,
15 ottobre 1993, par. 88.
(19) Così (in motivazione) anche Cass. 18 aprile 2003 n. 6349, cit., e Cass. Sez. Un. 12
gennaio 2007 n. 412, cit. (par. 6.4). Cfr. art. VI Convenzione di Ginevra, v. infra nt. 24. In
dottrina, BRIGUGLIO, Le sezioni unite e l’eccezione fondata su accordo compromissorio per
arbitrato estero, cit., 41; ma anche VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958,
cit., 131 nt. 22 (secondo cui “the question whether the referral to arbitration affects the competence
or the jurisdiction of the court depends on the law of the forum”).
(20) L’art. II, co. 3, Conv. prevede che il giudice, investito di una questione oggetto di
accordo compromissorio, “shall, at the request of one of the parties, refer the parties to arbitration,
unless it finds that the said agreement is null and void, inoperative or incapable of being performed”.
(21) BRIGUGLIO, Le sezioni unite e l’eccezione fondata su accordo compromissorio per
arbitrato estero, cit., 41. Data l’eterogeneità dei sistemi processuali nazionali si preferì lasciare
agli Stati ampia libertà di regolare il riconoscimento degli accordi compromissori e dei lodi (così
da favorire una più ampia adesione alla Convenzione). Sulla genericità dell’art. II, co. 3, Conv.
v., ad es., Cass. Sez. Un. 26 giugno 2001 n. 8744 (secondo cui l’art. II, co. 3, Conv. non prescrive
“l’adozione di formule sacramentali” per l’eccezione compromissoria né “la proposizione di una
espressa istanza di rinvio delle parti all’arbitrato”).
(22) I testi francese e spagnolo, parimenti ufficiali, stabiliscono che il giudice “renverra les
parties à l’arbitrage, à la demande de l’une d’elles” e “remitirá a las partes al arbitraje, a instancia
de una de ellas”. Enfatizza l’atecnicità dell’espressione “renvoyer les parties à l’arbitrage”,
POUDRET - BESSON, Droit comparé de l’arbitrage international, cit., 445. L’espressione “shall
refer” sembrerebbe suggerire meccanismi di esecuzione in forma specifica dell’accordo compromissorio (Redfern and Hunter on International Arbitration, a cura di Blackaby, Kluwer Law
International, 2009, par. 1.11), che però non sono stati adottati dalla maggior parte degli
323
conseguenze che un valido accordo arbitrale produce sul giudizio statale (23) e non regola il trattamento che l’accordo deve ricevere nel
giudizio statale (se non per taluni, specifici, profili) (24). Peraltro, l’art. II,
co. 3, Conv. non sembra neppure presupporre la natura processuale
dell’eccezione. Infatti:
(i) la circostanza che “qualsiasi” giudice abbia il “potere-dovere di
verificare preliminarmente la validità, l’operatività e applicabilità della
clausola” (25) (più che prescrivere la natura di rito dell’eccezione) sembra
esprimere, genericamente, l’obbligo per gli Stati di dare effetto al patto
(ciascuno nel modo ritenuto opportuno) (26).
(ii) L’obbligo di “rimettere” le parti ad arbitrato in presenza di un
valido patto arbitrale implica soltanto l’obbligo per il giudice di non
decidere il merito della controversia (27), un risultato raggiungibile sia
attribuendo all’eccezione rilevanza di rito (eventualmente autonoma (28))
che di “merito” (sull’esistenza di un valido accordo compromissorio (29)).
ordinamenti (VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958, cit., 129). L’esecuzione dell’accordo viene, infatti, prevalentemente assicurata in via indiretta (ossia privando le
parti della possibilità di proseguire il giudizio statale). V,. però, Sez. 4 Chp. 1, 206 Chp. 2 e 303
Chp. 3 del Federal Arbitration Act USA che consentono al giudice di sospendere il giudizio
instaurato in violazione dell’accordo arbitrale ma anche di disporre un “order compelling”
l’arbitrato (interno o estero; v. Kulukundis Shipping Co. S/A v. Amtorg Trading Corp., 2 marzo
1942, 126 F.2d 978, 987).
(23) In particolare, chiusura o sospensione del giudizio in attesa della decisione arbitrale,
per tutti, BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, Il sistema delle Convenzioni internazionali, Padova, 1999,
165 s.; CONSOLO, L’arbitrato con sede estera, la natura della relativa eccezione, cit., 955 (auspicando, de jure condendo, una modifica dell’art. 4 L. n. 218/1995 “in conformità alla impostazione
garantistica, e così attendista, dell’art. 7 stessa legge”); BORN, International Commercial Arbitration, Kluwer Law International, 2014, 1278 ss.
(24) Fra cui la rilevabilità ex parte dell’eccezione compromissoria e l’obbligo per il giudice
di astenersi dal decidere il merito della controversia in presenza di un valido accordo compromissorio (“internationally uniform rules” processuali, VAN DEN BERG, The New York Arbitration
Convention of 1958, cit., 135 e s.). Cfr. art. VI della Convenzione di Ginevra che contiene una più
dettagliata disciplina dell’accordo compromissorio (“a plea as to the jurisdiction of the court made
before the court seized by either party to the arbitration agreement, on the basis of the fact that an
arbitration agreement exists shall, under penalty of estoppel, be presented by the respondent before
or at the same time as the presentation of his substantial defence, depending upon whether the law
of the court seized regards this plea as one of procedure or of substance”).
(25) Par. 7.2 dell’ordinanza.
(26) Cfr. art. VI Convenzione di Ginevra (supra nt. 24) che espressamente fa salva la
discrezionalità degli ordinamenti statali di qualificare l’eccezione come rito o merito (si noti che
la Convenzione di Ginevra richiama, nel preambolo, la Convenzione di New York ponendosi,
rispetto a essa, in funzione integrativa).
(27) Le espressioni “shall refer” “renverra” sembrano escludere la facoltatività del rinvio
agli arbitri, precludendo norme statali che autorizzino i giudici a decidere sulla lite nonostante
l’esistenza di un valido accordo arbitrale (VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention
of 1958, cit., 135 ss.).
(28) E.g., Sect. 3 FAA e Sect. 9 UK Arbitration Act, che tipizzano l’eccezione di accordo
compromissorio attribuendole rilevanza ed effetti autonomi rispetto al difetto di giurisdizione
(prevedendo la sospensione del giudizio in luogo della sua chiusura in rito).
(29) È, infatti, opinione condivisa che la Convenzione non conferisce al tribunale
arbitrale competenza esclusiva o prioritaria per decidere della validità dell’accordo compromissorio, per tutti POUDRET - BESSON, Droit comparé de l’arbitrage international, cit., 443.
324
Inoltre, contrariamente a quanto sembra suggerire l’ordinanza, l’art.
II, co. 3, Conv. non prescrive neppure di esaminare l’eccezione compromissoria in via “assolutamente preliminare” (rispetto alla giurisdizione,
par. 7.1 e 7.4) (30) e prima facie (“sulla base della domanda” della parte che
invoca la clausola, par. 7.2 e 7.4) (31).
Infatti, da una parte, l’obbligo di rimettere le parti ad arbitrato
quando il giudice constati l’esistenza di un valido patto arbitrale potrebbe
implicare l’obbligo di trattare e decidere l’eccezione prima di ogni altra,
soltanto se l’art. II, co. 3, Conv. regolasse il rapporto fra l’eccezione e le
ulteriori questioni che possono insorgere nel giudizio statale (ossia lo
svolgimento di quest’ultimo). Tale circostanza (oltre a non essere dimostrata) sembra smentita (i) dallo scopo della Convenzione (disciplinare il
riconoscimento degli accordi arbitrali e dei lodi stranieri, soltanto), (ii) dal
suo modus procedendi (evitare, per quanto possibile, ingerenze nelle
discipline processuali statali) nonché (iii) dalla possibilità di dare attuazione all’art. II Conv. sospendendo il giudizio statale (32). Introducendo un
rigido ordine di trattazione, infatti, la Convenzione prescriverebbe (irragionevolmente) agli Stati di sospendere il giudizio senza poter verificare
che questo possa, una volta riassunto, giungere a una decisione di merito.
Spetta quindi a ciascuno Stato disciplinare l’ordine di trattazione (e
decisione) delle eccezioni nel giudizio, inclusa l’eccezione compromissoria.
Dall’altra, la norma descrive la verifica da svolgere sul patto con
espressioni (“find”, “constate”, “compruebe”) che non definiscono il tipo
di cognizione da effettuare (33) (come conferma l’attuazione eterogenea
(30) Al più, dal favor arbitrati sotteso alla Convenzione potrebbe dedursi che il “dubbio”
sull’esistenza del patto arbitrale deve protrarsi per “il minor tempo possibile” (BRIGUGLIO,
L’arbitrato estero e l’ordinamento processuale italiano, Roma, 2004, 149 e 153 secondo cui,
peraltro, se l’eccezione attenesse al difetto di giurisdizione “nessun ordine logico plausibile ...
potrebbe stabilirsi fra le due [questioni]”). Cfr., però, Cass. 10 marzo 2000 n. 58, cit., par. 3.1
(secondo cui l’esistenza di un valido accordo compromissorio è questione logicamente “prioritaria” dato che l’“(eventuale) disciplina contrattuale con la rimessione agli arbitri stranieri
potrebbe derogare alla disciplina legale della giurisdizione”).
(31) L’ordinanza riprende pressoché testualmente Cass. Sez. Un. 18 aprile 2003 n. 6349,
cit., e Cass. Sez. Un. 12 gennaio 2007 n. 412, cit., par. 6.6.
(32) V. anche par. 7.1 dell’ordinanza.
(33) Ad esempio il verbo “find” è impiegato in espressioni che indicano tanto un esame
sommario (“find on a prima facie basis”) che una decisione a cognizione piena (“make a
finding”), cfr. BORN, International Commercial Arbitration, cit., 1054 s. (contra ritenendo che la
norma prescriva un esame prima facie dell’accordo compromissorio, BARCELÓ, Who Decides the
Arbitrators’ Jurisdiction? Separability and Competence-Competence in Transnational Perspective, Vand. J. Transnat’l L., 2003, 1135; VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of
1958, cit., 169). L’art. II, co. 2, lett. (b) della “Hypothetical Draft Convention on the International
Enforcement of Arbitration Agreements and Awards” (proposta da van den Berg nel 2009)
prescrive di verificare la validità dell’accordo prima facie (v. Comparison of Texts: Proposal for
Revisions to the 1958 New York Convention, ICCA Congress Series, 2009, Kluwer Law
International, 2009, 670).
325
che la previsione ha ricevuto nei diversi Stati (34)). Peraltro, se l’art. II, co.
3, Conv. prescrivesse effettivamente una cognizione prima facie sul patto
arbitrale, lascerebbe perplessi la conclusione circa l’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione (una conclusione, peraltro, motivata
rapidamente, per rinvio alla qualificazione dell’eccezione (35), senza verificare l’effettiva compatibilità dei due istituti (36)). Benché, infatti, il
regolamento ex art. 41 c.p.c. consenta una decisione in tempi più rapidi di
quelli imposti dallo svolgimento di tre gradi di giudizio (in linea con il
favor arbitrati sotteso alla Convenzione), esso dà luogo a una cognizione
piena sui confini internazionali della giurisdizione. La Corte è, infatti,
chiamata a deciderne esaminando: (i) tutti i fatti rilevanti (i.e., anche i fatti
allegati da chi deduce il difetto di giurisdizione — ad es., l’esistenza di un
patto arbitrale — e le eventuali controdeduzioni (37) — ad es., l’invalidità,
inoperatività o inapplicabilità del patto); (ii) le prove fornite rispetto ai
fatti rilevanti estranei al merito della lite (ad es., la rinuncia all’accordo
compromissorio) (38).
(34) Alcuni Stati prescrivono un controllo sommario e superficiale sulla validità del patto
(v. ad esempio, art. 1448, co. 1, N.C.P.C. applicabile anche all’accordo per arbitrato estero), altri
invece ne decidono a cognizione piena. Così, ad esempio, la giurisprudenza svizzera ritiene che
l’art. II, co. 3, Conv. prescriva un accertamento pieno e definitivo sulla validità dell’accordo per
arbitrato estero (Tribunale Federale, 29 aprile 1996, ASA Bull., 1996, 530; Tribunale Federale,
16 gennaio 1994, in ASA Bull., 1995, 507), mentre svolge un esame prima facie del patto per
arbitrato interno (ad es., Tribunale Federale, 4A_119/2012, 6 agosto 2012, par. 3.2; Tribunale
Federale, 13 settembre 2004, in ASA Bull., 2005, 145, secondo cui la decisione pregiudiziale con
cui il giudice statale ammette la propria competenza vincola anche l’arbitro svizzero che dovesse
successivamente venir chiamato a determinarsi sulla medesima questione); cfr., nella giurisprudenza inglese, Court of Appeal (Civil Division), Ahmad Al-Naimi v. Islamic Press Agency, 28
gennaio 2000, [2000] Lloyd’s Rep. 522 (applicando la Sez. 9 dell’Arbitration Act relativa ad
arbitrati interni ed esteri). In dottrina, negano che l’art. II, co. 3, Conv. imponga un controllo
prima facie della validità dell’accordo ex pluribus, DIMOLITSA, Separability and KompetenzKompetenz, ICCA Congress Series, 1999, 237 ss., POUDRET - BESSON, Droit compare de
l’arbitrage international, cit., 443.
(35) Peraltro, come noto, la decidibilità ex art. 41 c.p.c. della giurisdizione internazionale
del giudice italiano era discussa (stante l’abrogazione dell’art. 37, co. 2, c.p.c. da parte dell’art.
73 L. n. 218/1995), GIUSSANI, Intorno alla deducibilità, cit.; GASPERINI, Le ripercussioni dell’abrogazione dell’art. 37, 2º comma, sull’art. 41 c.p.c.: le sezioni unite “salvano” il regolamento di
giurisdizione, in Giust. Civ., 1999, 1635. In giurisprudenza, motiva in favore dell’esperibilità del
rimedio (in un caso in cui era stata eccepita anche l’esistenza di una clausola compromissoria),
Cass. 10 marzo 2000 n. 58, cit. (par. 2.2). Per le incisive critiche di costituzionalità, si rinvia, per
tutti, CIPRIANI, Il regolamento di giurisdizione, Napoli, 1977, 312 ss.
(36) VERDE, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico, cit., 97. V. anche
supra nt. 17.
(37) Per tutti, LUPOI, La contestazione in fatto del criterio di collegamento giurisdizionale
ed il regolamento di giurisdizione, in Foro It., 1977, V, 301 s.
(38) Seppur la validità, operatività ed efficacia dell’accordo compromissorio si prestino a
essere documentalmente provate, non può escludersi la necessità di acquisire prove costituende
(si pensi, ad es., alla prova per testi o interrogatorio formale della circostanza che, durante le
negoziazioni di una clausola, le parti ne avevano espressamente escluso l’applicazione ad alcuni
tipi di controversie). Come noto, la Corte ha dichiarato inammissibile il regolamento quando ha
ritenuto insufficiente la prova fornita, Cass. Sez. Un. 28 marzo 2006 n. 7035 con nota di GIOIA,
La prova nei regolamenti di giurisdizione, in Riv. Dir. Proc., 2006, 1452 e in Giur. It., 2007, con
326
Infine, l’inquadramento processuale dell’eccezione non sembra neppure desumibile dalla circostanza che “nel sistema delineato dalla convenzione” il giudice deve verificare la validità del patto arbitrale “senza alcuna
efficacia di giudicato” e senza “vincolare” gli arbitri o giudici stranieri (par.
7.4 e 7.3 dell’ordinanza). La Convenzione, invero, non disciplina (espressamente o implicitamente) l’efficacia della determinazione ex art. II, co. 3,
Conv. (39) Né l’ordinanza offre elementi per dimostrare il contrario.
Piuttosto, ciascuno Stato può regolare, come ritiene opportuno, l’efficacia
della valutazione resa ex art. II Conv. e la riconoscibilità della determinazione emessa, agli stessi fini, da un giudice straniero (40).
In ogni caso, lascia perplessi la conclusione secondo cui la determinazione sulla validità del patto esplica “efficacia di giudicato” se il giudice
italiano trattiene la giurisdizione (41) (non se la declina (42)) (43). L’idonota di RONCO, Regolamento preventivo e prova costituenda dei fatti rilevanti per determinare la
giurisdizione, in Giur. It., 2007, 1212.
(39) POUDRET - BESSON, Droit comparé de l’arbitrage international, cit., 472 e ss.
(40) Cfr. Court of Appeal, National Navigation Co. v. Endesa Generacion SA, 17
dicembre 2009 (2009) EWCA Civ. 1397, che ha ritenuto vincolante (in base al Regolamento n.
44/2001) la sentenza con cui un giudice spagnolo aveva affermato la propria giurisdizione stante
l’invalidità dell’accordo arbitrale eccepito dalla convenuta (notando che “[i]t is quite true that the
United Kingdom as a party to the Convention has an obligation to recognise and enforce
arbitration agreements where they exist, but it does not follow that the courts of this country have
a duty to examine the question for themselves whenever it is alleged that the parties have entered
into an agreement of that kind. Whether they have done so in any given case is a question which,
for the purposes of the New York Convention, may be determined by any court of competent
jurisdiction, there being nothing in the Convention itself which precludes the application of
established rules of estoppel by record”, par. 123; al par. 118 precisando che il vincolo si estende
agli arbitri tenuti ad applicare la legge inglese).
(41) Par. 7.3 dell’ordinanza, riprendendo pressoché letteralmente Cass. Sez. Un. 12
gennaio 2007 n. 412, cit., par. 6.6 (che però attribuiva all’eccezione natura di merito). Si
potrebbe quindi immaginare che la decisione contenga un accertamento autonomo extraprocessuale in materia di arbitrato, cui non sarebbe applicabile la disciplina dei regolamenti europei
nn. 44/2001 e 1215/2012 in base ai rispettivi artt. 1 (cfr., però, Court of Appeal, National
Navigation Co. v. Endesa Generacion SA, 17 dicembre 2009, cit., supra nt. 40), ma la disciplina
nazionale. Come noto, la dottrina riteneva, invece, che il regolamento n. 44/2001 si applicasse
alla sentenza che avesse valutato la validità del patto compromissorio ai fini della giurisdizione
(conf. in West Tankers, in questa Rivista, 2009, con nota di D’ALESSANDRO, La Corte di giustizia
dichiara le anti-suit injunctions a tutela dell’arbitrato inglese incompatibili con il sistema del Reg.
n. 44/2001, ivi, 67; contra Appel Paris, 15 giugno 2006, Legal Department du Ministère de la
Justice de la République d’Irak v Sociétés Fincantieri Cantieri Navali Italiani, in Rev. Arb., 2007,
87 con nota di BOLLÉ) e alla sentenza che avesse deciso del merito della controversia dopo aver
rigettato l’eccezione compromissoria (per tutti, AMBROSE, Arbitration and the Free Movement of
Judgments, in Arb. Int’l, 2003, 3 e s.; AUDIT, Arbitraton and the Brussels Convention, in Arb. Int’l,
1993, 1; CONSOLO, Raccordi o antifone fra arbitrato e giudizio ordinario? Profili comparatistici e
transnazionali, in Contr. e Impr., 2004, 595 s.; MARINELLI, Eccezione arbitrale non sollevata o
respinta e circolazione delle sentenze nelle Convenzioni di Bruxelles/Lugano, in Int’l Lis, 2002,
138 e s.; VAN HOUTTE, May Court Judgments that Disregard Arbitration Clauses and Awards Be
Enforced under the Brussels and Lugano Conventions?, in Arb. Int’l, 1997, 85; la dottrina si
divideva però sulla possibilità di riesaminare la validità del patto in sede di riconoscimento della
sentenza di merito (favorevole al riesame nell’ambito del controllo dell’ordine pubblico o ex art.
27, n. 4 Conv. Bruxelles, per tutti, BRIGUGLIO, L’arbitrato estero e l’ordinamento processuale
italiano, cit., 96 e ss.; contra, per tutti, CONSOLO, L’arbitrato con sede estera, la natura della
relativa eccezione (I), cit., nt. 9)). Il considerando n. 12 del Regolamento n. 1215/2012 esclude
327
neità al giudicato non sembra, infatti, coerente né con l’obbligo (asseritamente imposto dall’art. II Conv.) di valutare la validità dell’accordo prima
facie e “senza efficacia di giudicato” (44) né con l’inquadramento processuale dell’eccezione. Se, infatti, la validità dell’accordo è una “questione
pregiudiziale di merito... che si pone come premessa per la soluzione di una
questione pregiudiziale di rito” (45), la decisione su di essa, più che idonea
al giudicato, sembrerebbe assorbita nella statuizione definitiva sulla giurisdizione (46). Una diversa soluzione, in quanto extra ordinem, avrebbe
dovuto essere (quanto meno) puntualmente motivata.
Peraltro, l’ordinanza non contiene alcun riferimento alla sentenza
Gothaer (47) con cui, come noto, la Corte di Giustizia ha affermato
l’idoneità al giudicato dell’accertamento (sulla validità di un accordo di
l’applicazione del regolamento alle decisioni sulla “nullità, inoperatività o inapplicabilità di una
convenzione arbitrale ... adottate ... in via principale o in via incidentale”, ma non alle sentenze
di merito emesse a seguito di una valutazione di invalidità del patto (pur precisando che tale
previsione non esclude la riconoscibilità del lodo in base alla Convenzione di New York “che
prevale sul ... regolamento”). La dottrina è divisa circa la riconoscibilità in base al Regolamento
n. 1215/2012 della sentenza che decida della validità dell’accordo compromissorio e del merito
(nonché sul vincolo alla valutazione effettuata dal giudice straniero), favorevoli, i.a., MOURRE NIOCHE, Le Règlement Bruxelles I “refondu” évite le risque d’une régionalisation de l’arbitrage,
in Les cahiers de l’arbitrage, 2013, 577 ss.; RASIA, Il nuovo regolamento Ue n. 1215 del 2012 e
l’arbitrato: a storm in a tea cup, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2013, 193, nt. 43; ZUCCONI GALLI
FONSECA, Giudice italiano ed exceptio compromissi per arbitrato, cit., 761 ss.; contra escludendo
che la sentenza, nel suo complesso, possa circolare in base al regolamento, MENÉTREY - RACINE,
L’arbitrage et le Règlement Bruxelles I bis, in Le nouveau Règlement Bruxelles I bis a cura di
Guinchard, Bruxelles, 2014, 42 ss.); ritengono, invece, che possa circolare in base al regolamento
soltanto il capo relativo al merito, NUYTS, La refonte du règlement Bruxelles I, in Rev. Cr. Dr. Int.
Privé, 2013, 1 (che fa salva la riconoscibilità del capo relativo alla validità del patto in base alla
disciplina statale) e BOLLÉ, L’arbitrage et le nouveau règlement Bruxelles I, in Rev. Arb., 2013,
985.
(42) Par. 7.3 dell’ordinanza; contra Cass. 13 luglio 1988 n. 4592, in Giur. It., 1989, 690 (con
nota critica di FRANCHI), secondo cui esplica efficacia di giudicato (vincolante in sede di
riconoscimento del lodo) la decisione con cui il giudice dichiari la validità del patto arbitrale e
declini la propria potestas iudicandi (contra, BOVE, Sulla produzione della convenzione contenente la clausola compromissoria, in questa Rivista, 1993, 225); v. anche Cass. 15 gennaio 1992
n. 405 (in motivazione).
(43) Analoga soluzione è adottata in Svizzera e Germania (POUDRET - BESSON, Droit
comparé de l’arbitrage international, cit., 472 e ss.). Non convince, però, la motivazione posta a
sostegno dell’idoneità al giudicato della decisione sulla validità del patto (ossia l’essere resa “da
giudice che ha affermato la sua giurisdizione”, par. 7.4 dell’ordinanza). Non soltanto, infatti, una
decisione non è idonea al giudicato solo perché resa da un giudice munito di giurisdizione
(essendo, di principio, necessaria una domanda di parte), ma, in ogni caso, la giurisdizione
sull’azione principale non implica giurisdizione sulla validità del patto (che è allocata in base a
criteri autonomi, CONSOLO, L’arbitrato con sede estera, la natura della relativa eccezione II, cit.).
(44) Par. 7.4 dell’ordinanza.
(45) Par. 7.3 (riprendendo pressoché letteralmente Cass. Sez. Un. 12 gennaio 2007 n. 412,
cit., par. 6.5 e CONSOLO, Soprassalti delle sezioni unite, cit., 928).
(46) VERDE, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico, cit., 98.
(47) ECJ Case C-456/11, Gothaer Allgemeine Versicherung AG e altri c. Samskip GmbH,
15 novembre 2012, pubblicata, fra l’altro, in Foro It., 2013, IV, 42 con nota di D’ALESSANDRO
(Pronunce declinatorie di giurisdizione la Corte di giustizia impone limiti di efficacia europei); in
Dir. Comm. Int., 2013, 1085, con nota di HENKE (Verso una nozione europea di res iudicata:
l’efficacia extraprocessuale della declinatoria di giurisdizione e il giudicato sui motivi). Sulla
328
giurisdizione) inserito nella motivazione di una sentenza (dichiarativa
dell’irricevibilità di un’azione) (48). Un richiamo alla decisione avrebbe,
invece, potuto essere opportuno. Si sarebbe, infatti, potuto immaginare
che la conclusione dovesse applicarsi anche alle decisioni ex art. II, co. 3,
Conv. data: (i) l’applicabilità del regolamento n. 44/2001 alle cause il cui
oggetto principale ricade nell’ambito di applicazione del regolamento (49)
e (ii) l’assimilazione tra patto di deroga alla giurisdizione e accordo
compromissorio (prospettata anche dall’ordinanza). In altri termini, in
base alla decisione Gothaer, si sarebbe potuto immaginare che, nello
spazio europeo, la sentenza resa da un giudice (astrattamente munito di
giurisdizione sulla controversia) vincoli gli altri giudici europei anche sulla
validità del patto arbitrale. Contro l’idoneità al giudicato della determinazione sul patto arbitrale, sembrerebbe però muovere la constatazione
che la decisione Gothaer si fonda su peculiarità del regolamento n. 44/2001
insuscettibili di estendersi al patto arbitrale. L’“esigenza di applicare
uniformemente” (50) il regolamento, infatti, sussiste nel caso di deroga
convenzionale alla giurisdizione perché il diritto europeo ne regola, in
maniera uniforme, la validità. La stessa esigenza non sembrerebbe sussistere rispetto all’accordo compromissorio poiché quest’ultimo non è disciplinato dal regolamento (così che giudici e arbitri possono legittimamente valutarne la validità in base a differenti leggi) (51).
4. Sia consentita una notazione più ampia. Nella prospettiva adottata dalla Corte, il patto compromissorio dà vita a due eccezioni autonome
(competenza e giurisdizione) a seconda che l’arbitrato abbia sede in Italia
o all’estero.
Questa soluzione, oltre a fondarsi sulla discutibile tesi del “convogliamento dell’arbitrato” nella giurisdizione statale (52), trascura un dato concreto. L’effetto (che le parti vogliono sia) prodotto da un accordo compromissorio non è diverso a seconda della sede (eventualmente) indicata
per l’arbitrato. Si intende sempre sottrarre alcune liti alla potestas iudiriconoscibilità in base al Regolamento n. 1215/2012 delle decisioni — di rito o di merito — che
si pronuncino sulla validità dell’accordo compromissorio, v. supra nt. 41.
(48) Ibidem, par. 39.
(49) V. supra nt. 41.
(50) Par. 39 della sentenza Gothaer.
(51) Sulle prospettive di revisione del Regolamento n. 44/2001 e del diritto europeo, v.,
ex pluribus, BENEDETTELLI, “Communitarization” of International Arbitration: A New Spectre
haunting Europe?, in Arb. Int’l, 2011, 583; RADICATI DI BROZOLO, L’arbitrato e la proposta di
revisione del Regolamento di Bruxelles I, in questa Rivista, 2011, 187. Peraltro, l’idoneità al
giudicato non potrebbe trarsi neppure dalla Convenzione di New York, che non disciplina il
riconoscimento delle sentenze straniere (relative ad accordi arbitrali o lodi) e non consacra il
principio di “reciproca fiducia” fra gli Stati membri (154, alla data di febbraio 2015), non
precludendo il riesame nel merito delle sentenze straniere in materia di arbitrato.
(52) V. supra nt. 9.
329
candi del giudice per attribuirle alla cognizione arbitrale (53). Peraltro, la
soluzione prospettata dalla Corte non evita complicazioni. Si pensi, ad
esempio, alla difficoltà di inquadrare l’eccezione compromissoria quando
non sia individuata la sede dell’arbitrato (54) ovvero di giustificare come
un giudice possa declinare la competenza ex art. 819-ter c.p.c. quando non
abbia giurisdizione (55).
Si sarebbe forse potuto provare a ricondurre ad unità la fattispecie
compromissoria enfatizzandone l’identità di scopo (56). Un’impostazione,
che sembra suggerita anche dal legislatore quando, nell’art. 4 L. n.
218/1995, mette l’accento sugli effetti prodotti dall’accordo compromissorio sulla potestas del giudice italiano.
In questa prospettiva, si potrebbe ravvisare, nell’art. 4, co. 2, L. n.
218/1995, un’esplicitazione dell’effetto tipico di ogni patto arbitrale e, nel
combinato disposto degli artt. 4 e 11 L. n. 218/1995, la matrice del regime
applicabile alle eccezioni con cui si deduce la carenza di potere del giudice
in favore di soggetti estranei al sistema giudiziario italiano. La riforma del
2006 avrebbe introdotto un regime speciale (parzialmente derogatorio di
quello generale) per l’arbitrato domestico (in ragione delle sue peculiarità). Non avrebbe però modificato la “natura” della relativa eccezione
dato che, come autorevolmente rilevato in dottrina, l’art. 819-ter c.p.c. non
qualifica l’eccezione compromissoria come difetto di competenza ma, più
modestamente, assoggetta le due eccezioni a un regime, per taluni profili,
analogo (57).
Se così fosse, la disciplina ex artt. 4 e 11 L. n. 218/1995 potrebbe essere
applicata (in via estensiva o analogica) a ogni fattispecie compromissoria
non specificamente regolata, nonché all’accordo per arbitrato domestico
(per gli aspetti non disciplinati da norme “speciali”) (58). Inversamente, la
(53) Gli ordinamenti stranieri di più consolidata tradizione attribuiscono all’eccezione
una stessa natura ad arbitrato interno, internazionale o estero (pur, talvolta, differenziandone
la disciplina; v. supra nt. 34).
(54) Ex art. 816 c.p.c. le parti possono fissare la sede dell’arbitrato nella convenzione
arbitrale o successivamente (eventualmente tramite l’intervento dell’istituzione arbitrale, v., ad
esempio, art. 18, co. 1, Reg. ICC); in mancanza, provvedono gli arbitri.
(55) Si immagini che il convenuto abbia eccepito l’esistenza del patto arbitrale senza
dedurre il difetto di giurisdizione italiana in base ai criteri legali. Peraltro, non si potrebbe
neppure immaginare che il convenuto abbia tacitamente accettato la giurisdizione italiana non
eccependo il difetto di giurisdizione dato che questi ha dimostrato di non volersi assoggettare
alla potestas del giudice italiano eccependo l’esistenza del patto arbitrale.
(56) Ritiene che l’esistenza di un valido accordo arbitrale implichi un difetto assoluto di
giurisdizione, ex pluribus, LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2013, V, 168; v. anche BOVE,
Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ., 2002, 417 ss. (enfatizzando l’opportunità di un
regime unico).
(57) Ex pluribus, LUISO, Diritto processuale civile, cit., 167 ss.; RUFFINI, Sub art. 819-ter, in
La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 372 ss.
(58) Ipotizza l’applicabilità dell’art. 4, co. 3, L. n. 218/1995 all’arbitrato domestico,
rilevando che la norma interviene in un ambito non regolato dalla riforma del 2006, BOVE,
Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 375 e s. La constatazione
330
disciplina speciale non sarebbe applicabile oltre i ristretti confini per cui è
prevista (dati il principio lex specialis derogat generali e il divieto di
applicazione analogica ed estensiva delle norme speciali). Con la conseguenza, ad esempio, che l’eccezione di arbitrato estero non potrebbe
essere soggetta ai termini decadenziali previsti ex art. 819-ter (59), ma
anche che la decisione ex art. II, co. 3, Conv. non dovrebbe essere
impugnabile con regolamento di competenza (60) (quanto meno qualora si
continui ad ammettere la deferibilità della questione alla Suprema Corte
tramite regolamento preventivo di giurisdizione).
5. Da ultimo, alcune notazioni sulla soluzione data dalla Corte al
caso concreto.
Come ricordato, la Cassazione ha negato l’invalidità dell’accordo
compromissorio (ex artt. 1341 e 1342 c.c.) perché ha ritenuto applicabile il
diritto svizzero ex art. 57 L. n. 218/1995.
Stupisce che l’ordinanza abbia individuato la normativa applicabile
attraverso una norma di conflitto interna, senza verificare l’eventuale
disciplina contenuta nella Convenzione (61).
In particolare, la Corte avrebbe potuto confrontarsi con l’art. II, co. 2,
Conv. che disciplina la validità formale del patto arbitrale (62) e stabilisce
che legislatore ha individuato uno strumento specifico per sottoporre alla Corte di Cassazione
la questione dell’esistenza di un valido accordo compromissorio (il regolamento di competenza)
può, invece, far dubitare della proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione in
relazione a tale accordo.
(59) Così invece BRIGUGLIO, Funzioni giudiziali ausiliarie e di controllo ed arbitrato estero,
in questa Rivista, 2011, 581, nt. 21. In questo senso sembra anche Cass. Sez. Un. 23 settembre
2014 n. 19981 (che, senza motivare, ritiene preclusa l’eccezione di difetto di giurisdizione per
arbitrato estero perché non formulata “nel rispetto dell’art. 819-ter, co. 1, 3º e 4º inciso” c.p.c.,
par. 3.5).
(60) Ipotizza l’impugnabilità con regolamento di competenza della sentenza che decide
della carenza di potestas iudicandi del giudice in ragione di un accordo per arbitrato estero,
BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, in questa Rivista, 2005, 704 e s. V., però,
Cass. Sez. Un. 23 settembre 2014 n. 19981, cit., che, pur affermando l’applicabilità dell’art.
819-ter, co. 1, c.p.c. all’eccezione di patto per arbitrato estero, non esclude l’ammissibilità
rispetto ad essa del regolamento preventivo di giurisdizione.
(61) La disciplina internazionale prevale, infatti, sulla normativa interna anche ex art. 2,
co. 1, L. n. 218/1995 secondo cui “le disposizioni della presente legge non pregiudicano
l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia”.
(62) V. Cass. 10 marzo 2000 n. 58, cit., par. 3.1 (che verifica la validità formale della
clausola compromissoria soltanto alla stregua della Convenzione), v. anche giurisprudenza
citata nella nt. 64; v., però, Cass. Sez. Un., 19 maggio 2009 n. 11529 (sui rapporti tra art. 4 L. n.
218/1995 e art. II Conv.; e Cass. 17 marzo 1982 n. 1727 individuando i requisiti formali di validità
del patto in base ai criteri stabiliti dall’art. 26 delle preleggi). L’art. II Conv. non regola, invece,
la validità sostanziale dell’accordo compromissorio, che pertanto è governata, secondo la
ricostruzione prevalente, da una legge nazionale (da individuarsi, secondo i più, nella legge
indicata dall’art. V, co. 1, lett. a), Conv. applicabile analogicamente (per tutti, POUDRET-BESSON,
Droit comparé de l’arbitrage international, cit., 273 e s. che richiama ampia giurisprudenza)
secondo altri nella lex fori, BERNARDINI, Arbitration Clauses: Achieving Effectiveness in the Law
Applicable to the Arbitration Clause, in 40 Years of Application of the New York Convention,
Kluwer Law International, 1999, 200. Secondo una soluzione minoritaria, invece, il giudice deve
331
un “maximum” “international form requirement” applicabile in tutti gli
Stati membri (63). Avrebbe così potuto negare l’invalidità del patto rilevando che la Convenzione: (i) (e non il diritto svizzero) non prescrive la
specifica sottoscrizione dell’accordo arbitrale ai fini della sua validità (64),
e (ii) non consente di applicare i più severi requisiti di forma eventualmente previsti dalle legislazioni nazionali.
Quand’anche il riferimento all’art. II, co. 2, Conv. non fosse stato
decisivo, la Corte avrebbe potuto verificare l’eventuale previsione (nella
Convenzione) di norme di conflitto applicabili alla validità del patto.
Stante il silenzio dell’art. II, co. 3, Conv., l’ordinanza avrebbe potuto
confrontarsi con l’art. V, co. 1, lett. (a) Conv. per valutarne l’applicabilità
analogica in sede di giudizio ex art. II Conv. Per tale via avrebbe potuto
individuare una norma di conflitto affine a quella posta dall’art. 57 L. n.
218/1995 (dato che l’art. V. lett. (a) Conv. assoggetta la validità del patto
arbitrale alla legge scelta dalle parti o, in mancanza, alla legge del luogo in
cui il lodo è reso, ossia la sede dell’arbitrato).
Si noti, infine, che, dato il principio dell’autonomia della clausola
compromissoria, la scelta della legge svizzera come legge applicabile al
contratto (inserita nell’art. 14 dello stesso) non costituirebbe, di per sé,
scelta della legge applicabile all’accordo arbitrale (65). Sarebbe stato,
comunque, semplice argomentare in favore di una scelta implicita della
legge svizzera dato che le parti (prevedendo l’applicazione della legge
elvetica non soltanto al contratto ma anche all’eventuale procedura arbitrale (66)), hanno chiaramente indicato di voler ancorare i diversi aspetti
del loro rapporto a un unico ordinamento.
valutare la validità dell’accordo arbitrale in base a standard internazionali, indipendenti dalle
peculiarità delle legislazioni nazionali, per tutti, BORN, International Commercial Arbitration,
cit., 840; in questa direzione sembrano orientate anche la giurisprudenza francese (v. Cass.,
Municipalité de Khoms El Mergeb c. Société Dalico, 20 dicembre 1993, in Rev. Arb., 1994, 116)
e statunitense (secondo sono invalidi gli accordi affetti da una “internationally recognized
defense such as duress, mistake, fraud, or waiver”; Bautista v. Star Cruises, 396 F.3d 1289, in
Yearbook Comm. Arb’n, 2005, 1084; Ledee v. Ceramiche Ragno, 684 F.2d 184, in Yearbook
Comm. Arb’n, 1984, 473; Azhar Ali Khan et others v. Parsons Globale Services and others, 30
marzo 2007 e 11 aprile 2008, in Yearbook Comm. Arb’n, 2009, 911).
(63) Per tutti, BORN, International Commercial Arbitration, cit., 667 e ss. (con ampi
riferimenti di giurisprudenza e dottrina). È discusso se i requisiti di forma prescritti dall’art. II
Conv. (e, indirettamente, dall’art. IV Conv.) siano derogabili (ex art. VII Conv.) da disposizioni
nazionali meno onerose (ad es. che autorizzino la stipulazione di accordi in forma non scritta,
v., ad es. art. 1507 N.C.P.C., secondo cui la “convention d’arbitrage n’est soumise à aucune
condition de forme” e art. 7, co. 1, New Zealand Arbitration Act, art. 7 Legge Modello
UNCITRAL, seconda opzione), contrari, per tutti, VAN DEN BERG, The New York Convention,
cit., 178 e ss.; favorevoli, per tutti, BORN, International Commercial Arbitration, cit., 670;
BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 129 ss.
(64) Così, fra le altre, Cass. Sez. Un., 22 maggio 1995 n. 5601; Cass. Sez. Un. 20 novembre
1992 n. 12385; Cass. Sez. Un. 9 ottobre 1984 n. 5028; v. anche Cass. 16 novembre 1992 n. 12268
e Cass. 15 gennaio 1992 n. 405 (in questa Rivista, 1992, 689 con commento di PIETRANGELI) rese,
però, in un giudizio per il riconoscimento del lodo.
(65) Cfr. artt. 808, co. 2, c.p.c. e 178, co. 3, LDIP.
(66) V. art. 14 del contratto, correttamente citato dalla Corte nella sua integralità.
332
Oltre a rigettare l’eccezione di invalidità, la Corte rifiuta di dichiarare
inefficace la clausola compromissoria. Secondo la Corte, infatti, “il procedimento di nomina” degli arbitri e le regole da adottare nell’arbitrato
“esulano dalla questione di giurisdizione”. L’affermazione sembra condivisibile, purché non generalizzata. A priori, infatti, non può escludersi che
il rinvio a un regolamento o un’istituzione inesistente possa, in particolari
circostanze, pregiudicare la possibilità di svolgere l’arbitrato e/o l’efficacia
del patto arbitrale, due profili ricompresi nell’ambito del controllo ex art.
II, co. 3, Conv.
L’ordinanza non riporta il contenuto delle difese dedotte dalle parti.
Non è, pertanto, possibile verificare se SD avesse motivato l’inefficacia
della clausola indicando che le parti avevano richiamato un regolamento
al tempo non più in vigore (perché sostituito dal regolamento svizzero
d’arbitrato internazionale) ovvero che il regolamento richiamato era stato
“abrogato” dopo la stipulazione dell’accordo. In entrambi i casi, la Corte
avrebbe dovuto valutare, in base al diritto svizzero, il possibile riflesso
sull’efficacia della clausola. In tale valutazione, non avrebbero potuto non
avere rilevanza (in favore di una possibile efficacia del patto): (i) l’art. 1
del regolamento svizzero di arbitrato internazionale (che ne prescrive
l’applicazione quando la convenzione arbitrale fa riferimento “ai Regolamenti d’arbitrato delle Camere di commercio e dell’industria di ... Ticino”) (67) e (ii) il favor arbitrati a cui si ispira la giurisprudenza svizzera
quando esamina gli effetti di clausole compromissorie patologiche (68) e
della successione di regolamenti arbitrali nel tempo (69).
LAURA BERGAMINI
(67) Sul regolamento svizzero di arbitrato internazionale, SCHERER, Revised Swiss Rules
of International Arbitration Enter Into Force, 31 maggio 2012, consultabile su www.kluwerarbitrationblog.com.
(68) La giurisprudenza svizzera dà ampio effetto alla volontà arbitrale pur se espressa in
clausole patologiche, ispirandosi al principio in favorem arbitrati implicito nell’art. 178, co. 2,
LDIP. Ad esempio, il Tribunale Federale ha negato che la scelta dell’istituzione arbitrale sia un
elemento essenziale dell’accordo compromissorio, dando effetto a una clausola riferita ad
un’istituzione inesistente (BGE 129 III 675, v. par. 2.3) o che non poteva amministrare la
procedura (Tribunale Federale, 4A_246/2011, 7 novembre 2011, in ASA Bull., 2012, 157, con
commento di BEFFA, Decision 4A_246/2011 or the Leniency of the Swiss Federal Tribunal
Towards Pathological Clauses).
(69) Cfr. Tribunale Federale, Komplex v. Voest-Alpine Stahl, 14 giugno 1994 (in ASA
Bull. 1994, 226, con nota di BESSON) secondo cui, in caso di modifica del regolamento arbitrale
dopo la stipula dell’accordo compromissorio, quest’ultimo rimane valido dovendosi applicare il
regolamento in vigore al momento della proposizione della domanda arbitrale (salvo modifiche
essenziali e imprevedibili).
333
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 3 giugno 2014, n. 12370; SALMÈ
Pres.; SCALDAFERRI Est.; DEL CORE P.G. (concl. conf.); Re Roberto (avv. Ghisolfi)
c. Re Guerino e Ciocca Carla (avv.ti Romanelli e Morlotti).
Arbitrato - Arbitrato con pluralità di parti - Clausola compromissoria - Clausola
compromissoria binaria - Operatività.
Ai fini della compatibilità astratta tra clausola compromissoria binaria e
pluralità di parti, è necessario che si realizzi uno spontaneo raggruppamento degli
interessi in gioco in due gruppi omogenei tra loro distinti e contrapposti, restando
irrilevante, nel caso di mancata configurabilità di detta struttura bipolare, ogni
eventuale coincidenza delle posizioni difensive di parti contrapposte.
Innanzi ad una clausola, quale quella di prelazione, che traducendo innanzitutto l’interesse organizzativo dell’agire corporativo, assume una funzione specificamente sociale, anche la società è da considerarsi soggetto portatore di un proprio
interesse autonomo e distinto da quello individuale dei soci e quindi parte interessata
alla risoluzione della controversia.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. I due ricorsi, proposti avverso la medesima
sentenza, debbono essere riuniti a norma dell’art. 335 cod. proc. civ. 2. Occorre
innanzitutto esaminare il ricorso incidentale, con il quale R.G. e C.C. censurano,
sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 808
c.p.c.) e sotto quello del vizio di motivazione, il rigetto della loro eccezione di
difetto di giurisdizione in relazione alle domande aventi ad oggetto la violazione
del diritto di prelazione, che insistono nel ritenere devolute ad arbitri dalla
clausola compromissoria contenuta nell’art. 27 dello statuto sociale della Calcestruzzi s.r.l. Sostengono che la struttura « binaria » di tale clausola non è incompatibile con la pluralità dei soggetti coinvolti nella controversia, tenendo presente
che la nozione di parte va assunta nella accezione di centro di imputazione di
interessi; e che, una volta esclusa la attribuzione alla Calcestruzzi s.r.l. della qualità
di parte nella controversia sulla cessione di quota sociale, i centri di interesse
coinvolti si polarizzano in due soli gruppi sostanzialmente omogenei, rispettivamente il ricorrente R.R. che intende esercitare la prelazione ed essi controricorrenti che hanno interesse a conservare il negozio di cessione. 2.1. La doglianza è
infondata. È vero che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte di
legittimità, deve escludersi una incompatibilità, in via di principio, tra clausola
compromissoria binaria e pluralità di parti, richiedendosi piuttosto, ai fini della
compatibilità, che si sia in effetti realizzato lo spontaneo raggruppamento degli
interessi in gioco in due gruppi omogenei e in concreto contrapposti. Tuttavia,
secondo la stessa giurisprudenza richiamata, occorre anche che la specifica lite
concretamente promovenda avanti al collegio arbitrale sia di per sé compatibile
con la clausola: ove invece la pretesa azionata introduca, secondo la generale ed
astratta previsione del legislatore, un litisconsorzio necessariamente caratterizzato
dalla presenza di più di due centri autonomi di interesse, non riconducibili a detta
previsione bipolare, resta irrilevante ogni eventuale coincidenza delle posizioni
difensive di parti contrapposte, derivante da valutazioni contingenti estranee alla
struttura ed alla regolamentazione normativa della pretesa stessa, incontrando
l’autonomia delle parti il limite della fattispecie legale (cfr. tra molte: Cass. n.
335
2983/88; n. 14788/07; n. 1090/14). 2.2. La corte di appello ha correttamente
applicato tali principi, avendo rilevato la presenza di una pluralità di parti,
ciascuna portatrice di specifici interessi tra di loro confliggenti. Né vale opporre
che la società resta estranea ad una controversia avente ad oggetto il contratto di
cessione delle quote sociali, perché qui non è della cessione in sé che si controverte, ma della violazione della clausola statutaria di prelazione. Clausola il cui
inserimento nell’atto costitutivo assume il chiaro significato di attribuire ad essa —
al pari di qualsivoglia altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali
dei soci che venga iscritta nello statuto dell’ente — anche un valore rilevante per
la società, la cui organizzazione ed il cui funzionamento l’atto costitutivo e lo
statuto sono destinati a regolare. In tal modo, la clausola assume anche (oltre alla
funzione di regolare le posizioni soggettive di soci o di terzi ai quali la società, in
quanto tale, resti estranea) una rilevanza organizzativa, ovvero una funzione
specificamente sociale, venendo ad incidere sul rapporto tra l’elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso di accrescere il peso del secondo
elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più
adatta alle esigenze dell’ente. È sulla base di tali considerazioni che la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte (cfr. tra molte: Sez. I n. 691/05; n.
12012/98; n. 7614/96; n.7859/93) riconosce nella clausola statutaria di prelazione —
accanto al carattere pattizio, connesso con l’interesse individuale dei soci stipulanti
— il carattere sociale dell’interesse (organizzativo) sotteso alla clausola stessa, che
è evidentemente proprio della società come tale e trascende l’interesse individuale
di ciascuno dei soci. Tale natura di regola organizzativa, del resto, costituisce la
ragione per la quale si afferma che gli effetti della clausola statutaria di prelazione
siano opponibili anche al terzo acquirente: perché, appunto, si tratta di una regola
del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non sottostare chiunque volesse
entrare a far parte di quel gruppo. 2.3. Pertanto, anche ad ammettere che cedente
e cessionario costituiscano, nella presente controversia, una parte sostanzialmente
unica quale centro unitario di imputazione di interessi, dovrebbe aggiungersi non
solo il socio pretermesso ma anche, alla stregua della sopra indicata valutazione
della natura intrinseca della domanda stessa, la società in quanto portatrice di un
proprio interesse autonomo e distinto da quello individuale dei soci. Sicché la lite
acquista una consistenza almeno tripolare, ostativa alla applicabilità del meccanismo binario di nomina degli arbitri. Il rigetto del ricorso incidentale ne deriva di
necessità. (Omissis).
Clausola compromissoria binaria e arbitrato con pluralità di parti.
1. Pur foriera di indiscutibili vantaggi operativi (1), è noto come la
risoluzione arbitrale delle controversie non risulti immune da alcune
problematiche tecniche che, presentandosi come « rovescio della meda(1) In tal senso v. CAPONI, L’arbitrato amministrato dalle camere di commercio in Italia,
in questa Rivista, 2000, 670 ss., richiamato da LUISO, L’arbitrato amministrato nelle controversie
con pluralità di parti, in questa Rivista, 2001, 605 ss.
336
glia » (2) di un procedimento notoriamente snello e celere, interferiscono
con il corretto funzionamento del meccanismo arbitrale, rischiando così di
minare, alla base, il rispetto di quei canoni volontaristici e di libera
determinazione dell’organo giudicante, elementi caratterizzanti dell’istituto di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c.
Tra i tanti possibili esempi individuati dagli studiosi della materia,
quello di cui si intende brevemente discutere in tal sede, a commento della
pronuncia di cui in epigrafe, è quello, di storia lunga e articolata (3), del
c.d. « arbitrato multiparte » o « multiparti » (4) e, più nello specifico, delle
problematiche scaturenti dal (mancato) funzionamento della clausola
compromissoria a struttura binaria — cioè architettata sull’assunto di una
lite necessariamente bipolare, e quindi tendenzialmente inadatta a dirimere questioni coinvolgenti più centri d’interesse — a fronte di una
pluralità di soggetti interessati alla risoluzione della lite compromessa (5).
La querelle in oggetto, di sicuro nota in virtù delle sue ricadute
pratiche, che riguardano trasversalmente sia l’arbitrato comune che quello
societario (6), ha, da tempo, interessato tanto la giurisprudenza, di merito
e legittimità (7), quanto la dottrina (8), impegnate entrambe, seppur su
(2) In tali termini si esprime LUISO, op. cit., 605.
(3) Così SALVANESCHI, sub 816 quater c.p.c., in CHIARLONI (a cura di), Dell’Arbitrato.
Commentario al codice di procedura civile, Bologna, 2014, 452.
(4) Per una panoramica dei problemi legati all’arbitrato multiparti si rimanda, innanzitutto, a SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti (una pluralità di problemi), in Riv. dir.
proc. 2002, 458 ss., e alla bibliografia ivi citata. Proprio secondo l’autore in ultimo citato,
l’espressione utilizzata è senza dubbio ampia, essendo idonea a « indicare una serie di situazioni
tra loro eterogenee » potendosi immaginare una pluralità di parti protagoniste nel procedimento
arbitrale « in tutte le ipotesi che, rapportato al giudizio ordinario, darebbero luogo ad un
procedimento litisconsortile, a carattere originario o successivo, ma anche in quelle, probabilmente anch’esse per la gran parte destinate a ricadere nella tipologia della connessione, che nel
procedimento ordinario darebbero luogo ad una lite litisconsortile facoltativa, in cui il collegamento contrattuale può rendere opportuna la trattazione congiunta di una materia del contendere
di per sé analizzabile anche in singoli giudizi arbitrali ».
(5) Per un approfondimento generale della materia si vedano, in dottrina, BERNINI,
L’arbitrato, Bologna, 1993, 230 ss., richiamato da ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione
sulla clausola binaria con pluralità di parti, nota a Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23
ottobre 1996, n. 4821, in questa Rivista, 1997, 743 ss. Sempre in argomento, e nella vastità
dell’esame dottrinale, si rimanda a BERNINI, L’arbitrato. Diritto interno. Convenzioni internazionali, Bologna, 1993; ID., Le clausole compromissorie, in GALGANO (diretto da), Trattato, I
contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Torino, I, 1995, 173 ss.;
BERNARDINI, Arbitrato con pluralità di parti e designazione degli arbitri: uguaglianza delle parti
e imparzialità degli arbitri, nota a Cour de Cassation, I chambre civile, sentenza 7 gennaio 1992,
in questa Rivista, 1992, 99 ss.; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Torino, 1995;
MURONI, Clausola compromissoria « binaria » e pluralità di parti, in questa Rivista, 1998, 137;
LUISO, op. cit.
(6) In tal senso vedi POLINARI, Pluralità di parti e pluralità di convenzioni di arbitrato,
nota a Lodo reso in Roma il 17 maggio 2006, in questa Rivista 2006, 541. Pur non essendo
oggetto del presente approfondimento, si rimanda tra gli altri, ai fini di un’analisi introduttiva
della materia, a LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. process., 2003, 705 ss. e RICCI,
Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 20013, 217 ss.
(7) Indirizzata, in un primo tempo, ad affermare la nullità della convenzione arbitrale
binaria, incapace di portare alla costituzione di un giudice imparziale — così App. Torino, 4
337
fronti differenti, a identificare il corretto bilanciamento tra esigenze di
ordine teorico-sistematico — indirizzate alla salvaguardia dell’eguale partecipazione delle parti alla nomina del giudice privato, principio di ordine
pubblico (9) posto a baluardo dell’imparzialità del collegio giudicante (10)
— e risvolti pratici, focalizzati, di contro, sulla necessità di individuare
possibili alternative in caso di mancato funzionamento di un patto compromissorio in tal senso strutturato.
Proprio di tali riflessioni, e in virtù della persistente rilevanza degli
gennaio 1951, in Giust. civ., 1951, I, 494, con nota di BIANCO, Clausola compromissoria per
controversie sociali e predeterminazione del numero degli arbitri; Trib. Cuneo, 16 gennaio 1952,
in Foro it, 1952, I, 661 ss.; Trib. Verbania, 2 luglio 1952, in Temi, 1953, 131 ss.; App. Torino, 15
luglio 1955, in Temi, 1955, 328 ss.; Cass. 20 dicembre 1992, n. 7049, in Rep. Foro it, 1982, voce
« Arbitrato » n. 73 — e orientata, successivamente, a salvare la validità di una siffatta previsione
in presenza di uno « spontaneo raggruppamento degli interessi in gioco in due soli gruppi
omogenei e in concreto contrapposti, cioè in due sole parti » — in tal senso v. Trib. Milano, 16
aprile 1984, in Soc., 1984, 1150 s.; Trib. Milano, 9 febbraio 1989, in Soc., 1989, 708 ss., con nota
parz. diff. di TAURINI, Clausola arbitrale binaria nelle controversie sociali; con riferimento agli
interventi di legittimità ci si riferisce invece a Cass. sez. un. 11 ottobre 1957, in Temi, 1957, 581;
Cass., 11 ottobre 1957, n. 3758, in Giust. civ., 1958, I, 66; Cass. 15 marzo 1983, n, 1900, in Giur.
comm., 1983, 829 ss., con nota adesiva di SILINGARDI, e a Cass. 15 aprile 1988, n. 2983, in Soc.,
1988, 583 —. Più recentemente, e nel senso di affermare la validità della clausola compromissoria binaria in presenza di una pluralità di parti interessate alla risoluzione della lite si segnala
Cass. sez. I, 6 luglio 2000, n. 9022, in Giust. civ., Mass., 2000, 1504; Cass. sez. I, 26 giugno 2007,
n. 14788, in Giust. civ., Mass., 2007, 6; Cass. sez. I, 20 gennaio 2014, n. 1090, in Giust. civ., Mass.,
2014 e in Foro it., Le banche dati, Archivio Cassazione civile.
(8) Oltre agli approfondimenti richiamati sub note 3 e 5, ci si riferisce, tra gli altri, a
NOBILI, L’arbitrato delle associazioni commerciali, Padova, 1957; POLINARI, op. cit.; ID., sub art.
816 quater c.p.c., in BENEDETTELLI, CONSOLO, RADICATI DI BROZOLO (diretto da), Commentario
breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 412 ss.; ID., Il diritto dell’arbitrato. Disciplina comune e regimi speciali,
Padova, 2010, 370 ss.; ROVELLI, Società commerciali, clausola binaria e il nuovo testo dell’art. 809
c.p.c., in La riforma dell’arbitrato, reperibile su www.csm.it; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato,
Milano, 1988; SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999; ID., sub art. 816
quater c.p.c., in MENCHINI (a cura di), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 249; ID.,
sub 816 quater c.p.c., op. cit.; VECCHIONE, Impossibilità di nomina degli arbitri e nullità di clausole
compromissorie per pluralità di parti, in Foro pad., 1952, III, 77 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La
convenzione arbitrale rituale rispetto ai terzi, Milano, 2004; ID., sub art. 806, in CARPI (diretto da),
Arbitrato, Bologna, 2012.
(9) Come sottolineato da ROVELLI, op. cit., « la dottrina, anche la più risalente » — v.
CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 522; REDENTI, Diritto processuale civile, 954, III, 546; ANDRIOLI, in Riv. dir. comm., 1942, II, 34; VECCHIONE, L’arbitrato nel
sistema del processo civile, Milano, 1971, 278 — « è pressoché concorde » — eccezion fatta per
alcuni autori, tra cui v. GUARINO, Nomina degli arbitri rimessa ad una delle parti, in Dir. e Giur.,
1954, 119 — « nel ritenere di ordine pubblico il principio c.d. della par condicio nella nomina
degli arbitri », venendo supportata tale ricostruzione anche dalla giurisprudenza di legittimità
— sul punto pacifica sin da Cass. 20 febbraio 1951, n. 419, in Giur. compl. cass. civ., 1951, I, 563
— secondo cui la cooperazione di tutte le parti alla scelta dell’arbitro è coessenziale alla natura
stessa dell’arbitrato. Per un’interessante approfondimento, tanto più di portata comparata, circa
la natura « pubblicistica » di tale principio e sulle conseguenti ricadute di tale configurazione si
rimanda, altresì, a BERNARDINI, op. cit., 104 ss.
(10) Sul punto si vedano, richiamati in nota da ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 745,
CECCHELLA, L’arbitrato, Bologna, 1990, 11 ss.; ID., Il processo arbitrale, in questa Rivista, 1995,
219 e 228 ss.; FAZZALARI, L’imparzialità del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, 193 ss.; RICCIARDI, La
scelta degli arbitri e la costituzione del collegio arbitrale: deontologia e prassi, in questa Rivista,
1992, 793 ss.
338
argomenti trattati, di rinnovato interesse tanto più a seguito della sentenza
di legittimità di cui si discute, si intende fornire al lettore la seguente breve
trattazione, con l’intento di evidenziare, in primis, i tratti salienti e i
perimetri applicativi della disciplina di cui in oggetto e offrire, in secundis,
e a mero titolo propositivo, alcuni spunti di riflessione circa l’attuale
quadro giuridico di riferimento, così come risultante a seguito dell’intervento riformatore del 2006.
2. Prima di addentrarci in un più analitico esame della materia,
risulta opportuno riassumere, per maggiore chiarezza e seppur per sommi
capi, i fatti posti alla base dell’intervento di legittimità oggetto del presente commento (11).
Nello specifico, la controversia di cui si discute, pur portando all’affermazione di principi di indiscussa rilevanza pratica e riflesso teorico, trae
origine da una vicenda tendenzialmente « semplice », che gravita principalmente, e per ciò che rileva in tal sede (12), intorno all’inoperatività,
ritenuta dal giudice di primo grado innanzitutto (13), e confermata dalla
Corte di Appello poi (14), della clausola compromissoria di cui all’art. 26
dello Statuto sociale — avente all’epoca struttura binaria, in quanto
devolveva la controversia alla decisione di tre arbitri, due dei quali da
nominare da ciascuna delle parti ed il terzo, in caso di disaccordo, dal
presidente del Tribunale — ad una controversia inerente la violazione del
diritto di prelazione in caso di trasferimento delle partecipazioni sociali.
Più in particolare, per il tramite del ricorso incidentale proposto avverso
la « doppia conforme » sopra menzionata, veniva richiesto ai giudici di legittimità di censurare il rigetto dell’eccezione del difetto di giurisdizione,
sollevato in relazione alle domande riguardanti la violazione del diritto di
prelazione di cui in oggetto, e ciò in considerazione del fatto che, innanzi ad
una previsione riguardante il trasferimento delle quote della società, si ve(11) Per completezza, si segnala che Cass. sez. I, 3 giugno 2014, n. 12370, oggetto della
presente nota è già stata pubblicata in Foro it.; 2014, 10, 1, 2826, in www.giustiziacivile.com, con
nota di AMENDOLAGINE, I requisiti di validità della clausola compromissoria binaria nelle
controversie plurilaterali, e in Diritto & Giustizia, 1, 2014, 188 ss., con nota di BRUNO.
(12) Pur risultando desumibili dal testo del provvedimento citato, si segnala che i motivi
dedotti nel ricorso principale riguardano i) la ritenuta esclusione del diritto di riscatto in caso
di violazione del diritto di prelazione previsto dall’art. 7 dello statuto; ii) la nullità della sentenza
impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c.; iii) la censura, sotto il profilo della violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (art.1226 cod. civ.) e sotto quello del vizio di motivazione, del
rigetto dell’appello incidentale proposto avverso il rigetto della domanda di risarcimento del
danno; iv) la censura, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art.
92 c.p.c.) e sotto quello del vizio di motivazione, della statuizione relativa alla compensazione
integrale delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, motivata dalla Corte di merito
con riferimento alla « natura della causa, al dibattito aperto in dottrina sulle questioni prospettate
con argomentazioni puntuali, e all’esito del giudizio ».
(13) Ci si riferisce a Trib. Pavia, 4 giugno 2004.
(14) Ci si riferisce a App. Milano, 12 ottobre 2007, n. 2705.
339
nissero a configurare non più di due centri di interesse contrapposti (15), così
risultando applicabile, senza dubbio alcuno, il meccanismo compromissorio
a struttura binaria contenuto nel contratto sociale.
Posizione, quest’ultima, rigettata senza indugi dall’esame della Corte
di Cassazione che, lungi dal prendere posizione (16) sulla possibile dichiarazione di nullità delle clausole compromissorie statutarie redatte, come
nel caso in esame, ante 1º gennaio 2004 (17) — così avallando, parrebbe
(15) Rispettivamente il soggetto interessato ad operare la prelazione e quelli intesi a
conservare il negozio di cessione.
(16) Con riferimento alle problematiche sottese alla validità delle clausole binarie
nell’ambito societario, si rimanda, tra gli altri e per un’introduzione generale e una panoramica
delle principali questioni a MIRANDA, La clausola compromissoria: applicazione ed invalidità, in
Soc., 2010, 288 ss. Al fine di un approfondimento più specifico sull’argomento si vedano, inoltre,
favorevoli all’inserimento di una clausola compromissoria di diritto comune anche a livello
statutario: AULETTA, La nullità della clausola compromissoria a norma dell’art. 34 d.lgs. 17
gennaio 2003, n. 5: a proposito di recenti (dis-)orientamenti del notariato, in questa Rivista, 2004,
361 ss.; CERRATO, Arbitrato societario e doppio binario: una svolta?, in Giur. it., 2007, 907 ss.; ID.,
Arbitrato societario: nuove conferme per il « doppio binario », in Giur. it., 2007, 2240 ss.; ID.,
Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza ancora difficile, in Giur. comm.,
2006, II, 513 ss.; ID., Arbitrato societario, clausola non conforme e « doppio binario », nota a
Cass. 9 dicembre 2010, n. 24867, in Giur. comm., 5, 2011, 1080; MERONE, Le due forme d’arbitrato
e la materia societaria: un rapporto da ricostruire in termini di alternatività, in Giur. mer., 2006,
119 ss.; RECCHIONI, L’arbitrato in materia societaria fra clausola compromissoria preesistente e ius
superveniens (nota a Coll. arb. Biella, 24 maggio 2004), in questa Rivista, 2004, 777 ss.; SALAFIA,
Alcune questioni di interpretazione del nuovo arbitrato societario, in Soc., 2004, 1457; posizioni,
queste, supportate in giurisprudenza da App. Torino, 4 settembre 2007, in Guida dir., 2007, 47,
50; Trib. Bari, 2 novembre 2006, in Giur. it., 2007, 2237; Trib. Ravenna, 13 febbraio 2006, in
Giur. Merito, 2006, 6, 10; Trib. Bologna, 25 maggio 2005, in Giur. it., 2006, 1640; Trib. Genova,
7 marzo 2005, in Giur. comm., II, 500; Trib. Torino, 27 settembre 2004, in Soc., 2005, 899 ss.
Sempre in dottrina, favorevoli alla nullità della clausola compromissoria si vedano, tra gli altri,
BIANCHINI, Osservazioni in tema di (in)validità delle clausole compromissorie non adeguate alla
nuova disciplina dell’arbitrato c.d. « endo-societario », in Giur. comm., 2006, I, 410 ss.; BOGGIO,
Le clausole compromissorie statutarie alla luce dell’art. 34, 2º comma, d.lgs. n. 5 del 17 gennaio
2003, in questa Rivista, 2005, 199 ss.; CORSINI, La nullità della clausola compromissoria statutaria
e l’esclusività del nuovo arbitrato societario, in Giur. comm., 2005, I, 809 ss.; RICCIO, La sorte delle
vecchie clausole compromissorie societarie dopo l’entrata in vigore dell’art. 34, 2º comma, d.lgs.
n. 5 del 2003, in Contr. imp., 2006, 35 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, Modelli arbitrali e controversie
societarie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 516 ss., nonché, in giurisprudenza, oltre alla citata
Cass. 9 dicembre 2010, n. 24867, Trib. Salerno, 12 aprile 2007, in Giur. comm., 2008, 4, II, 865,
con nota di CORSINI, Società di persone, clausola compromissoria statutaria ed arbitrabilità delle
controversie in materia di scioglimento del rapporto sociale; App. Torino, 4 agosto 2006, in Giur.
it., 2007, 398; Trib. Tortona, 3 agosto 2004, in Giur. comm., 2006, II, 498; Trib. Milano, 25 giugno
2005, in Giur. it., 2006, 1639; Trib. Milano, 4 maggio 2005, in Giur. it., 2005, 1653 ss.; Trib.
Catania, 26 novembre 2004, in Corr. giur., 2005, 1131; Trib. Latina, 22 giugno 2004, in Soc., 2005,
93. Tra la giurisprudenza arbitrale si rimanda poi ad Arb. Genova, 29 aprile 2005, in questa
Rivista, 2006, 169, con nota di SOLDATI, Arbitrato societario e nullità della clausola arbitrale
binaria; Arb. Bologna, 15 ottobre 2004, in Soc., 2005, 1176, con nota di POZZEBON, Nuovo
arbitrato societario: la sorte delle « vecchie » clausole compromissorie statutarie. Per una indicazione ancor più analitica dei riferimenti dottrinali e giurisprudenziali in tema di veda AMENDOLAGINE, op. cit., 12.
(17) Per contrasto con norma imperativa sopravvenuta, e cioè per mancata conformità
agli artt. 34, comma 2 (« La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli
arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto
estraneo alla società »), e 35 (rubricato « Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale »)
del d.lgs. 5 del 2003.
340
potersi dedurre, la tesi volta a sostenerne la validità —, individua, invece,
come intrinsecamente ricorrente nella fattispecie in esame almeno una
triplicità di centri di interessi coinvolti, risultando anche la società (tanto
più a fronte di una clausola quale quella di prelazione, che traduce
innanzitutto l’interesse organizzativo dell’agire corporativo, così assumendo una funzione specificamente sociale) essere soggetto portatore « di
un proprio interesse autonomo (...) distinto da quello individuale dei soci »
e quindi parte interessata alla risoluzione della controversia.
Nello specifico, il ragionamento sviluppato dalla Corte poggia il
proprio argomentare su due linee guida differenti, la prima volta ad
identificare, in sintonia con i precedenti giurisprudenziali sul punto, la
corretta portata applicativa del termine parte del procedimento arbitrale,
la seconda indirizzata a riconfigurare la natura del diritto di prelazione
statutaria e, conseguentemente, (il numero de)gli interessi omogenei —
rectius (del)le parti — intorno a quest’ultimo gravitanti.
È infatti per il tramite di tale doppio esame che i giudici di legittimità
giungono così ad escludere l’applicabilità, al caso in esame, del meccanismo di nomina scaturente da una clausola compromissoria binaria ed è di
tali questioni, e delle problematiche ad esse sottese, che si intende ora
proseguire con l’ulteriore breve seguente approfondimento.
3. Come noto, l’insorgere di liti coinvolgenti una pluralità di parti ha
tradizionalmente costituito un ostacolo alla possibilità di adire la via
arbitrale per la risoluzione di controversie (18).
In particolare, le tematiche derivanti dalla suddetta fattispecie plurisoggettiva non riguarderebbero esclusivamente la problematica, di natura
prettamente tecnica, relativa alla formazione di un collegio dispari di
arbitri, ma abbraccerebbero, più in generale, la necessità di addivenire alla
formazione di un collegio imparziale (19), nonostante il numero plurimo
delle parti (20).
Risolta cioè la quaestio preliminare — a detta di autorevole dottrina,
fin scontata (21), nel caso in cui la lite de qua risulti ab initio plurisoggettiva (22) — intesa a verificare che tutte le parti interessate abbiano scelto
di percorrere la via arbitrale rinunciando, così, alla giurisdizione ordina(18) In tali termini POLINARI, op. cit., 537. Ma vedi anche SALVANESCHI, L’arbitrato con
pluralità di parti, una pluralità, cit., 458 ss.
(19) In tal senso BERNARDINI, op. cit., 101.
(20) Così SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 184.
(21) Così LUISO, L’arbitrato amministrato, cit., 605.
(22) Come afferma POLINARI, op. cit., 538, la questione assume però soverchia rilevanza nel
caso in cui, solo in un secondo tempo, il procedimento arbitrale assuma le vesti litisconsortili. Per
un’analisi generale della materia si rimanda a ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale,
cit., 143 ss. Sul tema specifico del litisconsorzio successivo si rinvia, tra gli altri, a FAZZALARI, Le
difese del terzo rispetto al lodo rituale, in questa Rivista, 1992, 613; RUFFINI, L’intervento nel giudizio
arbitrale, in questa Rivista, 1995, 645; ID., Il giudizio arbitrale con pluralità di parti, in Studi in onore
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ria (23), ciò che risulta infatti indispensabile è l’individuazione di un
meccanismo di nomina che dia seguito ai principi d’imparzialità e parità
delle parti (24), così garantendo la formazione di un collegio arbitrale
equidistante e in nulla suspectus, formato, come previsto per legge, da un
numero dispari di componenti.
Più in particolare, il nodo cruciale della materia, consistente nella
necessità di garantire l’eguale cooperazione delle parti nella costituzione
del tribunale arbitrale — che proprio in tale simmetrico agire troverebbe
la garanzia della propria imparzialità (25) — aprirebbe, poi, le porte a due
ulteriori sotto-questioni, di indiscussa rilevanza teorica e ricaduta pratica.
Se infatti, da un lato, risulta necessario chiedersi a cosa corrisponda il
contenuto del diritto riconosciuto alle parti di cooperare nella formazione
del collegio giudicante, è indiscutibile come dall’altro, e preliminarmente,
sia essenziale un esame volto a delimitare a chi tale diritto debba essere
riconosciuto, potendo quindi legittimamente essere identificato come
parte in caso di arbitrato plurisoggettivo.
Orbene, con riferimento al primo argomento, pare opportuno, innanzitutto, richiamare quanto affermato in dottrina (26), e sottolineare come
il diritto all’eguale cooperazione delle parti nella costituzione del tribunale
arbitrale non significhi, di per sé, diritto alla nomina del proprio arbitro,
quanto piuttosto diritto alla nomina del proprio arbitro nella misura in cui
tale facoltà venga riconosciuta all’altra parte in gioco.
In altre parole, il principio in commento richiede che ogni parte
partecipi alla formazione del collegio giudicante alla pari delle altre, senza
che nessuna eserciti un ruolo predominante, e ciò finanche nell’ipotesi
limite in cui queste rinuncino liberamente e in modo condiviso alla nomina
dell’arbitro o del collegio, che verrà in tal caso demandata ad un terzo (27).
di Luigi Montesano, Padova, 1997, 669 ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova,
2000, 564. Dottrina, questa, richiamata da POLINARI, op. cit., 538.
(23) Opportuno rammentare, come fa TAURINI, op. cit., 711, che ogni pattuizione di
deroga alla competenza del giudice naturale ordinario deve essere sottoposta ad una interpretazione restrittiva. In tal senso v., tra le altre, Cass. 27 gennaio 1981, n. 628, in Giur. comm., 1981,
II, 888.
(24) In tal senso, tra gli altri, vedi LUISO, L’arbitrato amministrato, cit., 2001; SALVANESCHI,
L’arbitrato con pluralità di parti, una pluralità, cit., 458 ss.; POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c.,
cit., 208.
(25) In tali termini ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione, cit., 749 ss.
(26) Ci si riferisce a ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione, cit., 749, che richiama
BERNARDINI, op. cit., 107, che sottolinea come « l’impostazione della giurisprudenza italiana (...)
fa salva la clausola binaria ritenendo che questa soddisfi il principio di uguaglianza delle parti
inteso come diritto di ciascuna parte in conflitto di partecipare alla nomina dell’arbitro e non come
diritto di designare un arbitro ».
(27) Come sottolinea MURONI, op. cit., 139, « la condizione di parità tra le parti in lite nella
nomina degli arbitri, se non è funzionale a garantire l’obiettività di ogni arbitro » — per i quali,
anzi, pare ammissibile riconoscere quella sorta di « parzialità presunta », cui si riferisce RUBINO
SAMMARTANO, op. ult. cit., 372, che richiama ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione, cit., 743
342
Ecco quindi che la cooperazione di cui si discute (28), che traduce il
principio di eguaglianza dei contendenti, assume contenuto variabile,
venendo di volta in volta richiamata al fine di tutelare un agire speculare
dei soggetti coinvolti nella lite, così garantendo, in primis, il principio di
autonomia delle parti, (punto di riferimento del procedimento arbitrale)
ed in secundis, la formazione di un judex equidistante e, cioè, oggettivamente indipendente e soggettivamente imparziale.
Con riferimento, invece, al secondo profilo, che potremmo definire di
portata soggettiva, ma che ha un’immediata ricaduta pratica sulla formazione del collegio arbitrale (29), diverse sono poi le problematiche di cui
tenere conto.
Innanzitutto — e dando per assunta la nozione di parte intesa in senso
sostanziale, così come affermata dagli arresti giurisprudenziali di cui si
tratterà nel paragrafo seguente — i primi due argomenti di cui è necessario discutere sono infatti quello relativo (i) al momento in cui la pluralità
dei soggetti in gioco, e cioè dei litisconsorti, si concretizza nel procedimento arbitrale, nonché quello riguardante (ii) il rapporto tra questi
intercorrente.
Se infatti, in base alla sezione temporale in cui tale concorso si
manifesta, possono verificarsi problematiche ulteriori in ordine all’intervento o alla chiamata del terzo pretermesso (30), è con riferimento al
rapporto esistente tra le parti in lite che occorre soffermarsi ulteriormente,
essendo essenzialmente due le soluzioni potenzialmente concretizzabili:
l’una, caratterizzata dalla circostanza che i soggetti coinvolti abbiano
posizioni tra loro inconciliabili — c.d. litisconsorzio reciproco o liti stellari (31) —, l’altra, connotata, di contro, da una tendenziale omogeneità
delle pretese invocate, tendenzialmente catalizzabili attorno a due soli
centri di interesse tra loro confliggenti e quindi riconducibili, nella loro
— « tende comunque, in via mediata, a determinare l’imparzialità del collegio nel suo complesso ».
(28) Che è coessenziale alla natura dell’arbitrato. Per tutte, v. Cass. 20 febbraio 1951, n.
419, cit.
(29) In tal senso si veda POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c., cit., 208, che richiama, tra gli
altri, MURONI, op. cit., 143 ss.; RUFFINI, Il giudizio arbitrale, cit., 689; SALVANESCHI, L’arbitrato con
pluralità di parti, cit., 166; ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione, cit., 757; LUISO, L’arbitrato amministrato, cit., 605 ss.
(30) Si tenga presente che le problematiche in tal sede sollevate hanno trovato parziale
risoluzione a seguito della riforma del 2006, che pur ha lasciato aperte alcune questioni così
come descritto nei paragrafi seguenti. Si tenga però fin da ora conto della posizione della
dottrina — v. POLINARI, Pluralità di parti, cit., 538, che richiama REDENTI, Il giudizio civile con
pluralità di parti, 1960, Milano, 5 — che ha « posto in evidenza come le modalità di formazione
di collegi arbitrali rispettosi dei principi di imparzialità e di parità delle parti debbano essere
diversi a seconda che ci si trovi di fronti a situazioni di litisconsorzio semplice o reciproco ».
(31) In tal senso MENCHINI, Il processo litisconsortile: struttura e poteri delle parti, Milano,
1993, 84, richiamato da POLINARI, Pluralità di parti, cit., 540.
343
rinnovata qualità di parti, ad uno schema di lite bipolare, idonea a
sottostare ad una clausola compromissoria a meccanismo binario di nomina del collegio arbitrale.
Orbene, la discussione che segue intende occuparsi proprio di tali
ultimi argomenti, offrendo una sintesi dell’evoluzione giurisprudenziale e
dottrinale sui temi in oggetto nonché del quadro legale di riferimento a
seguito dell’intervento riformatore del 2006.
4. Come anticipato, i profili in ultimo richiamati offrono lo spunto
per passare in rassegna le posizioni nel tempo emerse, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, circa la conciliabilità di una controversia plurisoggettiva con uno schema di nomina arbitrale binario, per definizione
diretto ad una lite semplice o bipolare.
Nello specifico, lo sforzo interpretativo cui gli studiosi sono stati nel
tempo chiamati è consistito, principalmente, nella necessità di coordinare
il corretto coinvolgimento di tutti i contendenti nel caso in cui questi si
fossero trovati innanzi ad un meccanismo di nomina del tribunale arbitrale
inteso a riconoscere, da un lato, e ad entrambe le parti — necessariamente
non più di due — il diritto di nomina del proprio arbitro, nonché ad
affermare, dall’altro, il dovere di quest’ultimo, in cooperazione con l’arbitro di parte nominato dall’altro litigante, di identificare un terzo soggetto che, in quanto presidente del collegio, avrebbe garantito imparzialità
ed equidistanza nel giudizio.
Procedimento di nomina, questo, che poggiava e poggia ancora la
propria indiscussa « superiorità » in particolare sulle modalità di selezione
del terzo arbitro, individuate come « chiave di volta della struttura collegiale » nonché « culmine e garanzia dello spirito di imparzialità che la deve
animare » (32), e che entrava irrimediabilmente in crisi laddove correlato
ad una fattispecie plurisoggettiva, comportando una nomina in tal senso
strutturata l’inevitabile conseguenza di escludere, in evidente contrasto
con il principio di paritarietà, una o più parti dalla formazione del collegio
giudicante (33).
Orbene, in relazione a tale inceppamento nel meccanismo di selezione, due furono, nel tempo, le posizioni emerse in sede giurisprudenziale: l’una, estremamente rigida, volta a negare finanche la validità della
clausola compromissoria non operativa, l’altra, più funzionale, intesa a
dichiararne la semplice inapplicabilità al caso di specie.
Più in particolare, ed in un primo momento, dal meccanismo di
selezione di cui si discute e dalla sua irrimediabile incapacità, o per meglio
(32) LA CHINA, op. cit., 78.
(33) Per un’analisi sintetica di tali argomentazioni si veda, inter alia, POLINARI, sub art. 816
quater c.p.c., cit., 208.
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dire « costituzionale inidoneità » (34) ad assolvere alla propria funzione —
quella di nomina del tribunale arbitrale — venne infatti dedotta la nullità
del patto compromissorio per contrarietà al principio — giova ricordarlo,
essenziale al procedimento arbitrale, nonché di ordine generale in quanto
volto all’imparzialità del tribunale tutto (35) — di parità delle parti nella
formazione del collegio arbitrale (36).
Posizione, questa (37), che, poiché eccessivamente rigorosa nella pratica e intrinsecamente contraddittoria nella teoria (38), venne fin da subito
riformata da un’antitetica corrente giurisprudenziale che — più per un
generale principio di conservazione che per un vero e proprio favor
arbitratus (39) — risultava, e risulta ad oggi, intesa, di contro, a preservare
la validità della clausola compromissoria in tal senso pattuita, ferma
restando la sanzione di inefficacia nel caso in cui detta previsione, per i
motivi strutturali di cui sopra, risulti inidonea ad assicurare una corretta
composizione del tribunale arbitrale (40).
(34) In tal senso si esprime ROVELLI, op. cit., 2.
(35) In tal senso MURONI, op. cit., 138.
(36) Tale impostazione è quella emersa dalle citate App. Torino, 4 gennaio 1951, in
Giust. civ., 1951, I, 494, con nota di BIANCO Clausola compromissoria per controversie sociali e
predeterminazione del numero degli arbitri; Trib. Cuneo, 16 gennaio 1952, in Foro it., 1952, I, 661
ss.; Trib. Verbania, 2 luglio 1952, in Temi, 1953, 131 ss.; App. Torino, 15 luglio 1955, in Temi,
1955, 328 ss.; Cass. 20 dicembre 1992, n. 7049, in Rep. Foro.it, 1982, voce « Arbitrato » n. 73.
(37) Per la verità, da subito contestata da quella dottrina — v. SCHIZZEROTTO, op. cit., 345
e NOBILI, op. cit., 307 — che, invece, sottolineava la possibilità di « salvare » il procedimento
arbitrale delegando direttamente al Presidente del Tribunale, in caso di pluralità di parti, la
nomina dell’intero collegio. Posizione, questa, combattuta da chi, contrariamente, e forse in
maniera un po’ forzata, vedeva nella pattuizione di una clausola compromissoria binaria,
l’implicita volontà delle parti di escludere la « via arbitrale » in ogni caso di arbitrato multiparti
— così TAURINI, op. cit., 711 —.
(38) Come affermato in dottrina, ex multis ROVELLI, op. cit., 2, la sanzione della nullità
risulterebbe inadeguata per eccesso, non potendosi affermare la validità o meno di una
disposizione a seconda della fattispecie che regola ed essendo invece corretto, così come fanno
Cass. 11 gennaio 1956, n. 16, in Foro it., Mass., 1956, 4 e Cass. 25 maggio 1956, n. 1789, ivi, 1956,
326, dichiarare l’invalidità di una tale clausola solo laddove essa sia strutturata in modo tale da
pregiudicare sempre e con riferimento a qualsiasi fattispecie controversa la essenziale pareteticità delle parti.
(39) Mai particolarmente avvertito dai nostri giudici. In tal senso, MURONI, op. cit., 139.
(40) Vasta, e ormai pacifica, è la giurisprudenza sul punto. Oltre alle citate v. Trib.
Milano, 16 aprile 1984, in Soc., 1984, 1150 s.; Trib. Milano, 9 febbraio 1989, in Soc., 1989, 708
ss., con nota parz. diff. di TAURINI, Clausola arbitrale binaria nelle controversie sociali; con
riferimento agli interventi di legittimità ci si riferisce invece a Cass. sez. un. 11 ottobre 1957, in
Temi, 1957, 581; Cass., 11 ottobre 1957, n. 3758, in Giust. civ., 1958, I, 66; Cass. 15 marzo 1983,
n, 1900, in Giur. comm. 1983, 829 ss., con nota adesiva di SILINGARDI, e a Cass. 15 aprile 1988,
n. 2983, in Soc., 1988, 583; Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23 ottobre 1996, n. 4821,
con nota di ZUCCONI GALLI FONSECA, Qualche riflessione, cit. Più recentemente, e nel senso di
affermare la validità della clausola compromissoria binaria in presenza di una pluralità di parti
interessate alla risoluzione della lite si segnala Cass. sez. I, 6 luglio 2000, n. 9022, in Giust. civ.,
Mass., 2000, 1504; Cass. sez. I, 26 giugno 2007, n. 14788, in Giust. civ., Mass., 2007, 6; Cass. sez.
I, 20 gennaio 2014, n. 1090, in Giust. civ., Mass., 2014 e in Foro it., Le banche dati, Archivio
Cassazione civile. In dottrina si rimanda, tra gli altri, a NOBILI, op. cit., 307; RUBINO SAMMARTANO,
345
Più nello specifico, tale soluzione, « volta ad assicurare il massimo di
operatività possibile della clausola, con il limite insuperabile del rispetto del
principio di cooperazione di tutte le parti alla nomina degli arbitri » (41),
passerebbe attraverso l’abbandono, per i fini specifici di cui in oggetto e
nel solo caso di giudizio plurisoggettivo, del concetto formale di parte, che
andrebbe invece rivisto in chiave sostanziale, e cioè non come singolo
individuo — sia esso persona fisica o giuridica — bensì come « gruppo di
soggetti il cui aggregarsi spontaneo » — valutabile in relazione al petitum
ed alla causa petendi e solo per il tramite di un esame ex post, (e con tutte
le conseguenze negative che tale giudizio successivo può comportare) (42)
— « intorno ad un nucleo di interessi convergenti » traduce il diritto di
esprimere un’unica ed unitaria nomina arbitrale (43).
In sintesi, e per riassumere, solo laddove il concreto atteggiarsi degli
interessi in gioco risultasse quindi assimilabile ad una lite semplice —
venendosi cioè spontaneamente (44) a creare, a monte dell’iter arbitrale,
due soli centri di interessi tra loro contrapposti (45) — sarà pertanto
possibile attivare il meccanismo di nomina binario, dovendosi altrimenti
Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2005, 391; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV,
2, Milano, 1971, 250; SCHIZZEROTTO, op. cit., 342.
(41) V. ROVELLI, op. cit., 3.
(42) Si pensi, ad esempio, all’incertezza circa il funzionamento della clausola compromissoria de qua, il cui concreto operare potrà essere verificato solo per il tramite di un ricorso
all’Autorità giudiziale nonché alle difficoltà, che emergono soprattutto nel caso di arbitrati con
pluralità di parti, che si incontrano nel garantire la parità delle parti nella fase iniziale del
procedimento arbitrale (così MURONI, op. cit., 139) e cui solo un deciso intervento del legislatore
potrebbe porre rimedio. Oppure all’incertezza sulla inattaccabilità della decisione arbitrale, così
come sottolinea BERNARDINI, op. cit., 107.
(43) In tal senso vedi, tra gli altri, SALVANESCHI, Dell’arbitrato, cit., 451.
(44) Come è noto, non è riscontrata in capo al giudice la facoltà di procede ex officio al
raggruppamento delle parti in lite. Nondimeno, è però riconosciuto — sebbene a fronte di
qualche perplessità: sul punto si segnalano i ragionamenti di SALVANESCHI, L’arbitrato con
pluralità, cit., 178 ss. — all’Autorità giudiziaria — a tutela, si direbbe, dei principi generali
sottesi alle norme processual-civilistiche — il potere di dissociare le parti sostanziali già
costituite. Il problema è rilevante soprattutto nel caso in cui i litiganti si trovino in posizione tale
da dare vita ad un litisconsorzio necessario. La possibilità di salvare comunque l’operatività
della clausola binaria pare infatti essere condizionata, oltre che dalla spontanea aggregazione
delle parti, anche dalla natura del litisconsorzio: solo nei casi di litisconsorzio facoltativo la
formazione dei due poli sarà legittima, laddove nei casi di litisconsorzio necessario, il collegio
arbitrale dovrà, rilevata la natura del rapporto sottostante, dichiarare il proprio difetto di
giurisdizione. Certo è che la valutazione della domanda dedotta in giudizio per verificare la
bipolarizzazione della lite deve essere svolta dal giudice con particolare accortezza, dovendo
egli verificare la possibilità di raggruppamento non solo in relazione al thema decidendum, il più
volte contraddistinto da un cumulo di domanda, ma anche in relazione alle eventuali questioni
pregiudiziali di rito. Così MURONI, op. cit., 142, che richiama TAURINI, op. cit., 713.
(45) E si tenga presente, così come sottolineato dalla Corte, che « ove invece la pretesa
azionata introduca, secondo la generale e astratta previsione del legislatore, un litisconsorzio
necessariamente caratterizzato dalla presenza di più di due centri di interesse, non riconducibili
a detta previsione bipolare, resta irrilevante ogni eventuale coincidenza delle posizioni difensive
di parti contrapposte, derivante da valutazioni contingenti estranee alla struttura ed alla regolamentazione normativa della pretesa stessa, incontrando l’autonomia delle parti il limite della
fattispecie legale ».
346
decretare, in tutti gli altri casi — ivi compreso quello di un litisconsorzio
facoltativo in cui, però, non avviene la richiesta bipolarizzazione spontanea delle posizioni in gioco (46) — l’inoperatività della clausola compromissoria in tal senso pattuita tra le parti (47).
5. Dai ragionamenti sopra esposti è rimasto senza dubbio affascinato il legislatore della riforma (48) che, conscio delle problematiche
sottese alla materia in esame, è intervenuto, in un quadro di razionalizzazione generale della disciplina dell’arbitrato, apportando, nello specifico
e per la prima volta, una disciplina tailor made per il giudizio plurisoggettivo (49).
Volendo infatti tralasciare un più puntuale esame delle considerazioni
svolte dai giudici di legittimità con riferimento alla clausola statutaria di
prelazione (50) — la cui indiscussa rilevanza organizzativa ha condotto, da
un lato, all’attribuzione della qualità di parte anche alla società, e consacrato, dall’altro, la consistenza almeno tripolare della lite de qua —, il
discorso che si ritiene opportuno affrontare in tal sede è quello relativo
all’attuale quadro normativo post-riforma, non potendosi d’altronde non
sottolineare come la stessa quaestio giuridica sottoposta allo scrutinio
della Corte — laddove sorta in epoca successiva — avrebbe forse potuto
trovare una disciplina ad hoc, specificamente intesa — sebbene con i limiti
di cui si dirà a breve — a regolare il caso dell’arbitrato plurisoggettivo.
Disciplina, occorre aggiungere, intrinsecamente ispirata, ora, al ri(46) E quindi passibile di giudizio ordinario o di molteplici giudizi arbitrali distinti — così
VECCHIONE, op. cit., 80; SCHIZZEROTTO, op. cit., 343; RUBINO SAMMARTANO, op. ult. cit., 394. Con
riferimento, invece, al litisconsorzio necessario si veda quanto brevemente affermato alla nota
40.
(47) Ex multis v. POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c., cit., 209.
(48) Ci si riferisce al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.
(49) Chiaro è in tal senso il dettato della legge 14 maggio 2005, n. 80, di delega al governo
per la modifica del codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione e di arbitrato,
che all’art. 1, comma 2, lett. b) preveda, inter alia, la necessità di una « riforma in senso
razionalizzatore » della disciplina dell’arbitrato. Per un approfondimento sulla materia si veda,
tra gli altri, RICCI, La delega sull’arbitrato, in Riv. dir. proc., 2005, 951 ss. e PUNZI, Ancora sulla
legge delega in tema di arbitrato: riaffermazioni della natura privatistica dell’istituto, in Riv. dir.
proc., 2005, 963.
(50) Pur non essendo, nello specifico, oggetto del presente approfondimento — essendo
la clausola in oggetto niente più che il « casus belli » da cui origina l’intervento di legittimità di
cui si discute —, si rimanda, tra gli altri e per un esame generale della materia a CARDARELLI,
Gradimento e prelazione: funzionalità organizzativa della compagine sociale, in Soc., 1998, 3, 284
ss.; CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Questioni in tema di prelazione statutaria, Studio n.
158-2012/1; FARENGA, Spunti ricostruttivi in tema di prelazione convenzionale societaria, in Riv.
dir. comm., 1989, II, 267 ss.; GUERRIERI, Questioni aperte in tema di prelazione statutaria, in Giur.
comm., 2011, I, 828 ss. e STABILINI, L’interpretazione e l’applicazione delle clausole di prelazione
statutarie, in Soc., 2014, 1, 100. Con riferimento all’esame giurisprudenziale della clausola di
prelazione si vedano, in ultimo, Cass. 3 giugno 2014, n. 12370, in www.iusexplorer.it, Trib.
Napoli, 3 dicembre 2013, in www.iusexplorer.it e Trib. Napoli, Ord. 21 novembre 2013, in Soc.,
2014, 3, 355.
347
spetto della libera determinazione delle parti, sia questa « originaria o
successiva » (51), nella formazione del collegio giudicante, così come
emerge, limpidamente (52) da un dettato, quale quello codicistico, che, per
il tramite del suo art. 816-quater e nei limiti del possibile, fissa inderogabilmente il carattere volontaristico della procedura arbitrale, così tracciando una netta linea di confine con l’arbitrato c.d. societario, inteso di
contro a imporre, a pena di nullità della clausola compromissoria, il noto
meccanismo eteronomo di nomina arbitrale, affidando ad un terzo estraneo alla società la decisione concernente il collegio giudicante (53).
Nello specifico, e con riferimento, quindi, al quadro attuale, ciò che
risulta importante evidenziare è, in primis, come la norma in questione,
sebbene « rea », a detta di alcuni (54), di dettare una disciplina eccessivamente statica — concernente la conformazione che la convenzione d’arbitrato deve avere per consentire l’instaurazione di una lite con pluralità
di parti — e anzi in nulla dinamica — cioè intesa a sopperire in itinere ad
eventuali improcedibilità dell’arbitrato — della fattispecie in esame, abbia
il merito indiscusso di apportare un seppur timido bilanciamento ad un
sistema, quale quello di selezione arbitrale, storicamente costruito per
rispondere alle esigenze di una lite bipolare — come d’altronde evidenziato, ancor oggi, dalla formulazione dell’art. 810 c.p.c. —, così risolvendo,
almeno in parte, quelle difficoltà di funzionamento dell’arbitrato plurisoggettivo, a tal punto note, da essere ormai parte integrante della storia
dell’istituto de quo.
Difficoltà di funzionamento, è bene sottolineare, cui il D. Lgs. 40 del
2006 ha cercato di dare pronta risposta per il tramite di due soluzioni
precise consistenti, la prima, nella regolamentazione delle modalità di
(51) POLINARI, sub 816 quater c.p.c., cit., 213.
(52) Sebbene apportando una disciplina non immune da critiche. In tal senso si veda il
par. 6 che segue. Ma giova fin da ora sottolineare, preliminarmente, le problematiche scaturenti
dal regime transitorio dettato dall’art. 27 del decreto 40 del 2006.
(53) SALVANESCHI, sub 816 quater c.p.c., cit., 454. Evidenzia le diversità strutturali dell’arbitrato di diritto comune e dell’arbitrato societario MERONE, in PICARDI, sub 816 quater c.p.c.,
in Codice di Procedura Civile, Milano, 2008, 3700. Più in generale sulla nuova disposizione si
vedano, tra gli altri, Bove, la nuova disciplina dell’arbitrato, in BOVE-CECCHELLA, Il nuovo
processo civile, Milano, 2006, 75; CORSINI, Riflessioni a prima lettura sulla riforma dell’arbitrato,
in www.judicium.it, 2006; MARENGO, Processo arbitrale, in FAZZALARI (a cura di), La riforma
della disciplina dell’arbitrato, Quaderno dell’Associazione Italiana per l’Arbitrato, Milano,
2006.
(54) V. SALVANESCHI, sub 816 quater c.p.c., cit., 450, secondo cui « le ragioni dell’omissione
di ogni disciplina dinamica del vizio in esame sono da ricercare nella indiscutibile mancanza di
poteri coercitivi nell’organo arbitrale, ma ciò non significa, tuttavia, che anche in quest’ambito
non ci siano margini di correzione dell’errore iniziale che meritino di essere indagati ». Nello
specifico, l’Autore evidenzia come l’articolo in commento non contenga alcuna regolamentazione del procedimento arbitrale litisconsortile eventualmente iniziato da o nei confronti di
alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, dovendo rinvenirsi i dettagli applicativi di tale
disciplina dal coordinamento dell’articolo in oggetto con la regola contenuta nel successivo art.
816-quinquies laddove si richiede che nel novellato procedimento arbitrale sia sempre ammesso
l’intervento del litisconsorte necessario pretermesso.
348
nomina degli arbitri con una compiuta serie di ipotesi volte a garantire la
terzietà e la parità delle parti nell’ambito del procedimento, e identificabile, la seconda, nella individuazione delle ricadute pratiche scaturenti
dalla violazione delle regole procedurali in tal senso predisposte.
Più in particolare, e dato inoltre per assunto il requisito — condicio
sine qua non (sebbene anch’esso non scevro da critiche di cui si dirà nel
paragrafo seguente) dell’arbitrato plurisoggettivo — consistente nella
sottoposizione dei soggetti litiganti alla medesima convenzione di arbitrato (55), il disposto dell’art. 816-quater affida infatti la celebrazione di un
unico procedimento arbitrale a un’autonoma scelta delle parti che recepisca, però, i sistemi di nomina prescritti, affermando di contro, e nel caso
in cui ciò non si verifichi, o l’improcedibilità dell’arbitrato e la necessaria
riaffermazione del processo ordinario nel caso di litisconsorzio necessario (56), o la scissione della procedura in tanti procedimenti quanti sono le
parti, in caso di litisconsorzio facoltativo.
Soluzioni, quest’ultime prospettate, che senza dubbio recepiscono i
canoni ermeneutici-giurisprudenziali sopra esposti, lasciando così la porta
aperta a quello spontaneo raggruppamento di interessi che garantirebbe,
in ogni modo, il funzionamento della clausola compromissoria binaria, e
che parrebbe per altro limpidamente richiamato dallo stesso dettato
legislativo, laddove si identifica, tra le condizione di procedibilità dell’arbitrato plurisoggettivo, il meccanismo di nomina volto a far sì che le « altre
parti », dopo che la prima ha nominato l’arbitro o gli arbitri, « d’accordo
(tra loro) » — così raggruppandosi, si parrebbe dedurre, in un unico polo
d’interesse omogeneo sotto il punto di vista processuale e non necessariamente anche sostanziale (57) — « nomin(i)no un ugual numero di arbitri
o ne affidino a un terzo la nomina ».
Modalità di selezione, quest’ultima, di sicuro maggiormente funzionale e rispettosa dei canoni volontaristici sopra citati, ma a sua volta non
del tutto esente da alcune perplessità.
(55) Scelta legislativa, questa, da alcuni critica. In tal senso v. SALVANESCHI, sub art. 816
quater c.p.c., in MENCHINI, cit., 237 e POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c., cit., 208. Entrambi gli
autori sottolineano come la disposizione in oggetto, applicandosi solo alle ipotesi in cui le parti
siano vincolate alla medesima convenzione di arbitrato (e oltre ad evidenti svantaggi economici
e di sistema), lasci fuori tutte quelle fattispecie in cui le parti siano vincolate da distinte
convenzioni di arbitrato presenti in contratti variamente collegati tra di loro e sussista tra le
diverse liti un vincolo di connessione.
(56) Come sottolineato in dottrina, v. RUBINO SAMMARTANO, op. cit., 375, tale situazione
presuppone che il litisconsorte necessario non abbia partecipato alla convenzione arbitrale o
non abbia aderito alla necessaria aggregazione per la nomina degli arbitri. Ove invece egli abbia
partecipato alla convenzione arbitrale, ma non sia stato coinvolto nel procedimento, si dovrà
procedere all’integrazione del contraddittorio.
(57) Sul punto v. SALVANESCHI, sub art. 816 quater c.p.c., in MENCHINI (a cura di), cit., 245,
che richiama RICCI, op. cit., 448.
349
6. Una lettura attenta e propositiva della sentenza in esame offre
senza dubbio lo spunto per qualche considerazione mirata circa la bontà
dell’intervento riformatore del 2006.
Nello specifico, e come appena anticipato, in quanto diffusamente
sottolineato in dottrina, il disposto dell’art. 816-quater (58) lascerebbe
aperte diverse questioni e non risulterebbe in grado di fornire « quella
chiarezza che ci si attendeva » da un’opera riformatrice, anzi responsabile
« di non contemplare alcune importanti ipotesi di litisconsorzio iniziale
nell’arbitrato » e di non apportare alcuna distinzione tra « i diversi tipi di
connessione sussistenti tra le posizioni soggettive di cui le parti si affermano
titolari » (59).
In particolare, due, inter alia, sarebbero i profili problematici che
emergono da una lettura attenta della norma in oggetto: il primo — legato
per materia alla vicenda esaminata dall’intervento della Corte — riguardante le possibili conseguenze derivanti dalla novità dell’estensione della
richiamata regola anche alle cause litisconsortili necessarie (60); il secondo
— di cui si intende dare atto in quanto di indiscussa rilevanza pratica —
relativo alla necessaria, e a onor del vero limitante, ricorrenza di un’unica
convenzione d’arbitrato tra le parti in gioco.
Orbene, volendo esaminare brevemente i due suddetti profili problematici, è da sottolineare, innanzitutto e preliminarmente, come « l’infelice
formulazione della norma » (61) comporti senza dubbio la necessità di
rifarsi, ancor oggi e al fine di maggiore chiarezza e praticità, a quei criteri
interpretativi finora descritti, i quali assumono, in tal senso, rinnovata
attualità ogni qual volta ci si trovi innanzi a questioni di tal genere.
Più in particolare, e con riferimento al primo argomento delineato, i
cui ragionamenti assumono specifico interesse anche ai fini della vicenda
de qua, il richiamo agli approfondimenti elaborati nel corso del tempo in
(58) Per comodità, si riporta il disposto dell’articolo menzionato, ai sensi del quale
« Qualora più di due parti siano vincolate dalla stessa convenzione d’arbitrato, ciascuna parte può
convenire tutte o alcune delle altre nel medesimo procedimento arbitrale se la convenzione
d’arbitrato devolve a un terzo la nomina degli arbitri, se gli arbitri sono nominati con l’accordo
di tutte le parti, ovvero se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l’arbitro o gli arbitri,
nominano d’accordo un ugual numero di arbitri o ne affidano a un terzo la nomina. Fuori dei casi
previsti nel precedente comma il procedimento iniziato da una parte nei confronti di altre si scinde
in tanti procedimenti quante sono queste ultime. Se non si verifica l’ipotesi prevista nel primo
comma e si versa in caso di litisconsorzio necessario, l’arbitrato è improcedibile ».
(59) POLINARI, Pluralità di parti, cit., 543, e POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c., in
BENEDETTELLI, CONSOLO, RADICATI DI BROZOLO (diretto da), cit., 213, il quale, tra i tanti
menzionati, porta l’esempio del litisconsorzio unitario, caratterizzato, pur a fronte della facoltatività dell’istituto, da un medesimo petitum e causa petendi e tendenzialmente dimenticato
dalla previsione del legislatore, che « evidentemente presuppone che la facoltatività del litisconsorzio sia sempre indice di liti sul piano sostanziale ».
(60) Per un esame approfondito si veda SALVANESCHI, sub art. 816 quater c.p.c., in
MENCHINI (a cura di), cit., 244 ss.
(61) POLINARI, op. ult. cit., 213.
350
sede giurisprudenziale e dottrinale risulterebbe indispensabile innanzi a
quelle criticità nascenti dall’estensione della norma in commento alle
ipotesi di litisconsorzio necessario e individuabili soprattutto nella (i)
tendenziale facilità con cui la via arbitrale rischierebbe di venir sabotata
dal comportamento delle parti in lite e nella (ii) condanna di improcedibilità del giudizio arbitrale in tutti i casi in cui, a fronte di una plurisoggettività vincolata, non si versi nelle ipotesi previste dal comma 1 della
norma ora in esame.
Nello specifico — e fermo restando l’indiscusso pregio da riconoscersi
alla norma di aver ammesso in linea di principio la compatibilità tra
aggregazione di interessi (processuali e/o sostanziali) e litisconsorzio necessario — è infatti opportuno segnalare come il dettato codicistico, così
come formulato, nel consentire a più soggetti portatori di interessi sostanziali disomogenei di riunirsi sotto il profilo processuale al solo fine di
permettere la fisiologica formazione del collegio arbitrale, lasci aperta
l’ipotesi patologica consistente nel fatto che più titolari di un unico
interesse sostanziale decidano — in chiara violazione del dovere di leale
collaborazione delle parti nell’attività di costituzione del collegio giudicante — di non dare luogo ad un’aggregazione processuale, non effettuando un’unica nomina e così rendendo improcedibile la via arbitrale (62), necessariamente abbandonata a favore del ricorso al giudice
ordinario.
Ipotesi, quest’ultima, che chiaramente denota un’eccessiva debolezza
della previsione in commento, in tale ambito talmente attenta a tutelare la
volontà dei contendenti da sembrare quasi incapace di trovare il giusto
mezzo tra autonomia delle parti e certezza — e quindi affidabilità — del
procedimento tutto (63).
In altre parole, l’eccessiva elasticità del dettato del codice parrebbe
permettere un richiamo fin troppo facile ad una sanzione, quella di
improcedibilità, di sicuro eccessivamente drastica nell’arbitrato, tipicamente ed essenzialmente connotato dell’autonomia negoziale, così sottoponendo il buon esito — nonché l’essenza stessa — della procedura tutta
(62) Così SALVANESCHI, op. ult. cit., 245. Si tenga però conto dell’osservazione emersa in
dottrina — v. MURONI, op. cit., 141 — secondo cui anche nel caso di litisconsorzio necessario si
dovrebbe verificare in concreto se veramente ognuna delle parti abbia interessi distinti e
contrastanti con quelli delle altri parti, stante che « la ricorrenza di un’ipotesi di litisconsorzio
necessario di per sé non significa che le diverse parti formali abbiano ciascuna un interesse
sostanziale all’esito della lite diverso dalle altre ». Di contro, il comune interesse sostanziale non
sempre è coincidente ad una comune linea difensiva: si pensi al caso in cui entrambe le parti
chiedano il rigetto o l’accoglimento di un ricorso, pur sulla base di interessi sostanziali
sottostanti tra loro non omogeni.
(63) Molte sono infatti le ipotesi che condannano l’arbitrato all’improcedibilità: si pensi,
ad esempio, al caso del litisconsorte necessario pretermesso che, a prescindere dal mero dato
temporale legato al suo ingresso nella procedura (che potrebbe ben essere arrivata alle sue
battute conclusive), non presti il suo consenso al collegio già costituito, così condannando gli
altri contendenti ad abbandonare la via arbitrale a favore del giudizio ordinario.
351
non solo (i) all’avveramento delle condizioni procedurali delineate al
comma 1 dell’art. 816-quater ma anche (ii) a strumentalizzazioni e applicazioni distorsive da parte dei soggetti sottoposti alla medesima convenzione.
Il secondo profilo critico, relativo, invece, alla sottoposizione delle
parti ad un’unica convenzione arbitrale, presenta, poi, ulteriori ed innumerevoli problematiche teoriche e pratiche, di cui è necessario — per
l’indiscussa centralità dalle stesse rivestita e seppur nella brevità del
presente scritto — dare sommariamente atto in tal sede.
Come è noto, in quanto disinteressata — così come chiaramente
statuito dal comma 1 dell’articolo in commento, il quale come fattispecie
tipo pone il caso in cui « più di due parti siano vincolate dalla stessa
convenzione d’arbitrato » — a tutte le ipotesi in cui un giudizio con più
soggetti nasca da più contratti tra di loro collegati e connotati da diversi
patti compromissori, la previsione in esame parrebbe comportare la
conseguenza di rendere impossibile la realizzazione del cumulo di giudizi
nei casi in cui la plurisoggettività derivi, per esempio, da diverse clausole
compromissorie contenute in contratti collegati o avente medesimo contenuto e sottoscritti dal medesimo contraente, seppur tra loro non collegati (64).
Tale scelta del legislatore — non obbligata da un punto di vista
sistemico e, soprattutto, non esente da dubbi interpretativi (65), tanto più
a fronte della presunta inderogabilità che la connota — implicherebbe
l’impossibilità di addivenire ad una possibile soluzione congiunta delle liti,
con la conseguenza, tanto potenziale quanto rischiosa, di trovarsi innanzi
a decisioni arbitrali non coerenti o anzi, addirittura, contraddittore in tutti
quei casi in cui, tanto per un’esigenza di armonia di sistema quanto per
buon senso economico, una trattazione congiunta offrirebbe una soluzione
migliore rispetto a quella prospettata dal dettato della legge.
Ecco dunque che anche in tal caso, e tanto più a fronte di linee
(64) Per approfondire il tema, si rimanda, innanzitutto, a ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub
806 c.p.c., in CARPI, (diretto da), Arbitrato, Bologna, 2007, 61 ss. Nello specifico l’Autore
approfondisce analiticamente l’argomento, suddividendo il campo d’indagine in diverse e
distinte fattispecie, prendendo in considerazione le quattro seguenti casistiche: (i) presenza di
contratti collegati tra medesime parti; (ii) presenza di contratti collegati fra parti diverse; (iii)
ricorrenza di una convenzione arbitrale propria, nello specifico, ad uno solo dei contratti
collegati; (iv) ricorrenza di più convenzioni arbitrali, contenute nei contratti collegati, fra loro
incompatibili. Sempre in tema di veda ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e
efficacia della clausola compromissoria: il leasing e altre storie, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000,
1120 ss.
(65) Ci si riferisce a NELA, Art. 816-quater c.p.c., in CHIARLONI (a cura di), Le recenti
riforme del processo civile, Bologna, 2007, 1742, n. 2. Nello specifico l’autore amplia l’ambito
applicativo della disposizione affermando che la stessa « si applica non solo ai casi di stipulazione congiunta di una convenzione arbitrale ad opera di più parti, ma anche a casi in cui la
pluralità di sogetti tenuti alla convenzione si è verificata per fatti o atti sopravvenuti alla
conclusione della convenzione ».
352
interpretative a tal punto rigorose (66) da intravedere nel dettato di cui
all’art. 816-quater non solo la disciplina positiva dell’arbitrato litisconsortile ma anche la volontà generale del legislatore di impedire l’instaurazione di arbitrati multiparti tra litisconsorti non vincolati dal medesimo
accordo compromissorio (67), « l’infelice formulazione della norma » sopra
menzionata non potrà che richiedere, al fine di garantire fino in fondo il
rispetto dei canoni volontaristici citati e la corretta evoluzione del giudizio
arbitrale, il costante ricorso agli escamotage già elaborati in giurisprudenza
e dottrina, essendo questi i punti di riferimento migliori cui affidarsi tanto
nel silenzio della previgente normativa, quanto nella confusione derivante
dal quadro post-riforma (68).
7. Al termine di questa breve disamina, e forti delle posizioni fatte
proprie dal giudizio di legittimità, pare corretto sottolineare come la
materia dell’arbitrato multiparte e, più nello specifico, dell’applicazione
del meccanismo di nomina binario a fronte di più litiganti, vada senza
dubbio letta sotto una duplice angolazione, l’una volta a evidenziare i
meriti di un’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale capace, come è
noto, di identificare soluzioni operative tanto nel silenzio della norma,
quanto, in seguito, nella confusione dalla stessa derivante, l’altra indirizzata a individuare i diversi margini di miglioramento di un dettato normativo senza dubbio connotato da alcune debolezze e difficoltà interpretative.
In particolare, da una lettura attenta del dettato della Cassazione e
dei ragionamenti intorno allo stesso gravitanti, è dato riscontrare come, a
fronte di un intervento giurisprudenziale e dottrinale sul punto costante,
preciso e puntuale, l’intervento riformatore del 2006 — che di tale
percorso avrebbe dovuto porsi a coronamento — non risulti invece
sufficientemente coraggioso nell’affrontare un tema, quale quello litisconsortile, che proprio in sede di procedimento arbitrale, indirizzato per
definizione a dare risposta a quelle esigenze di libertà ed efficienza delle
parti cui il giudizio ordinario non è in grado di dare piena espressione,
dovrebbe trovare una più compiuta disciplina.
(66) Così LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano 2006, 289; RICCI, op. cit.,
447 e 449.
(67) Che sarà invece ugualmente percorribile, disciplinata dai principi elaborati in
dottrina e giurisprudenza. Così nello specifico, e più in generale sul tema del collegamento
contrattuale v. POLINARI, Pluralità di parti e pluralità di convenzioni d’arbitrato, cit., 544 ss.
(68) Sul punto vedi poi POLINARI, sub art. 816 quater c.p.c., cit., 213 e SALVANESCHI, sub 816
quater, cit., 237, nt. 7, che richiama sia Cass. 25 maggio 2007, n. 12321, con riferimento all’ipotesi
di contratti collegati contenenti clausole compromissorie di identico contenuto da cui nascano
controversie connesse e risolto nel senso della ammissibilità dell’instaurazione di un unico
procedimento arbitrale pur in presenza di una duplicità di patti compromissori, sia, e per un
esame più approfondito, ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e arbitrato, in
www.judicium.it.
353
Più nello specifico, ammettere che la disposizione di cui all’art.
816-quater sia sufficiente al fine di disciplinare tutte le varie ipotesi di liti
con pluralità di parti, oltre che risultare incongruente da un punto di vista
sistematico (si ricordi, a tal proposito, la scelta molto criticata di lasciare
al di fuori del campo d’azione dell’articolo in oggetto tutte le ipotesi in cui
le parti non siano sottoposte alla medesima convenzione d’arbitrato),
parrebbe a chi scrive in disaccordo con la volontà generale, espressa dalla
legge delega, di assicurare una più compiuta razionalizzazione della disciplina in esame e di garantire quella volontà originaria o successiva delle
parti del giudizio arbitrale, che al di fuori delle ipotesi tassative ed
inderogabili di cui al primo comma dell’articolo in esame vedrebbero
drasticamente lesa (soprattutto in caso di litisconsorzio necessario e della
conseguenze improcedibilità della via arbitrale) la propria intenzione di
addivenire ad un’unica soluzione della controversia in essere; e ciò, senza
stare a ribadire le varie conseguenze problematiche di cui si è discusso nel
corso dell’approfondimento.
Ecco dunque che, innanzi ad un tale contesto di riferimento, ancor più
valore parrebbe ricoprire l’intervento di legittimità in commento, in
quanto capace di ribadire con forza e chiarezza — e sebbene nei limiti di
una fattispecie ante-riforma — l’assoluta attualità e centralità delle riflessioni e delle soluzioni operative emerse nel tempo in tema di arbitrato
plurisoggettivo, anche e soprattutto a fronte di un dettato normativo che,
per quanto di recente formulazione, non risulta ancora in grado di scrivere
il lieto fine alla querelle oggi brevemente esaminata.
FEDERICO RIGANTI
354
CORTE D’APPELLO DI ROMA, sentenza 29 agosto 2013; SORACE Pres.; DELL’ERBA
Est.; F.S. S.r.l. c. N.P. S.p.A.
Lodo - Impugnazione per nullità - Eccezione di giudicato - Carenza di potestas
iudicandi - Inefficacia della convenzione d’arbitrato - Rilevabilità d’ufficio.
È nullo, per difetto di potestas iudicandi degli arbitri, il lodo che decide sulla
medesima domanda che è stata oggetto di un precedente lodo passato in giudicato,
in quanto quel lodo ha consumato il potere degli arbitri di decidere derivante dalla
clausola compromissoria. Tale questione è rilevabile d’ufficio dalla Corte d’appello
adita ai sensi dell’art. 829 c.p.c., alla quale è tuttavia precluso il passaggio alla fase
rescissoria mancando in radice la potestas decidendi degli arbitri, ed è deducibile ex
novo e rilevabile d’ufficio anche innanzi alla Cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con atto di citazione notificato in data 28 aprile
2006 F.S. proponeva impugnazione avverso il lodo in epigrafe che, in parziale
accoglimento della propria domanda, aveva condannato N. P. S.p.A. al pagamento
in suo favore della somma di “EUR 756.000,00 in relazione ai risultati finali del
contratto Dw., in adempimento alle disposizioni contenute nel Sale Of Business
Agreement e nell’atto di integrazione e conformemente ai principi stabiliti nel
lodo arbitrale 2003”, l’impugnante deduceva che la pronuncia traeva origine da un
contratto di cessione di azienda e relativo atto integrativo conclusi fra le parti il 23
dicembre 1998 ed il 10 dicembre 1999, con cui F.S. aveva acquistato da N.P.
l’azienda S., comprendente due importanti contratti conclusi con la società brasiliana P.bras. e con la società siriana Dw.; che nell’atto integrativo le parti avevano
stabilito un aggiustamento del prezzo di cessione originariamente convenuto in
base ai criteri stabiliti nel contratto, impegnandosi a rinviare l’analisi dei risultati
dei due contratti al momento della definitiva chiusura delle commesse e ad
addivenire, di conseguenza, ad un ulteriore successivo adeguamento del prezzo di
cessione; che insorta controversia fra le parti su tale adeguamento del prezzo di
cessione, in data 2 dicembre 2003, F.S. aveva adito il Collegio Arbitrale sulla scorta
della clausola compromissoria prevista nel contratto; che il giudizio si era concluso
con la liquidazione della somma di LIRE 494.000.000 in favore di F.S. con
riferimento al contratto P.bras e con riferimento al contratto Dw., i cui risultati
non erano stati considerati finali, non essendo all’epoca chiusa la commessa, il
Collegio aveva stabilito che tutte le differenze avrebbero dovuto essere conguagliate tra le parti una volta divenuti definitivi ed incontestati i risultati del contratto
e sulla base degli stessi criteri indicati nel lodo con riferimento al contratto P.bras;
che detto lodo non era stato impugnato dalle parti ed era divenuto definitivo e
vincolante; che una volta divenuti definitivi ed incontestati i risultati del contratto
Dw, F.S. aveva chiesto a N.P. il conguaglio del prezzo in suo favore e, poiché N.P.
si era rifiutata di adempiere alla sua obbligazione, F.S. aveva instaurato un nuovo
procedimento arbitrale, conclusosi con il lodo in questione.
(Omissis).
Con il quarto motivo di impugnazione F.S. lamentava la nullità del lodo per
contrarietà/difetto di motivazione/eccesso di potere (art. 829 n. 4 c.p.c.)/per
violazione degli artt. 822, 115 e 112 c.p.c. (829 co. 2 c.p.c.), per contrasto con la
statuizione del lodo del 2003 (art. 829 n. 8 c.p.c.).
355
(Omissis).
Si costituiva N.P. S.p.A. che contestava i motivi di impugnazione proponeva
a sua volta impugnazione incidentale, deducendo la nullità del lodo per avere il
Collegio accolto domande di F.S. improponibili, perché già respinte con il lodo
2003 (art. 829 co. n. 8 c.p.c.) e per l’error in judicando (art. 829 co. 2 c.p.c.).
N.P. deduceva che il lodo del 2003 non conteneva alcuna condanna nell’an
con riferimento alle perdite asseritamente patite per la commessa Dw., per cui il
lodo del 2006 in esame non avrebbe dovuto emettere una pronuncia di condanna
nel quantum) mancando la disposizione.
(Omissis).
Come rilevato dal Collegio nell’ordinanza del 4 ottobre 2012 il lodo arbitrale
impugnato dev’essere, in limine, dichiarato nullo per difetto di potestas judicandi
degli arbitri, in quanto, avendo il Collegio nel 2003 già pronunciato un lodo
definitivo sulla medesima domanda, passato in giudicato perché non impugnato
(circostanza pacifica), ha consumato il potere di decidere in ordine alla medesima
sulla scorta della clausola compromissoria contenuta nel contratto in atti e non
poteva essere adito una seconda volta sulle stesse questioni già risolte in modo
irrevocabile.
Tale questione può ben essere sollevata d’ufficio dalla Corte adita ai sensi
dell’art. 829 c.p.c. poiché il giudice dell’impugnazione del lodo è tenuto a verificare
anche d’ufficio che gli arbitri siano stati effettivamente investiti dalla potestes
judicandi sulla base di un valido compromesso per arbitrato rituale ed inoltre le
questioni relative all’esercizio da parte degli stessi arbitri di un potere loro non
attribuito (ossia relativo all’usurpazione della funzione giurisdizionale) è deducibile ex novo e rilevabile d’ufficio, con il solo limite del giudicato, anche innanzi alla
Cassazione (Cfr Cass. civ. 8410/98).
Il caso in esame è equiparabile ad un’ipotesi di esercizio della funzione
giurisdizionale in assenza di clausola arbitrale, poiché quella contenuta nel contratto fra le parti ha esaurito la sua efficacia, con riferimento alla controversia in
questione, con la pronuncia arbitrale del 2003. La circostanza che la questione sia
stata sollevata da N.P. davanti agli arbitri, sia stata respinta e non più riproposta
in sede di impugnazione ex art, 829 c.p.c., non implica poi che si sia formato sulla
medesima alcun giudicato né preclusione, poiché l’impugnazione del lodo non si
configura come giudizio di gravame, bensì di nullità e quindi si tratta di un giudizio
in unico grado avente ad oggetto la validità del lodo (Cfr Cass. civ. n. 5358/99, n.
12031/04, n. 9394/11).
Pertanto il giudicato può formarsi soltanto in ordine alle statuizioni della
sentenza emanata dalla Corte ex art. 829 c.p.c.
Nelle ipotesi quali quelle in esame è poi precluso alla Corte d’Appello il
passaggio alla fase rescissoria, mancando in radice la potestas decidendi e configurandosi appunto l’eventuale pronuncia degli arbitri come una vera e propria
usurpazione di potere (Cfr. Cass. civ. 22083/09, n. 16977/06, n. 2598/06, n. 19994/
04).
Alla nullità del lodo consegue l’accoglimento della domanda, proposta da
N.P., di ottenere la restituzione di quanto pagato in conseguenza del lodo annullato.
(Omissis).
356
La rilevabilità d’ufficio dell’inesistenza della convenzione d’arbitrato per
consunzione (a causa di altro lodo su medesima domanda).
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Roma, innanzi
alla quale è proposta impugnazione per nullità ex art. 828 ss c.p.c., dichiara
in limine nullo un lodo arbitrale per carenza di potestas iudicandi degli
arbitri che l’hanno pronunciato.
Gli arbitri si sarebbero pronunciati sulla medesima domanda proposta nell’ambito di un precedente procedimento arbitrale, sfociato in un
lodo passato in giudicato perché non impugnato, quindi avrebbero condotto e concluso definitivamente un arbitrato sulla base di una clausola
compromissaria, la stessa originante il primo arbitrato, spirata.
I casi arbitrali, a monte della vicenda giurisdizionale che qui si
commenta, nascevano da una clausola compromissoria inserita in un
contratto di cessione d’azienda concluso, nel dicembre del 1998, tra due
società italiane attive nel settore dell’oil & gas. Oggetto di tale cessione
erano anche due contratti, il primo con una società brasiliana e il secondo
con una società siriana, le cui commesse erano decisive ai fini della
determinazione del prezzo dell’azienda ceduta, tanto che, con atto integrativo, le parti si erano impegnate ad adeguare quel prezzo, originariamente convenuto in base a determinati criteri indicati nel contratto di
cessione d’azienda, al momento della definitiva chiusura di dette commesse.
Il primo arbitrato, sorto nel dicembre 2003 sull’adeguamento del
prezzo di cessione, si era concluso con un lodo definitivo che aveva
liquidato, a titolo di conguaglio, e solo con riferimento al contratto
brasiliano, una certa somma a favore della società cessionaria; con riferimento a quello siriano, i cui risultati non erano ancora definitivi, la
medesima domanda di condanna era stata, anche nella sua formulazione
subordinata di condanna generica, respinta, limitandosi allora il collegio
arbitrale a dichiarare che (solo) « quando i risultati del contratto siano
diventati finali ed indiscutibili, le parti dovranno procedere ad un’analisi
degli stessi, secondo criteri indicati in questo lodo in relazione al contratto
[brasiliano] ».
Il secondo arbitrato, conclusioni nel 2006 con lodo dichiarato nullo
con le sentenza in epigrafe, veniva instaurato, ancora dal cessionario,
quando, divenuti quei risultati definitivi, il cedente si era ancora rifiutato
di adempiere l’obbligazione del pagamento del conguaglio del prezzo. Il
lodo, in parziale accoglimento della domanda dell’istante, aveva condannato il cedente al pagamento di una certa somma, applicando i principi
prescritti dal lodo del 2003, oltre che quelli stabiliti nel contratto di
cessione. Il cessionario impugnava il lodo deducendo, insieme ad altri vizi,
il contrasto col primo lodo passato in giudicato, ex art. 829, comma 1, n. 8,
357
c.p.c., per non aver il secondo rispettato i parametri fissati dal primo e lì
indicati come vincolanti. Proponeva impugnazione incidentale il cedente,
anche questo invocando il n. 8 dell’art. 829 c.p.c., deducendo la nullità del
lodo, pronunciatosi sul quantum in assenza di una disposizione sull’an, non
contenuta nella precedente statuizione arbitrale.
Ebbene, per la Corte d’appello di Roma quel secondo lodo è nullo
non perché contrario « ad altro precedente lodo non più impugnabile » (ex
art. 829, comma 1, n. 8, c.p.c.) bensì, ancor più radicalmente, per carenza
di potestas iudicandi degli arbitri. Questi si sarebbero pronunciati sulla
medesima domanda introduttiva del giudizio arbitrale conclusosi con lodo
passato in giudicato, quindi in forza di una clausola che aveva esaurito la
sua efficacia. Tale nullità, rilevata d’ufficio dalla Corte d’appello in sede di
impugnazione, era peraltro stata già vagliata e respinta dal collegio
arbitrale e non riproposta come motivo di impugnazione.
Nella presente nota si analizzerà la decisione della Corte in ordine
alla rilevabilità d’ufficio di tale nullità, come indiretta conseguenza dell’inquadramento dell’impugnazione come « giudizio in un unico grado » e
della, ancora conseguente, mancata applicazione a detto giudizio del
principio della conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione.
Non senza, preliminarmente, aver considerato che per la Corte d’appello
di Roma un lodo passato in giudicato soffoca la clausola in forza del quale
è stato pronunciato così impedendo un nuovo giudizio arbitrale sulla
medesima quindi che l’eccezione di giudicato arbitrale dissimuli una
questione di competenza (1).
2.
Che la questione del giudicato, in arbitrato, dissimuli una que-
(1) La Corte d’appello di Roma, frustrando del tutto il risultato arbitrale (e la stessa
scelta delle parti a favore dell’arbitrato, che dovrebbe avere tra i suoi vantaggi la celerità e la
stabilità del suo risultato, a fronte dei suoi ingenti costi) ha impiegato sette anni per pronunciarsi
nei termini supra. Nel lasso di tempo intercorso dalla data di inizio del secondo arbitrato al
deposito della sentenza che qui si commenta, è intervenuta una importante riforma (quella per
d.lgs. 40/2006), per molti suoi aspetti non applicabile ratione temporis al caso di specie, ma,
soprattutto, mutato non di poco il quadro giurisprudenziale dell’arbitrato. Dato, quest’ultimo,
che non agevola l’analisi, analisi che crediamo comunque utile già solo per una migliore
comprensione del dato positivo attuale. Che la Corte d’appello necessiti poi di una « iniezione
di rapidità ed efficienza », lo ha notato recentemente anche FABBI, Sulla discutibile reclamabilità
del provvedimento che conceda o neghi l’inibitoria del lodo, in Giur. it., 2015, 439 ss., nel
commentare un’ordinanza della medesima sezione (App. Roma, sez II, 10 luglio 2014), che
ammette la reclamabilità dell’ordinanza ex art. 830, ult. comma, c.p.c., facendo leva sull’assimilazione del procedimento volto all’inibitoria ex art. 830, ultimo comma, c.p.c. e quello
cautelare, che, a sua volta, muove dalla considerazione (la stessa da cui muove la decisione che
qui si commenta) per cui l’impugnazione per nullità non configura un giudizio di secondo grado:
ciò che giustifica la non estensione delle inibitorie previste per le sentenze e, nel caso in esame,
l’applicazione del principio di conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame. Nel caso in
esame la sospensiva non era stata disposta e lo stesso impugnante principale (cessionario) si è
visto condannato, dopo sette anni, al pagamento in favore dell’impugnante incidentale (cedente) di quanto il secondo aveva già pagato al primo, a titolo di conguaglio, in conseguenza del
lodo poi annullato, oltre alla rivalutazione monetaria.
358
stione di competenza, rectius di potestas iudicandi degli arbitri, non
convince. La Corte, aderendo alla teoria processuale del giudicato (2),
riconduce l’ipotesi de qua entro il motivo di cui al n. 4 dell’art. 829 c.p.c.,
pur non richiamandolo direttamente, e non entro il motivo di cui al n. 8
invocato dalle parti, assumendo che gli arbitri abbiano deciso il merito in
un caso in cui il merito non poteva essere deciso. Più esattamente, per la
Corte d’appello di Roma gli arbitri, del secondo arbitrato, hanno pronunciato il merito pur in presenza di una questione processuale impediente,
quale è, secondo la ricostruzione processualistica dell’effetto di ne bis in
idem, l’esistenza di una precedente decisione arbitrale (sulla medesima
domanda) divenuta incontrovertibile. Il testo della norma di cui all’art.
829, comma 1, n. 4, c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in
esame, anteriore alle modificazioni introdotte dal d.lgs. 40/2006, avvolgeva, sia pur in via interpretativa, quei medesimi « altri » casi.
Tuttavia, come correttamente rilevato dalla dottrina che ha calato il
tema del giudicato nel contesto arbitrale e della sua impugnativa (3), se così
fosse, il motivo di cui al n. 8 (in forza del quale un lodo è impugnabile se « è
contrario ad altro precedente lodo non più impugnabile o a precedente
sentenza passata in giudicato tra le parti » anche nella sua formulazione ante
riforma) sarebbe svuotato della sua portata applicativa bastando la fattispecie delineata dal n. 4 (« se il lodo [...] ha deciso il merito della controversia
in ogni altro caso in cui il merito non poteva essere deciso ») a coprire
l’ipotesi de qua. Nell’intentio legis c’era invece l’esigenza di separare e,
quindi, di distinguere gli effetti dell’uno o dell’altro: infatti, ai sensi dell’art.
830, comma 2, c.p.c., nel caso in cui la Corte d’appello annulli il lodo per il
motivo di cui al n. 4, la Corte d’appello, nel rispetto del principio del doppio
grado di giudizio, si deve arrestare alla fase rescindente annullando il lodo
e rimettendo le parti in primo grado; mentre nel caso in cui il lodo venga
annullato per il motivo di cui al n. 8, la Corte, secondo quanto previsto
sempre dall’art. 830, comma 2, c.p.c., anche in un’ottica di economia processuale, prosegue nel merito decidendo conformemente a quanto deciso
nel precedente lodo, così garantendo una pronuncia di merito alle parti. Tale
secondo effetto si riscontra sia nel caso, più ovvio, di giudicato pregiudiziale
rispetto alla seconda decisione, sia nel caso di giudicato formatosi su una
decisione avente lo stesso oggetto (perché originante dalla medesima domanda) del lodo annullato (4).
(2) Per tutti si veda, CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale, Torino, 2014, 341 ss.
(3) MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma: motivi ed esito,
Milano, 2009, 198 ss.
(4) Così anche, MARINUCCI, L’impugnazione del lodo, 201. Nel senso del testo, pur senza
qui enfatizzare il dato positivo della norma introdotta nel 2006, solo confermativa di un dato
esistente, e ratione temporis non applicabile al caso in esame, AULETTA, Sub art. 824-bis c.p.c.,
in MENCHINI (a cura di), La nuova disciplina dell’arbitrato, in Le nuove leggi civili commentate,
Padova, 2007, 420 ss., per il quale gli arbitri non sono soggetti al divieto di bis in idem (che viene
359
Se poi la teoria processuale del giudicato consente la riconduzione del
motivo n. 4, di là dell’interpretazione dell’intentio legis nella sistemazione
del meccanismo impugnatorio del lodo, più difficoltosa, ma anche questa
consentita dalla cornice normativa, è la sussunzione dell’ipotesi dell’esaurimento dell’efficacia della clausola per sopraggiunto giudicato entro il
motivo di cui al n. 1, che pur copre l’ipotesi di convenzione d’arbitrato
« invalida » e non, almeno letteralmente, di convenzione « expirée » (5). Il
richiamo fatto dal motivo di cui al n. 1 dell’art. 829 c.p.c. all’art. 817 c.p.c.,
come modificato dalla novella del 2006 (6), dove una espressa menzione
all’ipotesi di inefficacia della clausola, quindi il combinato disposto delle
due norme, consente la sussunzione del caso di specie entro il motivo de
quo, tollerando che il giudicato sceso su un lodo privi di efficacia la
clausola compromissoria da cui origina « con riferimento [resta inteso] alla
[sola] controversia in questione », quindi includendovi l’ipotesi di inefficacia sopravvenuta (7). E per consolidata giurisprudenza anche il vecchio
motivo di cui al n. 1, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame,
pur nella sua breviloquenza (« se il compromesso è nullo »), ricomprendeva tanto la nullità quanto la inefficacia della clausola compromissoria
quindi può valere il medesimo argomento (8).
Non ravvisiamo poi, a differenza dei giudici romani che lo hanno
invece visto, o quantomeno intravisto, alcun rapporto di causa-effetto tra
l’esaurimento dell’efficacia della clausola e la sua inesistenza, giungendo la
sentenza sin ad affermare l’integrazione di una situazione di inesistenza
della clausola compromissoria (e del lodo, visto il richiamo giurisprudenziale) quindi di usurpazione del potere da parte degli arbitri (9).
dall’« autorità » di giudicato, e non dall’effetto del giudicato proprio del lodo arbitrale, su cui
infra) ma al potere delle parti che danno loro mandato: solo così si spiega l’art. 829, comma 1,
n. 8, c.p.c., in forza del quale non è più necessaria l’eccezione di giudicato per ottenere
l’annullamento del lodo ma solo l’acquisizione del lodo nel procedimento.
(5) Cfr., di utile comparazione, il motivo n. 1 dell’art. 1484 NCPC francese (ante riforma
del 2011) che apriva il recours en annulation avverso il lodo arbitrale quando « l’arbitre a statué
sans convention d’arbitrage ou sur convention nulle ou expirée », poi sostituito con la più ampia
formula « s’est déclaré à tort compétent ou incompétent » (art. 1492 CPC). Si legga anche l’art.
34 c.p.c. del Codice del 1865 ai sensi del quale il compromesso « cessa[va] » ad esempio
« stabilito nel compromesso » per la scadenza del termine. V. infra nota 7.
(6) Che tuttavia è ratione temporis non applicabile al caso di specie per via della
disciplina transitoria dettata dal d.lgs. 40/2006.
(7) L’espressione utilizzata dalla Corte d’appello di Roma è simile a quella che si ritrova
nell’art. 816-septies c.p.c. dove si afferma che se le parti non provvedono all’anticipazione delle
spese del procedimento arbitrale nel termine indicato dagli arbitri, queste non sono più
vincolate alla convenzione di arbitrato « con riguardo alla controversia che ha dato origine al
procedimento arbitrale ».
(8) FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001, 366, dove ampio richiamo di
giurisprudenza.
(9) Afferma la Corte: « il caso in esame è equiparabile ad un’ipotesi di esercizio della
funzione giurisdizionale in assenza di clausola arbitrale » e richiama giurisprudenza sull’inesistenza della convenzione d’arbitrato e del lodo (non derivante dal giudicato ma da ipotesi
diverse: v. infra): Cass. civ., 25 agosto 1998, n. 8410 (su cui infra); nonché, sull’esito non
360
L’effetto causale dell’usurpazione del potere, per inesistenza della
clausola compromissoria, consente, tuttavia, alla Corte, nell’ambito della
struttura bifasica dell’impugnazione per nullità del lodo, di fermarsi alla
fase rescindente, nonché di sostenere la rilevabilità d’ufficio del vizio (10).
A ben leggere dunque nemmeno la Corte trae la sua conclusione
aderendo alla teoria del cd. giudicato processuale ed assumendo quindi
che gli arbitri abbiano erroneamente deciso nel merito in spregio al
presupposto processuale del ne bis in idem, ma dalla assunta radicale
inesistenza della clausola, venendo, esattamente da questa seconda circostanza, la carenza di potestas iudicandi degli arbitri.
3. La categoria giuridica dell’« inesistenza », ammesso che, dopo la
nuova formulazione dell’art. 817 c.p.c. richiamato dall’art. 829 comma 1,
c.p.c., abbia ancora una sua autonoma rilevanza dalla nullità sotto il
profilo impugnatorio, viene in rilevo innanzi a situazioni ictu oculi ben più
gravi e radicali di quella occorsa nel caso di specie, che peraltro richiede(va) un giudizio di identità di domande, di competenza degli arbitri, che
non può richiedersi a un lodo asseritamente inesistente. Scomodarla nel
caso di specie — come che fosse una categoria in cui far residualmente
confluire i vizi atipici del lodo — in un caso cioè cui l’inesistenza della
convenzione arbitrale e del lodo deriverebbero da un precedente giudicato sulla medesima convenzione d’arbitrato, di là che per trarne la non
proseguibilità nella fase rescissoria, ci pare dunque una mera speculazione
del concetto stesso di inesistenza oltre a configurare una totale deminutio
dell’operato arbitrale.
È davanti agli arbitri che il difetto di potestas iudicandi può e deve
essere fatto valere e sono questi a doversi pronunciare sull’identità di
domande quando un’eccezione di giudicato è sollevata nel corso del
procedimento arbitrale, come nel caso concreto si è verificato: nel secondo
procedimento, l’eccezione di giudicato era stata sollevata dal cedente che
assumeva che le domande del cessionario, promuovente il secondo arbitrato ancora per ottenere il conguaglio del prezzo, fossero già state
respinte col lodo precedente. Il collegio arbitrale aveva tuttavia rigettato
tale eccezione e la stessa non veniva riproposta come motivo di impugnazione.
L’inesistenza, la sola eventualmente rilevabile d’ufficio senza limiti
temporali — considerando che non ci si deve qui curare dell’art. 817 c.p.c.,
come novellato nel 2006, quindi del cenno lì espresso alla categoria
giuridica della inesistenza — ricorre infatti, come anzidetto, in situazioni
rescissorio (oggi confermato dell’art. 830, comma 2, c.p.c.): Cass. civ., 7 ottobre 2004, n. 19994;
Cass. civ., 25 luglio 2006, n. 16977; Cass. civ., 16 ottobre 2009, n. 22083.
(10) V. infra.
361
diverse e più gravi (11), dovendosi, le altre meno gravi (come anche quelle
di « radicale inidoneità del negozio compromissorio a produrre effetti »),
ricondurre entro motivo di nullità di cui al n. 1, da dedurre come motivo
di nullità e, quindi, di impugnazione della sentenza, e non anche per la
prima volta innanzi alla Cassazione, applicandosi anche ai lodi arbitrali il
principio (art. 161, comma 1, c.p.c.) della conversione in motivi di gravame
delle cause di nullità della sentenza (12). Detta regola opera infatti per tutti
gli atti idonei al giudicato e dunque si applica sugli stessi presupposti e
negli stessi casi in cui vale la regola del giudicato formale (13).
La novella del 2006 è andata poi definitivamente in questo senso,
ossia di una assimilazione della categoria della inesistenza a quella della
nullità, col solo limite della non arbitrabilità della controversia (14). L’inesistenza della clausola compromissoria, e la conseguente incompetenza
degli arbitri, devono essere eccepite nella prima difesa successiva all’accettazione di questi, se si vuole per il medesimo motivo impugnare il lodo,
lodo che rimarrà certamente impugnabile per contrarietà a precedente
lodo passato in giudicato. Infatti, anche ammettendo che il giudicato
consumi la clausola compromissoria, un secondo giudizio sulla medesima
clausola potrà sempre essere promosso: non dipendendo il secondo dal
primo, non dissimulando, come detto sin dall’inizio, la questione del
giudicato una questione di competenza (15).
(11) L’ipotesi in cui « risulti devoluta ad arbitri una controversia non rientrante nella
giurisdizione di giudice ordinario » (Cass. civ., 11 maggio 1998, n. 4738); la clausola compromissoria non è riferibile alle parti della controversia (Cass. civ., 30 agosto 1995, n. 9162); la
materia non è compromettibile ex art. 806 c.p.c.: riassunte da GIORGETTI, Il difetto di potestas
iudicandi degli arbitri rituali, in questa Rivista, 1999, 3, 460 ss., 470. Crediamo tuttavia che il
concetto di inesistenza fosse più circoscritto di quello descritto dall’Autrice, anche nel vigore
della previgente disciplina; la stessa Autrice escludeva l’esperibilità del rimedio dell’impugnazione per nullità avverso lodo inesistente e ammetteva la rilevabilità di detto vizio in ogni stato
e grado del giudizio. Cfr. infra nota 18.
(12) Così, Cass. 11 maggio 1998, n. 4738 (cit.), di senso esattamente opposto, ma di soli
pochi mesi prima, di Cass. civ., 25 agosto 1998, n. 8410 (la sola citata dalla sentenza, che peraltro
si riferisce a un’ipotesi del tutto differente ossia quella di inesistenza della clausola per la sua
non estensione a un contratto collegato) che invece sottolinea le peculiarità di regime del vizio
del lodo pronunciato da arbitri privi di potestas iudicandi di fatto affermando si tratti di lodo
inesistente. V. la nota di GIORGETTI, Il difetto di potestas iudicandi, cit., 460 ss.
(13) Dimostrava il contrario, anche dal confronto col lodo inesistente, NELA, Riflessioni
minime sull’inesistenza del lodo arbitrale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 4, 1381 ss., per il quale
« la regola della conversione dei motivi di nullità in motivi di gravame ha un senso in un sistema
in cui sussistono impugnazioni che istituzionalmente e storicamente hanno ad oggetto l’ingiustizia della sentenza anziché la sua invalidità [...]. Ove invece simili impugnazioni non esistano,
viene meno alla radice ogni esigenza di affrontare il problema ed a fortiori di dettare la regola
della conversione. ».
(14) Così, AULETTA, Sub art. 824-bis, cit., 422, per il quale, anche nel caso in cui manchi
la convenzione d’arbitrato, la via per sottrarsi al lodo è l’impugnazione per nullità.
(15) V. AULETTA, Sub art. 824-bis c.p.c., cit., 431, il quale giunge alla medesima conclusione, della non anteriorità logica del lodo passato in giudicato rispetto al secondo giudizio,
dalla dipendenza degli arbitri dalle (sole) parti, nel caso qui, instauranti il secondo giudizio. Cfr.
nota 18.
362
Ancora, la rilevabilità d’ufficio del giudicato, di moda nella più
recente giurisprudenza (non arbitrale) (16), deve intendersi recepita e
assorbita, dallo stesso legislatore della materia arbitrale, nella modifica del
motivo n. 8 che oggi non richiede più che l’eccezione di giudicato sia
« dedotta » nel giudizio arbitrale ma solo che il lodo o la sentenza passata
in giudicato « sia[no] stat[i] prodotti nel procedimento ». Oltre questa
considerazione non si può andare: se il contrasto col giudicato non è fatto
valere dalle parti come causa di nullità del lodo, questo non può essere
rilevato d’ufficio dal giudice dell’impugnazione perché oltre la volontà
delle parti non si può andare (17).
4. Tutta la sentenza muove poi da una errata, o quantomeno superata, considerazione di fondo, che si pone peraltro in aperta contraddizione col concetto stesso di « giudicato arbitrale » sulla quale si fonda,
ossia che l’impugnazione per nullità « non si configura come giudizio di
gravame, bensì di nullità e quindi si tratta di un giudizio in un unico grado
avente ad oggetto la validità del lodo ». La stessa sentenza affermativa di
quel principio, richiamata dai giudici romani (Cass. civ., 1 luglio 2004, n.
12031), poggia infatti sulla davvero poco contemporanea tesi della natura
negoziale dell’arbitrato (18).
L’impugnazione per nullità configura a tutti gli effetti un giudizio di
secondo grado rispetto al decisum arbitrale, oltre che un rimedio processuale (e non negoziale) (19), in cui trova applicazione l’art. 161, comma 1,
c.p.c. (20). Alla Corte d’appello, innanzi alla quale si propone l’impugnazione, per la stessa struttura del mezzo impugnatorio proprio dell’arbitrato, non è consentito esaminare motivi di nullità diversi da quelli
(16) Cfr. Cass. civ., S.U., 25 maggio 2001, n. 226, in Foro it., 2001, I, 2810; prima, Cass.
civ., S.U., 23 ottobre 1995, n. 11018, in Riv. dir. proc., 1996, 824 ss., con nota di SCARSELLI, Note
in tema di eccezione di cosa giudicata.
(17) MENCHINI, Impugnazioni del lodo rituale, in questa Rivista, 2005, 4, 819 ss., 853; nello
stesso senso, V. AULETTA, Sub art. 824-bis c.p.c., cit., 432.
(18) Sul giudicato arbitrale, v. AULETTA, Sub art. 824-bis c.p.c., cit., ss., dove anche
richiamata la dottrina classica in tema di giudicato, il quale Autore riconosce l’effetto del
giudicato (tra le parti) al lodo arbitrale pur non riconoscendone l’« autorità », anche alla luce di
una interpretazione sistematica, oggi forse da innovare considerando le recenti pronunce che
hanno investito l’istituto arbitrale tra cui quella che ha travolto l’art. 819-ter c.p.c.; si veda anche,
sul tema, VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 155 ss.; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, Napoli, 2005, 80 ss.
(19) Per una recente dimostrazione, alla luce del rinnovato sistema impugnatorio, sia
consentito rinviare a DE SANTIS, Il rinnovato profilo dell’impugnazione del lodo alla luce (diretta
o riflessa) di eterogene novità normative, in questa Rivista, 4, 2014, 741 ss. La conferma che
l’impugnazione per nullità configuri un giudizio di secondo grado e non di unico grado viene
anche dal fatto che questa, e solo quando il lodo è rituale, si propone innanzi a un giudice di
secondo grado, ossia quel giudice che, in assenza di clausola compromissoria, sarebbe stato
competente a conoscere l’impugnazione. Non è un argomento decisivo a favore della tesi testé
sostenuta, ma rafforzativo crediamo di sì, sicché un cambio di competenza, prospettato nei
disegni più recenti, potrebbe riaccendere tale tesi.
(20) Cass. civ., 16 febbraio 2001, n. 2293.
363
specificamente dedotti dalle parti (21). Ne consegue che la Corte d’appello,
adita dell’impugnazione, non può, anche qualora abbia natura non processuale ma sostanziale (come l’inesistenza o l’inefficacia della convenzione arbitrale), rilevare d’ufficio un vizio diverso da quelli denunciati
dalle parti, essendosi questo, medio tempore, tradotto in motivo di impugnazione (22). Una non eccesiva ingerenza dei giudici, anche in sede
impugnatoria, è del resto coerente con la stessa scelta arbitrale delle parti:
ciò che ammette una loro maggiore autoresponsabilità (23).
La tesi sposata dalla sentenza in esame, ossia la rilevabilità d’ufficio
dell’inesistenza della clausola compromissoria, di là del caso concreto —
in cui crediamo non configurata, ancor prima, la fattispecie giuridica de
qua non ponendosi nemmeno il dubbio circa l’esistenza o inesistenza della
volontà delle parti di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia —
era tuttavia celebrata anche in una serie di pronunce della Suprema Corte
nella giurisprudenza ante riforma del 2006, che la stessa sentenza cita (24).
MICHELA DE SANTIS
(21) Cass. civ., 15 settembre 2000, n. 12165.
(22) AULETTA, La nullità del lodo e del procedimento arbitrale nel sindacato della Corte di
cassazione, in Giust. civ., 2005, 6, cit., 1599, con richiamo a Cass. civ., 14 luglio 1983, n. 4832.
(23) Nel caso in esame, del lodo impugnato veniva contestata, e rimessa a giudici
superiori, non già la carenza di potestas iudicandi degli arbitri, poi rilevata d’ufficio (senza che
vi fossero altri interessi da tutelare oltre quelli delle parti), ma l’ingiustizia nel calcolo del prezzo
di conguaglio, avendo l’impugnante principale interesse, dopo l’accertamento della nullità del
lodo, a una nuova determinazione (al rialzo) di quel prezzo e l’impugnate incidentale a una
pronuncia sull’an di quel prezzo (o il medesimo interesse dell’impugnante principale ma di
segno opposto), e non a una pronuncia meramente ablatoria giustificata sull’asserita assenza di
clausola compromissoria.
(24) Anche una recentissima sentenza della Suprema Corte, Cass. civ., S.U., 8 ottobre
2014, n. 21215, ribadisce quel principio con riferimento a una fattispecie concreta cui era
applicabile ratione temporis l’art. 829 c.p.c. nella sua precedente formulazione.
364
TRIBUNALE DI PIACENZA, ordinanza 10 dicembre 2014; ARRIGONI G.U. ed Est.;
Sig. X +2 (avv. Grassini) W +9 (avv.ti Guariso, Neri e Piccinini) e la Cooperativa
Y (avv.ti Gregori e Angona).
Cooperativa di produzione e lavoro - Delibera di esclusione della compagine
societaria e risoluzione del rapporto di lavoro - Compromettibilità - Art. 40
c.p.c. connessione tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario.
Sussiste la competenza del Giudice del lavoro, in forza della connessione ex
art. 40, comma 3º, c.p.c. tra la domanda di illegittimità della risoluzione del rapporto
di lavoro e quella di esclusione dalla compagine sociale di alcuni soci di una
cooperativa di produzione e lavoro, nonostante che le stesse siano sorrette da un
identico motivo, non essendo detta ragione del tutto coincidente con lo scopo
mutualistico che radica la competenza del Giudice ordinario.
Sussiste la competenza del Tribunale in funzione del Giudice del lavoro a
conoscere della controversia tra i soci e la cooperativa di produzione e lavoro,
poiché la competenza arbitrale è ammissibile solo in forza di clausola compromissoria prevista da contratti o accordi collettivi.
A scioglimento della riserva che precede,
ritiene il Tribunale di Piacenza di essere competente a decidere la domanda
di esclusione della delibera assembleare alla stregua dei principi affermati nella
recente pronuncia della Suprema Corte (Ordinanza 21 novembre 2014, n. 24917)
assunta in sede di regolamento di competenza.
La Corte di Cassazione ha infatti statuito che “nell’ipotesi di connessione tra
cause aventi ad oggetto il rapporto mutualistico e quello lavorativo, opera l’art. 40,
terzo comma, cod. proc. civ., che fa salva l’applicazione del rito speciale quando una
di esse rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 cod. proc. civ.”. La fattispecie
concreta posta all’esame dalla Suprema Corte riguardava in effetti l’ipotesi —
diversa da quella in esame — di soci-lavoratrici di una società esclusi dalla
compagine sociale per asserita violazione degli obblighi statutari e licenziati per
giustificato motivo oggettivo.
Nondimeno, non può affermarsi che la competenza del Giudice del Lavoro
sussista nella sola ipotesi in cui la risoluzione del rapporto di lavoro sia determinata, oltreché dalla esclusione del socio, anche da un motivo autonomo che
attenga al solo rapporto di lavoro (come nel caso esaminato dalla Corte). Infatti,
in base ad una disamina dei precedenti giurisprudenziali, risulta che la connessione
tra le domande (di licenziamento e esclusione) sia ravvisabile anche nel caso —
come in specie — di “risoluzione del rapporto di lavoro per effetto di esclusione”,
e non già quando, oltre alla esclusione, sia stato irrogato il licenziamento per un
motivo autonomo.
Nel caso in esame, i ricorrenti risultano essere stati esclusi per condotte
attinenti all’occupazione dei locali aziendali, al blocco della produzione ect. ect.
Tali comportamenti sono, ad avviso di questo Giudice, riconducibili all’esercizio
del potere disciplinare del datore di lavoro, e ciò a prescindere dal richiamo agli
scopi mutualistici presente nell’atto di esclusione.
Infatti, fermo il rilievo che il concetto di scopo “mutualistico” è assai
controverso in dottrina e giurisprudenza, la Suprema Corte nell’ordinanza citata,
365
ha definito tale scopo come “l’interesse a che l’attività d’impresa sia orientata al
soddisfacimento delle richieste di prestazioni (mutualistiche) ed alle condizioni più
favorevoli consentite dalle esigenze di economicità nella condotta dell’impresa
sociale ... realizzabile dal socio azionando i mezzi di tutela predisposti dal diritto
societario, qualora la gestione dell’impresa sociale non sia improntata al rispetto
dello scopo mutualistico o abbia leso diritti del socio”.
Nel caso concreto, emergono, oltre profili che attengono alla gestione della
società, anche altri profili più strettamente inerenti al comportamento disciplinarmente rilevante del socio-lavoratore. Ragione per cui appare — nel quadro
giurisprudenziale che sta andando a delinearsi — preferibile la tesi della competenza del Giudice del lavoro, in forza della connessione ex art. 40, 3 comma c.p.c.
(esclusa l’operatività della connessione di cui al D.lvo 168/2003 art. 3, comma 3) tra
la domanda di illegittimità della risoluzione del rapporto di lavoro (licenziamento)
e di quella di esclusione dalla compagine sociale, seppure esse siano sorrette da un
identico motivo, non essendo detto motivo del tutto coincidente con lo scopo
mutualistico che radica la competenza del G.O. (e quindi della sezione specializzata del Tribunale delle Imprese).
Sussiste la competenza dell’adito Tribunale in funzione di Giudice del lavoro
a conoscere della controversia tra un socio e la cooperativa non essendo la
controversia suscettibile di deroga a favore di arbitri a norma dell’art. 806 c.p.c. se
non in forza di clausola compromissoria prevista da contratti e accordi collettivi, e
non già in forza di clausola compromissoria contenuta soltanto nello statuto della
società cooperativa di produzione e lavoro (cfr. Cassazione civile sez. lav. 21/08/
2003 n. 1309).
Ciò posto, l’ammissibilità del rito introdotto dalla legge 92/2012 appare
preclusa dal dato normativo, atteso che l’art. 2 L. 142/2001 stabilisce che: “Ai soci
lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20
maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare,
col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. (Omissis).
Brevi note sulla compromettibilità delle controversie tra socio e cooperativa di produzione e lavoro; art. 40 c.p.c. e connessione tra giudizio
arbitrale e giudizio ordinario. (*)
1. Se non vi sono dubbi in merito alla applicabilità anche alle società
cooperative della disciplina dell’arbitrato societario (1), numerosi sono i
problemi esegetici relativi all’àmbito di applicazione della eventuale clausola compromissoria inserita all’interno dello statuto sociale.
Nelle cooperative di produzione e lavoro, come testimonia il caso di
(*) La decisione arbitrale parallela e relativa alla medesima vicenda, cui la Nota si
riferisce, è pubblicata infra nella Rubrica “Giurisprudenza arbitrale”.
(1) Ex multis: Trib. Verona, 27 settembre 2004, in Giur. merito, 2005, 91, nota di
CARBONE.
366
specie, il panorama risulta ancòra più complesso alla luce di un incerto
dettato normativo.
Infatti sia il Tribunale di Piacenza che il Collegio arbitrale (2), chiamati a pronunciarsi in merito alla domanda di esclusioni di alcuni soci,
giungono a decisioni differenti. Per valutare il contenuto di entrambe le
statuizioni, è necessaria una breve analisi della fattispecie concreta.
Alcuni soci di una cooperativa di produzione e lavoro vengono esclusi
dalla compagine sociale per condotte attinenti all’occupazione dei locali
aziendali e al blocco della produzione. A tale deliberazione consegue in
via automatica il loro licenziamento.
In virtù della clausola compromissoria inserita nello statuto cooperativo, che devolve “tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti sociali,
comprese quelle relative alla validità delle delibere assembleari, promosse
da o contro i soci”, i soci esclusi impugnano detta delibera innanzi alla
Camera arbitrale e di conciliazione della Cooperazione (3), eccependo
l’invalidità della clausola arbitrale e l’incompetenza degli arbitri a decidere della controversia in esame. Gli attori rilevano che la clausola
contenuta nello statuto sociale viola il dettato dell’art. 806 c.p.c., poiché
nelle ipotesi di controversie rientranti nell’art. 409 c.p.c., come quella di
cui si discute, è possibile il ricorso al giudizio arbitrale solo se tale opzione
è contemplata dagli accordi o contratti collettivi.
Successivamente alcuni soci esclusi (4) si rivolgono anche al Giudice
del lavoro di Piacenza.
2. La decisione del Tribunale di Piacenza è precedente rispetto a
quella del Collegio arbitrale.
Il Tribunale investito, si presume, della domanda di risoluzione del
rapporto di lavoro (derivante dalla delibera di esclusione dalla compagine
sociale) afferma la propria competenza anche in merito alla impugnativa
di esclusione dalla compagine sociale, in virtù dell’art. 40, comma 3º, c.p.c.,
(2) Gli arbitri non qualificano la pronuncia. Dal suo contenuto sembrerebbe che si tratti
di una ordinanza, poiché unitamente alla statuizione sull’eccezione di invalidità della clausola
arbitrale vi è l’assegnazione di termini per il deposito di memorie e la fissazione della successiva
udienza (vedi infra in questo stesso fascicolo).
(3) Si tratta di un organismo arbitrale fondato da Confcooperative. Sul punto, ampliamente: FOGLIA RONCHI, Guida breve all’arbitrato societario amministrato dalla camera arbitrale
e di conciliazione della cooperazione, in Quaderni di diritto societario, collana diretta da
Paolucci, Bologna, 2007, 1 ss.
(4) Dalla lettura dei due provvedimento si desume che la parte attrice innanzi al Collegio
arbitrale è costituita da 21 soggetti, mentre dinnanzi al Tribunale da 13 soggetti. Tuttavia si deve
precisare che nel corso di entrambi i procedimenti il numero costituente parte attrice è
progressivamente diminuito: nel giudizio arbitrale viene dato atto da parte della convenuta della
rinuncia della domanda nei confronti di 11 soggetti per intervenuta conciliazione, mentre nel
giudizio ordinario, il Giudice dichiara cessata la materia del contendere in relazione a tre
soggetti per intervenuta conciliazione.
367
ritenuto applicabile anche nell’ipotesi di connessione tra le domande di
risoluzione del rapporto di lavoro per effetto dell’esclusione.
Il giudicante non reputa che la ragione posta alla base della delibera
di esclusione sia del tutto coincidente con lo scopo mutualistico che radica
la competenza del giudice ordinario. Infatti, pone in evidenza che nel caso
esaminato emergono oltre a profili relativi alla gestione della società,
anche aspetti più strettamente inerenti al comportamento disciplinare del
socio-lavoratore. Conseguentemente ritiene preferibile la tesi della competenza del Giudice del lavoro.
Afferma, infine, sembrerebbe tramite un obiter dictum (5), che la
controversia non sia, invece, suscettibile di deroga a favore degli arbitri
nonostante la clausola compromissoria inserita nello statuto sociale, poiché la stessa non è sorretta da una specifica previsione a livello di
contrattazione collettiva, così come prescrive l’art. 806 c.p.c. (6).
Al contempo, con una pronuncia di qualche giorno successiva, anche
il Collegio arbitrale si ritiene competente a statuire in merito alla impugnativa di esclusione dalla compagine sociale.
Quest’ultimo, aderendo alla tesi del c.d. doppio binario (7), afferma
che le violazioni degli obblighi di legge o statutari imputate ai soci esclusi,
pur essendo direttamente o indirettamente riconducibili a una prestazione
lavorativa, devono essere valutate nell’àmbito del rapporto mutualistico e
della loro capacità di incidere sul medesimo. Pertanto, il Collegio si ritiene
competente a statuire sulla controversia in quanto inerente al rapporto
associativo e non a quello di lavoro.
Inoltre gli arbitri affermano di non essere obbligati a conformarsi alla
decisione del Tribunale del lavoro di Piacenza, costituendo la medesima
una pronuncia di rito e come tale priva degli effetti del c.d. giudicato
esterno. Rilevano, infine, che in forza dell’art. 819 ter c.p.c. la pendenza del
procedimento arbitrale, radicatosi prima di quello instaurato innanzi al
Giudice del lavoro, preclude la proposizione di domande giudiziali aventi
ad oggetto l’invalidità e l’inefficacia della convenzione arbitrale.
Ciò posto, a parere del Collegio, sussistono due diverse cognizioni:
l’una arbitrale sulla idoneità dei comportamenti denunciati a costituire
valida ragione di esclusione dalla cooperativa e l’altra giudiziale lavoristica
in merito alla idoneità dei medesimi fatti a costituire giusta causa di
licenziamento ex lege e/o ex contractu.
(5) Infatti, come è posto chiaramente in luce dagli arbitri, la questione relativa alla
validità della convenzione arbitrale è stata affrontata dal tribunale solo quale premessa per la
soluzione della questione preliminare di rito relativo alla competenza.
(6) Infine ritiene altresì preclusa, alla luce dell’art. 2, legge n. 142 del 2001, la possibilità
di trattare la controversia in esame con il rito disciplinato dalla legge n. 92 del 2012.
(7) Cfr. infra.
368
3. Le due pronunce commentante giungono a due diverse conclusioni, poiché attribuiscono una diversa valenza alla ragione posta alla base
della esclusione dei soci dalla compagine sociale.
Il Tribunale di Piacenza ritiene sussistere la propria competenza in
merito alla impugnativa di esclusione alla luce dei princìpi affermati in una
recente pronuncia della suprema Corte, che aderendo a una serie di
precedenti conformi, ritiene operante, nelle ipotesi di connessione tra
cause aventi ad oggetto il rapporto mutualistico e quello di lavoro, l’art.
40, comma 3º, c.p.c.
Tale conclusione è avallata anche dal fatto che la controversia in
esame non può essere suscettibile di deroga a favore degli arbitri, poiché
presupposto per la competenza arbitrale è l’esistenza di una clausola
compromissoria prevista dai contratti o accordi collettivi.
Prima di entrare nel merito della decisione del Tribunale piacentino,
cercando di esaminarla in parallelo con quella del Collegio arbitrale, è
opportuno compiere una breve disamina in merito arbitrabilità delle liti di
lavoro. Tale esame risulterà prezioso nella individuazione dei limiti di
operatività della convenzione arbitrale statutaria.
Il legislatore del 2006, innovando anche sulla disciplina previgente,
stabilisce che le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., possono essere
devolute ad arbitri solo se l’arbitrato sia espressamente previsto dalla
legge o dai contratti o accordi collettivi (8).
Oggi, a differenza del passato, non è più possibile mettere in dubbio
l’arbitrabilità delle controversie di lavoro qualora siano rispettati i presupposti menzionati: criteri la cui mancata osservanza non determina
comunque l’inarbitrabilità della lite (9), ma l’impossibilità che il processo
arbitrale possa giungere a una valida decisione.
Per comprendere tale assunto, a mio avviso, è necessaria una brevissima premessa sul rapporto tra compromettibilità e azione arbitrale.
Ai fini della corretta estensione del concetto di arbitrabilità occorre
individuare la peculiarità del fenomeno arbitrale, senza cercare inutilmente di inserirlo all’interno di categorie precostituite.
(8) BOVE, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, in questa Rivista, 2005, 879 ss.;
BORGHESI, L’arbitrato del lavoro dopo la riforma, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2006, 821 ss.;
ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 806 c.p.c. Le controversie arbitrabili, in La nuova disciplina
dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 22 ss., osserva che emerge, quindi, un sistema
in cui da una parte pur rimanendo centrale il ruolo della contrattazione collettiva, dall’altra
attribuisce al legislatore il potere di derogarvi, prevedendo egli stesso il ricorso all’arbitrato;
RUBINO SAMMARTANO, CASCIANO, in Arbitrato, Adr, conciliazione, diretto da Rubino Sammartano, Bologna, 2009, 151, osserva che il disposto dei due commi induce a ritenere che valga
anche per le liti di lavoro, il criterio generale della disponibilità dei diritti, senza alcuna
specificità derivante da esigenze di tutela differenziata.
(9) BOVE, op. cit., 881, il quale qualifica l’autorizzazione collettiva o ex lege come
specifiche cautele che incidono sulla valida esistenza della scelta arbitrale e non invece sulla
compromettibilità del diritto (in senso difforme mi pare, invece, BORGHESI, op. cit., 823);
ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 24.
369
Infatti, l’arbitrato è un fenomeno eterogeneo rispetto al sistema
giustizia, poiché trova la propria legittimazione nell’incontro della volontà
delle parti.
La precostituzione del diritto alla via arbitrale, a differenza dell’azione “tradizionale” nascendo dall’autonomia dei privati e non dalla
legge (10), trova un limite insuperabile nella necessità di individuare,
seppure in via indiretta, il rapporto sostanziale su cui si andrà a incidere (11). Per questo motivo l’art. 806 c.p.c. individua già ex ante quali
siano i diritti al cui servizio l’azione arbitrale è predisposta (12).
Tale peculiarità induce a qualificare l’azione arbitrale come “tipica”,
ovvero non generica (13). Infatti seppure il patto compromissorio non
intervenga in alcun modo sul diritto sostanziale controverso, la scelta del
legislatore, chiaramente desumibile dall’art. 806 c.p.c., è quella di ancorare
la convenzione arbitrale (da cui sorge l’azione arbitrale medesima) a una
determinata situazione sostanziale sottostante, che per espressa volontà
del legislatore, deve qualificarsi come disponibile (14).
Conseguentemente, se da una parte l’azione arbitrale non può essere
esperita qualora non vi sia un diritto disponibile, dall’altra essa risente dei
meccanismi di protezione del diritto medesimo (15).
(10) La dottrina ancora discute se l’arbitrato trovi un proprio riconoscimento nella fonte
costituzionale (sul punto si rimanda all’ampia ricostruzione compiuta da: VERDE, L’arbitrato e
la giurisdizione ordinaria, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino, 2005, 4 ss.; CERRI,
Arbitrato e costituzione, in L’arbitrato. Fondamenti e tecniche, a cura di Caterini e Chiappetta,
Napoli, 1995, 33; FADDA - IASELLO, L’arbitrato nella disciplina costituzionale, in AA.VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, a cura di Alpa, I, Torino, 1999, 49 ss. A mio avviso, la legittimità della
azione arbitrale non deve essere ricercata nel dettato dell’art. 24 Cost., ove si parla essenzialmente di “giudizio”, ma bensì, come rileva acutamente una parte della dottrina (MONTESANO, La
tutela dei diritti, Torino, 1994, 58), nella generica dizione dell’art. 102, comma 3º, Cost. Infatti,
secondo l’intuizione dell’a. la menzionata norma sembrerebbe legittimare la partecipazione del
popolo alla giustizia.
(11) In questo senso: ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rituale rispetto ai
terzi, Milano, 2004, 102, specialmente nota 269.
(12) REDENTI, voce Compromesso, in Noviss. dig. it, III, Torino, 1959, 787.
(13) Non intesa in senso romanistico, bensì come rileva BETTI, Diritto processuale civile
italiano, 1936, I, 74 ss. e in particolare 84, ove si legge che “l’azione è un diritto processuale,
coordinato come diritto-mezzo ad una determinata ragione da fare valere in giudizio, individualizzato da tale ragione e da un interesse ad ottenere il riconoscimento mediante una pronuncia
o una misura giurisdizionale (...)”. La ricostruzione compiuta dall’autore si ispira a quella tratteggiata da PUGLIESE, Actio e diritto subiettivo, Milano, 1939, passim, e in part. 242 e 325 ss.
(14) Interessanti sono le osservazioni di LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I,
Milano, 1984, 133, il quale osserva che “(...) in base all’art. 24 cost., è riconosciuto il potere di
agire in giudizio, vi sono coloro che non tanto possono proporre una domanda qualsiasi, ma
sono titolari di un vero diritto (...). Questo diritto è l’azione, la quale ha per garanzia
costituzionale il generico potere di agire, ma per conto suo non è affatto generica, bensì fa
riferimento ad una concreta fattispecie (...)”. Diversamente, nell’azione arbitrale non si riscontra alcuna genericità: il potere di agire spetta unicamente a coloro che hanno stipulato il patto
compromissorio e l’azione necessariamente è connessa a un diritto sostanziale disponibile.
(15) Lo stesso Redenti afferma che il patto compromissorio non si ferma sul piano del
processo, ma incide sul regime delle azioni in senso sostanziale (REDENTI, voce Compromesso,
cit., 789).
370
Se nel primo caso si può parlare propriamente di inarbitrabilità, non
è possibile farlo nel secondo. Infatti, con riferimento a questa ultima
fattispecie è necessario compiere un passaggio successivo e verificare quali
siano le modalità entro cui l’azione arbitrale possa operare.
Nel caso delle liti di lavoro, a mio avviso, è possibile parlare di azione
arbitrale “vincolata” (16).
Infatti, la protezione che le norme di diritto sostanziale (17) predispongono per la tutela del diritto che entra in gioco, si ripercuote sulla
tecnica del processo arbitrale, il quale potrà essere ammesso solo in forza
di una previsione della contrattazione collettiva o della legge.
Nel caso di specie, come emerge dall’ordinanza del Tribunale di
Piacenza manca una previsione a livello di contrattazione collettiva.
L’unico modo che avrebbe consentito alle parti di fare ricorso all’arbitrato
relativamente alla controversia di lavoro, sarebbe stato quello di accedere
ai c.d. arbitrati (irrituali) ex lege (18).
Sul punto si rimanda a quanto si dirà nel prosieguo.
4. Quindi, se non possono essere sollevati dubbi sull’arbitrabilità
delle liti di lavoro nei limiti sopra individuati, molto più complesso è
verificare se tali controversie, nel caso di cooperative di produzione e
lavoro, ineriscano al rapporto sociale.
Tale problematica è strettamente connessa alla preventiva qualificazione giuridica del rapporto che si instaura tra socio-lavoratore e coope-
(16) In realtà tale affermazione richiederebbe una più ampia dimostrazione che in questa
sede non è possibile esperire. Si segnala unicamente che, partendo dalla dicotomia cara al
sistema francese, tra ordine pubblico di protezione e ordine pubblico di direzione, i diritti dei
lavoratori possono essere ricondotti nella prima fattispecie. Si dovrà poi valutare come l’ordine
pubblico di protezione vada a incidere sulla delimitazione del concetto di arbitrabilità. Sul punto
mi permetto di rinviare al mio scritto, L’arbitrabilità dei diritti, tesi di dottorato, in www.air.unimi.it e a ZUCCONI GALLI FONSECA, Tutela arbitrale e tecnica del processo arbitrale: la clausola
compromissoria nei contratti di consumo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 999.
(17) Sul punto: BORGHESI, Conciliazione, norme inderogabili e diritti indisponibili, in Riv.
trim. dir. e proc civ., 2009, 121; ZOPPOLI, Il declino della inderogabilità, in Diritto Mercati Lavoro,
2013, 53 ss.
(18) Per una completa analisi di detti istituti si rimanda a: BORGHESI, L’arbitrato ai tempi
del « collegato lavoro », in www.judicium.it; ID., Le nuove frontiere dell’arbitrato del lavoro
secondo il disegno di legge n. 1441 quater, in Lav. e dir., 2009, 13 ss.; BOVE, ADR nel collegato
lavoro (Prime riflessioni sull’art. 31 della legge 4 novembre 2010, n. 183), in www.judicium.it;
DELLA PIETRA, Un primo sguardo all’arbitrato nel collegato lavoro; in www.judicium.it; CANALE,
Arbitrato e « collegato lavoro », ivi; AULETTA, Le impugnazioni del lodo nel « Collegato lavoro »
(Legge 4 novembre 2010, n. 183), in questa Rivista, 2010, 563 ss.; PUNZI, L’arbitrato per la
soluzione delle controversie di lavoro, in Riv. dir. proc., 2011, 1 ss.; BERTOLDI, L’arbitrato nelle
controversie di lavoro dalla duplice riforma del 1998 alla L. 4 novembre 2010, n. 183, in Riv. dir.
proc., 2011, 834 ss.; ARRIGONI, Gli arbitrati delineati dal « collegato lavoro » e prime attuazioni,
in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, 885 ss.; MURONI, La nuova disciplina della conciliazione e
dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Corr. giur., 2011, 269 ss.
371
rativa (19). Infatti, la mancanza di chiarezza in merito alla qualificazione
sostanziale del rapporto si ripercuote in un dettato normativo processuale
non affatto preciso (20), nonostante le numerose modifiche che hanno
inciso sulla disciplina di tale istituto.
In mancanza di una chiara legislazione di riferimento, in passato, la
giurisprudenza maggioritaria riteneva che le controversie relative alla
esclusione del socio e al conseguente licenziamento rientrassero nella
competenza del giudice ordinario, poiché, non ravvisando due distinti
centri di interesse, escludeva la possibilità di ricondurre i rapporti de
quibus fra quelli disciplinati dall’art. 409 c.p.c. (21).
Al contempo non vi erano neppure dubbi sulla possibilità di devolvere dette controversie al giudizio di arbitri: infatti, la suprema Corte
concludeva per la compromettibilità, sul rilievo che in questi casi la
prestazione di lavoro è finalizzata al raggiungimento dello scopo sociale.
Con l’esclusione, la cessazione del rapporto di lavoro è solo uno degli
effetti della rottura del contratto sociale, e resta quindi assorbita in
quest’ultima (22).
In altre successive pronunce rimaneva il favor arbitrati, anche se la
validità della clausola compromissoria era subordinata al fatto che la
prestazione dei soci fosse connessa alla realizzazione dell’oggetto sociale
e non fosse riconducibile, invece, ad un rapporto di lavoro subordinato
distinto dal rapporto societario (23).
(19) Sul punto, ampliamente, RANIERI, Prestazione del socio lavoratore: problemi di
qualificazione, in Dir. merc. lav., 2010, 103 ss.
(20) Così già poneva in evidenza M. BIAGI, Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983,
361; nel medesimo modo, anche MELIANDO, Il lavoro nelle cooperative: tempo di svolte, in Riv.
it. dir. lav., 2001, 58; VINCIERI, Sulla devoluzione ad arbitri delle controversie fra socio e
cooperativa, in Giust. civ., 2004, 520.
(21) In questo senso: Cass., 14 gennaio 1985, n. 56, in Riv. giur. lav., 1985, 381 ss.; Cass.,
17 gennaio 1989, n. 191, in Dejure; Cass., sez. un., 29 marzo 1989, n. 1530, ivi; Cass., 28 dicembre
1994, n. 11328, in Corr. giur., 1995, 727, con nota di MESSINA; Cass., 22 ottobre 1994, n. 8687 in
Dejure; Cass., 16 dicembre 1991, n. 13553, ivi; Cass., 22 febbraio 1995, n. 2004, in Lav. giur., 1995,
702; Pret. Ferrara, 5 febbraio 1993, in Nuove leggi civ. comm., 1993, 565, con nota di MATTAROLO;
in senso difforme, Cass., 29 luglio 1994, n. 7109, in Orient. giur. lav., 1995, 531, ove la suprema
Corte “non esclude che debbano attribuirsi al giudice del lavoro le controversie in cui il socio
lavoratore abbia formulato la sua domanda facendo valere la lettura effettiva di lavoro
subordinato del rapporto”, in senso conforme anche Cass., 27 marzo 1996, n. 2740, in Giur. it.,
1996, 472; in dottrina condivide questo orientamento SANDULLI, In tema di collaborazione
autonoma continuata e coordinata, in Dir. lav., 1982, 253, il quale prospetta l’estensione anche
alle situazioni interne al fenomeno cooperativo del rito del lavoro. Peraltro, è giusto ricordare
che su tale aspetto si era pronunciata anche la Corte costituzionale (Corte cost., 2 aprile 1992,
n. 155, in Giust. civ., 1994, 110, con nota di TANFERNA) rigettando la questione di legittimità
costituzionale sollevata in relazione all’art. 409 c.p.c., nella parte in cui non ricomprende tra i
rapporti soggetti al rito del lavoro anche quelli tra socio e cooperativa.
(22) Cass., 28 luglio 1951, n. 2188, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, 321 ss.
(23) Cass., 20 dicembre 1985, n. 6561, in Giur. it., 1987, 310 ss.; Cass., 22 luglio 1992, n.
8847, in Dejure.
372
Con la nota sentenza del 1996, le sezioni unite (24) avevano posto fine
ai dubbi interpretativi, affermando che le controversie attinenti alle prestazioni lavorative, ancorché offerte dal socio in adempimento dell’impegno assunto con il patto sociale per il conseguimento dei fini istituzionali
della cooperativa, dovessero essere devolute alla competenza del giudice
del lavoro. Osservava, infatti, che alla graduale applicazione al socio
cooperatore della tutela sostanziale propria del lavoratore subordinato (25) dovesse corrispondere un’analoga estensione della tutela processuale.
Dopo tale arrêt, sopraggiungeva la legge del 3 aprile 2001 n. 142 che
introduceva, alla luce della coesistenza in capo al socio lavoratore di due
autonomi e distinti rapporti (26), il c.d. doppio binario per la tutela
processuale (27).
La competenza del giudice del lavoro, peraltro, era affermata anche
nel caso di domande plurime, e cioè relative sia all’esclusione del socio per
motivi sociali sia alla risoluzione del rapporto di lavoro, in virtù del fatto
che il rito laburistico è dotato di una vis attrattiva prevalente rispetto a
quello ordinario (28).
Con riferimento alla disciplina arbitrale, invece, era previsto che
l’arbitrato di diritto comune si applicasse quando la lite avesse ad oggetto
il rapporto associativo, mentre qualora fosse in discussione il rapporto di
(24) Cass., sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906, in Foro it., 2000, I, c. 912 ss., con ampio e
approfondito commento di G.C. RICCI, Tendenze giurisprudenziali in materia di lavoro nelle
cooperative: qualificazione del rapporto, competenza giurisdizionale, trattamento retributivo,
diritti sindacali; nel medesimo senso anche: Cass., 18 febbraio 1999, n. 1345, richiamata da Cass.,
19 marzo 1999, n. 2526, in Dejure; Pret. Alessandria, 4 febbraio 1999, in Guida al lav., 1999, 26.
(25) Per un completo esame di detti interventi rimando alla disamina di G.C. RICCI,
Ancora sulla giurisprudenza in materia di lavoro nelle cooperative: garanzie dei crediti, licenziamenti e mobilità, tutela previdenziale, fiscalizzazione degli oneri sociali, le prospettive de iure
condendo, in Foro it., 2000, I, c. 1095 ss.
(26) TULLINI, Identità e scomposizione della figura del datore di lavoro (una riflessione
sulla struttura del rapporto di lavoro), in Arg. dir. lav., 2003, 93 ss., ove osserva che la relazione
giuridica tra socio lavoratore e cooperativa appare, infatti, del tutto diversa, se non “antitetica”,
rispetto a quella tra datore di lavoro e lavoratore; MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato
del socio in cooperativa, in Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, a cura di Montuschi
- Tullini, Torino, 2002, 21 ss.
(27) BOLENGO, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in
Nuove leggi civ. comm., 2002, 260 ss.; FIORANI, Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, in Gior. dir. lav. e rel. ind., 2002, 197 ss.; DE LUCA, Il socio lavoratore di
cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., 2001, V, c. 233 ss.; ALLEVA,
I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. giur. lav.,
2001, 354; ANDREONI, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur.,
2001, 205 ss.
(28) Cass., 18 gennaio 2005, n. 850, in Dejure; Trib. Genova, 12 novembre 2012, ivi; Trib.
Milano, 12 dicembre 2002, ivi; Trib. Voghera, 5 luglio 2010, in Riv. crit. dir. lav., 2010, 907. Sul
punto: DE ANGELIS, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, in
Lav. giur., 2002, 605 ss.
373
lavoro con la cooperativa, si dovesse fare ricorso all’arbitrato degli artt.
416-ter e quater c.p.c. (29).
È intervenuto l’art. 9 legge del 14 febbraio 2003, n. 30 che ha riscritto
l’art. 5, comma 2º, eliminando qualunque riferimento alla disciplina dell’arbitrato e statuendo da una parte, che il rapporto di lavoro si estingue
con il recesso o l’esclusione del socio e dall’altra che le controversie
concernenti la prestazione mutualistica sono di competenza del giudice
ordinario (30).
La novella, quindi, non ha chiarito se residua dello spazio per la
competenza del giudice del lavoro, non avendo precisato se con il termine
“prestazione mutualistica” abbia inteso esaurire la descrizione del rapporto tra società e soci cooperatori, ovvero identificare una sola manifestazione di tale rapporto, di per sé più complesso.
Gli interpreti si sono così divisi tra chi sostiene e condivide il venir
meno della stessa duplicità dei rapporti (31), anche confortati dalla riforma
della disciplina positiva delle società cooperative, che sembra attenuare le
differenze tra il ruolo di socio e di lavoratore (32) e chi, invece, ritiene che
la l. 30 del 2003, per quanto abbia accentuato il vincolo associativo, non
escluda che “il contratto di lavoro costituisca ancor oggi il titolo, più
prossimo e diretto che vale a reggere l’attività lavorativa all’interno della
complessa fattispecie” (33).
(29) PAOLUCCI, La compromettibilità delle controversie in materia di cooperative e consorzi, in Soc., 2000, 1427, spec. 1430; Lodo arb. Pisa, 7 ottobre 1999, in questa Rivista, 1999, con
nota di LONGO, secondo cui “nel rapporto tra cooperativa e socio lavoratore viene sostanzialmente meno l’aspetto caratterizzante il rapporto tra socio e società mentre prevale il rapporto
concernente la prestazione di lavoro subordinato, siccome previsto dall’art. 409 c.p.c.” e
pertanto “la clausola compromissoria prevista nello statuto della cooperativa per la risoluzione
dei conflitti tra soci e società è radicamente nulla, perché configgente con il divieto di arbitrato
previsto dall’art. 806 c.p.c. in materia”.
(30) Si è parlato di una vera e propria “controriforma” CESTER, La nuova disciplina del
socio lavoratore di cooperativa: una controriforma? Alcune osservazioni sull’art. 9 della l. 14
febbraio 2003, n. 30, in Le cooperative e il socio lavoratore, a cura di Montuschi - Tullini, Torino,
2004, 1 ss.; GAROFALO, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa
contenuti nel d.d.l. 848 B, in Lav. giur., 2003, 7 ss.; BUONCRISTIANI, Esclusione o licenziamento del
socio lavoratore di coopertiva, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 1342 ss.; IENGO, Le cooperative
di lavoro e consumo, in La società cooperativa, a cura di Bonfante, Padova, 2014, 551 ss.; G.F.
RICCI, Il lavoro nelle cooperative fra riforma e controriforma, in Dir. lav. merc., 2003, 24.
(31) In favore dell’assorbimento del rapporto di lavoro in quello associativo, TARTAGLIONE,
Le modifiche alla disciplina del socio lavoratore in cooperativa, in Guida al lav., 2003, 10, 71 ss.;
Trib. Milano, 28 aprile 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 735, Trib. Siena, 26 febbraio 2007, ivi, 2007,
1298; contra Trib. Voghera, 2 ottobre 2003, ivi, 2003, 735; Cass., 6 dicembre 2010, n. 24692, in Foro
it., 2011, I, c. 2264, la quale ritiene che la controversia sul licenziamento intimato in dipendenza
o contestualmente all’esclusione del socio rientra nella competenza del tribunale ordinario.
(32) Cosicché, ove la cooperativa disponga, sulla base delle previsioni codicistiche o
statutarie, l’esclusione del socio, il provvedimento estingue ipso iure anche il rapporto di lavoro,
senza la necessità di un autonomo atto di licenziamento (GRAGNOLI, Collegamento negoziale e
recesso intimato al socio-lavoratore, in Lav. giur., 2007, 451 ss.; RATTI, Mutualità e scambio nella
prestazione di lavoro del socio di cooperativa, in Arg. dir. lav., 2008, 742 ss.).
(33) MELIANDÒ, Nuove incertezze per il lavoro in cooperativa, in Foro it., I, 2003, c. 134 ss.;
ZOLI, Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in
374
Tale diversa lettura ha evidenti ricadute in tema di arbitrato.
Se si ritiene di aderire alla tesi che opta per il rientro di tutte le
controversie nell’alveo del diritto societario, la soluzione sarebbe la piena
compromettibilità, in presenza di regolare clausola compromissoria, di
ogni e qualsivoglia controversia che possa sorgere fra socio lavoratore e
società cooperativa, con conseguente applicazione dell’arbitrato societario (34). Diversamente se si ritiene che ancòra sussista una duplicità di
rapporti, allora bisognerà rifarsi all’art. 806 c.p.c, che esclude la possibilità
di fare ricorso agli arbitri nelle controversie di cui all’art. 409 c.p.c., a meno
che l’arbitrato non sia previsto dalla legge o dagli accordi o contratti
collettivi di lavoro (35).
5. L’esigenza di semplificazione e di economia processuale porterebbe a concludere, alla luce della novella del 2003, per una totale
attrazione delle controversie tra socio e cooperativa nell’alveo dell’arbitrato societario da clausola compromissoria statutaria (36); e ciò prescindendo dal fatto che queste abbiano ad oggetto il rapporto di lavoro.
Al contempo, la disciplina dell’arbitrato societario è caratterizzata da
elementi in grado di offrire potenzialmente una sufficiente tutela al socio
lavoratore: infatti, oltre ad essere garantita l’imparzialità dell’organo
giudicante, grazie alla previsione della nomina ad opera di un soggetto
estraneo alla società, è escluso il giudizio secondo equità (37) ed è sancita
l’impugnativa per violazione delle regole di diritto. Quindi una tecnica
processuale idonea a garantire l’equilibrio sostanziale tra le parti.
Tuttavia, una simile lettura priva di rilevanza il rapporto di lavoro, il
quale, seppure in sèguito alla legge n. 30 del 2003 non possa essere più
La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro: l. n. 30 del 2003, a cura di Carinci,
Milano, 2003, 283 ss. In giurisprudenza: Trib. Milano, 12 febbraio 209, in Riv. crit. dir. lav., 2009,
556, con nota di BIAMONTE; Trib. Ravenna, 29 aprile 2009, ivi; Trib. Voghera, 5 luglio 2010, ivi
2010, 907, con nota di MAFFUCCINI; Trib. Milano, 26 maggio 2006, in Dejure; Cass., 21 novembre
2014, n. 24917, in Dejure; Cass., 3 maggio 2005, n. 9112, ivi.
(34) Sul punto si rimanda alle osservazioni di GENNARI, Le clausole compromissorie nelle
cooperative, in AA. VV., Le società cooperative, a cura di Paolucci, Milano, 2012, 92; Trib.
Catania, 21 febbraio 2003, in Giust. civ., 2004, 519, con nota di VINCIERI.
(35) In questo senso: Cass., 21 agosto 2003, n. 12309, in Dejure; Trib. Bari, 15 febbraio
2005, in Dejure, ove si stabilisce che la clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale
non sia in grado di assorbire le controversie di lavoro, sia perché nella specie ha àmbito limitato
alle controversie sul rapporto sociale, sia perché le liti di lavoro sono in ogni caso non
compromettibili in arbitrato rituale.
(36) IRRERA CATALANO, I limiti soggettivi ed oggettivi di operatività della clausola compromissoria statutaria, in Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, a cura di
Alpa e Vigoriti, Torino 2013, 1090; in termini simili, seppure in senso dubitativo: ZUCCONI GALLI
FONSECA, in Arbitrati speciali, cit., 115.
(37) Peraltro nell’arbitrato irrituale di lavoro il giudizio secondo equità non è escluso, ma
si impone che il giudizio avvenga nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento e dei
princìpi regolatori della materia, anche derivanti dagli obblighi comunitari.
375
qualificato come autonomo, si affianca comunque a quello associativo (38).
In altri termini, ancòra oggi, alla luce della disciplina positiva, continua ad esistere un rapporto di dipendenza tra il vincolo mutualistico e
quello sociale.
A sostegno di tale interpretazione, oltre alla notazione testé menzionata, si pone anche l’art. 5, comma 2º, nella parte in cui prevede che il
“rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio”.
Conseguentemente, ove la cooperativa disponga, sulla base delle disposizioni codicistiche o statutarie, l’esclusione del socio, il provvedimento
estingue ipso iure anche il rapporto di lavoro, senza necessità di un
autonomo atto di licenziamento (39). Questa previsione va poi coordinata
con quella contenuta all’art. 2, comma 1º, legge 142 del 2001, in base alla
quale non è applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ogniqualvolta
col rapporto di lavoro venga a cessare anche quello associativo. A prescindere dalle critiche che tale previsione ha suscitato, la dottrina è parsa
concorde nel ritenere che la disciplina del momento estintivo costituisse la
dimostrazione dello stretto legame che unisce i due rapporti (40).
In questa direzione si pone anche la circolare ministeriale n. 10 del
2004, secondo la quale con “tale modifica viene ulteriormente confermata
la preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro”, nonché
“fugato ogni possibile dubbio sul fatto che il rapporto di lavoro sia
strumentale al vincolo di natura associativa” (41).
Risulta, quindi, accentuato il collegamento dei due rapporti, dipendendo la sorte di quello lavorativo dalle vicende e dalle regole proprie di
quello sociale.
Per siffatto motivo si può configurare tra i due rapporti l’esistenza di
un collegamento negoziale funzionale (42): infatti è possibile rinvenire un
rapporto di accessorietà, rectius un nesso funzionale di interdipendenza, in
ragione del quale il contratto di società costituisce presupposto ineliminabile per il sorgere stesso nonché per la regolamentazione del rapporto
di lavoro del socio-lavoratore. Si tratta, tuttavia, salva diversa previsione
(38) DALMOTTO, L’arbitrato nelle società, Bologna, 2013, 126.
(39) Per l’autonomia di tali atti, invece: Trib. Milano, 6 ottobre 2006, in Dejure; Trib.
Siena, 26 febbraio 2007, ivi. Diversamente, Cass., 6 dicembre 2010, n. 24692, cit. e anche
BUONCRISTIANI, op. cit., 1342, il quale ritiene che la cooperativa non possa adottare l’atto di
esclusione senza previa contestazione degli addebiti e, quindi, procedere al licenziamento, sulla
base della previsione statutaria che prevede l’automatica risoluzione del rapporto di lavoro in
caso di esclusione.
(40) BARBIERI, Il lavoro nelle cooperative, in Lavori e diritti dopo il decreto legislativo
276/2003, a cura di Curzio, Bari, 2004, 360.
(41) DONDI, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi,
in Arg. dir. lav., 2004, 66.
(42) RATTI, Mutualità e scambio nella prestazione di lavoro del socio di cooperativa, in
Arg. dir. lav., 2008, 742; contra: BUONCRISTIANI, op. cit., 1338 ss.
376
statutaria alla luce dell’art. 2533 c.c., di un collegamento unidirezionale: la
costituzione e la vigenza del rapporto di lavoro del socio sarebbero
condizionate dalla sussistenza del rapporto sociale ma non viceversa.
Infatti, le vicende che investono il contratto accessorio (quello di lavoro)
non si ripercuotono su quello principale (quello sociale), a meno che,
come osserva la dottrina (43), non si “concretizzino delle circostanze
fattuali giuridicamente rilevanti anche secondo la disciplina legale e
statutaria applicabile a quest’ultimo” (44).
Ciò posto, il collegamento negoziale condiziona il potere di giudicare
degli arbitri, e quindi l’àmbito di operatività delle clausole arbitrali contenute nello statuto cooperativo (45). Al contempo, tuttavia, non si può
affermare tout court che la clausola compromissoria inserita nello statuto
sociale possa anche coprire le controversie relative al rapporto di lavoro,
essendo quest’ultimo, come già evidenziato, un rapporto distinto da quello
sociale.
La dottrina (46) che si è accostata allo studio della relazione tra
clausola compromissoria statutaria e vincolo mutualistico ha individuato
tre tipi diversi di clausole: quelle che fanno riferimento esclusivamente
alle sole controversie “societarie” tra socio e cooperativa, quelle, invece,
che fanno generico riferimento a “tutte le possibili controversie” che
possono sorgere tra socio e cooperativa, e, infine, quelle che fanno
espressamente riferimento anche alle controversie nascenti dai singoli
rapporti mutualistici.
Nel primo caso ha escluso che la clausola compromissoria possa
ricomprendere anche le controversie relative allo scambio mutualistico,
mentre con riguardo alle altre fattispecie ha ritenuto che la convenzione
arbitrale statutaria possa abbracciare le controversie relative al suddetto
rapporto, solo qualora il soggetto operi una esplicita adesione all’estensione oggettiva della clausola statutaria e non certo per effetto della mera
acquisizione della qualità di socio.
Con riguardo alle cooperative di produzione e lavoro tali conclusioni
non possono automaticamente operare alla luce del peculiare rapporto
(43) PALLIDINI, Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa dopo le riforme del 2003,in
Riv. giur. lav., 2004, 207.
(44) Anche se viene correttamente rilevato che scopo della cooperativa è quello di
assicurare continuità di occupazione e migliori condizioni economiche, sociali e professionali,
nonché una adeguata remunerazione del capitale di rischio. Conseguentemente non avrebbe
alcuna giustificazione della permanenza del socio non più lavoratore nella cooperativa; sul
punto, BUONCRISTIANI, op. cit., 1137 ss.
(45) In questo àmbito rischia di riproporsi un tema di più ampio respiro relativo al
rapporto tra clausola compromissoria e contratti collegati. Sul punto si rimanda a ZUCCONI
GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e arbitrato, in AA. VV., I collegamenti negoziali e le
forme di tutela, Milano, 2007, 59 ss.; LUISO, Pluralità di clausole compromissorie e unicità del
processo arbitrale, in questa Rivista, 2007, 601 ss.
(46) MURONI, Clausola compromissoria statutaria e rapporto mutualistico, in questa
Rivista, 2008, 58 e 60 ss.
377
mutualistico che le caratterizza. Rapporto che presuppone, per espressa
previsione legislativa, particolari generi di cautele. Infatti in precedenza
ho parlato, in relazione alla arbitrabilità delle liti di lavoro, di azione
arbitrale “vincolata”, ovvero subordinata a specifici requisiti predeterminati dalla legge.
Tali presupposti devono essere rispettati anche nel caso di controversie di lavoro relative alle cooperative di produzione e lavoro.
La mancanza degli stessi impedisce il ricorso alla giustizia arbitrale e
la configurazione di due distinte “competenze”: quella arbitrale per le liti
societarie e quella del giudice del lavoro per le controversie mutualistiche.
In questa direzione si pone anche il dettato normativo, prevedendo
all’art. 819 ter c.p.c. che la competenza degli arbitri non sia esclusa dalla
pendenza della stessa causa davanti al giudice, né dalla connessione tra la
controversia ad essi deferita ed una causa pendente innanzi al giudice.
In simili casi, però, non sarà possibile un coordinamento immediato
tra i due giudizi arbitrale l’uno e statale l’altro, poiché ai sensi dell’art. 819
ter c.p.c. è esplicitamente esclusa l’applicazione degli artt. 295 e 39 c.c. e
non più solo della mera connessione ex art. 40 c.p.c.
Sarà invece ammissibile la tutela arbitrale qualora vengano rispettati
i requisiti prescritti dall’art. 806 c.p.c, e cioè vi sia una espressa previsione
da parte della contrattazione collettiva o della legge.
6. In questo ultimo caso si porrà, invece, il problema di coordinare
i due procedimenti arbitrali diversi al fine di individuare un unico foro
arbitrale, preferibile ai fini sia della razionalità dei giudizi sia dell’economia processuale.
Diverse sono le ipotesi che potrebbero configurarsi.
a) Clausola compromissoria (per arbitrato rituale) inserita nel contratto di scambio (rectius di lavoro), previa autorizzazione a livello di
contrattazione collettiva.
In una simile ipotesi non si pone alcun dubbio sulla arbitrabilità della
lite di lavoro, ma è opportuno, come suggerisce la dottrina (47), coordinare
il contenuto della clausola compromissoria inserita nel contratto di scambio con quella predisposta all’interno dello statuto sociale al fine di
garantire una unica cognizione arbitrale.
Come osserva correttamente la letteratura (48), la clausola inserita nel
contratto di lavoro non subirà alcuna sanzione di nullità ex art. 34 d.lgs. n.
5 del 2003, qualora dovesse riconoscere alle parti in lite la facoltà di
nominare i componenti del collegio. Tuttavia, ai fini del coordinamento
dei giudizi, soprattutto nei casi di connessione forte (come nella fattispecie
(47)
(48)
378
MURONI, op. cit., 66.
MURONI, op. cit., 67.
in esame), sarebbe opportuno che detta clausola rinviasse all’arbitrato
scelto nella clausola statutaria.
Non si ritiene che l’adesione alla tecnica dell’arbitrato societario
possa costituire un vulnus per il socio-lavoratore. Infatti, così come si
prevede per l’arbitrato di diritto comune, nell’arbitrato societario è ammessa l’impugnativa del lodo per errore di diritto qualora l’arbitro abbia
conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del
giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari. In simili
ipotesi, evidentemente, non potrà trovare ingresso il giudizio secondo
equità (art. 829, comma 4º c.p.c.).
L’unico vero problema che si pone è quello relativo alla possibilità
per le parti di rinunciare preventivamente alla nomina degli arbitri, che
costituisce, in questo caso, la vera differenza tra i due tipi di arbitrato.
Concordando con le conclusioni a cui è approdata la dottrina (49),
ritengo ammissibile una simile rinuncia. Peraltro, nell’arbitrato societario,
la previsione della scelta dell’arbitro/degli arbitri ad opera di un soggetto
terzo costituisce ulteriore presidio della indipendenza, imparzialità e
neutralità del giudicante.
Qualora, invece, mancasse il richiamo nella clausola compromissoria
inserita nel contratto di scambio alla disciplina dell’arbitrato societario, la
clausola inserita nel contratto di lavoro pur valida, non consentirebbe di
dare luogo al c.d. simultaneus processus. Con l’ovvia conseguenza di
determinare la nascita di due procedimenti arbitrali. L’eventuale conflitto
tra lodi potrà essere risolto mediante l’applicazione dell’art. 829, comma
1º, n. 8, c.p.c. (50). Naturalmente detto motivo potrà essere fatto valere,
alla luce del collegamento negoziale sopra illustrato, solo qualora il lodo
reso in materia laburistica non sia conforme a quello pronunciato in
materia societaria.
b) Clausola compromissoria inserita nel contratto di lavoro richiamante la disciplina dell’arbitrato di cui all’art. 10 l. 183 del 2010, ovvero il
c.d. arbitrato irrituale da clausola compromissoria certificata.
In questo caso è, a mio avviso, impossibile individuare un unico foro
arbitrale. Le tecniche arbitrali sono sostanzialmente differenti.
Peraltro, un simile sforzo si rivelerebbe vano in caso di impugnativa
di licenziamento, poiché l’art. 10 della menzionata legge vieta il ricorso
(49) MURONI, op. cit., 67, ove, peraltro, afferma che sarebbe possibile vincolare il
medesimo soggetto anche per le nomine del collegio dell’arbitrato di diritto comune. Nello
stesso senso, LUISO, op. cit., 610 e 611.
(50) La giurisprudenza appare restrittiva, esigendo che il fatto accertato contrario al
successivo sia il medesimo, ovvero un fatto incompatibile perché antitetico e non un mero
antecedente logico contrastante; si escluderebbe pertanto i casi di pregiudizialità (ex multis,
Cass., 7 ottobre 1996, n. 8761, in Foro amm., 1996, 1182). La dottrina prevalente è in senso
opposto: LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 374; ATTARDI, La
revocazione, Padova, 1959, 207; PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale, Napoli, 2006, 537.
379
alla modalità arbitrale, così come delineata, relativamente alle controversie riguardanti la risoluzione del rapporto di lavoro.
In una simile ipotesi, quindi, sono configurabili due diverse competenze: quella del tribunale ordinario in veste di giudice di lavoro per la
controversia relativa alla risoluzione del rapporto di lavoro e quella
arbitrale per la impugnativa della delibera di esclusione dalla compagine
sociale.
Per quanto concerne l’ipotetico conflitto tra giudicati si rimanda a
quanto si dirà nel § che segue.
c) Mancanza di una previsione a livello di contrattazione collettiva e
rinvio alla tecnica degli arbitrati ex lege (51).
Potrebbe, invece, mancare una previsione a livello di contrattazione
collettiva, come accade nella fattispecie in esame.
In un simile caso, l’unica via per accedere alla tutela arbitrale anche
nelle liti di lavoro sarebbe quella di aderire ai c.d. arbitrati ex lege, ovvero
disciplinati dagli artt. 412 e 412-quater c.p.c.
In tali ipotesi, però, non potrà mai operare, nonostante la volontà
delle parti, l’estensione oggettiva dalla clausola compromissoria statuaria,
poiché la manifestazione della volontà compromissoria si realizza in modo
peculiare negli arbitrati ex lege, peraltro sempre a controversia insorta.
Inoltre, negli arbitrati di lavoro regolati dalla legge, la tecnica del
processo arbitrale è peculiare rispetto a quella delineata dall’arbitrato
societario, non solo relativamente alla disciplina del procedimento (52) ma
soprattutto per quanto riguarda gli effetti del lodo (53).
Non è possibile una rinuncia: derogare vorrebbe dire elidere il richiamo compiuto dall’art. 806 c.p.c. all’arbitrato previsto dalla legge.
Pertanto, qualora sorga una controversia relativa sia all’esclusione del
socio che al relativo licenziamento, per potere accedere alla tutela arbitrale per entrambe le controversie, è necessario che le parti, in materia di
lavoro, scelgano, a lite insorta, una delle modalità disciplinate dagli artt.
412 e 412-quater c.p.c.
Nonostante una simile scelta, non sarà mai possibile l’individuazione
di un unico foro arbitrale e neppure un coordinamento dei giudizi ex
(51) Le conclusioni delineate al termine di questo punto possono essere estese anche nel
caso in cui la clausola compromissoria richiami un arbitrato amministrato, come nella fattispecie
in esame.
(52) Specialmente con riguardo all’arbitrato delineato dall’art. 412 quater c.p.c. la tecnica
del processo arbitrale è delineata in modo puntuale e si discosta profondamente per quanto
riguarda la disciplina della nomina degli arbitri (il terzo arbitro deve essere scelto tra i professori
universitari in materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di
cassazione), l’iter procedimentale molto dettagliato e la disciplina del compenso.
(53) Infatti in entrambe le discipline richiamate si parla di lodo impugnabile ai sensi
dell’art. 808 ter c.p.c., il quale può divenire esecutivo se non è impugnato dalle parti. Nell’arbitrato societario, trovando applicazione le norme sull’arbitrato rituale, il lodo ai medesimi
effetti della sentenza, ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c.
380
ante (54), a meno che non sia disposta la sospensione facoltativa ex art. 337
c.p.c.
Sarà, invece, possibile un coordinamento posticipato così come illustrato nel punto a).
d) Clausola compromissoria statutaria per arbitrato irrituale ed arbitrati irrituali ex lege.
A diverse conclusioni si potrebbe, invece, giungere qualora lo statuto
sociale contenga una clausola compromissoria per arbitrato irrituale.
Come è noto, il tema dell’arbitrato irrituale societario è al centro di
un ampio dibattito non ancòra sopito. Diverse sono le posizioni degli
interpreti (55).
Qualora si ritenesse ammissibile questa forma di arbitrato in materia
societaria, si potrebbe immaginare un coordinamento tra i giudizi arbitrali.
Tuttavia, la disciplina dell’arbitrato societario dovrebbe piegarsi alla disciplina dell’arbitrato irrituale ex lege: le parti dovrebbero stabilire, una
volta che è sorta la controversia avente profili inerenti sia al rapporto di
lavoro che a quello sociale e sempre che la formulazione della clausola lo
consenta (56), che l’arbitrato sia regolato dalle norme dell’arbitrato di
lavoro ex lege con l’inevitabile conseguenza che il lodo, se non impugnato,
divenga esecutivo.
Tirando le file delle osservazioni sopra compiute, l’unico modo per
avere sia la sicurezza di potere accedere alla tutela privata che l’individuazione di un unico foro arbitrale, è quello di inserire all’interno del
contratto di lavoro una clausola compromissoria per arbitrato rituale,
richiamante la disciplina dell’arbitrato societario. Tuttavia, come ricordato, la possibilità di inserire siffatta convenzione opera unicamente
qualora vi sia una preventiva autorizzazione a livello di contrattazione
collettiva.
(54) Una dottrina (MURONI, op. cit., 68) propone di potere coordinare i due giudizi
mediante l’applicazione dell’art. 295 c.p.c. Tuttavia, nutro delle perplessità sia alla luce del
dettato normativo che della natura eterogenea del giudizio arbitrale rispetto a quello statuale.
(55) Una parte degli interpreti esclude l’ammissibilità di un arbitrato irrituale da clausola
compromissoria statutaria (BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario, in questa Rivista,
2003, 42 ss.; PIZZOFERRATO, Giustizia privata del lavoro, in Tratt. di dir. comm. e dir. pubb.
dell’econom., diretto da Galgano, Padova, 2003, 181 ss.); altri, invece, rilevano che la riforma
societaria sarebbe intervenuta per azzerare la distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale,
disciplinando entrambi con le medesime forme (si rimanda sul punto a BOCCAGNA, Sub art. 34,
in AA. VV., Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale e internazionale, a cura di
Benedettelli, Consolo e Radicati di Brozolo, Padova, 2010, 405); possibilista, ZUCCONI GALLI
FONSECA, in Arbitrati speciali, cit., 112); altri ancòra sottolineano che la progressiva giurisdizionalizzazione dell’arbitrato avrebbe allontanato ancòra di più le due figure e legittimato
ulteriormente l’esistenza di un arbitrato di alveo esclusivamente negoziale (E.F. RICCI, Il nuovo
arbitrato societario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 537).
(56) Con riguardo all’arbitrato rituale l’art. 816 bis c.p.c. prevede che le parti possono,
anche con atto scritto separato rispetto alla convenzione d’arbitrato, stabilire le norme che gli
arbitri debbono osservare nel procedimento. Regola che può facilmente trovare applicazione
anche nell’arbitrato irrituale.
381
7. Alla luce di quanto esposto appaiono ovvie le conclusioni.
Se da una parte si deve criticare l’interpretazione abbracciata dal
Tribunale di Piacenza, dall’altra, invece, si deve accogliere l’opzione
esegetica del Collegio arbitrale con le precisazioni di sèguito esposte.
Se, come si è cercato di dimostrare, all’interno delle cooperative di
produzione e lavoro coesistono due diversi rapporti, uniti da un nesso di
accessorietà, alla luce di un dettato normativo che non consente di
affermare il contrario, è necessario salvaguardare e garantire la loro
autonomia.
Si deve quindi concludere per l’esistenza di due diverse competenza:
una arbitrale per quanto concerne l’impugnativa della delibera di esclusione e una statuale con riferimento alla risoluzione del rapporto di
lavoro.
Al contempo, non devono sorgere dubbi in merito alla arbitrabilità
della fattispecie in esame: infatti, oggetto del processo arbitrale è l’impugnativa di esclusione dalla compagine sociale. Il licenziamento è solo un
effetto conseguente a tale deliberazione, che, come afferma il Collegio
arbitrale, può essere oggetto di un autonomo giudizio (57).
Inoltre l’opzione esegetica del Tribunale piacentino determina una
ingiusta compromissione della libertà della compagine societaria di addivenire alla scelta arbitrale, peraltro in relazione a un diritto pienamente
compromettibile (58).
Ritengo, infatti, che come debba essere vietata la cognizione arbitrale
qualora non siano rispettati i presupposti previsti dalla legge, così deve
essere garantita la sua attuazione nel caso in cui, invece, gli stessi siano
salvaguardati, pena la violazione della libertà delle parti, riconosciuta
dalla stessa Costituzione, di scegliere una giustizia diversa da quella
ordinaria.
Seppure la giurisprudenza recente abbia sancito la piena identità
sostanziale tra il processo arbitrale e quello statuale, la scelta della
giustizia arbitrale, specialmente nel contesto societario, risponde a specifiche esigenze delle parti, che devono essere rispettate (59), salvo che la
scelta arbitrale si ponga in contrasto rispetto al dettato normativo.
(57) Giustamente il Collegio rileva la irrilevanza di un autonomo atto di licenziamento:
il legislatore, infatti, ha previsto un rapporto di consequenzialità fra il recesso o l’esclusione del
socio e l’estinzione del rapporto di lavoro, che esclude la necessità, in presenza di comportamenti che ledono il contratto sociale oltre il rapporto di lavoro, di un distinto atto di
licenziamento, così come le garanzie procedurali connesse all’irrogazione di questo ultimo (in
senso conforme: Cass., 5 luglio 2011, n. 14741, in Dejure).
(58) La giurisprudenza è quasi unanime a riconoscere l’arbitrabilità delle impugnative di
esclusione del socio dalla compagine sociale; ex multis: Cass., 2 marzo 2009, n. 5019, in Dejure;
Trib. Bari, 7 febbraio 2007, ivi.
(59) In àmbito societario la scelta dello strumento arbitrale trova fondamento non solo
in esigenze di celerità del giudizio, ma soprattutto risponde a ragioni di riservatezza. Esigenze
che non trovano risposta nella giustizia ordinaria, con il risultato di determinare spesso una
insanabile rottura fra le parti, oppure che le situazioni di conflitto provochino reazioni indirette,
382
Inoltre il giudicante piacentino, ritenendo applicabile l’art. 40 c.p.c. al
rapporto tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, è contravvenuto al
principio espresso chiaramente dall’art. 819 ter c.p.c., che non esclude la
competenza arbitrale in caso di connessione tra la controversia deferita
agli arbitri e una causa pendente innanzi al giudice ordinario.
Alla luce della ricostruzione accolta del rapporto intercorrente tra la
prestazione societaria e mutualistica appare, invece, condivisibile la soluzione del Collegio arbitrale.
Tale opzione esegetica determina l’ovvia conseguenza di legittimare
due procedimenti paralleli (non sembrerebbe esserci stata l’opzione arbitrale in un momento successivo, come ipotizzato nel § precedente, punto
c)), che potranno eventualmente essere coordinati solo ex post in caso di
decisioni contrastanti.
Infatti, come ho indicato in precedenza, dipendendo la sorte del
rapporto di lavoro dalle vicende e dalle regole proprie di quello sociale,
una sentenza concernente la risoluzione del rapporto di lavoro di contenuto contrastante con quella del lodo relativo alla esclusione dalla compagine sociale potrà essere oggetto di impugnazione ex art. 395, n. 5,
c.p.c. (60), oppure, come suggerisce la dottrina (61), si dovrebbe ritenere
ammissibile l’impugnazione per cassazione, per violazione di norme di
diritto.
Diversamente nutro perplessità su alcuni aspetti delle argomentazioni
adottate dal Collegio in merito alla questione concernente la validità o
inefficacia della convenzione arbitrale.
Dalla lettura dell’ordinanza del Tribunale piacentino sembrerebbe
desumersi che la statuizione concernente la validità della convenzione
arbitrale sia oggetto di un mero obiter dictum (62).
Ciò posto, alla luce del noto principio della Kompetenz-Kompetenz, il
giudice ordinario ha il potere di verificare la sussistenza o meno del
proprio potere di giudicare sulla controversia: quello che il dettato normativo, invece, vieta è la proposizione, in pendenza del giudizio arbitrale,
non volute ma inevitabili, una volta che i terzi siano a conoscenza dell’esistenza di determinati
contrasti.
(60) Ritengo applicabile detta fattispecie alla luce di una interpretazione estensiva del
concetto di “sentenza”, confermato dall’equiparazione tra lodo e sentenza operata dall’art. 824
bis c.p.c. Sul punto già nella previdente disciplina TARZIA, Conflitti tra lodi arbitrali e conflitti tra
lodi e sentenza, in Riv. dir. proc., 1994, 645 ss.; E. RICCI, L’« efficacia vincolante » del lodo
arbitrale dopo la legge n. 25 del 1994, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 819. La giurisprudenza
subordina la possibilità di fare ricorso a questo mezzo di impugnazione purché il precedente
giudicato verta tra le stesse parti, sullo stesso fatto o su fatto antitetico e non su un semplice
antecedente logico (Cass., 27 maggio 2009, n. 12348, in Dejure; Cass., 11 dicembre 1999, n. 13870
ivi). In questo caso vi è una identità di fatto storici. Sul punto cfr. anche nota 50.
(61) TARZIA, op. cit., 645.
(62) Cfr. nota 5.
383
di domande concernenti la validità o l’efficacia della convenzione arbitrale.
Tale domanda non è stata formulata innanzi al Giudice piacentino,
come rilevato peraltro dallo stesso Collegio arbitrale. Tuttavia, quest’ultimo, seppure affermi che la questione pregiudiziale in merito alla validità
della clausola compromissoria sia stata affrontata solo quale premessa per
la soluzione della questione preliminare di rito relativa alla competenza,
rileva che nel caso di specie la pendenza del giudizio arbitrale precluda la
proposizione di domande giudiziali relative alla validità della convenzione
arbitrale.
ELENA GABELLINI
384
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Pizzoferrato Pres., Tibaldini, Fresca), nella controversia
tra X + 20 (avv. Guarisco) e la Coperativa Y (avv.ti Gregori e Angona); ordinanza
resa in Bologna il 16 dicembre 2014. (*)
Cooperativa di produzione e lavoro - Delibera di esclusione della compagine
societaria e risoluzione del rapporto di lavoro - Compromettibilità.
Le violazioni degli obblighi di legge o statutari imputabili ai soci esclusi di una
cooperativa di produzione e lavoro pur essendo direttamente o indirettamente
riconducibili allo svolgimento della prestazione lavorativa, devono essere valutate
nell’ambito del rapporto mutualistico e della loro capacità di incidere o meno sulla
sopravvivenza del medesimo. Sussiste, quindi, la competenza arbitrale solo e
unicamente sotto tale profilo, non per la loro eventuale rilevanza sul distinto,
ancorché complementare, rapporto di lavoro.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il Collegio Arbitrale, a scioglimento della riserva
assunta a seguito della prima udienza di comparizione del 15.12.2014, ritiene di
non dover accogliere l’eccezione di invalidità della clausola arbitrale e di incompetenza degli arbitri sollevata da parte attrice, ritenendo al contrario, sulla base
delle considerazioni di seguito esposte, la propria competenza a decidere in ordine
all’opposizione presentata, ai sensi dell’art. 11 dello Statuto della Cooperativa Y
dal Sig. X ed altri 20, avverso la delibera a mezzo della quale è stata disposta
l’esclusione di questi ultimi da soci della predetta Cooperativa.
Osserva in primo luogo il Collegio come l’eccezione sollevata dalla parte
attrice vada inquadrata e risolta quale questione preliminare di competenza
afferente al rapporto tra controversie devolute al giudizio arbitrale e cause
proposte davanti al giudice ordinario (ciò anche in ossequio ai principi di recente
affermati dalle SS.UU. della Corte di Cassazione — Ord. 25.10.2013, n. 24153 —
(*) La presente decisione è commentata da E. GABELLINI, con la Nota pubblicata retro
nella Rubrica “Giurisprudenza ordinaria”.
385
in merito al riconoscimento della giurisdizionalità del procedimento arbitrale
rituale).
Quella inerente al rapporto tra autorità giudiziaria ordinaria ed arbitri
rappresenta, infatti, questione di competenza integrante eccezione preliminare di
rito, così come confermato implicitamente dagli artt. 817, primo comma, e 819 ter,
primo comma, del codice di procedura civile che, rispettivamente, affermano la
competenza degli arbitri a decidere sulle contestazioni sollevate nel corso del
giudizio arbitrale in relazione alla validità, al contenuto o all’ampiezza della
convenzione di arbitrato, nonché l’impugnabilità mediante regolamento di competenza della sentenza con la quale il giudice affermi o neghi la propria competenza in relazione ad una clausola compromissoria.
In considerazione del quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato,
il Collegio — pur prendendo atto della statuizione richiamata dalla difesa di parte
attrice a mezzo della quale il Tribunale di Piacenza in funzione di Giudice del
lavoro al quale è stata pure devoluta la controversia oggetto del procedimento
arbitrale, ha affermato la propria competenza a conoscere la controversia (ordinanza in data 10-11/12/2014 resa nel proc. n. 751/2014 R.G.) — ritiene di non poter
condividere i presupposti né le conseguenze di detta pronuncia rispetto alla quale
non reputa, peraltro, sussistere obbligo di conformarsi.
Osserva, infatti, il Collegio che — diversamente da quanto rilevato dalla
difesa di parte attrice e sulla base, invece, delle contrarie argomentazioni precedentemente esaminate — la statuizione del Giudice del Lavoro di Piacenza integra
pronuncia di rito in materia di competenza e come tale priva degli effetti del c.d.
giudicato esterno.
Alla soluzione così individuata non osta la circostanza per cui il Giudice adito
abbia affermato che la controversia oggetto dei due procedimenti paralleli (quello
innanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria e quello arbitrale) non sia suscettibile di
deroga a favore degli arbitri ai sensi dell’art. 806 c.p.c. e ciò in quanto la questione
pregiudiziale di merito afferente alla validità della clausola compromissoria è stata
affrontata dal Tribunale solo incidenter tantum (e, dunque, senza effetto di
giudicato) quale premessa per la soluzione della questione preliminare di rito
relativa alla competenza.
Deve, peraltro, ulteriormente osservarsi come nel caso di specie la pendenza
del procedimento arbitrale (radicato in un momento antecedente rispetto al
deposito del ricorso giudiziale lavoristico) precluda — in forza del disposto di cui
all’art. 819 ter, terzo comma — la proposizione di “domande giudiziali aventi ad
oggetto l’invalidità o inefficacia della convenzione di arbitrato”.
Alla luce di quanto sopra dedotto, il Collegio ritiene sussistente la propria
competenza a conoscere la controversia ad esso devoluta in quanto inerente al
rapporto associativo e non a quello di lavoro.
Oggetto del giudizio arbitrale è, infatti, la domanda di annullamento della
predetta delibera (e non l’impugnativa del licenziamento) avverso la quale parte
attrice ha proposto opposizione innanzi al Collegio Arbitrale secondo quanto
prescritto dal combinato disposto degli artt. 11 e 42 ss. dello statuto della
cooperativa in forza del quale avverso la delibera di esclusione il socio può
proporre opposizione nel termine di 60 giorni dalla comunicazione innanzi al
Collegio Arbitrale alla cui competenza sono devolute “tutte le controversie aventi
386
ad oggetto rapporti sociali, comprese quelle relative alla validità delle delibere
assembleari, promosse da o contro i soci...”.
In tal senso, le violazioni ad obblighi di legge o statutari imputate ai soci
esclusi, pur essendo direttamente o indirettamente riconducibili allo svolgimento
della prestazione lavorativa, sono valutate nell’ambito del rapporto mutualistico e
della loro capacità di incidere o meno sulla sopravvivenza del rapporto mutualistico e sono, quindi, oggetto del sindacato del Collegio Arbitrale solo ed unicamente sotto tale profilo, non per la loro eventuale rilevanza sul distinto, ancorché
complementare, rapporto di lavoro.
Pertanto, a parere di questo Collegio, la circostanza della carenza dell’atto di
licenziamento è ininfluente, dovendosi prospettare due parallele cognizioni l’una
arbitrale sulla idoneità dei comportamenti denunciati a costituire valida ragione di
esclusione ex art. 11 dello statuto della cooperativa, l’altra giudiziale lavoristica in
merito alla idoneità dei medesimi fatti denunciati a costituire giusta causa di
licenziamento ex lege e/o ex contractu con l’appropriata strumentazione lavoristica
di tutela.
Il Collegio, pertanto, respinge l’eccezione preliminare formulata da parte
attrice dichiarando la procedibilità dell’arbitrato; rilevata allo stato attuale l’impossibilità di esperire utilmente il tentativo di conciliazione tra le parti, fissa per la
prosecuzione del giudizio, l’udienza del 20 marzo 2015 ad ore 10,30, concedendo
alle parti i seguenti termini perentori a decorrere da oggi:
— termine di 30 giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già
proposte;
— termine di ulteriori 30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni
nuove, o modificate dall’altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l’indicazione dei mezzi di
prova e produzioni documentali;
— termine di ulteriori 20 giorni per le sole indicazioni di prova contraria.
(Omissis).
387
RASSEGNE E COMMENTI
Arbitrato e consulenza tecnica: individuazione delle voci di
danno contrattuale (*)
GIORGIO DE NOVA
1. È mio compito delineare, da un punto di vista giuridico, il tema delle
voci di danno contrattuale.
Le relazioni precedenti ci hanno detto come si accerta l’inadempimento,
e la sussistenza di un danno risarcibile. Si tratta ora di verificare quali siano i
danni, quali siano, appunto, le voci di danno.
In realtà il tema che dovrò trattare è più limitato, tenuto conto che
parliamo di arbitrato (e dunque rilevano solo le voci che ricorrono in relazione
ai contratti che contengono clausole compromissorie — come appalti, Share
Purchase Agreements, contratti di distribuzione) e di consulenza tecnica
(quindi rilevano solo le voci idonee ad essere indagate da un consulente
tecnico).
2. Una premessa è tuttavia necessaria. Oggi si ritiene che sia risarcibile
il danno che deriva dall’aver concluso un contratto “sconveniente”, a causa di
un comportamento scorretto dell’altra parte nel corso delle trattative, e al
tempo stesso si ritiene che la convenzione di arbitrato contenuta nel contratto
poi concluso copra anche una domanda di risarcimento di tal genere. Si pone
quindi, anche qui, un problema di determinazione del danno risarcibile, sia per
l’arbitro sia per il consulente: ed è centrale il quesito se il parametro di
riferimento sia il mercato, o invece possa essere anche altro parametro.
3. Devo però concentrarmi sul danno da inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, e mi limito solo a soggiungere che la questione più
delicata che si pone, nel rapporto arbitro/consulente tecnico, è determinare
quali questioni siano di competenza del primo e quali possano invece essere
deferite al secondo.
Supponiamo che si tratti, come avviene di frequente, di un arbitrato in
tema di appalto. Ebbene, possiamo identificare questioni che sono tipica(*) Relazione al Convegno « La consulenza tecnica nel giudizio arbitrale: il caso del
danno da inadempimento contrattuale », Roma 17 aprile 2015.
389
mente devolute al giudizio del collegio arbitrale, come le seguenti: se le opere
oggetto dell’appalto siano state interamente eseguite, se le riserve siano state
tempestive e rispettose della procedura contrattuale, se l’appaltatore sia stato
inadempiente per colpa grave.
Possiamo identificare questioni che sono tipicamente oggetto di consulenza tecnica, come le seguenti: se i lavori presentino difetti, se l’impianto
produca meno del previsto contrattualmente, se l’impianto sia rispettoso della
regolamentazione ambientale.
Possiamo identificare questioni che si collocano in una posizione mediana, come le seguenti: chi sia responsabile per i ritardi, se quella parte dei
lavori in ritardo si trova sul percorso critico, se il ritardo abbia provocato
disruption.
E tra le questioni in posizione mediana vi ė proprio quella che oggi ci
interessa: quali siano i danni risarcibili, quale ne sia la misura.
4. Veniamo ora alla determinazione del danno risarcibile. Il principio,
da tutti riconosciuto, è quello dell’integrale riparazione del danno: il risarcimento deve porre il contraente deluso nella situazione economica in cui si
sarebbe trovato se il contratto fosse stato adempiuto.
Si suole dire che il risarcimento così concepito ha ad oggetto l’interesse
positivo.
Nella sua magistrale monografia sull’inadempimento e i rimedi del 2010
Pietro Trimarchi si domanda se il contraente leso possa chiedere — invece del
risarcimento del danno corrispondente all’interesse positivo — il risarcimento
corrispondente all’interesse negativo (spese, e occasioni alternative trascurate
e perdute in conseguenza della stipulazione del contratto) e conclude affermativamente per le spese, negativamente per le occasioni perdute (1).
Ma restiamo, secondo tradizione, all’interesse positivo.
L’art. 1223 ci parla di perdita subita (o danno emergente) e di mancato
guadagno (o lucro cessante).
La contrapposizione, tradizionale, appare in linea di principio netta. Ma
è stato osservato, ancora da Pietro Trimarchi (2), che se il bene è produttivo
di redditi la differenza si attenua.
Il valore di un bene produttivo di reddito corrisponde all’attualizzazione
dei flussi di cassa attesi, che costituiscono un lucro cessante.
Se il bene ha un prezzo di scambio accertabile sul mercato, il danno
derivante dalla sua perdita può essere determinato per questa via, in veste di
danno emergente; se così non è, occorre stimare i redditi attesi, in veste di
lucro cessante.
Sulla nozione di mancato guadagno conviene fermarsi un momento, per
un confronto con la nozione — di common law — di “consequential damages”:
(1)
(2)
390
Pietro TRIMARCHI, Il contratto. Inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 101 ss.
Op. cit., pag. 111.
molti contratti oggetto di arbitrato hanno origine angloamericana, e in essi
troviamo clausole che escludono dai danni risarcibili i consequential damages.
È dunque essenziale tenere presente la distinzione all’interno dei lost profits
tra i damages che possono considerarsi “direct”, e quelli che invece vanno
considerati “consequential”, appunto molto spesso esclusi da una clausola di
limitazione di responsabilità. Il criterio tradizionale, per diritto di New York,
fa leva sulla diversa fonte dei profitti perduti: i danni sono direct se i profitti
perduti sarebbero derivati dal contratto inadempiuto, sono consequential se
sarebbero derivati da contratti con terzi (American List Corp. V.U.S. News
and World Report 75 NY2d 38 1989). Ma una recente decisione della Court
of Appeal di New York nel caso Biotronic v. Consor Medsystems Ireland
(2014 WL 1237154 N.Y. March 27 2014) ha rimesso in discussione il criterio
distintivo, decidendo che è “direct” il danno che il distributore subisce per non
potere rivendere a terzi il prodotto che non gli viene fornito in violazione del
contratto di distribuzione.
5. Una parola sui danni imprevedibili: non risarcibili, ex art. 1225, salvo
il caso di dolo. Qui si pone il tema di cosa debba intendersi per dolo.
Se si ritenesse che sussiste dolo quando l’inadempimento è volontario e
consapevole del danno che ne consegue (3) di fatto la regola sarebbe quella
della risarcibilità dei danni imprevedibili, perché la maggior parte degli
inadempimenti integrali è volontaria.
Ciò in contrasto tra l’altro con l’art. 74 della Convenzione di Vienna che
non dispone la risarcibilità dei danni imprevedibili in caso di dolo.
Di qui l’interpretazione che limita il dolo a casi particolarmente riprovevoli di inadempimento (4).
6. Un cenno appena al riconoscimento da parte della Cassazione del
danno non patrimoniale da inadempimento: perché relativo ad ipotesi che ben
difficilmente sono oggetto di arbitrato.
7. Dopo queste appena accennate premesse, ribadisco che il tema del
danno da inadempimento, in questo convegno, va affrontato in relazione
all’arbitrato e alla consulenza tecnica: inutile dunque parlare di danni da
determinare in via equitativa, posto che il compito è riservato al collegio
arbitrale, ed opportuno invece soffermarci su alcune voci di danno che spesso
si incontrano in arbitrato.
Una voce di danno di tal genere è il danno da ritardo. Molti arbitrati sono
in tema di appalto, e negli appalti il ritardo domina.
Qui il metodo adottato dal CTU è decisivo: basti pensare agli esiti diversi
(3) Come sembra dare per scontato ALPA, Il Contratto in generale. Principi e problemi,
Milano, 2014, 187, 194.
(4) Ancora TRIMARCHI, op. cit., pag. 179, riprendendo i risultati della monografia di
Maurizio LUPOI, Il dolo del debitore nel diritto italiano e francese, Milano, 1969, 475 ss.
391
cui può condurre, pur sempre nell’ambito di una analisi del percorso critico,
l’adozione della cosiddetta Windows Analysis (che considera soltanto le
attività critiche che si verificano durante uno specifico periodo prefissato del
progetto) piuttosto che l’adozione della cosiddetta Snapshot Analysis (che
considera ogni attività critica di per sé, dal suo inizio alla sua fine, indipendentemente da una finestra temporale prefissata).
Una voce di danno che merita attenzione è il mancato guadagno. Particolare rilievo ha il tema in relazione al danno del venditore in caso di
inadempimento del compratore. Se Venditore vende a Compratore, ma
Compratore non paga, si deve determinare il danno che Venditore ha subito.
Se, risolto il contratto, Venditore vende lo stesso bene allo stesso prezzo
ad un terzo, in prima battuta si potrebbe dire che non ha subito alcun danno,
che non sopporta alcun mancato guadagno, perché ottiene dal terzo il prezzo
che avrebbe dovuto ottenere dal primo. Ma non ė così: se Venditore era in
grado di vendere quel bene due volte, il mancato guadagno sussiste, ed è pari
al lucro che avrebbe ricavato dalla prima vendita, e che è venuto meno. Siamo
qui in presenza della voce di danno che si suole indicare come lost volume del
Seller, il mancato volume di vendite che avrebbe raggiunto il Seller, sul
presupposto che egli abbia prodotti senza limiti o capacità produttiva illimitata.
Giunti sin qui, si pone il problema della determinazione del mancato
guadagno: e ci si chiede se possa farsi riferimento al margine di contribuzione.
8. Accenno da ultimo ad una voce di danno che può sembrare assai
banale, il danno da inadempimento di una obbligazione pecuniaria. Tema in
realtà non banale, perché la riforma dell’art. 1284, con l’introduzione del
comma che prevede la misura dell’interesse legale dalla domanda pari al tasso
moratorio della legge sui ritardi di pagamento induce a rimeditare la questione in modo radicale.
9. La conclusione, che può leggersi in filigrana, è che una buona
consulenza nasce da un dialogo serrato e alla pari tra arbitro e consulente, e
che un buon lodo ha spesso a riferimento una buona consulenza.
392
Obbligo del requisito di forma e compromesso
MARCO F. CAMPAGNA
1.
Il requisito di forma di cui all’art. 807 c.p.c.
A mente dell’art. 807 c.p.c. « Il compromesso deve, a pena di nullità, essere
fatto per iscritto e determinare l’oggetto della controversia ».
La disposizione prescrive con chiarezza il requisito di forma che, a pena
di invalidità, deve avere il contratto (1). Tuttavia, intorno a questa norma si
sono agitati, da parte degli interpreti, non pochi dubbi.
Si è così posta in passato questione se il requisito di forma possa dirsi
rispettato anche quando la sottoscrizione del contratto di compromesso tra le
parti non sia contestuale. Ove quest’ultimo lemma andrebbe inteso in senso
etimologico e starebbe a indicare prima, e più, l’unicità del testo, che la
vicinanza temporale delle sottoscrizioni.
Tratto al di fuori dal contesto dell’arbitrato, il problema affonda le sue
radici in un àmbito più ampio, che riguarda le modalità di conclusione dei
negozi a forma vincolata. Giova al riguardo rimarcare la distinzione, posta già
(1) È notoriamente dibattuto l’inquadramento del compromesso all’interno del contratto o dell’accordo. La prima interpretazione ha, tuttavia, finito col prevalere. Senza pretesa
di esaustività nell’elencazione, si vedano già: G. CHIOVENDA, Principii del diritto processuale
civile, 3 ed., Napoli, 1923, 107: « la legge riconosce [..] un importantissimo contratto, che
appartiene propriamente al diritto privato »; E. REDENTI, Compromesso (dir. proc. civ.) in
Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, 791; G. SCHIZZEROTTO, L’arbitrato rituale nella giurisprudenza,
Padova, 1969, 13 ss.; R. VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971, 190.
Più di recente G. VERDE, La convenzione d’arbitrato, in Diritto dell’arbitrato rituale (a cura di
G. Verde), Torino, 2005, 71.
A testimonianza dell’antico dibattito sulla contrattualità o meno del patto compromissorio
si prenda F. CARNELUTTI, Arbitri e arbitratori, in Riv. dir. proc. civ., 1924, 128 e 129. L’illustre A.,
in polemica con Scaduto, ponendo la distinzione tra transazione e compromesso, afferma: « la
differenza fra la transazione ed il compromesso sta in ciò: che la transazione è l’incrocio di due
volontà dominate dal contrasto degli interessi; il compromesso è l’accordo di due volontà
sospinte da un interesse medesimo. [..] Ciò significa che la transazione è un contratto, e il
compromesso un accordo, cioè una specie di atto complesso » (corsivo dell’Autore). La
ricostruzione del Carnelutti ha trovato l’adesione, con riferimento alla clausola compromissoria,
di M. ZACCHEO, Contratto e clausola compromissoria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, 425, n.
4, il quale, notata la mancanza dell’elemento patrimoniale nel rapporto che si costituisce, la
colloca nella più ampia categoria — rispetto alla quale i contratti rappresentano una species —
dei negozi bilaterali.
393
dal Carnelutti, tra dichiarazione e documento: la prima attiene all’attività di
formazione di una rappresentazione (il produrre), il secondo attiene alla
rappresentazione stessa (il prodotto) (2). La forma richiesta a pena d’invalidità
è quella che cade sulla dichiarazione, che deve essere messa per iscritto, e non
sul documento (3). Non rileva, dunque, il documento e la sua unicità, assume
importanza lo scrivere le dichiarazioni (4). Poco conta che queste siano
contenute in un unico testo o in testi tra loro separati (5).
Il che rende possibile predicare la validità del patto compromissorio (6),
al pari di ogni altro contratto, anche quando la rispettiva volontà delle parti
non sia fermata in un unico documento (7).
Questa prima considerazione non sembra richiedere ulteriori particolari
approfondimenti, potendosi dare per pacificamente assunta. Sennonché, scorrendo i repertori di giurisprudenza, è fatto d’imbattersi in un orientamento
che, almeno stando alle massime, reputa il requisito della forma scritta ad
substantiam soddisfatto anche attraverso lo scambio delle missive contenenti
la proposta e l’accettazione di remissione della controversia ad arbitri (8).
(2) F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, II, Padova, 1923, 549 ss.. Recentemente la distinzione è riproposta da V. BARBA, La nozione di disposizione testamentaria, in
Rass. dir. civ., 2013, 568.
(3) N. IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, in Idola Liberatis. Tre esercizi sul
formalismo giuridico, Milano, 1985, 57: « la “forma del contratto” è espressione ellittica, che sta
per “forme” delle due o più decisioni prese dalle parti » (enfasi dell’Autore).
(4) N. IRTI, op. ult. cit., 60.
(5) Soltanto questo passaggio spiega la posizione costante della giurisprudenza, espressa,
ex multis, in Cassazione civile sez. II 21 agosto 2012 n. 14584, in Guida al diritto, 2012, 44 ss.: « Ai
fini della configurazione di un contratto con forma scritta ad substantiam non è né richiesta,
né necessaria la simultaneità della sottoscrizione dei contraenti. Non occorre, in particolare, che
la volontà negoziale sia manifestata dai contraenti contestualmente e in un unico documento,
dovendosi ritenere il contratto perfezionato anche qualora le sottoscrizioni siano contenute in
documenti diversi, anche cronologicamente distinti, qualora — sulla base di una valutazione
rimessa al giudice di merito — si accerti che il secondo documento è inscindibilmente collegato
al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo ».
(6) Si osservi che l’uso della locuzione “patto compromissorio”, come pure quella di
« convenzione arbitrale », utilizzata nelle sentenze citate, raccoglie, senza distinzione alcuna,
clausola compromissoria e compromesso. Nel prosieguo del testo le locuzioni saranno utilizzate
facendo riferimento al solo compromesso. Togliendo la definizione da una pagina di C. VOCINO,
Schema di una teoria della clausola compromissoria, in Foro it., 1932, c. 1062, diremo che « il
compromesso è un contratto intercorso fra due o più parti, pel quale i contraenti [..] commettono
la risoluzione di certe controversie fra loro insorte, alla decisione di arbitri privati » (enfasi
dell’Autore).
(7) Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 luglio 2014, n. 15993, in Giust. civ. Mass., 2014; Cass. civ., sez.
I, 24 luglio 2007, n. 16332, in Giust. civ. Mass., 2007.
(8) Si veda, recentemente, Cass. civ., sez, I, 14 maggio 2014, n. 10436. Nello stesso senso
anche Cass. civ., sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2256, in questa Rivista, 2007, 237 ss., n. di E.
D’ALESSANDRO, Conclusione dell’accordo compromissorio mediante meri atti di nomina degli
arbitri ?; Cass. civ., sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1989, in Foro it., 2001, I, cc. 1352 e ss.: « la
stipulazione del compromesso deve ritenersi validamente verificata con lo scambio delle missive
contenenti rispettivamente la proposta e l’accettazione di compromettere ad arbitri la decisione
della controversia insorta; la richiesta di costituzione di un collegio arbitrale infatti non può
essere interpretata diversamente, implicando necessariamente l’espressione della volontà di
rimettere agli arbitri la decisione della controversia ».
394
2.
Lo scambio delle nomine d’arbitri e la conclusione del compromesso.
Dunque, per l’orientamento da ultimo richiamato, il compromesso sarebbe validamente stipulato con la richiesta di costituzione di un collegio
arbitrale mediante nomina di un arbitro, a cui faccia seguito la nomina di
arbitro dell’altra parte.
Al riguardo può non essere inutile ricordare che compromesso e contratto di arbitrato sono negozi distinti (9). Il rapporto tra le parti e gli arbitri
diverge dal compromesso per soggetti, oggetto ed effetti (10). Anche nel caso
in cui il compromesso contenga la designazione degli arbitri sarebbe comunque necessaria la loro accettazione per far sorgere in capo a costoro l’obbligo
di emettere la decisione (11). È stato autorevolmente rilevato che il contratto
d’arbitrato si conclude con l’incontro di dichiarazioni di volontà — proposta e
accettazione — distinte rispetto alle dichiarazioni di volontà che servono a
concludere un patto compromissorio (rectius: il compromesso) (12). Si intuisce
così che i due contratti, il compromesso e il contratto d’arbitrato, ancorché
necessariamente connessi, vanno considerati separatamente, sia da un punto
di vista formale, sia sotto il profilo sostanziale (13).
Poste queste premesse, risulta possibile comprendere che, ad avviso della
giurisprudenza oggetto di analisi, la seconda nomina dell’arbitro sarebbe da
« valutarsi [anche] come accettazione della proposta » di compromettere la
lite (14). La nomina dell’arbitro rileverebbe, dunque, non per quanto in essa
dichiarato, ma come fatto concludente.
A dispetto del formalismo imposto dall’art. 807 c.p.c., vi è, infatti, una
opinione che, in modo più o meno esplicito, ritiene possibile concludere il
Questo orientamento, è appena da dire, merita analisi soltanto per i casi in cui chi nomina
gli arbitri abbia anche il potere di compromettere la lite. Sulla legittimazione per la stipulazione
dei compromessi, in luogo di tanti, si veda C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, t. I,
Padova, 2000, 268 e ss.
(9) Distinzione che è già tracciata compiutamente in F. CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo
processo civile italiano, Roma, 1951, 70 e 71. L’A. rileva che distinta è la « funzione, perché
mentre il compromesso conferisce agli arbitri la potestà di giudicare, dal contratto [di arbitrato]
discendono i loro obblighi e diritti verso le parti ».
(10) E. REDENTI, Compromesso, cit., 789.
(11) Cfr. sul punto M. RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 340.
(12) E. REDENTI, loc. ult. cit.
(13) Cfr. S. MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008, 18 ss., il quale
mi sembra individuare la nota della connessione necessaria nell’osservazione che l’esistenza
dell’accordo compromissorio è « uno dei dati di fatto, che compongono la fattispecie “contratto
di arbitrato” » (p. 20).
D’altro canto non pare che i due atti possano essere considerati all’interno di un’unica
fattispecie a formazione progressiva. In questo senso anche M. RUBINO SAMMARTANO, op. ult. cit.,
341. La fattispecie a formazione progressiva sembra esclusa proprio dall’indipendenza ed
autonomia degli effetti che dagli atti derivano. Sulla fattispecie a formazione progressiva si
rinvia diffusamente a D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939.
(14) Così Cass. civ., sez, I, 14 maggio 2014, n. 10436, cit. Un’applicazione piana del
medesimo principio sembra fatta in particolare da Cass. civ., sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2256, cit..
395
patto compromissorio per fatti concludenti. Si avanza sommessamente l’idea
che proprio questo pensiero va sottoposto ad esame critico, al fine di verificarne, alla luce del dato positivo, l’eventuale tenuta.
3. Inammissibilità della conclusione di un compromesso per fatto concludente.
Un punto d’appiglio per ritenere che il patto compromissorio possa dirsi
concluso anche per fatti concludenti sarebbe offerto, a tutta prima, dal dato
positivo.
Il lodo, è noto, può essere impugnato per nullità « se la convenzione
d’arbitrato è invalida, ferma la disposizione dell’art. 817, terzo comma » (art.
829, c. 1, n. 1, c.p.c.). E, invero, il legislatore richiama impropriamente il terzo
comma dell’art. 817 c.p.c., volendo evidentemente far riferimento all’ultimo
periodo del secondo comma, che prescrive: « la parte che non eccepisce nella
prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri l’incompetenza di questi
per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione di arbitrato, non può
per questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile » (15).
Proprio movendo da questo frammento di disposizione alcuni autori sono
giunti ad affermare che sarebbe ammesso, in materia di arbitrato, un modo di
formazione del patto compromissorio per comportamenti concludenti (16). Alla
previsione generale di cui all’art. 807 c.p.c., che richiede la forma scritta per la
conclusione del compromesso, si aggiungerebbe una previsione speciale,
quella di cui al sopracitato art. 817 c.p.c., con la quale il legislatore ha valuto
attribuire rilievo a un fatto concludente. Sarebbe, così, validamente concluso
il patto compromissorio ove il convenuto non eccepisse, nella prima difesa
successiva all’accettazione degli arbitri, l’inesistenza, invalidità, inefficacia
dello stesso (17).
La ricostruzione, a ben vedere, non appare del tutto convincente.
Il comportamento concludente si appunta, a seconda della posizione
(d’indole più volontarista o dichiarazionista) che si assume rispetto al negozio
(15) Che il riferimento al comma terzo dell’art. 817 sia una svista del legislatore appare
confermato anche dal prosieguo dello stesso articolo 829 c.p.c., là dove, al n. 4), richiama
l’inesistente quarto comma dell’art. 817 c.p.c.. La lettura coordinata delle due disposizioni porta
a ritenere che quando l’art. 829 menziona il terzo e quarto comma dell’art. 817 c.p.c. voglia in
realtà far riferimento rispettivamente al secondo (ultimo periodo) e terzo comma.
(16) Sul punto si rinvia all’ampia analisi delle diverse posizioni emerse in dottrina svolta
da L. SALVANESCHI, Arbitrato, in Comm. cod. proc. civ. (a cura di Chiarloni), sub art. 817,
Bologna, 2014, 562 ss., la quale, pur avvertendo il problema in tutta la sua complessità, giunge
a ritenere che per il patto compromissorio « vi sia anche la possibilità di una stipulazione in
modo tacito e per comportamento concludente » (566).
(17) Una ricostruzione in questo senso è in E. D’ALESSANDRO, Conclusione dell’accordo
compromissorio mediante meri atti di nomina degli arbitri ?, cit., 243. L’A. afferma che quella
dell’art. 817 c.p.c., comma 2, è « una previsione speciale che si pone accanto all’art. 807 c.p.c.
(che, invece, è lex generalis) ».
396
giuridico, o sulla rivelazione di una presunta volontà della parte che lo pone in
essere (18), oppure su di una valutazione sociale che ad esso fa assumere valore
e funzione di dichiarazione (19).
Sembrerebbe, invece, che la fattispecie in esame contenga la tipizzazione
di un fatto (mancata contestazione dinanzi agli arbitri nella prima difesa utile)
al quale riconduce direttamente degli effetti (l’opinione appena esposta
ritiene che effetto principe sia la valida stipulazione di un patto compromissorio, ma subito appresso se ne contesterà l’assunto), prescindendo dal riferimento a una presunta volontà o fittizia dichiarazione dell’interessato inattivo (20). A rigore pare che qui non si potrebbe parlare di fatto
concludente (21). Più corretto sarebbe dunque dire che, con l’art. 817, comma
2, c.p.c., trova ingresso in materia di arbitrato una previsione che fa scaturire
da un comportamento — tipico — determinati effetti (inoppugnabilità del
lodo). Così a nulla rilevando presunzioni su di un’ipotetica volontà delle parti
o la valutazione sociale del comportamento come dichiarazione.
L’argomento che desume dall’art. 817, comma 2, c.p.c., la possibilità di
concludere un patto compromissorio per fatti concludenti, provando troppo, si
disvelerebbe invero fuorviante. Sarebbe un salto logico quello che, dalla ferma
tipicità del comportamento descritto dalla disposizione, apre alla sconfinatezza atipica del qualunque fatto concludente. Che poi, sia detto per inciso, lo
scambio delle nomine, che si proporrebbe quale fatto concludente, sarebbe
invero adiaforo, non facendo desumere alcuna decisione compromissoria delle
parti. Lo scambio delle nomine, in questo senso, è in quanto deve essere; non
lascia intravedere una volontà delle parti di far decidere dagli arbitri la loro
(18) In questo senso, si vedano: G. GIAMPICCOLO, Note sul comportamento concludente,
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1961, 779.; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000,
209.
(19) È la nota posizione di E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, rist., Napoli,
2002, pp. 138 e ss., il quale fa riferimento alla valutazione sociale del comportamento come
dichiarazione e denuncia « l’espediente ingenuo » di supporre una volontà per riuscire a
giustificare gli effetti che deriverebbero dal fatto concludente (p. 148).
(20) Diversamente, ove il comportamento componesse un negozio, sarebbe assoggettato
a tutte le regole proprie del negozio. Così E. BETTI, op. ult. cit., 144.
Utili considerazioni, in linea con quelle del Betti, si rinvengono in A. ORMANNI, Forma del
negozio giuridico, Noviss. Dig. it., Torino, 1961, 567, che osserva: « non va confuso il silenzio
inteso siccome modo di essere di un negozio giuridico, col silenzio inteso siccome mera
inosservanza di un onere d’iniziativa, posto dalla legge [...] giacché in questo caso si tratta più
semplicemente di statuizioni legali che fanno scaturire da un comportamento inerte del privato
determinati effetti ».
(21) Si veda P. SCHLESINGER, Dichiarazione (Teoria generale), in Enc. dir., XII, Milano,
1964, 384. L’A. osserva: « lo schema del comportamento concludente, poi, si trasforma addirittura in finzione, quando la norma detta rigidamente il complesso degli effetti ricollegati ad
un’azione [o ad una omissione] ». Nello stesso senso G. GIAMPICCOLO, Note sul comportamento
concludente, cit., 799 e ss.; V. SCALISI, Manifestazione in senso stretto, in Enc. dir., XXV, Milano,
1975, 520.
397
controversia, rimanendo per tal profilo opaco e incolore (22). Non fosse altro
perché è competenza del collegio decidere sulla validità della convenzione di
arbitrato e così sulla propria competenza (23).
Sotto altro profilo, si osserva che il giudizio di comparazione tra le due
norme (quella di cui all’art. 807 e quella dell’art. 817, c. 2, c.p.c.), volto a
definire l’una generale e l’altra speciale, non può essere condotto. Manca tra
i due enunciati l’elemento comune (24). La prima disposizione così si converte:
il compromesso deve essere stipulato per iscritto, altrimenti è nullo. La
seconda, invece: il lodo non può essere impugnato se la parte non eccepisce
nella prima difesa utile l’incompetenza degli arbitri.
A ben vedere, e qui si risolve uno dei nodi principali della questione presa
in esame, lungi dal discorrere della conclusione del patto compromissorio,
l’art. 817, comma 2, c.p.c., sembra fissare una semplice preclusione processuale. Nulla di più. Dire che il compromesso è concluso per la mancata
eccezione nella prima difesa utile appare un’illazione contrastante con il
tenore letterale della disposizione presa in esame.
L’appello — che è comunemente fatto — a una certa libertà di forme in
materia di arbitrato, dovrebbe così cadere dinanzi al dato positivo: per la
conclusione del compromesso è richiesta la forma scritta. Il divieto di eccepire
la nullità del lodo, là dove ricorrano le condizioni richieste dall’art. 817,
comma 2, c.p.c., non si traduce in validità del patto compromissorio. Tale
divieto, in altre parole, non dimensiona la portata del precetto in forza del
quale il legislatore chiede che il compromesso sia concluso a pena di nullità
per iscritto, ponendosi piuttosto d’ostacolo all’impugnazione per invalidità
della convenzione d’arbitrato disciplinata dall’art. 829, comma 1, n. 1, c.p.c.. È
(22) Sui comportamenti non manifestativi A. FALZEA, Manifestazione (Teoria generale),
in Enc. dir., XXV, Milano, 1978, 443.
(23) Si veda l’art. 817 c.p.c., comma 1, a mente del quale è attribuita agli arbitri la
decisione sulla validità, sul contenuto o sull’ampiezza della convenzione d’arbitrato. In particolare il soggetto che per secondo procede alla nomina dell’arbitro potrebbe farlo al sol fine di
vederne dichiarata l’incompetenza. Né sembra si possa dire che in un caso siffatto la parte
dovrebbe inserire una riserva espressa nell’atto di nomina, essendo sufficiente l’eccezione
d’incompetenza alla prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri ex art. 817, c. 2, c.p.c..
Quest’ultima disposizione, dunque, rileva come elemento che, componendo la cornice di
circostanze nella quale il fatto va valutato, esclude la concludenza dello scambio delle nomine.
Cfr. V. SCALISI, Manifestazione, cit., 510, il quale nota: « L’interprete deve individuare il
significato desumendolo dalla integrazione del comportamento nella più vasta cornice di
circostanze fattuali e personali in connessione con esso. Queste ultime determinano in definitiva
il significato da attribuire al comportamento.. ».
(24) Sull’attributo di specialità della norma si veda N. IRTI, L’età della decodificazione,
Milano, 1999, 53 e ss. L’A. afferma: « secondo gli schemi ipotetici del nostro linguaggio, una
norma si riduce a ‘se A, allora B’, e l’altra [quella speciale] a ‘se A + a, allora B + b’. La
differenza specifica è data da un elemento dell’ipotesi di fatto (‘a’) e da un elemento degli effetti
(‘b’). Gli elementi comuni alle due norme (‘A’ e ‘B’) permettono di isolare le altre, e di stabilire
tra di esse il rapporto di genere a specie. Si tratta di uno svolgimento logico, che richiede insieme
identità e differenza, continuità e rottura. Senza gli elementi comuni, le due norme non
potrebbero né fungere da termini della comparazione né ricevere i predicati della generalità e
della specialità » (p. 55).
398
bensì rispetto a quest’ultima norma che si può compiere un giudizio di
comparazione, ed affermare che la non impugnabilità per nullità del lodo,
quando non si sia tempestivamente rilevata l’inesistenza-invalidità-inefficacia
della convenzione arbitrale, è norma eccezionale (25).
Fuorviante sembra anche il confronto che talvolta si avanza con l’ordinamento tedesco. Ivi, il § 1031 del ZPO prevede che il vizio di forma del patto
compromissorio è sanato (“geheilt”) quando il convenuto si costituisce all’udienza arbitrale (26). Dunque, il legislatore tedesco non si limita a prevedere
una preclusione processuale — l’impossibilità d’impugnare il lodo —, ma va
oltre, riconducendo alla costituzione un effetto sostanziale: la validità del
patto compromissorio fin dal momento in cui è stato concluso (27).
Cade acconcio qui il riferimento alla sentenza dalla quale questo scritto
trae spunto (Cass. 14 maggio 2014, n. 10463), ove il caso è risolto applicando
l’art. 15, comma 3, D.M. dell’Agricoltura, 1 luglio 2002, n. 743, a mente del
quale: « in difetto di preventiva accettazione espressa della clausola compromissoria da parte di AGEA, la nomina dell’arbitro da parte di AGEA, equivale
ad accettazione della stessa ». Per poco riflettere, la disposizione regolamentare produce un effetto sostanziale ben diverso dalla preclusione che risulta
dall’art. 817, comma 2, c.p.c.. Sicché, sarebbe stato forse più opportuno che la
Suprema Corte avesse rilevato il contrasto tra il Decreto e il requisito di forma
scritta richiesto per la validità del compromesso dall’art. 807 c.p.c..
Sia consentita una notazione a più ampio raggio. La tesi che si sostiene in
queste pagine sembra confermata anche dal dato positivo. Al di là della
disposizione che disciplina il requisito di forma del compromesso, che, seguendo l’orientamento qui sottoposto a esame critico, verrebbe di fatto
ignorata, v’è che il legislatore, in altra norma, per ottenere l’exequatur del
lodo, richiede quali formalità necessarie, oltre al deposito del lodo stesso, il
deposito dell’atto contenente la convenzione d’arbitrato (28). Il tenore lette(25) L’art. 829, comma 1, n. 1, c.p.c., disponendo che l’impugnazione per nullità è
ammessa « se la convenzione d’arbitrato è invalida, ferma la disposizione dell’art. 817, terzo
comma », e ponendo così esplicitamente la relazione tra norme, evita all’interprete di doverne
rintracciare l’elemento ad esse comune. All’esito del giudizio di comparazione, ci si avvede che
esse stanno in un rapporto di regola-eccezione. Alla fattispecie ‘se A, allora B’ della norma
regolare, si affianca quella ‘se A + a, allora c +d’; ove quest’ultima non dispone ulteriori effetti
rispetto alla prima, ma dispone altri effetti. Si vedano ancora le preziose notazioni di N. IRTI, op.
ult. cit., 57.
(26) Così il § 1031, comma 6, ZPO: « Der Mangel der Form wird durch die Einlassung auf
die schiedsgerichtliche Verhandlung zur Hauptsache geheilt ». Sul § 1031 del ZPO si vedano i
rilievi di R. CARLEO, La circolazione della clausola compromissoria, Torino, 1998, 5, n. 4.
(27) J. MÜNCH, in Münchener Kommentar zur Zivilprozessordnung, 3 ed., v. 3, sub § 1031,
München, 2008, 163, « Die Heilung hat dabei rückwirkende Kraft. Die Schiedsvereinbarung gilt
ex tunc als formgetreu vereinbart ». Lo stesso A. rileva trattarsi di una norma speciale
relativamente al requisito di forma richiesto per il patto compromissorio (p. 162). Cfr. anche P.
SCHLOSSER, in Stein, Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, 22 ed., v. 9, sub § 1031,
Tubingen, 2002, 430, il quale pure osserva che ad essere sanato è l’originario patto compromissorio (« geheilt wird die ursprünglich abgeschlossene Schiedsvereinbarung »).
(28) L’art. 825, c. 1, c.p.c. dispone: « La parte che intende fare eseguire il lodo nel territorio
399
rale della disposizione, ove è reso palese che il patto compromissorio deve
risultare da un atto, sarebbe superato accedendo alla teoria dei comportamenti concludenti. Inoltre, davanti a un dato letterale così preciso, parrebbe
ardito pensare che il tribunale dichiari esecutivo il lodo, mercé il deposito
delle nude nomine d’arbitri.
4.
Recupero del formalismo con riguardo alla conclusione del compromesso.
Escluso che in materia di arbitrato vi sia un addentellato normativo in
forza del quale il patto compromissorio possa dirsi concluso per la sussistenza
di fatti concludenti, e osservato che gli effetti della norma di cui all’art. 817,
comma 2, c.p.c. si dispiegano su di un piano processuale, rimane non scalfito
il principio in forza del quale la conclusione del compromesso va fatta per
iscritto sotto pena di nullità. Sembra possibile così andare oltre.
Non più il problema di capire quali forme può assumere il compromesso,
bensì quello di comprendere a quali condizioni la forma scritta può dirsi
rispettata per il compromesso.
Potrebbe dirsi rispettato il requisito di forma nel caso in cui risultasse nei
rispettivi atti di nomina, oltre a una determinazione minima dell’oggetto del
contendere (29), un patto compromissorio?
Hanno, in altre parole, le nomine d’arbitri un’importanza in quanto atti
nei quali è contenuta la scelta compromissoria? Si passa qui dal di fuori degli
atti al dentro gli atti. Se è consentito far propri i risultati della linguistica,
l’osservazione non cade più sulla significazione dei segnali (è “segnale” lo
scambio delle nomine), volgendosi, piuttosto, alla significazione dei segni che
compongono la dichiarazione (o, se si vuole, dei “simboli”) (30).
Al riguardo si offre un’utile osservazione: lo scambio delle proposte di
della Repubblica ne propone istanza depositando il lodo in originale, o in copia conforme,
insieme con l’atto contenente la convenzione di arbitrato, in originale o in copia conforme, nella
cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato. Il tribunale, accertata la
regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. Il lodo reso esecutivo è soggetto a
trascrizione o annotazione, in tutti i casi nei quali sarebbe soggetta a trascrizione o annotazione
la sentenza avente il medesimo contenuto ».
(29) Non sarebbe infatti possibile una nomina degli arbitri (a cui faccia séguito una
accettazione degli stessi) là dove la controversia sia nondum nata, cfr. Cfr. T. CARNACINI,
Arbitrato rituale, in Noviss. Dig. it., Torino, 1959, 889: « gli arbitri, quando accettano l’incarico
portando così l’ultima pietra al sorgere del procedimento, lo fanno sapendo già su che cosa sono
chiamati a decidere, salvo i successivi allargamenti del quid disputatum che siano concordati
dalle parti ed accettati, secondo noi, dagli arbitri ». Nel senso che la res in iudicium deducta vieti
la possibilità di estendere il giudizio, già S. SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano,
1931, 24.
(30) Sembra, anche tenuto conto delle indicazioni che vengono dai linguisti, più opportuno parlare di segno e non di simbolo. Così G. BENEDETTI, La funzione partecipativa, in Il diritto
comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli, 1991, 107.
Diversamente G. GIAMPICCOLO, Note sul comportamento concludente, cit., 781. L’illustre A.
distingue: « il simbolo evoca l’immagine ideale del fatto significato [..]; il segnale ne fornisce un
indizio [..] »; cfr. anche V. SCALISI, Manifestazione, cit., 509.
400
nomina d’arbitri avviene il più delle volte inter absentes, le parti non dialogano, ma, chiuse in imperscrutabili e separati contesti, scambiano atti. Da qui
la condotta formativa dell’accordo non potrebbe che esprimersi nelle modalità
e sequenze dello schema legale tipico: una proposta e una accettazione che i
contraenti reciprocamente s’indirizzano, attraverso lo scambio di separati documenti (31).
Ma quando una parte consegna il documento che contiene la nomina
d’arbitro sta anche rivolgendo all’altra parte una proposta o accettazione utile
a formare un nuovo accordo?
A questo interrogativo sembra potersi offrire una risposta procedendo a
una distinzione.
Si può dare, ed è una prima ipotesi, la circostanza in cui nell’atto vi sia la
mera nomina d’arbitro (accompagnata, s’intende, alla determinazione dell’oggetto del contendere). Si tratterà, in questo caso, al più di inferire dai segni
scritti che la compongono la conclusione di un negozio implicito (32). È
opportuno al riguardo chiedersi se sia rispettato il requisito di forma di un
negozio non dichiarato, quando la forma sia rivestita dal negozio dal quale se
ne deduce l’esistenza. Sembrerebbe, tuttavia, che i segni scritti potrebbero
lasciar inferire l’esistenza di un precedente negozio se — e in quanto —
segnali (33). Ma i segnali, per loro natura, non evocano una forma scritta, anzi,
conducono al suo superamento: ciò che rappresentano trascende la forma
(31) Non pare si possa giungere alla conclusione di un compromesso con uno dei
procedimenti di formazione del contratto disciplinati dagli artt. 1327 e 1333 c.c.. Con riferimento
al primo procedimento può dirsi, come è stato notato, che la proposta di stipulare un
compromesso non è di per sé in grado di generare l’attesa, nel proponente, di esecuzione della
prestazione; cfr. M. CONFORTINI, La clausola compromissoria, in Arbitrato. Profili di diritto
sostanziale e di diritto processuale, a cura di G. Alpa e V. Vigoriti, Torino, 2013, 687. Ad
escludere l’applicazione del procedimento di formazione del contratto di cui all’art. 1333 c.c.,
invece, v’è la considerazione che risulta davvero difficile configurare il compromesso come un
contratto con obbligazioni a carico del solo proponente. Sul punto si rinvia ad A. D’ANGELO, in
Trattato del contratto, v. I, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 18.
(32) Ora, è bene chiarire, questa ipotesi differisce da quella presa in considerazione nei
precedenti paragrafi. Non si punta l’osservazione sulla scambio degli atti che contengono le
nomine d’arbitri prescindendo, in buona parte, dal loro contenuto effettivo. Si entra negli atti
e, in particolare, si vagliano le dichiarazioni, e si pone problema di comprendere se, in forza di
esse, possa predicarsi l’esistenza implicita del patto compromissorio. Su ciò che è implicito nel
parlato si sofferma, da ultimo, R. SACCO, Il diritto muto. Neuroscienze, conoscenza tacita, valori
condivisi, Bologna, 2015, spec. 59.
La questione va tenuta distinta anche da quella dell’interpretazione giuridica (ex artt.
1362, ss., c.c.): a ben vedere qui non si tratta di dare un significato alle parole ma si tratta di
capire cosa le parole presuppongono. Parimenti il problema non pare coincidere neanche con
quello che riguarda l’interpretazione integrativa ex artt. 1374 e 1375 c.c., acutamente preso in
considerazione da G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, il quale,
al riguardo, conclude che « non si può configurare un problema di rapporti tra forma solenne e
interpretazione integrativa, nel senso, voglio dire, di una limitazione della seconda a causa della
prima » (p. 210).
(33) I segni non avrebbero più valenza in quanto destinati a far sapere direttamente, cfr.
G. BENEDETTI, La funzione partecipativa, cit., 120.
401
scritta (34). Se quanto detto trova condivisione, l’accordo compromissorio non
sarebbe predicabile movendo dal riscontro del fondersi di due dichiarazioni
che lo avrebbero soltanto quale presupposto implicito. In siffatta prospettiva,
va notato, proprio l’accordo rimarrebbe privo di quel vestimentum (la forma
scritta) necessario a farlo ritenere validamente concluso ex art. 807 c.p.c. (35).
Altra ipotesi sarebbe quella nella quale i documenti, che contenessero le
rispettive nomine d’arbitri, menzionassero esplicitamente l’intento di compromettere la lite (36). In questo caso, vien presto da dire, essi recherebbero due
distinte dichiarazioni: oltre a quelle volte alla costituzione del collegio, si
sommerebbero, con precedenza logica, quelle volte a compromettere la lite.
Verrebbe da notare che, in una prospettiva siffatta, il compromesso si concluderebbe regolarmente, ma sarebbe erroneamente riduttivo continuare a
parlare di atti di nomina d’arbitri. Vero, piuttosto, che i documenti scambiati
conterrebbero tanto l’atto di nomina d’arbitro, quanto l’atto col quale si
propone/accetta di compromettere la lite.
Per paradossale che possa sembrare, proprio la sentenza che per prima ha
enunciato il principio in forza del quale può dirsi validamente concluso un
compromesso con lo scambio di nomine d’arbitri (Cass. civ., 22 febbraio 2000,
n. 1989, cit.), invero, ha posto attenzione ai documenti contenenti le nomine
stesse, così affermando in un passaggio che segue l’analisi degli atti: « non di
mera designazione di arbitri si tratta, quindi, ma di esplicita manifestazione di
volontà contrattuale volta alla stipulazione del patto compromissorio ». Perché,
poi, anziché applicare la logica del caso concreto, si è enucleato un principio
più ampio, sarebbe destinato a rimanere un mistero. Non fosse che, dalla
sentenza stessa, sembra evincersi che la volontà compromissoria nella vicenda
oggetto di giudizio non era affatto così pacificamente dichiarata. E, allora,
quando la Suprema Corte ha detto che nel caso specifico non di mera nomina
d’arbitri si trattava, probabilmente altro non ha fatto che mostrare un brivido
problematico dinanzi alla massima che andava fermando.
(34) G. BENEDETTI, op. ult. cit., 125, il quale nota che i fatti si trovano in un’altra
dimensione rispetto alle parole.
(35) U. BRECCIA, in Trattato del contratto, v. I, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 673, il
quale nota che la forma, quando richiesta ad substantiam, deve rivestire le manifestazioni di
consenso, ossia l’accordo. Qui, dunque, anche l’insanabile antinomia tra fatto concludente per
desumere la conclusione di un contratto e requisito di forma richiesto per la validità del
contratto. Cfr. in giurisprudenza, ex multis, Cass. civ., sez. I, 26 ottobre 2009, n. 22616, in Mass.
Foro it., 2009, 1311; Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2008, n. 17550, in Mass. Foro it., 2008, 978; Cass.
civ., sez. III, 12 aprile 2006, n. 8621, in Mass. Foro it., 2006, 693.
(36) La questione, in questo caso, si sposterebbe su un piano interpretativo delle
rispettive dichiarazioni. Data la polisemia del testo, l’interprete la risolve cercando la comune
intenzione delle parti ex artt. 1362, ss., c.c.. Ma la comune intenzione delle parti non può far
andare l’interprete oltre il senso reso palese dalle parole. Con specifico riguardo alla clausola
compromissoria, l’argomento è ripreso da M. CONFORTINI, Clausola compromissoria: regole
“per” decidere e regole “del” decidere, in Obbl. cont., 2011, 567, il quale nota: « la comune
intenzione, lungi dal costituire il fine dell’attività di interpretazione del contratto ne è (necessario) strumento ».
402
Un’indagine statistica sull’impugnazione del lodo arbitrale
nazionale
LAURA BARISON
1.
Introduzione.
Le peculiarità dell’arbitrato, quale metodo alternativo di risoluzione
delle dispute, possono essere apprezzate solo alla luce dell’effettività dell’arbitrato stesso. Il potere, riconosciuto alle parti, di impugnare il lodo arbitrale
rappresenta un limite innegabile alla possibilità di rendere il lodo l’effettiva
risoluzione finale della controversia.
L’atteggiamento delle Corti d’Appello, competenti ad operare un controllo sul lodo rituale, nei confronti dell’impugnazione rappresenta un indicatore fondamentale nel delineare, a livello nazionale e a livello distrettuale,
il rapporto tra il sistema giurisdizionale italiano e il sistema arbitrale.
L’analisi oggettiva di significativi casi di impugnazione di lodo arbitrale
costituisce il principio di un’indagine statistica da cui trarre indicatori apprezzabili sopra l’impugnazione del lodo rituale.
II.
I dati a livello nazionale (1).
L’attività svolta dalle Corti d’Appello italiane, considerate nella loro
totalità, costituisce fondamento imprescindibile di un’indagine statistica finalizzata a delineare trend anche locali.
In premessa si impone una necessaria riflessione: le difficoltà pratiche
nell’individuare il numero totale di lodi arbitrali che, annualmente, si rendono
per la risoluzione delle controversie non può essere taciuta. Ciò nonostante, la
ricerca empirica svolta si presenta quale attendibile tratto nel delineare
l’approccio delle Corti d’Appello in tema di impugnazione di lodo a livello
nazionale.
(1) Dati estratti dal sistema DataWarehouse della Giustizia Civile (DWGC), Ministero
della Giustizia - Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi Direzione Generale di Statistica.
403
I dati aggregati per l’intero territorio nazionale, limitatamente al periodo
temporale 2010-2014, evidenziano, in riferimento a ciascun anno considerato:
1. il numero di impugnazioni iscritte;
2. il numero di impugnazioni definite;
3. il numero di impugnazioni pendenti;
4. la durata media, calcolata in giorni, del procedimento impugnatorio.
Secondo i dati raccolti, mediamente, per anno:
1. vengono impugnati 432 lodi nazionali;
2. vengono definite 431 impugnazioni;
3. risultano pendenti 1861 procedimenti di impugnazione;
4. la durata media del procedimento di impugnazione è di 1577 giorni.
Impugnazioni
iscritte
Impugnazioni
definite
Impugnazioni
pendenti
Durata media
in giorni
Anno
2010
Anno
2011
Anno
2012
Anno
2013
Anno
2014
475
447
372
450
414
Media
nazionale
432
347
450
431
512
415
431
1931
1934
1872
1828
1739
1861
1487
1484
1596
1684
1634
1577
In sintesi, l’impatto delle impugnazioni di lodo sull’amministrazione della
Giustizia risulta essere minimo specialmente considerando che, in base alla
Relazione del Primo Presidente relativa all’anno 2014, il numero di procedimenti complessivamente iscritti presso le Corti d’Appello è pari a 128.000 (2).
III.
I dati raccolti.
i. I criteri di analisi.
Questa indagine statistica sull’impugnazione del lodo individua i suoi
pilastri nel dato statistico rilevato a livello nazionale (ma) in combinazione
con il dato empirico appreso direttamente da quattro Corti d’Appello: Brescia, Genova, Milano e Torino.
I procedimenti di impugnazione rilevanti, decisi dalle Corti d’Appello
selezionate, sono stati individuati in applicazione di due criteri, l’uno di
carattere temporale e l’altro di carattere sostanziale. Sono stati, così, selezionati i procedimenti di impugnazione iscritti presso le quattro Corti d’Appello
nell’arco temporale 2007-1° semestre 2014 e decisi con sentenza di accoglimento, rigetto o inammissibilità ai sensi della disciplina introdotta con il
(2) Giorgio Santacroce, Corte Suprema di Cassazione, Relazione sull’amministrazione
della giustizia nell’anno 2014, pag. 48.
404
D.Lgs. 40/06. L’applicazione di tali criteri ha condotto all’individuazione di 99
casi rilevanti: di questi, 9 risultano decisi dalla Corte d’Appello di Brescia, 27
dalla Corte d’Appello di Genova, 47 dalla Corte d’Appello di Milano e 16
dalla Corte d’Appello di Torino.
ii. Le decisioni di accoglimento.
Il grado di accoglimento dell’impugnazione è, così, risultato pari al 4%.
In soli 4 casi la Corte d’Appello competente ha ritenuto meritevole di
accoglimento l’impugnazione proposta e si è trattato di decisioni adottate
soltanto dalle Corti di Genova e di Torino.
In relazione ai due casi di dichiarazioni di nullità del lodo adottate dalla
Corte d’Appello di Genova, sono stati dichiarati fondati i vizi denunciati,
rispettivamente, ai sensi del numero 2 e del numero 5 dell’art. 829.1 c.p.c. (con
specifico riferimento alla mancanza del requisito indicato dal numero 5
dell’art. 823 c.p.c.). Diversamente, i due casi di accoglimento registrati a
Torino hanno trovato fondamento nei vizi delineati dai numeri 1 e 4 dell’art.
829.1 c.p.c..
Corte
Corte
Corte
Corte
d’Appello
d’Appello
d’Appello
d’Appello
di
di
di
di
Brescia
Genova
Milano
Torino
Impugnazioni oggetto di studio
9
27
47
16
Impugnazioni accolte
0
2
0
2
iii. L’arbitrato ad hoc e l’arbitrato amministrato.
Tramite i dati raccolti è stato possibile evidenziare la contrapposizione tra
l’impugnazione di un lodo derivante da un procedimento arbitrale ad hoc e
l’impugnazione di un lodo derivante da un procedimento amministrato.
Solo 8 delle 99 impugnazioni selezionate riguardano l’impugnazione di un
lodo amministrato: in 1 caso risulta coinvolta la Camera Arbitrale di Bergamo,
in 1 caso la Camera Arbitrale di La Spezia, in 4 casi la Camera Arbitrale di
Milano e in 2 casi la Camera Arbitrale del Piemonte.
In relazione alla Camera Arbitrale di Bergamo, la percentuale di impugnazione del lodo derivante da un procedimento da questa amministrato è
pari al 4% mentre tale percentuale sale al 20% per quanto riguarda la Camera
Arbitrale di La Spezia. In relazione all’attività svolta dalla Camera Arbitrale
di Milano e dalla Camera Arbitrale del Piemonte è stato registrato rispettivamente nel periodo 2008-2012 un aumento del numero di procedimenti
amministrati. A tale aumento è, tuttavia, corrisposta una diminuzione della
percentuale di lodi oggetto di impugnazione: per quanto riguarda la Camera
Arbitrale di Milano si è passati da una percentuale del 2,8% all’1,8%; in
relazione all’attività svolta dalla Camera Arbitrale del Piemonte dal 3,7% al
2,6%. 2 di questi 8 procedimenti si sono conclusi con l’accoglimento dell’impugnazione proposta.
405
Impugnazioni di Camera Arbitrale Impugnazioni aclodo amministrato coinvolta
colte di lodo amministrato
Corte d’Appello di Brescia 1 (su 9 casi
Camera Arbitrale 0
analizzati)
di Bergamo
Corte d’Appello di Genova 1 (su 27 casi
Camera Arbitrale 1
analizzati)
di La Spezia
Corte d’Appello di Milano 4 (su 47 casi
Camera Arbitrale 0
analizzati)
di Milano
Corte d’Appello di Torino 2 (su 16 casi
Camera Arbitrale 1
analizzati)
del Piemonte
iv. La sospensione dell’efficacia e dell’esecutorietà del lodo.
I casi selezionati sono stati, altresì, analizzati in considerazione della
richiesta di parte di sospensione dell’efficacia e dell’esecutorietà del lodo, ex
art. 830 c.p.c..
In 15 casi i soggetti coinvolti nel procedimento impugnatorio hanno
presentato, alla relativa Corte d’Appello, tale richiesta. Scendendo nel dettaglio, in nessun caso la domanda è stata inoltrata alla Corte d’Appello di
Brescia; la richiesta di sospensione è stata invece presentata in 6 casi dinanzi
la Corte d’Appello di Genova; in 4 casi dinanzi la Corte d’Appello di Milano
ed in 5 casi dinanzi la Corte d’Appello di Torino. Solo 4 delle 15 richieste di
sospensione presentate sono state accolte dalla rispettiva Corte d’Appello; 3
di queste sono state adottate dalla Corte d’Appello di Genova e 1 dalla Corte
d’Appello di Milano.
Del tutto rilevante la decisione assunta, in ultima sede, dalla Corte
d’Appello nei casi di accoglimento della richiesta di sospensione presentata:
solo in 1 caso all’accoglimento della richiesta di sospensione ha fatto seguito
la dichiarazione di nullità del lodo.
Richieste di sospensione ex art.
830 c.p.c. presentate
Corte d’Appello di Brescia 0 (su 9 casi
analizzati)
Corte d’Appello di Genova 6 (su 27 casi
analizzati)
Corte d’Appello di Milano 4 (su 47 casi
analizzati)
Corte d’Appello di Torino 5 (su 16 casi
analizzati)
Richieste di so- Lodi sospesi ex
spensione ex art. art. 830 c.p.c. e di830 c.p.c. accolte chiarati nulli
0
0
3
1
1
0
0
0
v. La durata media dei procedimenti di impugnazione.
In relazione ai procedimenti selezionati, è stata anche considerata la
durata media dell’impugnazione del lodo; di seguito i dati relativi al periodo
2010-1° semestre 2014.
406
Durata del procedi- Distretto di Distretto di Distretto di Distretto di Media
mento espressa in Brescia
Genova
Milano
Torino
nazionale
giorni
Anno 2010
n. d.
990
1260
863
1487
Anno 2011
n. d.
1092
977
570
1484
Anno 2012
1410
1035
1142
698
1596
Anno 2013
1788
1320
1278
600
1684
1° semestre 2014
1060
1230
n. d.
930
n. d.
Durata media
1419
1133
1164
732
1563
I dati raccolti risultano sintomatici di una chiara efficienza che caratterizza l’attività delle Corti d’Appello selezionate: presso dette Corti, la durata
media dei procedimenti risulta inferiore rispetto alla durata media registrata
a livello nazionale. Tale constatazione conduce necessariamente ad attribuire
una maggiore durata ai procedimenti di impugnazione decisi dalle altre Corti
d’Appello italiane; in questa prospettiva, in ragione della sua centralità per
numero di impugnazioni decise, l’incidenza del risultato della Corte d’Appello
di Roma potrebbe intuitivamente riuscire fondamentale.
IV. Considerazioni conclusive.
i. Le Corti d’Appello espressione del fenomeno nazionale.
Ancorché temporalmente e geograficamente limitati, i dati raccolti, fotografando l’attività svolta dalle quattro Corti d’Appello selezionate, risultano
adeguatamente rappresentativi di quello che è il panorama nazionale. La
rilevanza dei dati si apprezza quale sintomatica delle dinamiche che coinvolgono più in generale l’impugnazione del lodo arbitrale poiché affonda nell’assoluta importanza delle sedi considerate.
In sostanza, qui è stato esaminato il 23% dei procedimenti di impugnazione di lodo arbitrale nazionale mediamente decisi a livello nazionale (3);
pertanto, la capacità rappresentativa del fenomeno nazionale risulta quantitativamente, oltre che qualitativamente, giustificata. Specificamente, l’attività
svolta dalla Corte d’Appello di Milano ricopre un ruolo preminente: tale
Corte definisce l’11% (4) dei procedimenti che annualmente, a livello nazionale, giungono a definizione. La percentuale scende al 2% (5) per la Corte
d’Appello di Brescia (unica di quelle censite a stare sotto la media distributiva
(3)
nazionale
(4)
(5)
Percentuale calcolata rapportando le 431 impugnazioni mediamente definite a livello
ai 99 casi oggetto di studio diretto.
47 delle 431 impugnazioni definite mediamente per anno a livello nazionale.
9 delle 431 impugnazioni definite mediamente per anno a livello nazionale.
407
che risale dai 26 distretti nazionali sui quali va spalmato l’ammontare delle
impugnazioni per anno); al 6,3% (6) per la Corte d’Appello di Genova e al
3,7% (7) per la Corte d’Appello di Torino.
ii. Il favor nei confronti del sistema arbitrale.
Le caratteristiche del rapporto tra il sistema giurisdizionale italiano e il
sistema arbitrale, possono essere delineate in ragione dell’effettivo esercizio
da parte delle Corti d’Appello del potere di dichiarare nullo il lodo, amministrato e non, e di sospenderne l’efficacia e l’esecutorietà nelle more del
procedimento.
Il favor nei confronti del sistema arbitrale non può essere negato, così
come la stabilità del lodo, intesa quale capacità del lodo di sopravvivere al
controllo effettuato da parte delle Corti d’Appello, è più facilmente individuabile — e quasi definibile quale caratteristica strutturale del lodo stesso —
laddove la decisione arbitrale venga adottata a seguito di un procedimento
amministrato. L’etero-direzione garantisce una maggiore stabilità del lodo e
un maggiore grado di accettazione del medesimo. La più bassa probabilità di
impugnazione trova, forse, una razionale motivazione nel controllo che anche
sul lodo, più o meno formalizzato che sia, viene effettuato da parte della stessa
Camera Arbitrale. Tale controllo, infatti, è svolto, in via di prassi, per quanto
riguarda la Camera Arbitrale di La Spezia e la Camera Arbitrale del Piemonte; in via formale, secondo le disposizioni regolamentari della Camera
Arbitrale di Bergamo (art. 21 del Regolamento Arbitrale in vigore dal 4
Luglio 2007) e della Camera Arbitrale di Milano (art. 34 del Regolamento
Arbitrale in vigore dal 1° Gennaio 2004, art. 30 Regolamento Arbitrale in
vigore dal 1° Gennaio 2010).
iii. La stabilità del lodo in termini di mancata sospensione ex art. 830
c.p.c..
Anche l’esercizio controllato, da parte della Corte d’Appello adita, del
potere di sospendere l’efficacia e l’esecutorietà del lodo rafforza la capacità
della decisione arbitrale di porsi quale risoluzione effettivamente finale della
controversia. Un’analisi combinata dei dati relativi alla durata del procedimento di impugnazione e alla dichiarazione di sospensione dell’efficacia e
dell’esecutorietà del lodo, in particolare, sottolinea come il giudice ordinario
italiano si ponga l’obiettivo di adottare una decisione sull’impugnazione con
rigore e ricercata cautela. Infatti, associando una facile dichiarazione di
sospensione dell’efficacia ed esecutorietà del lodo a una dilatata durata del
procedimento impugnatorio, il numero di impugnazioni di lodo potrebbe
crescere in modo ingiustificato. E tale situazione rappresenterebbe una circostanza del tutto favorevole nei confronti del soggetto appellante: l’impugnante
(6)
(7)
408
27 delle 431 impugnazioni definite mediamente per anno a livello nazionale.
16 delle 431 impugnazioni definite mediamente per anno a livello nazionale.
beneficerebbe degli effetti di una facile sospensione dell’efficacia ed esecutorietà del lodo per un lungo periodo di tempo. Invece, solo nel 26,7% dei casi
la richiesta di sospensione dell’efficacia ed esecutorietà del lodo risulta essere
stata accolta: è questo il meccanismo fondamentale che agisce da inibitore
della possibile inflazione di procedimenti di impugnazione di lodi rituali.
409
DOCUMENTI E NOTIZIE
Le nuove IBA Guidelines on Conflicts of Interest in International Arbitration.
Si pubblicano qui di seguito le Guidelines IBA sul conflitto di interessi
nell’arbitrato internazionale, nella nuova versione adottata con risoluzione
dell’IBA Council del 23 ottobre 2014, sulla base dei lavori di una nutrita ed
autorevole commissione di studio (la prima e precedente versione risaliva al
2004).
Introduction
1. Arbitrators and party representatives are often unsure about the scope
of their disclosure obligations. The growth of international business, including
larger corporate groups and international law firms, has generated more
disclosures and resulted in increased complexity in the analysis of disclosure
and conflict of interest issues. Parties have more opportunities, to use challengers of arbitrators to delay arbitrations, or to deny the opposing party the
arbitrator of its choice. Disclosure of any relationship, no matter how minor or
serious, may lead to unwarranted or frivolous challengers. At the same time,
it is important that more information be made available to the parties, so as
to protect awards against challengers based upon alleged failures to disclose,
and to promote a level playing field among parties and among counsel
engaged in international arbitration.
2. Parties, arbitrators, institutions and courts face complex decisions
about the information that arbitrators should disclose and the standards to
apply to disclosure. In addition, institutions and courts face difficult decisions
when an objection or a challenge is made after a disclosure. There is a tension
between, on the one hand, the parties’ right to disclosure of circumstances that
may call into question an arbitrator’s impartiality or independence in order to
protect the parties’ right to a fair hearing, and, on the other hand, the need to
avoid unnecessary challenges against arbitrators in order to protect the
parties’ ability to select arbitrators of their choosing.
3. It is in the interest of the international arbitration community that
arbitration proceedings are not hindered by ill-founded challenges against
411
arbitrators and that the legitimacy of the process is not affected by uncertainty
and a lack of uniformity in the applicable standards for disclosures, objections
and challenges. The 2004 Guidelines reflected the view that the standards
existing at the time lacked sufficient clarity and uniformity in their application.
The Guiderlines, therefore, set forth some ‘General Standards and Explanatory Notes on the Standards’. Moreover, in order to promote greater consistency and to avoid unnecessary challengers and arbitrator withdrawals and
removals, the Guiderlines list specific situations indicating whether they
warrant disclosure or disqualification of an arbitrator. Such lists, designated
‘Red’, ‘Orange’ and ‘Green’ (the ‘Applications Lists’), have been updated
and appear at the end of these revised Guiderlines.
4. The Guidelines reflect the understanding of the IBA Arbitration
Committee as to the best current international practice, firmly rooted in the
principles expressed in the General Standards below. The General Standards
and the Application Lists are based upon statutes and case law in a crosssection of jurisdictions, and upon the judgement and experience of practitioners involved in international arbitration. In reviewing the 2004 Guidelines
the IBA Arbitration Committee updated its analysis of the laws and practices
in a number of jurisdictions. The Guidelines seek to balance the various
interests of parties, representatives, arbitrators and arbitration institutions, all
of whom have a responsibility for ensuring the integrity, reputation and
efficiency of international arbitration. Both the 2004 Working Group and the
Subcommittee in 2012/2014 have sought and considered the views of leading
arbitration institutions, corporate counsel and other persons involved in
international arbitration through public consultations at IBA annual meetings,
and at meetings with arbitrators and practitioners. The comments received
were reviewed in detail and many were adopted. The IBA Arbitration
Committee is gratefull for the serious consideration given to its proposals by
so many institutions and individuals.
5. The Guidelines apply to international commercial arbitration and
investment arbitration, whether the representation of the parties is carried out
by lawyers or non-lawyers, and irrespective of whether or not non-legal
professionals serve as arbitrators.
6. These Guidelines are not legal provisions and do not override any
applicable national law or arbitral rules chosen by the parties. However, it is
hoped that, as was the for the 2004 Guidelines and other sets of rules and
guidelines of the IBA Arbitration Committee, the revised Guidelines will find
broad acceptance within the international arbitration community, and that
they will assist parties, practitioners, arbitrators, institutions and courts in
dealing with these important questions of impartiality and independence. The
IBA Arbitration Committee trusts that the Guidelines will be applied with
robust common sense and without unduly formalistic interpretation.
412
7. The Application Lists cover many of the varied situations that commonly arise in practice, but they do not purport to be exhaustive, nor could
they be. Nevertheless, the IBA Arbitration Committee is confident that the
Application Lists provide concrete guidance that is useful in applying the
General Standards. The IBA Arbitration Committee will continue to study
the actual use of the Guidelines with a view to furthering their improvement.
8. In 1987, the IBA published Rules of Ethics for International Arbitrators. Those Rules cover more topics than these Guidelines, and they remain in
effect as to subjects that are not discussed in the Guidelines. The Guidelines
supersede the Rules of Ethics as to the matters treated here.
Part I: General Standars Regarding Impartiality, Independence and Disclosure
(1) General Principle
Every arbitrator shall be impartial and independent of the parties at the
time of accepting an appointment to serve and shall remain so until the final
award has been rendered or the proceedings have otherwise finally terminated.
Explanation to General Standard 1:
A fundamental principle underlying these Guidelines is that each arbitrator must be impartial and independent of the parties at the time he or she
accepts an appointment to act as arbitrator, and must remain so during the
entire course of the arbitration proceeding, including the time period for the
correction or interpretation of a final award under the relevant rules, assuming
such time period is known or readily ascertainable.
The question has arisen as to whether this obligation should extend to the
period during which the award may be challenged before the relevant courts.
The decision taken is that this obligation should not extend in this manner,
unless the final award may be referred back to the original Arbitral Tribunal
under the relevant applicable law or relevant institutional rules. Thus, the
arbitrator’s obligation in this regard ends when the Arbitral Tribunal has
rendered the final award, and any correction or interpretation as may be
permitted under the relevant rules has been issued, or the time for seeking the
same has elapsed, the proceedings have been finally terminated (for example,
because of a settlement), or the arbitrator otherwise no longer has jurisdiction.
If, after setting aside or other proceedings, the dispute is referred back to the
same Arbitral Tribunal, a fresh round of disclosure and review of potential
conflicts of interests may be necessary.
(2) Conflicts of Interest
(a) An arbitrator shall decline to accept an appointment or, if the
413
arbitration has already been commenced, refuse to continue to act as an
arbitrator, if he or she has any doubt as to his or her ability to be impartial or
independent.
(b) The same principle applies if facts or circumstances exist, or have
arisen since the appointment, which, from the point of view of a reasonable
third person having knowledge of the relevant, facts and circumstances, would
give rise to justifiable doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence, unless the parties have accepted the arbitrator in accordance with the
requirements set out in General Standard 4.
(c) Doubts are justifiable if a reasonable third person, having knowledge
of the relevant facts and circumstances, would reach the conclusion that there
is a likelihood that the arbitrator may be influenced by factors other than the
merits of the case as presented by the parties in reaching his or her decision.
(d) Justifiable doubts necessarily exist as to the arbitrator’s impartiality or
independence in any of the situations described in the Non-Waivable Red
List.
Esplanation to General Standard 2:
(a) If the arbitrator has doubts as to his or her ability to be impartial and
independent, the arbitrator must decline the appointment. This standard
should apply regardless of the stage of the proceedings. This is a basic
principle that is spelled out in these Guidelines in order to avoid confusion
and to foster confidence in the arbitral process.
(b) In order for standards to be applied as consistently as possible, the
test for disqualification is an objective one. The wording ‘impartiality or
independence’ derives from the widely adopted Article 12 of the United
Nations Commission on International Trade Law(UNCITRAL) Model Law,
and the use of an appearance test based on justifiable doubts as to the
impartiality or independence of the arbitrator, as provided in Article 12 (2) of
the UNCITRAL Model Law, is to be applied objectively (a ‘reasonable third
person test’). Again, as described in the Explanation to General Standard
3(e), this standard applies regardless of the stage of the proceedings.
(c) Laws and rules that rely on the standard of justifiable doubts often do
not define that standard. This General Standard is intended to provide some
context for making this determination.
(d) The Non-Waivable Red List describes circumstances that necessarily
raise justifiable doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence. For
example, because no one is allowed to be his or her own judge, there cannot
be identity between an arbitrator and a party. The parties, therefore, cannot
waive the conflict of interest arising in such a situation.
414
(3) Disclosure by the Arbitrator
(a) If facts or circumstances exist that may, in the eyes of the parties, give
rise to doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence, the arbitrator shall disclose such facts or circumstances to the parties, the arbitration
institution or other appointing authority (if any, and if so required by the
applicable institutional rules) and the co-arbitrators, if any, prior to accepting
his or her appointment or, if thereafter, as soon as he or she learns of them.
(b) An advance declaration or waiver in relation to possible conflicts of
interest arising from facts and circumstances that may arise in the future does
not discharge the arbitrator’s ongoing duty of disclosure under General
Standard 3 (a).
(c) It follows from General Standards 1 and 2 (a) that an arbitrator who
has made a disclosure considers himself or herself to be impartial and
independent of the parties, despite the disclosed facts, and, therefore, capable
of performing his or her duties as arbitrator. Otherwise, he or she would have
declined the nomination or appointment at the outset, or resigned.
(d) Any doubt as to whether an arbitrator should disclose certain facts or
circumstances should be resolved in favour of disclosure.
(e) When considering whether facts or circumstances exist that should be
disclosed, the arbitrator shall not take into account whether the arbitration is
at the beginning or at a later stage.
Explanation to General Standard 3:
(a) The arbitrator’s duty to disclose under General Standard 3(a) rests on
the principle that the parties have an interest in being fully informed of any
facts or circumstances that may be relevant in their view. Accordingly,
General Standard 3(d) provides that any doubt as to whether certain facts or
circumstances should be disclosed should be resolved in favour of disclosure.
However, situations that, such as those set out in the Green List, could never
lead to disqualification under the objective test set out in General Standard 2,
need not be disclosed. As reflected in General Standard 3(c), a disclosure does
not imply that the disclosed facts are such as to disqualify the arbitrator under
General Standard 2. The duty of disclosure under General Standard 3(a) is
ongoing in nature.
(b) The IBA Arbitration Committee has considered the increasing use by
prospective arbitrators of declarations in respect of facts or circumstances that
may arise in the future, and the possible conflicts of interest that may result,
sometimes referred to as ‘advance waivers’. Such declarations do not discharge the arbitrator’s ongoing duty of disclosure under General Standard
3(a). The Guidelines, however, do not otherwise take a position as to the
415
validity and effect of advance declarations or waivers, because the validity and
effect of any advance declaration or waiver must be assessed in view of the
specific text of the advance declaration or waiver, the particular circumstances
at hand and the applicable law.
(c) A disclosure does not imply the existence of a conflict of interest. An
arbitrator who has made a disclosure to the parties considers himself or herself
to be impartial and independent of the parties, despite the disclosed facts, or
else he or she would have declined the nomination, or resigned. An arbitrator
making a disclosure thus feels capable of performing his or her duties. It is the
purpose of disclosure to allow the parties to judge whether they agree with the
evaluation of the arbitrator and, if they so wish, to explore the situation
further. It is hoped that the promulgation of this General Standard will
eliminate the misconception that disclosure itself implies doubts sufficient to
disqualify the arbitrator, or even creates a presumption in favour of disqualification.
Instead, any challenge should only be successful if an objective test, as set
forth in General Standard 2 above, Is met. Under Comment 5 of the Practical
Application of the General Standards, a failure to disclose certain facts and
circumstances that may, in the eyes of the parties, give rise to doubts as to the
arbitrator’s impartiality or independence, does not necessarily mean that a
conflict of interest exists, or that a disqualification should ensue.
(d) In determining which facts should be disclosed, an arbitrator should
take into account all circumstances known to him or her. If the arbitrator finds
that he or she should make a disclosure, but that professional secrecy rules or
other rules of practice or professional conduct prevent such disclosure, he or
she should not accept the appointment, or should resign.
(e) Disclosure or disqualification (as set out in General Standards 2 and
3) should not depend on the particular stage of the arbitration. In order to
determine whether the arbitrator should disclose, decline the appointment or
refuse to continue to act, the facts and circumstances alone are relevant, not
the current stage of the proceedings, or the consequences of the withdrawal.
As a practical matter, arbitration institutions may make a distinction depending on the stage of the arbitration. Courts may likewise apply different
standards. Nevertheless, no distinction is made by these Guidelines depending
on the stage of the arbitral proceedings. While there are practical concerns, if
an arbitrator must withdraw after the arbitration has commenced, a distinction
based on the stage of the arbitration would be inconsistent with the General
Standards.
(4) Waiver by the Parties
(a) If, within 30 days after the receipt of any disclosure by the arbitrator,
416
or after a party otherwise learns of facts or circumstances that could constitute
a potential conflict of interest for an arbitrator, a party does not raise an
express objection with regard to that arbitrator, subject to paragraphs (b) and
(c) of this General Standard, the party is deemed to have waived any potential
conflict of interest in respect of the arbitrator based on such facts or circumstances and may not raise any objection based on such facts or circumstances
at a later stage.
(b) However, if facts or circumstances exist as described in the NonWaivable Red List, any waiver by a party (including any declaration or
advance waiver, such as that contemplated in General Standard 3 (b), or any
agreement by the parties to have such a person serve as arbitrator, shall be
regarded as invalid.
(c) A person should not serve as an arbitrator when a conflict of interest,
such as those exemplified in the Waivable Red List, exists. Nevertheless, such
a person may accept appointment as arbitrator, or continue to act as an
arbitrator, if the following conditions are met:
(i) all parties, all arbitrators and the arbitration institution, or other
appointing authority (if any), have full knowledge of the conflict of interest;
and
(ii) all parties expressly agree that such a person may serve as arbitrator, despite the conflict of interest.
(d) An arbitrator may assist the parties in reaching a settlement of the
dispute, through conciliation, mediation or otherwise, at any stage of the
proceedings. However, before doing so, the arbitrator should receive an
express agreement by the parties that acting in such a manner shall not
disqualify the arbitrator from continuing to serve as arbitrator. Such express
agreement shall be considered to be an effective waiver of any potential
conflict of interest that may arise from the arbitrator’s participation in such a
process, or from information that the arbitrator may learn in the process. If
the assistance by the arbitrator does not lead to the final settlement of the
case, the parties remain bound by their waiver. However, consistent with
General Standard 2(a) and notwithstanding such agreement, the arbitrator
shall resign if, as a consequence of his or her involvement in the settlement
process, the arbitrator develops doubts as to his or her ability to remain
impartial or independent in the future course of the arbitration.
Explanation to General Standard 4:
(a) Under General Standard 4(a), a party is deemed to have waived any
potential conflict of interest, if such party has not raised an objection in respect
of such conflict of interest within 30 days. This time limit should run from the
date on which the party learns of the relevant facts or circumstances, including
through the disclosure process.
417
(b) General Standard 4 (b) serves to exclude from the scope of General
Standard 4(a) the facts and circumstances described in the Non-Waivable Red
List. Some arbitrators make declarations that seek waivers from the parties
with respect to facts or circumstances that may arise in the future.
Irrespective of any such waiver sought by the arbitrator, as provided in
General Standard 3 (b), facts and circumstances arising in the course of the
arbitration should be disclosed to the parties by virtue of the arbitrator’s
ongoing duty of disclosure.
(c) Notwithstanding a serious conflict of interest, such as those that are
described by way of example in the Waivable Red List, the parties may wish
to engage such a person as an arbitrator. Here, party autonomy and the desire
to have only impartial and independent arbitrators must be balanced. Person
with a serious conflict of interest, such as those that are described by way of
example in the Waivable Red List, may serve as arbitrators only if the parties
make fully informed, explicit waivers.
(d) The concept of the Arbitral Tribunal assisting the parties in reaching
a settlement of their dispute in the course of the arbitration proceedings is
well-established in some jurisdictions, but not in others. Informed consent by
the parties to such a process prior to its beginning should be regarded as an
effective waiver of a potential conflict of interest. Certain jurisdictions may
require such consent to be in writing and signed by the parties. Subject to any
requirements of applicable law, express consent may be sufficient and may be
given at a hearing and reflected in the minutes or transcript of the proceeding.
In addition, in order to avoid parties using an arbitrator as mediator as a
means of disqualifying the arbitrator, the General Standard makes clear that
the waiver should remain effective, if the mediation is unsuccessful. In giving
their express consent, the parties should realise the consequences of the
arbitrator assisting them in a settlement process, including the risk of the
resignation of the arbitrator.
(5) Scope
(a) These Guidelines apply equally to tribunal chairs, sole arbitrators and
co-arbitrators, howsoever appointed.
(b) Arbitral or administrative secretaries and assistants, to an individual
arbitrator or the Arbitral Tribunal, are bound by the same duty of independence and impartiality as arbitrators, and it is the responsibility of the Arbitral
Tribunal to ensure that such duty is respected at all stages of the arbitration.
Explanation to General Standard 5:
(a) Because each member of an Arbitral Tribunal has an obligation to be
418
impartial and independent, the General Standards do not distinguish between
sole arbitrators, tribunal chairs, party-appointed arbitrators or arbitrators
appointed by an institution.
(b) Some arbitration institutions require arbitral or administrative secretaries and assistants to sign a declaration of independence and impartiality.
Whether or not such a requirement exists, arbitral or administrative secretaries and assistants to the Arbitral Tribunal are bound by the same duty of
independence and impartiality (including the duty of disclosure) as arbitrators, and it is the responsibility of the Arbitral Tribunal to ensure that such
duty is respected at all stages of the arbitration. Furthermore, this duty applies
to arbitral or administrative secretaries and assistants to either the Arbitral
Tribunal or individual members of the Arbitral Tribunal.
(6) Relationships
(a) The arbitrator is in principle considered to bear the identity of his or
her law firm, but when considering the relevance of facts or circumstances to
determine whether a potential conflict of interest exists, or whether disclosure
should be made, the activities of an arbitrator’s law firm, if any, and the
relationship of the arbitrator with the law firm, should be considered in each
individual case. The fact that the activities of the arbitrator’s firm involve one
of the parties shall not necessarily constitute a source of such conflict, or a
reason for disclosure. Similarly, if one of the parties is a member of a group
with which the arbitrator’s firm has a relationship, such fact should be
considered in each individual case, but shall not necessarily constitute by itself
a source of a conflict of interest, or a reason for disclosure.
(b) If one of the parties is a legal entity, any legal or physical person
having a controlling influence on the legal entity, or a direct economic interest
in, or a duty to indemnify a party for, the award to be rendered in the
arbitration, may be considered to bear the identity of such party.
Explanation to General Standard 6:
(a) The growing size of law firms should be taken into account as part of
today’s reality in international arbitration. There is a need to balance the
interests of a party to appoint the arbitrator of its choice, who may be a
partner at a large law firm, and the importance of maintaining confidence in
the impartiality and independence of international arbitrators. The arbitrator
must, in principle, be considered to bear the identity of his or her law firm, but
the activities of the arbitrator’s firm should not automatically create a conflict
of interest. The relevance of the activities of the arbitrator’s firm, such as the
nature, timing and scope of the work by the law firm, and the relationship of
the arbitrator with the law firm, should be considered in each case. General
419
Standard 6 (a) uses the term ‘involve’ rather than ‘acting for’ because the
relevant connections with a party may include activities other than representation on a legal matter. Although barristers’ chambers should not be equated
with law firms for the purposes of conflicts, and no general standard is
proffered for barristers’ chambers, disclosure may be warranted in view of the
relationships among barristers, parties or counsel. When a party to an arbitration is a member of a group of companies, special questions regarding
conflicts of interest arise. Because individual corporate structure arrangements vary widely, a catch-all rule is not appropriate. Instead, the particular
circumstances of an affiliation with another entity within the same group of
companies, and the relationship of that entity with the arbitrator’s law firm,
should be considered in each individual case.
(b) When a party in international arbitration is a legal entity, other legal
and physical persons may have a controlling influence on this legal entity, or
a direct economic interest in, or a duty to indemnify a party for, the award to
be rendered in the arbitration. Each situation should be assessed individually,
and General Standard 6 (b) clarifies that such legal persons and individuals
may be considered effectively to be that party. Third-party funders and
insurers in relation to the dispute may have a direct economic interest in the
award, and as such may be considered to be the equivalent of the party. For
these purposes, the terms ‘third-party funder’ and ‘insurer’ refer to any person
or entity that is contributing funds, or other material support, to the prosecution or defence of the case and that has a direct economic interest in, or a duty
to indemnify a party for, the award to be rendered in the arbitration.
(7) Duty of the Parties and the Arbitrator
(a) A party shall inform an arbitrator, the Arbitral Tribunal, the other
parties and the arbitration institution or other appointing authority (if any) of
any relationship, direct or indirect, between the arbitrator and the party (or
another company of the same group of companies, or an individual having a
controlling incluence on the party in the arbitration), or between the arbitrator and any person or entity with a direct economic interest in, or a duty to
indemnifiy a party for, the award to be rendered in the arbitration. The party
shall do so its own initiative at the earliest opportunity.
(b) A party shall inform an arbitrator, the Arbitral Tribunal, the other
parties and the arbitration institution or other appointing authority (if any) of
the identity of its counsel appearing in the arbitration, as well as of any
relationship, including membership of the same barristers’ chambers, between
its counsel and the arbitrator. The party shall do so on its own initiative at the
earliest opportunity, and upon any change in its counsel team.
(c) In order to comply with General Standard 7 (a), a party shall perform
reasonable enquiries and provide any relevant information available to it.
420
(d) An arbitrator is under a duty to make reasonable enquiries to identify
conflict of interest, as well as any facts or circumstances that may reasonably
give rise to doubts as to his or her impartiality or independence.
Failure to disclose a conflict is not excused by lack of knowledge, if the
arbitrator does not perform such reasonable enquiries.
Explanation to General Standard 7:
(a) The parties are required to disclose any relationship with the arbitrator. Disclosure of such relationships should reduce the risk of an unmeritorious challenge of an arbitrator’s impartiality or independence based on information learned after the appointment. The parties’ duty of disclosure of any
relationship, direct or indirect, between the arbitrator and the party (or
another company of the same group of companies, or an individual having a
controlling influence on the party in the arbitration) has been extended to
relationships with persons or entities having a direct economic interest in the
award to be rendered in the arbitration, such as an entity providing funding for
the arbitration, or having a duty to indemnify a party for the award.
(b) Counsel appearing in the arbitration, namely the persons involved in
the representation of the parties in the arbitration, must be identified by the
parties at the earliest opportunity. A party’s duty to disclose the identity of
counsel appearing in the arbitration extends to all members of that party’s
counsel team and arises from the outset of the proceedings.
(c) In order to satisfy their duty of disclosure, the parties are required to
investigate any relevant information that is reasonably available to them. In
addition, any party to an arbitration is required, at the outset and on an
ongoing basis during the entirety of the proceedings, to make a reasonable
effort to ascertain and to disclose available information that, applying the
general standard, might affect the arbitrator’s impartiality or independence.
(d) In order to satisfy their duty of disclosure under the Guidelines,
arbitrators required to investigate any relevant information that is reasonably
available to them.
Part II: Pratical Application of the General Standards
1. If the Guidelines are to have an important practical influence, they
should address situations that are likely to occur in today’s arbitration practice
and should provide specific guidance to arbitrators, parties, institutions and
courts as to which situations do or do not constitute conflicts of interest, or
should or should not be disclosed. For this purpose the Guidelines categorise
situations that may occur in the following Application Lists. These lists cannot
cover every situation. In all cases, the General Standards should control the
outcome.
421
2. The Red List consists of two parts: ‘a Non-Waivable Red List’ (see
General Standards 2 (d) and 4(b); and ‘a Waivable Red List’ (see General
Standard 4 (c). These lists are non-exhaustive and detail specific situations
that, depending on the facts of a given case, give rise to justifiable doubts as
to the arbitrator’s impartiality and independence. That is, in these circumstances, an objective conflict of interest exists from the point of view of a
reasonable third person having knowledge of the relevant facts and circumstances (see General Standard 2(b). The Non-Waivable Red List includes
situations deriving from the overriding principle that no person can be his or
her own judge. Therefore, acceptance of such a situation cannot cure the
conflict. The Waivable Red List covers situations that are serious but not as
severe. Because of their seriousness, unlike circumstances described in the
Orange List, these situations should be considered waivable, but only if and
when the parties, being aware of the conflict of interest situation, expressly
state their willingness to have such a person act as arbitrator, as set forth in
General Standard 4 (c).
3. The Orange List is a non-exhaustive list of specific situations that,
depending on the facts of a given case, may, in the eyes of the parties, give rise
to doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence. The Orange List
thus reflects situations that would fall under General Standard 3 (a), with the
consequence that the arbitrator has a duty to disclose such situations. In all
these situations, the parties are deemed to have accepted the arbitrator if,
after disclosure, no timely objection is made, as established in General
Standard 4 (a).
4. Disclosure does not imply the existence of a conflict of interest; nor
should it by itself result either in a disqualification of the arbitrator, or in a
presumption regarding disqualification. The purpose of the disclosure is to
inform the parties of a situation that they may wish to explore further in order
to determine whether objectively — that is, from the point of view of a
reasonable third person having knozledge of the relevant facts and circumstances — there are justifiable doubts as to the arbitrator’s impartiality or
independence. If the conclusion is that there are no justifiable doubts, the
arbitrator can act. Apart from the situations covered by the Non-Waivable
Red Lit, he or she can also act if there is no timely objection by the parties or,
in situations covered by the Waivable by the parties in accordance with
General Standard 4 (c) If a party challenges the arbitrator, he or she can
nevertheless act, if the authority that rules on the challenge decides that the
challenge does not meet the objective test for disqualification.
5. A later challenge based on the fact that an arbitrator did not disclose
such facts or circumstances should not result automatically in non-appointment, later disqualification or a successful challenge to any award. Nondisclosure cannot by itself make an arbitrator partial or lacking independence: only
the facts or circumstances that he or she failed to disclose can do so.
422
6. Situations not listed in the Orange List or falling outside the time limits
used in some of the Orange List situations are generally not subject to
disclosure. However, an arbitrator needs to assess on a case-by-case basis
whether a given situation, even though not mentioned in the Orange List, is
nevertheless such as to give rise to justifiable doubts as to his or her impartiality or independence. Because the Orange List is a non-exhaustive list of
examples, there may be situations not mentioned, which depending on the
circumstances, may need to be disclosed by an arbitrator. Such may be the
case, for example, in the event of repeat past appointments by the same party
or the same counsel beyond the three-year period provided for in the Orange
List, or when an arbitrator concurrently acts as counsel in an unrelated case in
which similar issues of law are raised. Likewise, an appointment made by the
same party or the same counsel appearing before an arbitrator, while the case
in ongoing, may also have to be disclosed, depending on the circumstances.
While the Guidelines do not require disclosure of the fact that an arbitrator
concurrently serves, or has in the past served, on the same Arbitral Tribunal
with another member of the tribunal, or with one of the counsel in the current
proceedings, an arbitrator should assess on a case-by-case basis whether the
fact of having frequently served as counsel with, or as an arbitrator on,
Arbitral Tribunals with another member of the tribunal may create a perceived imbalance within the tribunal. If the conclusion is ‘yes’, the arbitrator
should consider a disclosure.
7. The Green List is a non-exhaustive list of specific situations where no
appearance and no actual conflict of interest exists from an objective point of
view. Thus, the arbitrator has no duty to disclose situations falling within the
Green List. As stated in the Explanation to General Standard 3 (a) there
should be a limit to disclosure, based on reasonableness; in some situations, an
objective test should prevail over the purely subjective test of ‘the eyes’ of the
parties.
8. The borderline between the categories that comprise the Lists can be
thin. It can be debated whether a certain situation should be on one List
instead of another. Also, the Lists contain, for various situations, general
terms such as ‘significant’ and ‘relevant’. The Lists reflect international
principles and best practices to the extent possible. Further definition of the
norms, which are to be interpreted reasonably in light of the facts and
circumstances in each case, would be counterproductive.
1. Non-Waivable Red List
1.1 There is an identity between a party and the arbitrator, or the
arbitrator is a legal representative or employee of an entity that is a party in
the arbitration.
423
1.2 The arbitrator is a manager, director or member of the supervisory
board, or has a controlling influence on one of the parties or an entity that has
a direct economic interest in the award to be rendered in the arbitration.
1.3 The arbitrator has a significant financial or personal interest in one of
the parties, or the outcome of the case.
1.4 The arbitrator or his or her firm regularly advises the party, or an
affiliate of the party, and the arbitrator or his or her firm derives significant
financial income therefrom.
2. Waivable Red List
2.1 Relationship of the arbitrator to the dispute
2.1.1 The arbitrator has given legal advice, or provided an expert opinion,
on the dispute to a party or an affiliate of one of the parties.
2.1.2 The arbitrator had a prior involvement in the dispute.
2.2. Arbitrator’s direct or indirect interest in the dispute
2.2.1 The arbitrator holds shares, either directly or indirectly, in one of
the parties, or an affiliate of one of the parties, this party or an affiliate being
privately held.
2.2.2 A close family member (1) of the arbitrator has a significant financial
interest in the outcome of the dispute.
2.2.3 The arbitrator, or a close family member of the arbitrator, has a
close relationship with a non-party who may be liable to recourse on the part
of the unsuccessful party in the dispute.
2.3 Arbitrator’s relationship with the parties or counsel
2.3.1 The arbitrator currently represents or advises one of the parties, or
an affiliate of one of the parties.
2.3.2 The arbitrator currently represents or advises the lawyer or law firm
acting as counsel for one of the parties.
2.3.3 The arbitrator is a lawyer in the same law firm as the counsel to one
of the parties.
(1) Throughout the Application Lists, the term ‘close family member’ refers to a: spouse,
sibling, child, parent or life partner, in addition to any other family member with whom a close
relationship exists.
424
2.3.4 The arbitrator is a manager, director or member of the supervisory
board, or has a controlling influence in an affiliate (2) of one of the parties, if
the affiliate is directly involved in the matters in dispute in the arbitration.
2.3.5 The arbitrator’s law firm had a previous but terminated involvement
in the case without the arbitrator being involved himself or herself.
2.3.6 The arbitrator’s law firm currently has a significant commercial
relationship with one of the parties, or an affiliate of one of the parties.
2.3.7 The arbitrator regularly advises one of the parties, or an affiliate of
one of the parties, but neither the arbitrator nor his or her firm derives a
significant financial income therefrom.
2.3.8 The arbitrator has a close family relationship with one of the parties,
or with a manager, director or member of the supervisory board, or any
person having a controlling influence in one of the parties, or an affiliate of
one of the parties, or with a counsel representing a party.
2.3.9 A close family member of the arbitrator has a significant financial or
personal interest in one of the parties, or an affiliate of one of the parties.
3. Orange List
3.1 Previous services for one of the parties or other involvement in the case
3.1.1 The arbitrator has, within the past three years, served as counsel for
one of the parties, or an affiliate of one of the parties, or has previously
advised or been consulted by the party, or an affiliate of the party, making the
appointment in an unrelated matter, but the arbitrator and the party, or the
affiliate of the party, have no ongoing relationship..
3.1.2 The arbitrator has, within the past three years, served as counsel
against one of the parties, or an affiliate of one of the parties, in an unrelated
matter.
3.1.3 The arbitrator has, within the past three years, been appointed as
arbitrator on two or more occasions by one of the parties, or an affiliate of one
of the parties (3).
(2) Throughout the Application Lists, the term ‘affiliate’ encompasses all companies in
a group of companies, including the parent company.
(3) It may be the practice in certain types of arbitration, such as maritime, sports or
commodities arbitration, to draw arbitrators from a smaller or specialized pool of individuals.
If in such fields it is the custom and practice for parties to frequently appoint the same arbitrator
in different cases, no disclosure of this fact is required, where all parties in the arbitration should
be familiar with such custom and practice.
425
3.1.4 The arbitrator’s law firm has, within the past three years, acted for
or against one of the parties, or an affiliate of one of the parties, in an
unrelated matter without the involvement of the arbitrator.
3.1.5 The arbitrator currently serves, or has served within the past three
years, as arbitrator in another arbitration involving one of the parties, or an
affiliate of one of the parties.
3.2 Current services for one of the parties
3.2.1 The arbitrator’s law firm is currently rendering services to one of the
parties, or to an affiliate of one of the parties, without creating a significant
commercial relationship for the law firm and without the involvement of the
arbitrator.
3.2.2 A law firm or other legal organization that shares significant fees or
other revenues with the arbitrator’s law firm renders services to one of the
parties, or an affiliate of one of the parties, before the Arbitral Tribunal.
3.2.3 The arbitrator or his or her firm represents a party, or an affiliate of
one of the parties to the arbitration, on a regular basis, but such representation
does not concern the current dispute.
3.3 Relationship between an arbitrator and another arbitrator or counsel
3.3.1 The arbitrator and another arbitrator are lawyers in the same law firm.
3.3.2 The arbitrator and another arbitrator, or the counsel for one of the
parties, are members of the same barrister’s chambers.
3.3.3 The arbitrator was , within the past three years, a partner of, or
otherwise affiliated with, another arbitrator or any of the counsel in the
arbitration.
3.3.4 A lawyer in the arbitrator’s law firm is an arbitrator in another
dispute involving the same party of parties, or an affiliate of one of the parties.
3.3.5 A close family member of the arbitrator is a partner or employee of
the law firm representing one of the parties, but is not assisting with the dispute.
3.3.6 A close personal friendship exists between an arbitrator and a
counsel of a party.
3.3.7 Enmity exists between an arbitrator and counsel appearing in the
arbitration.
3.3.8 The arbitrator has, within the past three years, been appointed on
more than three occasions by the same counsel, or the same law firm.
3.3.9 The arbitrator and another arbitrator, or counsel for one of the
parties in the arbitration, currently act or have acted together within the past
three years as cocounsel.
426
3.4 Relationship between arbitrator and party and others involved in the
arbitration
3.4.1 The arbitrator’s law firm is currently acting adversely to one of the
parties, or an affiliate of one of the parties.
3.4.2 The arbitrator has been associated with a party, or an affiliate of one
of the parties, in a professional capacity, such as a former employee or partner.
3.4.3 A close personal friendship exists between an arbitrator and a
manager or director or a member of the supervisory board of: a party; an
entity that has a direct economic interest in the award to be rendered in the
arbitration; or any person having a controlling influence, such as a controlling
shareholder interest, on one of the parties or an affiliate of one of the parties
or a witness or expert.
3.4.4 Enmity exists between an arbitrator and a manager or director or a
member of the supervisory board of: a party; an entity that has a direct
economic interest in the award; or any person having a controlling influence
in one of the parties or an affiliate of one of the parties or a witness or expert.
3.4.5 If the arbitrator is a former judge, he or she has, within the past
three years, heard a significant case involving one of the parties, or an affiliate
of one of the parties.
3.5. Other circumstances
3.5.1 The arbitrator holds shares, either directly or indirectly, that by reason
of number or denomination constitute a material holding in one of the parties,
or an affiliate of one of the parties, this party or affiliate being publicly listed.
3.5.2 The arbitrator has publicly advocated a position on the case,
whether in a published paper, or speech, or otherwise.
3.5.3 The arbitrator holds a position with the appointing authority with
respect to the dispute.
3.5.4 The arbitrator is a manager, director or member of the supervisory
board, or has a controlling influence on an affiliate of one of the parties, where
the affiliate is not directly involved in the matters in dispute in the arbitration.
4. Green List
4.1 Previously expressed legal opinions
4.1.1 The arbitrator has previously expressed a legal opinion (such as in
a law review article or public lecture) concerning an issue that also arises in
the arbitration (but this opinion is not focused on the case).
427
4.2 Current services for one of the parties
4.2.1 A firm, in association or in alliance with the arbitrator’s law firm, but
that does not share significant fees or other revenues with the arbitrator’s law
firm, renders services to one of the parties, or an affiliate of one of the parties,
in an unrelated matter.
4.3 Contacts with another arbitrator, or with counsel for one of the parties
4.3.1 The arbitrator has a relationship with another arbitrator, or with the
counsel for one of the parties, through membership in the same professional
association, or social or charitable organization, or through a social media
network.
4.3.2 The arbitrator and counsel for one of the parties have previously
served together as arbitrators.
4.3.3. The arbitrator teaches in the same faculty or school as another
arbitrator or counsel to one of the parties, or serves as an officer of a
professional association or social or charitable organization with another
arbitrator or counsel for one or the parties.
4.3.4 The arbitrator was a speaker, moderator or organizer in one or more
conferences, or participated in seminars or working parties of a professional,
social or charitable organization, with another arbitrator or counsel to the
parties.
4.4 Contacts between the arbitrator and one of the parties.
4.4.1 The arbitrator has had an initial contact with a party, or an affiliate
of a party (or their counsel) prior to appointment, if this contact is limited to
the arbitrator’s availability and qualifications to serve, or to the names of
possible candidates for a chairperson, and did not address the merits or
procedural aspects of the dispute, other than to provide the arbitrator with a
basic understanding of the case.
4.4.2 The arbitrator holds an insignificant amount of shares in one of the
parties, or an affiliate of one of the parties, which is publicly listed.
4.4.3 The arbitrator and a manager, director or member of the supervisory board, or any person having a controlling influence on one of the parties,
or an affiliate of one of the parties, have worked together as joint experts, or
in another professional capacity, including as arbitrators in the same case.
4.4.4 The arbitrator has a relationship with one of the parties or its
affiliates through a social media network.
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