Note e discussioni
L'Italia nella storiografia degli altri paesi
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
Maria Sophia Quine
L’interesse per l'Italia contemporanea ha una
lunga tradizione in Gran Bretagna: risale in­
fatti almeno alfinizio dell’Ottocento allorché
diplomatici, intellettuali e aristocratici bri­
tannici furono testimoni diretti del processo
risorgimentale e, simpatizzando con la lotta
nazionale, la descrissero in termini epici nei
loro scritti. Avendo imparato ad amare le
isole e la penisola grazie alle vacanze estive
e ai lunghi soggiorni, la classe media colta
britannica una volta in patria si dimostrò in­
teressata alle notizie su Cavour, su Garibaldi
e sui loro eroici tentativi di liberare la nazio­
ne. L’interesse per l’Italia era inoltre mante­
nuto vivo da resoconti giornalistici e racconti
di viaggio. Questo approccio emotivo ai ten­
tativi politici di uno stato-nazione emergente
fu sostituito, nel ventesimo secolo, dal rigo­
roso studio accademico della storia della
nuova Italia. Lo sguardo si volse alle cause
della debolezza dell'ordinamento liberale e
dell’origine del fascismo. Dopo la caduta
del fascismo, in particolare, lo studio dell’Ita­
lia contemporanea ha vissuto in Gran Breta­
gna un’epoca d’oro, che si è estesa grosso
modo dalla fine degli anni cinquanta agli an­
ni settanta. In questo periodo, lo studio del­
l’Italia contemporanea ha coinciso con la
carriera di alcuni storici insigni. Vecchi mae­
stri della storia dell’Italia contemporanea e
della storiografia, come Christopher SetonWatson, Denis Mack Smith e Adrian Lyttel­
ton, hanno raggiunto la fama pubblicando
opere importanti, insegnando la storia dell’I­
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
talia contemporanea a livello universitario e
incoraggiando giovani studiosi a continuare
la ricerca su argomenti specialistici. Quelli
fra noi che si sono accostati alla storia italia­
na negli anni ottanta hanno un profondo de­
bito di riconoscenza nei confronti di questi
studiosi che in un modo o nell’altro, indivi­
dualmente o collettivamente, hanno influito
sul nostro lavoro.
Con il ritiro dalla professione di alcune fi­
gure chiave come Christopher Seton-Watson
e Denis Mack Smith e con la partenza di altre
come Adrian Lyttelton e John Davis, lo stu­
dio dell’Italia contemporanea ha vissuto in
Gran Bretagna un periodo di incertezza. Stu­
diosi più giovani, che si erano dedicati alla ri­
cerca post-laurea negli anni ottanta, rimasero
senza guida, dato che nelle università britan­
niche non vi erano più centri importanti per
lo studio dell’argomento. Malgrado l’eccel­
lente lavoro svolto dall’Association for thè
Study of Modern Italy nei convegni che in
quest’ultimo decennio si sono svolti quasi
ogni anno, la mancanza di seminari a caden­
za settimanale come quelli che Christopher
Seton-Watson teneva un tempo all’Oriel Col­
lege di Oxford ha significato che gli studiosi
non hanno avuto alcuna occasione di contat­
ti regolari con i loro colleghi e di conseguenza
hanno dovuto portare avanti le loro ricerche
per lo più in solitudine. Il modo in cui viene
promossa la ricerca sull’Italia è l’insegna­
mento post-laurea nelle università. All’Uni­
versità di Oxford, Raymond Carr ha richia-
638
Maria Sophia Quine
mato una generazione dopo l’altra di giovani
studiosi della storia della Spagna che deside­
ravano lavorare sotto la sua supervisione e
alFUniversità di Londra Paul Preston ha og­
gi una nutrita schiera di laureati che, una vol­
ta completati gli studi per il conseguimento
del dottorato (Ph.D), troveranno lavoro in
varie università britanniche. Ma non essendo
rimasta alcuna figura guida sopra i quarant’anni in nessun dipartimento universitario
di storia del nostro paese, lo studio dell’Italia
contemporanea non è riuscito a tenere il pas­
so con quello della Spagna contemporanea.
La frammentazione della comunità degli stu­
diosi che lavoravano sull’Italia contempora­
nea negli anni ottanta ha impedito che, negli
anni novanta, emergessero tendenze storio­
grafiche dominanti. Verso la fine degli anni
settanta una generazione di giovani studiosi,
fra cui Anthony Cardoza, Paul Corner,
Frank Snowden e Alice Kelikian, hanno
svolto un’attività di ricerca che nel suo insie­
me costituisce un importante corpus di storia
italiana locale. Ma oggi né “scuole” di pen­
siero degne di nota, né una sola tematica o
un singolo indirizzo metodologico hanno da­
to forma o unità ai lavori pubblicati di recen­
te in Gran Bretagna. Per lo più, quelli pro­
dotti negli ultimi anni sono stati influenzati
dalle nuove interpretazioni fornite dai vari
ambiti della contemporanea storia sociale,
economica, politica e delle idee e dalle più re­
centi tendenze della ricerca in Italia. In que­
sto saggio verranno esaminate alcune delle
questioni poste negli ultimi studi pubblicati,
allo scopo di lumeggiare gli ambiti in cui gli
studiosi hanno fornito contributi e di indica­
re futuri percorsi di ricerca.
E opportuno iniziare la rassegna con una
breve disamina di Society and Politics in thè
Age o f thè Risorgimento: Essays in Honour
o f Denis Mack Smith, una raccolta di saggi
curata da John Davis e Paul Ginsborg1. Per
decenni Denis Mack Smith ha dominato gli
studi sull’Italia contemporanea in Gran Bre­
tagna. Le sue numerose opere di carattere
scientifico e quelle più divulgative su Cavour,
Garibaldi, Mussolini e la monarchia italiana
hanno influito sul modo in cui sia gli accade­
mici sia il vasto pubblico considerano l’Italia.
Gli autori dei contributi raccolti nel volume,
sebbene motivati dal desiderio di rendere
omaggio all’insigne storico, si mostrano tut­
tavia fortemente impegnati in un programma
di revisione critica che tenta di spostare l’at­
tenzione dai fondamentali interessi che han­
no improntato il lavoro di Mack Smith. Il vo­
lume illustra due tendenze emergenti nella
storiografia britannica, ma anche americana,
sull’Italia contemporanea, tendenze che a pa­
rere di chi scrive diventeranno ancora più vi­
sibili in futuro. La prima è costituita dall’evi­
dente spostamento dalla storia politica a
quella sociale: un solo saggio, quello di Derek Beales sulla visita di Garibaldi in Inghil­
terra nel 1864, concentra l’attenzione sulla
singola personalità storica, uno dei principali
ambiti di interesse di Mack Smith, e condivi­
de la sua attrazione per la sfera dell’alta poli­
tica. Tutti gli altri saggi cercano di esplorare
il tema del Risorgimento dal punto di vista
della storia sociale. Molti fra gli autori dei
contributi che compongono questa raccolta
si sono inoltre sforzati di liberare la storia ita­
liana dal suo precedente isolamento, collo­
cando gli eventi italiani in un più ampio qua­
dro comparativo. Ritengo che questo tentati­
vo di guardare oltre le evidenti “peculiarità”
dell’Italia e di collocare la storia della nazio­
ne in un contesto europeo porterà a interpre­
tazioni storiche più raffinate e sfumate. L’e­
same di un piccolo campione degli articoli
presentati in questo eccellente volume dimo­
stra la volontà degli autori di esplorare tema­
tiche proprie della nuova storia sociale delle
donne, dello stato sociale, della cultura e del-
John A. Davis, Paul Ginsborg (a cura di), Society and Politics in the Age of the Risorgimento. Essays in Honour of
Denis Mack Smith, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1991.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
la famiglia e ad aggiungere alla storia dell’I­
talia una dimensione comparativa della quale
si sentiva molto bisogno.
Society and Politics in thè Age o f thè Risor­
gimento contiene un saggio di Stuart Joseph
Woolf sui sussidi ai poveri durante il periodo
della Restaurazione. In esso viene approfon­
dito il paragone fra l’Italia e il resto del con­
tinente già svolto dall’autore in un preceden­
te lavoro2. Woolf spiega che, a causa dell’at­
tivo e secolare coinvolgimento della Chiesa
nelle opere di carità, gli stati dell'Italia setten­
trionale e centrale erano dotati di molte isti­
tuzioni deputate all’assistenza ai poveri. Nel
loro insieme queste istituzioni detenevano
vaste ricchezze, sottoposte al controllo della
Chiesa e in gran parte sottratte a quello delle
autorità di governo. Il controllo esercitato
dalla Chiesa sulle elemosine divenne oggetto
di attacchi sempre più frequenti da parte dei
riformatori, i quali intendevano sostituire le
opere di carità con un sistema di assistenza
razionale, scientifico e diretto dallo Stato. In­
fluenzati dai pensatori illuministi inglesi e
francesi, i riformatori italiani sostennero la
necessità di una regolamentazione pubblica
del sussidio ai poveri al fine di sradicare il
pauperismo mediante la restrizione dell’assi­
stenza ai più “meritevoli”. Il saggio di Woolf
mostra che l’Italia partecipava a una generale
tendenza europea, che prese seriamente avvio
nell’Ottocento, verso la modernizzazione del­
le opere di carità gestita dalla Chiesa e alla lo­
ro trasformazione in “pubblica assistenza” .
Esso mette inoltre in luce il paradosso per
cui il graduale emergere del moderno welfare
state ebbe come risultato la fine dell’umani­
tarismo cristiano e della pratica dell'elemosi­
na e il sorgere di un approccio alla pubblica
responsabilità verso i bisognosi mirato a dra­
stici risparmi, burocratizzato e pragmatico.
639
In un altro saggio, che spicca per l’ampiez­
za della prospettiva, Adrian Lyttelton s’im­
pegna nell’esame di un tema importante nella
storia dell’Italia contemporanea — il falli­
mento del liberalismo — considerando il ruo­
lo che la classe media del regno ebbe nella vi­
ta pubblica. Ispirati da storici come Silvio
Lanaro, recenti studi in Italia hanno inco­
minciato a focalizzare con più attenzione il
problema della cultura, dei valori, della poli­
tica della borghesia dopo l’unificazione. Lyt­
telton contribuisce a questo corpus crescente
di lavori significativi con un saggio in cui so­
stiene, in modo persuasivo e autorevole, che
il “senso di identità corporativa” delle classi
medie, la coscienza civica e la “capacità di
azione collettiva” erano considerevolmente
più deboli in Italia che non in Francia o in
Germania. Le classi medie non seppero forni­
re una leadership efficace allo stato-nazione
da poco unificato in parte perché la difformi­
tà nello sviluppo economico delle diverse re­
gioni impedi il sorgere di una “borghesia in­
dustriale nazionale”. Ma, fatto più rilevante,
le classi medie erano “viziate” , “apatiche”,
“con una mentalità da parrocchia” e “pro­
vinciali”, prive di qualsiasi senso del dovere
nei confronti dello stato e della nazione3. Il
loro malessere non fece che approfondirsi al­
lorché, dopo gli anni ottanta, aumentarono
moltissimo i rischi di disoccupazione nelle li­
bere professioni e nel pubblico impiego. È
possibile, ci riferisce l’autore, che più della
metà di tutti i nuovi medici non siano riusci­
ti a trovare un impiego adeguato nel primo
decennio del Novecento. Anche nelle altre
professioni i laureati incontrarono difficoltà
nell’assicurarsi una posizione. La borghesia
delle professioni languiva in uno stato carat­
terizzato dalla perenne sottoccupazione e
dallo spreco delle capacità acquisite, mentre
2 Stuart Joseph Woolf, The Poor in Western Europe in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, London and New York,
Methuen, 1986 (Porca miseria. Poveri e assistenza nell'età moderna, tr. di Paola Querci, Anna Woolf. Roma-Bari, Laterza, 1988).
3 Adrian Lyttleton, The Middle Classes in Libera! Italy, in Society and Politics in the Age of the Risorgimento, cit., pp. 230-232.
640
Maria Sophia Quine
i più urgenti problemi dell'Italia rimanevano
irrisolti.
Society and Politics in thè Age of thè Risor­
gimento contiene anche scritti di storici italia­
ni che mettono ulteriormente in rilievo l’im­
portanza della storia sociale nei nuovi pro­
getti di studio degli storici. In un testo sul
matrimonio e la famiglia in Italia all’inizio
del diciannovesimo secolo Marzio Barbagli
mette in discussione il mito, tuttora persi­
stente, secondo il quale la maggioranza della
popolazione in passato viveva in famiglie
multiple, allargate e comprendenti più gene­
razioni. Il lavoro arricchisce il corpus crescen­
te di ricerche svolte da storici della demogra­
fia italiani, britannici e americani4 impegnati
a verificare, mediante la diligente raccolta di
dati nelle località italiane, alcune delle nostre
predilette “ verità” riguardo alla famiglia.
Grazie a istituzioni come il Cambridge
Group for thè Study of Population e la Well­
come Foundation, possiamo aspettarci in fu­
turo una quantità sempre maggiore di lavori
sulla famiglia e su questioni demografiche.
Siamo però ancora in attesa, per quanto ri­
guarda la storia dell’Italia, di un lavoro im­
portante in lingua inglese sul mondo relativa­
mente sconosciuto del sesso, della sessualità e
del genere. Il volume presenta — ed è uno tra
i suoi meriti — i risultati di ricerche recenti fi­
nora in gran parte non disponibili in lingua
inglese. I lettori italiani non si sorprenderan­
no del fatto che la maggior parte dei testi di
riferimento in lingua inglese sulla storia eco­
nomica dell’Italia, come quelli di Shepard B.
Clough, John S. Cohen e altri, abbiano igno­
rato il ruolo delle donne neH’industrializzazione, nella modernizzazione e nello svilup­
po. Al di fuori della piccola comunità di stu­
diosi che in Gran Bretagna lavorano sull’Ita­
lia contemporanea, pochi saranno al corrente
del lavoro di Chiara Saraceno e di altri stu­
diosi che hanno riconosciuto la centralità
delle donne per lo studio della società e dell’e­
conomia italiane. Ma nel suo contributo a
Society and Politics in thè Age o f thè Risorgi­
mento Simonetta Ortaggi Cammarosano pre­
senta una panoramica meditata dei mutevoli
modelli e della natura complessa del lavoro
femminile nell’agricoltura e nell’industria a
partire dal Settecento. Viene esaminata la
grande varietà del lavoro femminile nei con­
testi urbani e rurali, al fine di sottolinearne
l’importanza nelle trasformazioni economi­
che. Le donne hanno contribuito al reddito
familiare, hanno fornito a capitalisti e pro­
prietari terrieri una “ riserva pressoché ine­
sauribile di lavoro a basso costo” e hanno at­
tutito “le ripercussioni sociali delle crisi indu­
striali”5. Un’altra area in crescita nella storia
dell’Italia contemporanea, al pari della storia
sociale delle donne e della famiglia, è la storia
sociale della medicina, anch’essa rappresen­
tata nel volume. Opportunamente i curatori
vi hanno incluso uno scritto di Franco Della
Peruta, in cui si sostiene che la principale
causa di morte dei soldati italiani durante il
periodo napoleonico furono le malattie, più
che la guerra. Questa raccolta di saggi riesce
a selezionare alcuni dei migliori esempi del
nuovo revisionismo in Italia e all’estero e a
rendere la storia sociale italiana accessibile
a tutti gli storici dell’Europa contemporanea:
un risultato non da poco.
Anche altre raccolte hanno diffuso l’inte­
resse per la storia dell’Italia contemporanea
e corretto lo squilibrio in direzione della tra­
dizionale storia politica che caratterizzava la
storiografia britannica sull’Italia. Gisela
Bock e Pat Thane, ad esempio, hanno recen­
temente pubblicato Maternity and Gender
Policies. Women and thè Rise o f thè European
4 Si veda ad esempio Piero Melograni (a cura di, con la collaborazione di Lucetta Scaraffia), La famiglia italiana dal­
l'Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1988; David 1. Kertzer, Richard P. Sailer (a cura di), The Family in Italy from
Antiquity to the Present, New Haven and London, Yale University Press, 1991.
Simonetta Ortaggi Cammarosano, Labouring Women in Northern and Central Italy in the Nineteenth Century, in So­
ciety and Politics in the Age of the Risorgimento, cit., p. 153.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
Welfare States, 1880s-1950s, un libro che as­
segna all’Italia un ruolo centrale nella costru­
zione del welfare state europeo6. Fino a poco
tempo fa, libri che si pretendevano di storia
“europea” avrebbero centrato l’attenzione
esclusivamente sulla Germania e sulla Fran­
cia, ignorando l’esperienza di paesi “minori”
come la Spagna e l’Italia. Persino ampie rico­
gnizioni di carattere economico o sociale sul­
la storia dell’Europa contemporanea che am­
bivano all’esaustività spesso omettevano
completamente ogni riferimento all’Italia.
Molti di questi lavori sono tuttora in uso co­
me testi di riferimento nell’insegnamento
universitario. Fortunatamente le curatrici di
Maternity and Gender Policies non hanno
commesso questo errore: il volume presenta
anzi lavori che esaminano l’impatto del mo­
vimento italiano delle donne sulla politica so­
ciale. I due testi sull’Italia compresi in questa
raccolta sono però opera di studiosi italiani,
il che non è necessariamente un male, ma in­
dica che importanti aree di ricerca nella sto­
ria d’Italia non vengono ancora esplorate da­
gli storici di lingua inglese. Nella fattispecie,
l’importantissimo tema del femminismo ita­
liano prima del 1945 è rimasto escluso dalla
gamma d’interessi della storiografia anglo­
americana7. Gli studi sulla formazione e sulle
diverse tipologie del femminismo britannico,
francese e tedesco sono numerosi, ma non c’è
neanche un libro in inglese sulla storia del
movimento italiano delle donne. La viva con­
sapevolezza di questi persistenti ritardi nella
641
nostra conoscenza della storia sociale dell'I­
talia contemporanea ha spinto alcuni storici,
me compresa, a svolgere una quantità cre­
scente di lavoro orientato secondo queste li­
nee di ricerca8.
In una prospettiva del tutto diversa, Denis
Mack Smith ha pubblicato di recente la sua
attesa biografia di Mazzini, che completa la
trilogia sui tre grandi artefici deH’unificazione italiana da lui iniziata più di trent’anni
fa9. Per quanto ci è dato prevedere questo
nuovo lavoro, al pari dei libri su Garibaldi
e Cavour, sarà la biografia definitiva di Maz­
zini. Si tratta in gran parte di una biografia
politica che esamina il processo dell’unifica­
zione italiana attraverso la vita di una singola
personalità. Vi è però una generazione più
giovane di studiosi che hanno scelto di esami­
nare il processo di unificazione nazionale sot­
to una diversa angolatura.
Steven C. Hughes fornisce una nuova, si­
gnificativa prospettiva sulla politica del Ri­
sorgimento in Crime, Disorder and thè Risor­
gimento. The Politics of Policing in Bologna,
un libro sulla polizia pontificia10. Anziché
guardare al Risorgimento come risultato del­
l’opera di personalità chiave, della diffusione
delle idee nazionali oppure delle ambizioni
dinastiche di Casa Savoia, Hughes accentua
l’importanza cruciale della mancata riforma
istituzionale per la comprensione delle cause
soggiacenti al crollo dell’Italia della Restau­
razione. Il libro di Hughes, che è uno studio
di storia locale, chiarisce alcune delle ragioni
6 Gisela Bock, Pat Thane (a cura di), Maternity and Gender Policies. Women and the Rise of the European Welfare Sta­
tes, 1880s-1950s, London and New York, Routledge, 1991.
7 La “nuova ondata” del femminismo italiano dagli anni settanta è stata recentemente esplorata in un’eccellente rac­
colta che mette per la prima volta a disposizione di un pubblico di lingua inglese alcuni documenti chiave (cfr. Paola
Bono, Sandra Kemp (a cura di), Italian Feminist Thought. A Reader, Oxford, Basii Blackwell, 1991).
8 Si veda il mio The Fascist Social Revolution. The Welfare State in Italy 1871-1945, Oxford, Oxford University Press, di
prossima pubblicazione, basato sulla mia tesi di dottorato “From Malthus to Mussolini. The Italian Eugenics Move­
ment and Fascist Population Policy 1890-1938”, University of London, 1990. Sto inoltre lavorando a una ricerca dal
titolo Social and Economie History of Fascist Italy che verrà pubblicata da Macmillan Press nel 1999.
9 Denis Mack Smith, Mazzini, New Haven London, Yale University Press, 1994 (Mazzini, tr. di Bettino Betti, Milano,
Rizzoli, 1993).
10 Steven C. Hughes, Crime, Disorder and the Risorgimento. The Politics of Policing in Bologna, Cambridge (England),
Cambridge University Press, 1994.
642
Maria Sophia Quine
per cui nella città e nella provincia di Bolo­
gna le élites finirono per aderire al progetto
piemontese di unificazione nazionale. Il libro
descrive i falliti tentativi del governo pontifi­
cio per mantenere e potenziare l’apparato
centralizzato di polizia introdotto dai france­
si durante il periodo napoleonico. L’autore
sostiene che la polizia funzionò non tanto co­
me “ strumento di controllo sociale” o di
“pubblica sicurezza”, quanto come un mezzo
per consolidare “l’assoluta autorità del Papa
sui suoi possedimenti temporali” 11. Se è vero
che la Francia ha introdotto in Italia impor­
tanti innovazioni istituzionali, come la prima
“moderna” forza di polizia, ha anche però la­
sciato in eredità un declino economico che ha
reso difficile ai regimi della Restaurazione
mantenere la legge e l’ordine. Hughes sostie­
ne che i Francesi diedero avvio nella città a
un processo di “deindustrializzazione” il cui
esito fu povertà diffusa e disoccupazione tra
gli artigiani. Agli effetti deleteri della deca­
denza urbana si aggiunse una crisi nelle cam­
pagne , allorché la vendita delle terre imposta
dai francesi determinò un’ulteriore concen­
trazione della proprietà e impoverì notevol­
mente i contadini. La cospirazione politica
attrasse reclute in una società che appariva
a molti del tutto incapace di affrontare effica­
cemente l’aumento della criminalità di strada
ad opera di torme di mendicanti e di briganti.
Hughes dimostra che la pretesa di potere
assoluto da parte del papato contrastava
con l’incapacità del regime di esercitare un ef­
ficace controllo poliziesco. Nel corso di un
ventennio contrassegnato dalla totale man­
canza di una riforma del sistema centralizza­
to di polizia, l’amministrazione pontificia fu
ripetutamente costretta a cedere la responsa­
bilità dell’ordine pubblico alle élites bologne­
si, che nel 1828 e nel 1846 si armarono come
“pattuglie civiche” di “vigilantes” . La diffu­
sa percezione di uno stato di illegalità e di
anarchia non fece che rafforzare l’opposizio­
ne all’inerzia burocratica e aH’immobilismo
istituzionale che caratterizzavano l’Italia del­
la Restaurazione. Dopo che l’apparato di
pubblica sicurezza registrò un nuovo, com­
pleto fiasco nel 1848, un papato sempre più
reazionario si dimostrò a sua volta incapace
di realizzare quella necessaria modernizza­
zione delle istituzioni che avrebbe potuto
contenere il diffondersi del malcontento e
permettere al governo di evitare il collasso.
Il libro di Hughes, basato su ampie ricerche
d’archivio, fornisce solide prove empiriche
che suffragano quanto sostiene John Davis
nel suo studio di carattere più generale1112, e
cioè che l’Italia postnapoleonica fu investita
da una profonda crisi sociale ed economica
che portò i notabili del regno a rivoltarsi con­
tro gli obsoleti regimi assolutisti della Re­
staurazione. Il libro getta poi luce su quelli
che Adrian Lyttelton ha definito “ i limiti
del liberalismo” 13. Come Hughes dimostra
con competenza, le élites italiane furono at­
tratte da una concezione liberale che promet­
teva di salvaguardare la proprietà privata e
l’ordine pubblico, anche a spese della demo­
crazia e delle libertà politiche.
Il libro di Hughes sposta inoltre l’attenzio­
ne dai tradizionali nodi della storia del Risor­
gimento — la diplomazia e la guerra14 — alla
questione delle riforme istituzionali negli sta-
11 Steven C. Hughes, Crime, Disorder and the Risorgimento, cit., p. 12.
J. A. Davis, Conflict and Control. Law and Order in Nineteenth Century Italy, Houndmills, Basingstoke, Macmillan
Education, 1988 (Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell'800, tr. di Giampaolo Garavaglia, Milano, Angeli,
1989).
13 Adrian Lyttelton, Landlords, Peasants and the Limits of Liberalism, in J. Davis (a cura di), Gramsci and Italy’s Pas­
sive Revolution, London, Croom Helm, 1979, pp. 104-135.
1-1 Si veda per esempio S. Woolf, A History of Italy 1700-1860. The Social Constraints of Political Change, London and
New York, Routledge, 1991 (prima edizione 1979) e Frank J. Coppa, The Origins of the Italian Wars of Independence,
London, Longman, 1992.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
ti preunitari. Il testo accresce la conoscenza
che già possediamo di argomenti analoghi,
quali la natura del governo austriaco nel
Lombardo-Veneto. Altri studiosi che lavora­
no in questo campo, come Lucy Riall e David
Laven, entrambi appartenenti a università
britanniche, si sono uniti ai colleghi italiani,
americani e tedeschi attivamente impegnati
nella revisione storiografica del Risorgimen­
to. Il loro lavoro collettivo porterà a una
più approfondita comprensione degli ele­
menti di continuità e delle dinamiche del
cambiamento nella storia italiana a partire
dall’ancien régime e favorirà il diffondersi di
un nuovo approccio che tenta di integrare
storia economica, storia sociale, storia della
cultura e storia politica.
Nei prossimi anni saranno senza dubbio
pubblicate altre reinterpretazioni del Risorgi­
mento, ma la storiografia britannica sull’Ita­
lia è all’avanguardia anche nell’esplorazione
di temi di storia italiana completamente
inediti. The Political Economy o f Shopkee­
ping in Milan, 1866-1922 di Jonathan Morris,
ad esempio, è il primo studio sulla piccola
borghesia in Italia mai apparso in lingua ita­
liana o inglese1". È singolare che nessuno stu­
dioso dell’Italia contemporanea abbia sinora
scritto la storia dello strato inferiore del ceto
medio tradizionale, visto che a questo strato
sociale, come l’autore stesso spiega, i marxisti
hanno addossato una quantità di colpe poli­
tiche, fra cui conservatorismo sociale, avver­
sione per la modernità, invidia di classe, odio
nei confronti del proletariato, autoritarismo
e appoggio al fascismo. A partire dagli anni
venti, la sinistra ha sostenuto che questi sog­
getti “perdenti” nel gioco del moderno capi­
talismo industriale sono stati volentieri com­
plici nella distruzione, perpertrata dal fasci­
smo, dell’eroica classe operaia. Fino agli anni
settanta, tuttavia, non è stato fatto alcun ten­
tativo di esaminare la “vecchia” classe media15
643
dei negozianti e degli artigiani e gli studi pub­
blicati sull’argomento hanno focalizzato l’at­
tenzione esclusivamente sulla piccola borghe­
sia francese e tedesca. Morris tenta di correg­
gere questo squilibrio in un lavoro il cui pun­
to di forza è la ricchezza di dettagli sull’eco­
nomia del piccolo commercio nel milanese a
partire dagli anni ottanta.
L’autore raggiunge i risultati migliori quan­
do descrive l’organizzazione economica e la
geografia del settore della vendita al minuto
a Milano. Molta attenzione è dedicata all’ana­
lisi delle attività e dell’interazione dei vari stra­
ti che costituivano questo gruppo diversifica­
to: droghieri, macellai, proprietari di alberghi,
ristoratori, venditori di sale, tabaccai, parruc­
chieri e altri. Viene inoltre presentata una
grande quantità di informazioni statistiche di
supporto, attinte da censimenti e da altre fon­
ti, che gettano luce sulle caratteristiche sociali
e le fortune economiche dei commercianti al
dettaglio. Il tema della rottura del tradizionale
stretto rapporto fra negoziante e cliente è trat­
tato in un’ottica attenta all’impatto distrutti­
vo della modernità sulle comunità, sulle iden­
tità e sui legami di fedeltà consolidati. Poiché
l’ondata della trasformazione economica si
muoveva in una direzione a loro avversa, nel
corso degli anni ottanta vari gruppi di nego­
zianti incominciarono ad organizzarsi per
proteggere i propri interessi. In capo al 1888
queste differenti associazioni si erano organiz­
zate nella Federazione generale dei negozianti
milanesi, una libera unione nata allo scopo di
premere sul governo per ottenere concessioni
in materia fiscale, di creare un senso di solida­
rietà collettiva e di distruggere le cooperative
di consumatori che minacciavano l’esistenza
dei negozianti . Durante il lungo periodo di
forte recessione nel commercio al dettaglio
che si verificò fra il 1889 e il 1897, questo mo­
vimento ampiamente radicato fece il suo in­
gresso nell’arena della politica comunale.
15 Jonathan Morris, The Political Economy of Shopkeeping in Milan 1886-1922, Cambridge (England), Cambridge Uni­
versity Press, 1993.
644
Maria Sophia Quine
Morris spiega che, mentre durante gli anni ot­
tanta il movimento si alleò con le forze demo­
cratiche della sinistra, nel 1905 appariva spo­
stato verso il centro, anzi verso la sua ala de­
stra. Con l’allargamento del diritto di voto
nel 1912 e il conseguente successo dei socialisti
nelle elezioni locali, nel programma politico
degli esercenti comparvero un antisocialismo
e un antisindacalismo militanti a carattere di­
fensivo. Dato che il movimento socialista mi­
rava all’abolizione dell’impresa e del commer­
cio privati, nell’Italia giolittiana non era possi­
bile alcuna alleanza fra negozianti e operai.
Ma la piccola borghesia costituiva per
questo una forza politica di destra in Italia,
come hanno a lungo sostenuto i marxisti?
Morris non fornisce risposte conclusive a
questa domanda cruciale. Egli non riesce a
rendere i suoi personaggi storici autentica­
mente umani e ce li mostra unicamente come
agenti in cicli economici, che reagiscono mec­
canicamente alle fluttuazioni dei prezzi o ai
cambiamenti nelle proprie fortune. Ad essere
giusti, questo limite può essere in parte spie­
gato con la scarsità di fonti adeguate. In alcu­
ni passaggi del testo, Morris solleva in effetti
il problema della limitatezza dei dati a dispo­
sizione, accennando per esempio al fatto di
non aver potuto quantificare con precisione
l’entità del crescente disagio economico pati­
to dai negozianti durante il periodo liberale
non essendo disponibili i documenti dei tri­
bunali fallimentari. D’altra parte però egli
non riesce sempre a interrogare in modo pe­
netrante il materiale da lui pure raccolto.
La sua disamina delle mutevoli simpatie poli­
tiche degli esercenti sembra confermare la
vecchia interpretazione marxista secondo
cui la condotta politica di questa classe era
determinata unicamente da meschini interes­
si economici. Ma il libro non ci mette in gra­
do di prendere posizione al riguardo, in
quanto non restituisce il senso dell’impegno16
ideologico o sociale dei piccoli borghesi: la
loro vita quotidiana, l’organizzazione dome­
stica, le loro angosce circa la propria condi­
zione, i timori per il futuro, lo stile di vita e
altri elementi della loro esistenza che certo
ne hanno plasmato gli atteggiamenti e in­
fluenzato il comportamento non vengono
esplorati. Riguardo poi al rapporto fra il fa­
scismo e il ceto degli esercenti, l’argomenta­
zione dell’autore è particolarmente debole.
Morris insiste sulla tesi secondo la quale do­
po la prima guerra mondiale i negozianti era­
no “ scontenti” della destra radicale quanto
lo erano stati della sinistra rivoluzionaria.
Ma in un capitolo finale, che avrebbe dovuto
essere più ampio, non presenta alcuna prova
empirica a sostegno di questa curiosa conclu­
sione, né trae completamente alla luce le im­
plicazioni teoriche dell’esauriente ricerca
condotta. Nella conclusione, non ritorna sul­
le questioni teoriche sollevate nell’introdu­
zione sicché la sua posizione nel dibattito de­
gli anni settanta sul Mittelstand resta inespli­
citata. Sembrava che i negozianti avessero in­
cominciato, a partire dagli anni ottanta, una
ininterrotta marcia verso la destra, ma poi
l’autore sostiene che per tutto il periodo da
lui indagato essi hanno goduto di una note­
vole autonomia politica rispetto a tutti i par­
titi. Sarà compito di altri studiosi, partendo
dall’enorme lavoro già svolto da Morris a
proposito di Milano, dare inizio a ulteiori ri­
cerche storiche sulle classi medie italiane.
Altri studiosi hanno rivolto la loro atten­
zione alla decisiva, ma almeno in Gran Breta­
gna relativamente poco esplorata, età giolit­
tiana. Douglas J. Forsyth ha recentemente
pubblicato un libro che stimola gli studiosi
a ripensare le cause del crollo della democra­
zia liberale in Italia dopo la prima guerra
mondiale. The Crisis o f Liberal Italy. Monetary and Financial Policy'6 si chiede perché i
governi di coalizione (sostenuti da liberali,
16 Douglas J. Forsyth, The Crisis of Liberal Italy. Monetary and Financial Policy 1914-1922, Cambridge (England),
Cambridge University Press, 1993.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
democratici e Partito popolare) che si avvi­
cendarono dopo la guerra furono incapaci
di continuare la tradizione del riformismo de­
mocratico ideato e gestito da Giolitti negli
anni 1901-1914. La tesi di Forsyth è che la vi­
sione giolittiana di un governo nazionale al­
largato e illuminato poggiava su fondamenta
economiche e fmaziarie alquanto precarie. Il
grande riformatore liberale riuscì nella sua
“grande strategia” a condurre Fltalia nel
ventesimo secolo dispiegando sagacia politi­
ca e sottigliezza nel conciliare finalità appa­
rentemente incompatibili. Giolitti cercò di
accelerare lo sviluppo industriale mediante
un attivo intervento pubblico nell’economia,
di favorire un miglioramento del tenore di vi­
ta per mezzo di riforme sociali che garantisse­
ro alle masse rappresentanza sindacale e nuo­
vi diritti previdenziali e di allargare la base
politica dello stato nazione trasformando il
suffragio ristretto in suffragio universale ma­
schile e cercando di coinvolgere socialisti e
cattolici in un blocco di potere parlamentare
dominato dai liberali.
Secondo l’autore, questo ambizioso tenta­
tivo di modernizzazione e di democratizza­
zione fallì a causa dell’ambizione politica
dei governanti italiani. Giovanni Giolitti e
i suoi seguaci rimasero legati all’obiettivo ot­
tocentesco di trasformare il regno da poco
unificato da potenza imperialistica ed euro­
pea di trascurabile rilievo ad attore di primo
piano nelle questioni mondiali. La spinta
verso l’affermazione internazionale e la po-1
645
tenza imperialistica rese la politica interna
subordinata agli imperativi di una politica
estera espansionista e vincolò la politica eco­
nomica al perseguimento di interessi strate­
gici e militari17.
Il fatto che l’industrializzazione italiana
presentasse alcune debolezze di fondo perché
lo stato poco saviamente aveva favorito lo
sviluppo dell’industria pesante legata agli ar­
mamenti, e cioè l’industria del ferro e dell’ac­
ciaio, della cantieristica e della produzione di
materiali bellici in un paese privo di depositi
di carbone trasformabile in coke, è una tesi
ben nota. A partire dai primi anni sessanta
Alexander Gerschenkron, Rostow e coloro
che ne seguirono le orme hanno esaminato
l’apparentemente “distorto” processo di svi­
luppo industriale ed economico nell’Italia
contemporanea. Recentemente, ad esempio,
Giovanni Federico e Gianni Toniolo hanno
pubblicato un breve riesame della strategia
e dei risultati dell’economia italiana durante
gli anni cruciali che vanno dal 1881 al
191418. Questo ed altri lavori19 hanno sotto­
posto all’attenzione del pubblico di lingua in­
glese le idee che sottendono le più significati­
ve ricerche recentemente svolte dagli studiosi
italiani di storia economica. Forsyth insiste
sul fatto che il nazionalismo economico, o il
“germanesimo” economico come qualcuno
lo ha definito, essendo basato sull’eccessiva
protezione che lo Stato e il sistema bancario
accordavano a industrie chiave mediante ta­
riffe protezionistiche, contratti, sussidi e ope-
1' In Industrial Imperialista in Italy 1908-1915, Berkeley, University of California Press, 1975 (L ’imperialismo industriale
italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo, tr. di Mariangela Chiabrando, Torino, Einaudi, 1974), Richard A. Webster
sottolinea il convergere di politica economica e politica estera dopo il 1907 allorché gli imprenditori, organizzati in una
potente lobby, iniziarono a condizionare un sistema parlamentare che andava degenerando. La crisi cronica del capi­
talismo industriale italiano, in particolare la tendenza alla sovrapproduzione nel settore strategico, trovò secondo Web­
ster il suo logico sbocco nel perseguimento di un’aggressiva politica imperialistica. Forsyth d’altra parte sostiene che la
politica estera era prioritaria rispetto alla politica economica e nell’Ottocento determinò il corso dell’industrializzazio­
ne. Nel mettere a fuoco, sebbene da angolature differenti, le debolezze dell’Italia liberale, entrambi gli studiosi sottoli­
neano tuttavia le cause istituzionali e a lungo termine del collasso della democrazia che sarebbe avvenuto alcuni decenni
dopo nel periodo fra le due guerre.
18 Giovanni Federico, Gianni Toniolo, Italy, in Richard Sylla, Gianni Toniolo (a cura di), Patterns of European
Industrialization: thè Nineteenth Century, London, Routledge, 1992, pp. 197-218.
19 Si veda ad es. G. Toniolo, Storia economica dell'Italia liberale 1850-1918, Bologna, Il Mulino, 1988.
646
Maria Sophia Quine
razioni di salvataggio, ebbe come risultato la
formazione di un’economia squilibrata e di­
pendente che non poteva dar luogo a quella
prosperità continua dalla quale dipendeva
l’esito favorevole del progetto riformatore
dei liberali.
L’autore fonda questa tesi su un’indagine
della politica economica e finanziaria dell’età
giolittiana. Il costante attivo nel bilancio del­
lo Stato negli anni dal 1899 al 1909, risultato
dei livelli di crescita senza precedenti realiz­
zatisi durante il grande “balzo” industriale
degli anni 1896-1906 — rese possibile un’a­
zione di governo coraggiosa e il riformismo
democratico. Ma dietro la facciata del boom
economico e dell’innovazione politica, l’Ita­
lia di Giolitti era tormentata da problemi ir­
risolti che, rimasti tali anche nell’era postbel­
lica, avrebbero costituito ostacoli insormon­
tabili per la sopravvivenza del parlamentari­
smo liberale. Le principali debolezze del si­
stema economico dell’Italia prebellica erano
la mancata riforma fiscale e bancaria, oltre
al persistente deficit nella bilancia dei paga­
menti. Misure fiscali e politiche economiche
venivano decise a livello nazionale, e proprio
le aree in cui più stretta era l’interconnessione
fra azione di governo, affari e interessi finan­
ziari vengono esaminate da Forsyth in pro­
fondità. Molta attenzione è dedicata agli ef­
fetti nocivi che l’introduzione di un sistema
bancario di tipo tedesco in Italia negli anni
novanta ebbe sulle prospettive di stabilità fi­
nanziaria della nazione. Attingendo dalla ri­
cerche di Franco Bonelli e Antonio Confalonieri, Forsyth sostiene che, se è vero che isti­
tuzioni di deposito come la Banca Commer­
ciale e il Credito Italiano hanno promosso
l’industrializzazione, hanno però realizzato
tale risultato perseguendo una strategia di
investimenti ad alto rischio che sacrificava
la stabilità a lungo termine a favore di rapidi
profitti. Le banche puntellarono l’industria
non competitiva, legarono le proprie fortune
a quelle dei loro clienti e resero l’intero siste­
ma finanziario e industriale altamente vulne­
rabile alle minime fluttuazioni di mercato.
Secondo l'autore, la crisi finanziaria del
1907 portò alla luce i limiti dell’impresa gio­
littiana annunziando una nuova epoca di
sviluppo economico lento e il ritorno a una
politica governativa strangolata dai forti de­
ficit di bilancio. Il 1907, cosi sembra suggeri­
re Forsyth, segnò la vera conclusione dell’esperimento liberale volto a costruire la de­
mocrazia assicurandone le fondamenta eco­
nomiche.
L’Italia continuò a percorrere il disastroso
cammino verso la totale rovina economica e
finanziaria che infine culminò nel collasso
del parlamentarismo liberale. Secondo l’au­
tore, l’incapacità in materia finanziaria era
cosi radicata fra i politici al potere che l’Italia
non riusci neanche a negoziare condizioni fa­
vorevoli per il suo ingresso nel primo conflit­
to mondiale. Prevedendone erroneamente
una rapida conclusione, le autorità ottennero
dalla Gran Bretagna e dall’America prestiti
relativamente esigui a condizioni particolar­
mente gravose. Anziché limitare la spesa
pubblica mediante un’assennata pianificazio­
ne, il governo italiano si dimostrò per l’intera
durata delle ostilità sorprendentemente inca­
pace di dirigere con efficienza la politica fi­
nanziaria ed economica. Le autorità cercaro­
no di utilizzare la guerra come mezzo per au­
mentare le capacità produttive dell’industria
nazionale e perciò erano riluttanti all’idea
di regolamentare il settore privato mediante
controlli sui prezzi e sugli investimenti. Di
conseguenza, la mobilitazione procedette in
modo frammentario e caotico e i grandi affa­
risti, avidi di sfruttare l’incompetenza del go­
verno a proprio vantaggio, si diedero a inve­
stimenti e speculazioni frenetiche senza pen­
sare al futuro. Quando il governo nel 1915
decise di imporre forti tasse sui profitti di
guerra, non lo fece in base a un piano presta­
bilito. Gli industriali non ebbero difficoltà a
scaricare nuovamente i costi sullo Stato au­
mentando i prezzi dei manufatti venduti al
personale governativo preposto all’approvvi­
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
gionamento delle armi e delle munizioni. Di
conseguenza, l’enorme aumento della spesa
pubblica durante la guerra era compensato
solo in parte dall’incremento delle entrate
fornito dalle tasse.
Secondo Forsyth, questa difficile situazio­
ne non fece che peggiorare durante il dopo­
guerra, quando l’Italia, stretta nella morsa
di agitazioni politiche e inquietudini sociali,
necessitava di una leadership efficace per su­
perare la crisi che sarebbe poi culminata nella
conquista del potere da parte dei fascisti.
L’autore descrive nel dettaglio come la cessa­
zione degli aiuti economici americani e bri­
tannici sotto forma di crediti nell’ultimo tri­
mestre del 1919, unita alle paralizzanti perdi­
te nel settore commerciale legate alla guerra e
a una profonda recessione dopo il 1920, ab­
bia provocato un’ulteriore ascesa della spesa
pubblica malgrado la smobilitazione e limita­
to la capacità del governo di ricostruire l’eco­
nomia. L’aspetto di gran lunga più contro­
verso della trattazione della crisi del liberali­
smo condotta da Forsyth è il tentativo di di­
mostrare 1’esistenza di un legame causale di­
retto fra politica economica e finanziaria e
collasso politico negli anni che vanno dal
1918 al 1922.
Lo studioso basa la sua tesi su numerose
recenti ricerche che esaminano le crisi banca­
rie, l’andamento sfavorevole della bilancia
dei pagamenti e i deficit di bilancio che erano
al centro delle preoccupazioni dei leader po­
litici del dopoguerra. Forsyth dedica scarsa
attenzione a Orlando, ma si concentra parti­
colarmente sulle figure di Nitti e di Giolitti e
mette utilmente a confronto il modo in cui
questi statisti così diversi fra loro gestirono
la crisi del dopoguerra. Egli sostiene che Nitti
fu effettivamente estromesso dal potere nel
giugno del 1920 a causa della sua incapacità
di procurarsi i prestiti stranieri e di controlla­
re la finanza pubblica quando l’Italia fu col­
pita dai peggiori effetti della recessione inter­
nazionale. Mettendo in atto una politica di
austerità e di tagli nelle spese statali, Giolitti
647
fece qualche progresso verso la stabilizzazio­
ne finanziaria necessaria per dare all’econo­
mia solide basi. Propose però consistenti ri­
forme fiscali che turbarono la comunità degli
uomini d’affari, la quale ne favorì la caduta.
Secondo il nostro autore, la prolungata crisi
bancaria limitò l’efficacia delle ultime due
amministrazioni italiane democraticamente
elette e contribui in modo decisivo al crollo
del governo liberale. Forsyth esamina a fon­
do il modo in cui la riorganizzazione della
produzione dell’acciaio e delle costruzioni
meccaniche attraverso i nuovi compiti affida­
ti all’Ilva, la gestione della crisi dell’Ansaldo
e il crollo della Banca italiana di sconto mi­
narono il ministero Bonomi e conclude soste­
nendo che anche Facta fu prigioniero dell’in­
gente debito pubblico, di mercati finanziari
sfavorevoli, di un’industria pesante e di un si­
stema bancario oppressi dalla crisi. Anch’egli
si dimostrò incapace di mantenere la promes­
sa del riformismo dell’anteguerra varando un
programma di lavori pubblici e di ricostru­
zione economica che a parere dell’autore
avrebbe potuto fornire al governo liberale il
sostegno di quell’ampia base sociale di cui
aveva bisogno per evitare il collasso.
I critici imputeranno a Forsyth di oscillare
fra la tesi secondo cui l’economia, in quanto
insieme di fattori fra altri, incise profonda­
mente sull’esito della crisi politica e sociale
postbellica, e quella secondo cui le scelte eco­
nomiche, concepite come fattori determinan­
ti, furono le cause vere e proprie del crollo
della democrazia italiana. Ma la forza del
suo approccio sta nell’accurata ricerca che
getta nuova luce sulla situazione economica
dell’Italia liberale. La sua disamina dell’in­
differenza dei governi e dei banchieri in Gran
Bretagna e in America di fronte alle richieste
italiane di prestiti per favorire la ripresa del
dopoguerra pone ad esempio questioni im­
portanti su ciò che sarebbe potuto accadere
se lo Stato italiano fosse stato meglio in gra­
do di dirigere la ricostruzione economica.
Istruttiva è poi la sua analisi della codardia
648
Maria Sophia Quine
delle amministrazioni liberali di fronte alla
necessità di riforme fiscali che, se attuate,
avrebbero potuto alienare loro gli elettori
della classe media. Il suo elogio della legisla­
zione fiscale socialmente regressiva del primo
governo di Mussolini suona a volte curioso,
ma la sottolineatura del fallimento del libera­
lismo nell’assicurarsi la sopravvivenza crean­
do una burocrazia, un governo e un sistema
di finanza pubblica efficienti è comunque as­
sai significativa.
Il lavoro di Forsyth dovrebbe essere consi­
derato nel contesto delle nuove ricerche che
tentano di ripensare le questioni centrali del­
la storia dell’Italia contemporanea. Utiliz­
zando una metodologia di stampo weberiano, l’autore esamina la natura dello Stato li­
berale valutando il modo in cui esso disimpe­
gno una delle sue funzioni principali, vale a
dire l’organizzazione e l’intervento nell’eco­
nomia. Il libro concentra l’attenzione sulle
insufficienze strutturali e istituzionali di lun­
go periodo che impedirono la riuscita del
processo di modernizzazione e di democratiz­
zazione. Come l’autore riconosce apertamen­
te, il suo studio dell’interazione fra politica
ed economia al livello del governo centrale
non piacerà a coloro che, conducendo la ri­
cerca in ambito provinciale, preferiscono lo­
calizzare le cause primarie del crollo del libe­
ralismo in quella mobilitazione fascista nelle
campagne che precedette l’assalto allo stato
ad opera del Pnf. Il libro è comunque un utile
contributo alle numerose ricerche che defini­
scono la crisi del dopoguerra principalmente
come una lotta fra partiti politici vinta dai fa­
scisti, e riesce a esserlo in quanto evita la de­
finizione alquanto ristretta di politica che li­
mita molta storiografia britannica allo studio
delle relazioni diplomatiche e della distribu­
zione del potere in parlamento. John A. Da­
vis ha recentemente sostenuto che i nuovi la­
vori di storici italiani che cercano di riconsi­
derare il tema della transizione italiana alla
modernità non hanno prodotto alcun “con­
senso attorno a un’ipotesi revisionista” 20.
Analogamente, il massimo che si possa dire
delle recenti ricerche di studiosi di lingua in­
glese è che sollevano nuove domande su pro­
blemi vecchi.
Altri studi recenti creeranno certo più po­
lemiche che consensi. Benché esuli dagli stret­
ti limiti di questo saggio, il lavoro di Zeev
Sternhell non può essere escluso, perché ha
già esercitato un influsso sugli studiosi bri­
tannici dell'Italia. Quando fu pubblicata per
la prima volta, la sua ricerca sulle origini
del fascismo in Francia fece montare su tutte
le furie gli altri esperti del settore e, in una ce­
lebre causa legale che provocò l’ultima appa­
rizione in pubblico di Raymond Aron prima
della morte, condusse a un procedimento le­
gale nei confronti dell’autore21. Le ragioni
erano evidenti. Nella visione di Sternhell, la
definizione del fascismo si riduce a una for­
mula di ingannevole semplicità, ma assai pro­
vocatoria: “nazionalismo + socialismo = fa­
scismo” . L’audacia di Sternhell consiste nel
vedere il fascismo come un prodotto della
tradizione rivoluzionaria socialista, un’inter­
pretazione inaccettabile per molti storici le
cui incrollabili convinzioni politiche e scienti­
fiche portano a una sola conclusione, e cioè
che il fascismo è stato un fenomeno esclusivamente di destra, reazionario e controrivolu­
zionario. Sternhell urta anche la sensibilità
degli empiristi irriducibili, in quanto sembra
adottare un approccio antistorico e determi-
20 J.A. Davis, Remapping Italy’s Path to the Twentieth Century, “Journal of Modern History”, 1994, n. 66, pp. 291-320.
21 Zeev Sternhell, La Droite révolutionnaire. Les Origines françaises du Fascisme, Paris, Editions du Seuil, 1978 e Ni
droite, Ni gauche. L'idéologie fasciste en France, Paris, Editions du Seuil, 1983. Si vedano inoltre A. Costa Pinto, Fascist
Ideology Revisited: Zeev Sternhell and His Critics, “European History Quarterly”, 1986, n. 16, pp. 465-483 e Robert J.
Soucy, French Fascism and the Croix de Feu. A Dissenting Interpretation, “Journal of Contemporary History”, 1991, n.
26, pp. 159-188.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
nistico nelle sue analisi delle radici intellet­
tuali del fascismo. Quando usa termini cari­
chi di significati come “proto-fascista” (di­
rettamente preso a prestito dagli ormai de­
funti dibattiti dei politologi negli anni sessan­
ta e settanta) per descrivere il pensiero sociale
precedente il 1918 e sostiene che il fascismo
esisteva già prima che venissero inventati la
parola per designarlo o il movimento stesso,
suscita una comprensibile, fiera opposizione
da parte dei suoi colleghi22.
Il suo più recente lavoro scritto in collaborazione con altri inizia ad esempio con l’ardi­
ta affermazione secondo la quale “prima di
diventare una forza politica, il fascismo è sta­
to un fenomeno culturale”23. Sternhell, come
Ernst Nolte, Eugen Weber e altri prima di lui,
rintraccia le origini del fascismo nelle crisi so­
ciali, culturali e politiche del tardo Ottocen­
to. Benché Lyttelton abbia una volta osserva­
to che il fascismo è figlio della prima guerra
mondiale e non della Rivoluzione francese
o del secolo della borghesia, altri studiosi
hanno scelto di concentrare l’attenzione sulla
lunga durata24. La vecchia teoria del Sonderweg e il dibattito sulla continuità storica han­
no dimostrato per la Germania che studiosi
come Mosse e Stern, i quali sono andati in
cerca degli antenati intellettuali del fascismo,
hanno spesso scoperto che quanto sulle pri­
me era considerato come pensiero peculiar­
mente “fascista” aveva in buona parte dei
precedenti storici. Sternhell ribadisce che
pensatori politici francesi, soprattutto Geor­
ges Sorel, giocarono un ruolo importante
nello sviluppo di una dottrina che faceva de­
gli eroi, del mito, dell’azione, della teatralità,
649
della propaganda, del rituale e della violenza
gli elementi costitutivi di una specie inusitata
e innovativa di moderna politica. Il suo lavo­
ro prende a oggetto gli anni novanta, visti co­
me il decennio in cui venne costruita un’al­
leanza fra quello che egli definisce un sociali­
smo “non marxista” , “antimarxista” o già
“post marxista” e un nazionalismo di tipo
militante e violento. Il nazionalismo che cre­
sceva nell’ambito di questo revisionismo so­
cialista non era naturalmente l’eroico pa­
triottismo del 1789 o del 1848. Era semmai
il nazionalismo nato dalFamara delusione
nei confronti delle realizzazioni della società
borghese nell’Ottocento, il nazionalismo che
generava disprezzo per le istituzioni della de­
mocrazia parlamentare così come per gli
ideali di giustizia, fraternità ed eguaglianza.
Nei primi decenni del Novecento, i futuri
componenti delle truppe d’assalto fasciste
stavano già reclutando proseliti fra la gente
attratta da una nuova ideologia che nel suo
programma proponeva valori sociali presi a
prestito dalla sinistra e obiettivi politici mu­
tuati dalla destra.
Comunque si valutino i meriti del lavoro di
Sternhell e dei suoi colleghi, si deve dire che
egli ha reso un grande servizio alla comunità
accademica interessata allo studio del fasci­
smo. Era dagli ultimi anni sessanta e dai pri­
mi anni settanta che nell’accademia britanni­
ca e in quella americana non si assisteva a di­
battiti accesi e a discussioni ininterrotte sulla
natura del fascismo come “categoria genera­
le” . Da allora sono state pubblicate alcune
ottime monografie, ma sembrava oramai fi­
nito il tempo delle grandi nuove teorie del fa-
22 Z. Sternhell, Strands of French Fascism, in Stein Ugelvik Larsen, Bernt Hagtvet, Jan Petter Myklebust (a cura di),
Who were the Fascists. Social Roots of European Fascism, Bergen-Oslo, Universitetsforlaget, 1980. p. 479. L’autore cosi
prosegue: “In Francia il reale, autentico fascismo nacque sempre da sinistra, mai da destra. Questo vale per il protofa­
scismo e resta vero per il periodo fra le due guerre” (p. 486). Per una visione opposta, si veda R. Soucy, French Fascism.
The First Wave 1924-1933, New Haven and London, Yale University Press, 1986.
23 Z. Sternhell, Mario Sznajder, Maia Asheri, Naissance de /'idéologie fasciste, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1989
(Nascita dell’ideologia fascista, tr. di Gianluca Mori, Milano, Baldini & Castoldi, 1993).
24 A. Lyttelton, Italian Fascism, in Walter Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide, Aldershot, Scholar Press,
1991 (prima edizione 1976), pp. 125-150.
650
Maria Sophia Quine
seismo, quelle che spingevano seguaci e critici
a riempire le riviste specialistiche di pagine
ricche di appassionanti repliche e argomenta­
zioni a difesa. Il compianto Tim Mason,
autore di quello che va certamente considera­
to come uno degli articoli di più ampia porta­
ta e più teoricamente densi mai scritti sul fa­
scismo25, pubblicò addirittura, nel 1988, uno
dei suoi ultimi testi in cui sembrava ritrattare
alcune delle sue precedenti dichiarazioni cir­
ca la possibilità di paragonare fra loro i di­
versi movimenti fascisti e sollecitava gli stu­
diosi ad abbandonare le ossessioni teoriche
e a scrivere storie del fascismo nelle singole
nazioni26. Ma alcuni recenti sviluppi nella
storiografia britannica indicano ora una ri­
nascita delfinteresse per i modelli e i costrutti
teorici finalizzati a spiegare la complessità e
l’eterogeneità del fascismo.
Alexander De Grand ha recentemente
pubblicato un breve studio che mette a con­
fronto le dittature fasciste in Italia e in Ger­
mania27. Questo lavoro non incontrerà il fa­
vore di coloro che credono nell’assoluta uni­
cità e incomparabilità del nazismo28, ma sti­
molerà un rinnovato interesse per il fascismo
come categoria generale. Nella medesima
collana, anch’io ho scritto un modesto studio
sulle politiche demografiche delle dittature
fasciste europee e delle democrazie liberali
nel periodo fra le due guerre che mette in di­
scussione la presunta eccezionalità del fasci­
smo nel suo complesso29. Anche Paul Brooker ha recentemente interrotto la tendenza
eurocentrica di molte ricerche sul fascismo
nel suo libro sui regimi “fratelli” che gover­
navano la Germania, l'Italia e il Giappone
durante la seconda guerra mondiale. In uno
studio basato principalmente su fonti secon­
darie, egli analizza in una prospettiva compa­
rativa i numerosi meccanismi istituzionali e
sociali mediante i quali le tre dittature tenta­
rono di promuovere l’unità nazionale e la
coesione sociale in un’epoca di grande crisi.
L’autore sostiene che nessun regime seppe
meglio di quello giapponese mobilitare forze
in sostegno della propria politica, inculcare
un sentimento di lealtà nella popolazione e
rafforzare la società per fronteggiare la mi­
naccia dNla guerra totale. Persino la Germa­
nia nazista fu a suo parere meno “totalitaria”
per quanto riguarda la capacità di risvegliare
lo spirito delle masse, di cancellare l’autono­
mia dell’individuo e di legare il cittadino allo
Stato. Malgrado l’assenza di un grande parti­
to fascista o di uno stato fascista vero e pro­
prio, i leader politici giapponesi poterono
contare sulle tradizioni nazionaliste, sul siste­
ma imperiale e sulla religione per rafforzare
comportamenti conformistici30.
Studiosi più chiaramente orientati in senso
teorico hanno già pubblicato nuovi impor­
tanti lavori i cui ambiziosi programmi ricor­
dano quelli di due decenni fa. Una figura gui­
da in questo settore in crescita è Roger Griffin, che ha pubblicato The Nature o f Fascism
e, più recentemente, Fascism31. Il primo lavo­
ro è uscito come parte di una nuova collana
sull’ideologia e la politica di destra, nella
quale sono già comparsi libri come Right-
25 Tim Mason, The Primacy of Politics. Politics and Economics in National Socialist Germany, in S. J. Woolf (a cura di),
The Nature of Fascism. London, Weidenfeld and Nicholson, 1968, pp. 165-196.
26 T. Mason, Fascism and Modernization. A Montage, “ History Workshop Journal”, 1988, n. 25. pp. 110-147.
2 Alexander J. De Grand, Fascist Italy and Nazi Germany. The “Fascist" Style of Rule, London, Routledge, 1995.
28 Si veda per esempio la conclusione di Michael Burleigh, Wolfgang Wippermann, The Racial State. Germany 19331945, Cambridge (England), Cambridge University Press, 1991 (Lo stato razziale. Germania 1933-1945, tr. di Orsola
Fenghi, Milano, Rizzoli, 1992).
29 Maria Sophia Quine, Population Politics in the Twentieth Century. Fascist Dictatorship and Liberal Democracies,
London, Routledge, 1995.
311 Paul Brooker, The Faces of Fraternalism. Nazi Germany, Fascist Italy, and Imperial Japan, Oxford, Clarendon Press,
1991.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
Wing Military Government di Robert Pinkney e The Politicai Economy o f thè New Righi
di Graham Thompson3132. Il secondo è un’an­
tologia di scritti di fascisti, di loro critici e di
loro precursori dall’Ottocento ad oggi. Al
pari di Sternhell, Griffin rifiuta di vedere il
fascismo come un’accozzaglia di idee prese
a prestito e mal digerite e, come già James
A. Gregor, ravvisa nel pensiero e nella prati­
ca fasciste coerenza, serietà e determinazio­
ne. Inoltre, Griffin respinge l’idea che il fasci­
smo possa essere descritto come propaganda
priva di sostanza o come “pura chiacchiera”,
secondo la famosa accusa di Hans Mommsen. Sternhell, da un lato, vede il fascismo co­
me una critica penetrante delle manchevolez­
ze del marxismo classico e a volte sembra do­
tare i “protofascisti” dell’anteguerra di una
capacità di previsione davvero notevole per
cui essi, unici fra tutti, avrebbero compreso
che l’appello alla rivoluzione non sarebbe
riuscito a catturare il cuore e la mente delle
masse desiderose di qualcosa che desse loro
un senso di appartenenza, e che non poteva
consistere nelle sterili idee della lotta di clas­
se, bensì doveva incarnarsi nell’ideale della
comunità nazionale. Questi protofascisti li­
quidarono Marx e si misero a venerare Sorel,
nel loro lessico politico sostituirono la nazio­
ne alla classe, ma conservarono gran parte
del bagaglio collettivistico dell’obsoleta tra­
dizione socialista. Griffin, dall’altro lato, sot­
tolinea non la natura apparentemente deriva­
ta del fascismo, bensì la sua sorprendente e
creativa originalità.
In The Nature o f Fascism, Griffith propo­
ne una nuova definizione del fascismo come
categoria generale, descrivendolo come “un
genere di ideologia politica il cui nucleo miti­
651
co nelle sue varie trasformazioni è una forma
palingenetica di populismo ultranazionali­
sta”3'’. Questa interpretazione riesce ad evita­
re alcune delle principali trappole in cui ca­
dono quanti definiscono il fascismo solo in
riferimento a ciò a cui esso si opponeva, anzi­
ché a ciò per cui si batteva. In quella che è
probabilmente una delle più lunghe defini­
zioni del fascismo che siano state mai scritte,
Juan Linz sottolinea per esempio il carattere
oppositivo o negativo del fascismo come for­
ma politica in genere. Egli lo definisce “un
movimento antiparlamentare, antiliberale,
anticomunista, populista e perciò antiprole­
tario, in parte anticapitalista e antiborghese,
anticlericale o, almeno, non clericale” 34.
Qualificata e prudente, questa sorta di analisi
multidimensionale probabilmente coglie la
specificità del fascismo e, fatto altrettanto
importante, riesce a metterne in rilievo l’uni­
tà essenziale e l’eterogeneità. Essa priva però
il fascismo di qualsiasi autonomia, lo riduce a
mera negazione storica del passato e lo vede
unicamente come forza reattiva. Anche altri
teorici non sono riusciti a fornire una tipolo­
gia praticabile, che oltrepassi una descrizione
dei dogmi ideologici del fascismo in direzione
di un’analisi del suo funzionamento dopo la
conquista del potere. Il contributo di Griffin
comunque è importante in quanto tenta di
definire il fascismo non solo come movimen­
to ma anche come regime. Egli si riferisce in­
fatti al fascismo come un insieme di “miti
fondamentali” , fra cui i principali erano il
mito della rigenerazione nazionale'e quello
dell’uomo nuovo, incarnati entrambi nell’af­
fannosa ricerca di una “terza via” fra comu­
niSmo e capitalismo che avrebbe permesso ai
suoi leader di distruggere il degenerato e cor-
31 Roger Griffin, The Nature of Fascism, London, Pinter Publishers, 1991; una raccolta di fonti primarie e invece Fa­
scism. A Reader’s Guide, Oxford, Oxford University Press, 1995.
33 Robert Pinkney, Right-Wing Military Government, London, Pinter Publishers, 1990; Graham Thompson, The Poli­
tical Economy of the New Right, London, Pinter Publishers, 1993.
33 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 26.
34 Juan J. Linz, Some Notes Towards a Comparative Study of Fascism in Sociological Perspective, in Fascism, cit., p. 12.
652
Maria Sophia Quine
rotto sistema democratico e di creare un au­
tentico Ordine nuovo. Per Griffm, il fascismo
è un’ideologia utopica la cui dottrina si basa
sul “mito palingenetico” della rinascita della
nazione e del popolo. Nella valutazione di
questo studioso le componenti chiave del fa­
scismo sono pertanto la sua “ideologia palingenetica”, il “richiamo populista” , gli obiet­
tivi di mobilitazione di massa, l’“ultranazionalismo” e l’“utopismo”.
Grazie a questa definizione del fascismo,
Griffm è in grado di spiegarne la forza di at­
trazione. Nuove ricerche svolte da studiosi
che lavorano sulla Germania di Weimar sem­
brano avere definitivamente dimostrato che
il fascismo non trovò le sue reclute solo nella
piccola borghesia, ma attrasse l’adesione di
vasti strati sociali, compresa una parte della
classe operaia. La vecchia formula marxista
delle origini di classe del fascismo, che vedeva
nel movimento una violenta mobilitazione
del Mittelstand contro l’indifeso proletariato,
è stata palesemente ridimensionata. In luogo
di essa, Griffm propone di considerare la po­
tenza del nucleo mitico del fascismo e defini­
sce i miti politici non come idee razionali ma­
nipolate per legittimare determinate linee po­
litiche, bensì come “principi utopici” in gra­
do di esercitare un richiamo sulle emozioni
e di ispirare lealtà profonda. Sotto questo
aspetto, si avvicina a Sorel e a Pareto, i quali
sottolineavano la molla irrazionale dell’azio­
ne politica. E, quantunque nell’ambito di una
diversa concezione, anche la definzione del
fascismo come “religione secolare” data da
Emilio Gentile accentua la forza dei suoi ca­
ratteri emotivi e mistici35.
La definizione di Griffin gli permette di
sottolineare il carattere non solo mistico ma
anche rivoluzionario dell’ideologia e della
pratica fasciste. Una delle principali temati­
che del suo lavoro riguarda la percezione
che i fascisti avevano di sé come rivoluzionari
chiamati dal destino a rovesciare l’ordine sta­
bilito e a creare un ordine totalmente nuovo.
Griffm dissente da una nutrita schiera di stu­
diosi che descrivono il fascismo unicamente
come reazione e opportunismo. Offrendo
un importante contributo al lungo dibattito
sul fascismo e sulla modernizzazione, egli si
distacca da storici come Henry Ashby Turner
che attribuiscono al movimento profondi e
travolgenti impulsi antimoderni. In Italia,
tutto ciò che suggeriva dinamismo, cambia­
mento, modernità e innovazione fu ripetutamente utilizzata nella propaganda del regime
fascista. Si riteneva che il nuovo ordine eco­
nomico fascista potesse generare una crescita
dinamica e sostenuta della produttività del­
l’agricoltura e dell’industria. Ciò condusse a
porre barriere doganali, a promuovere l’au­
mento della produzione agricola e a creare
monopoli statali per lo sfruttamento delle ri­
sorse minerarie* per la trasformazione delle
fibre naturali e per la riduzione della dipen­
denza dal petrolio e dal carbone stranieri me­
diante piani per la produzione di energia
idroelettrica. Nella stampa e nei cinegiornali
le immagini dei progetti di bonifica, delle
nuove autostrade, delle auto Fiat e delle mac­
chine da scrivere Olivetti venivano utilizzate
per mettere in rilievo gli intenti modernizzatori del fascismo. Malgrado sostenga che la
“natura chimerica” della nuova Italia “ alla
fine sarebbe divenuta sin troppo palese” 36,
Griffm vede la novità del fascismo negli ini­
ziali obiettivi rivoluzionari e nell’originario
programma radicale. Il fascismo intendeva
effettivamente realizzare la sua visione di
una “comunità nazionale che sarebbe rinata
come una fenice dopo un periodo di invasiva
decadenza che l’aveva quasi distrutta”37. E
significativo anche il fatto che Griffm consi­
deri il fascismo come un prodotto del vente­
35 Emilio Gentile, Fascism as Political Religion, “Journal of Contemporary History”, 1990, n. 25, pp. 229-251.
36 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 67.
37 R. Griffin, The Nature of Fascism, cit., p. 38.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
simo secolo, che ha creato un diffuso deside­
rio di un nuovo ordine, e degli anni venti, che
hanno conferito al movimento il suo stile po­
litico eminentemente moderno.
Il tentativo di Griffin di definire l’idealtipo
del fascismo e di delineare una tipologia rife­
rendosi ai movimenti esistenti al di fuori del­
l’Italia e della Germania, dell’Europa e del
periodo fra le due guerre - tentativo che co­
stituisce la prima teoria significativa apparsa
da molti anni — è davvero encomiabile. Que­
sto autore riesce, a mio avviso, a giustificare
l’uso di una categoria generale identificando
un nucleo di idee base comuni ai molti diversi
movimenti. Di fronte a un’analisi così com­
plessiva, alcuni studiosi resteranno inevita­
bilmente ancorati alla loro convinzione che
“modelli” e “ paradigmi” servano a tenere
occupati i sociologi ma siano inutili allo sto­
rico. Se però a prima vista la definizione del
fascismo come ultranazionalismo palingenetico può sembrare così vaga da essere quasi
inconsistente, in realtà la sua interpretazione
è storicamente fondata, sottile e ricca di sfu­
mature. Griffin evita la tentazione, tipica dei
non specialisti, di classificare come fascista
qualsiasi movimento o regime per il quale si
provi avversione. Dal suo punto di vista,
non sarebbe ad esempio pertinente descrivere
Gheddafi o Saddam Hussein come dittatori
“fascisti”, in quanto il primo è giunto al po­
tere grazie all'esercito e il secondo grazie a
un movimento di quadri dell’élite del partito
Baath (Partito socialista della rinascita ara­
ba). Posizioni decisamente contrarie ai mo­
delli teorici, come quella di Gilbert Allardyce
il quale ha sostenuto rigidamente che “il ter­
mine fascismo non ha alcun significato al
fuori dell’Italia” 38, continueranno forse a
653
soffocare la discussione per i prossimi decen­
ni, ma certo non ce lo auguriamo. La speran­
za è che studiosi di mentalità aperta come
Griffin riprendano la loro ricerca di un’es­
senza del fascismo, o di quello che Ernst
Nolte ha definito il “ minimum” fascista,
che permetta agli studiosi di giudicare in
una prospettiva più sistematica se un movi­
mento o un regime può essere definito fasci­
sta oppure no.
Griffin turberà ovviamente quanti ritengo­
no che l’epoca fascista sia finita nel 1945. An­
che altri storici hanno tentato di mettere in
discussione la comune comprensione crono­
logica e geografica del fascismo. In Fascism.
A History39, Roger Eatwell delinea la storia
del fascismo in Europa e descrive la continui­
tà che lega il periodo fra le due guerre e il do­
poguerra, ricordando che i primi partiti fasci­
sti del dopoguerra furono fondati in Italia già
nel 1946 e in Germania nel 1949, mentre nel
decennio successivo piccoli partiti fascisti
che traevano ispirazione direttamente dal fa­
scismo del periodo fra le due guerre compar­
vero in tutta Europa. Anche gli autori dei
contributi raccolti in Neo-Fascism in Euro­
pe40 sollevano questioni importanti circa i le­
gami fra l’ondata fascista che percorse l’inte­
ra Europa e il mondo nel periodo fra le due
guerre e la rinascita della nuova destra dopo
la seconda guerra mondiale. La tesi della
continuità non può tuttavia essere spinta ol­
tre un certo limite in quanto il neofascismo,
pur subendo in effetti l’influsso ideologico
di un’epoca precedente, è emerso in un conte­
sto storico completamente diverso da quello
proprio degli anni venti e trenta. In Germa­
nia, le numerose sette neonaziste mobilitano
le paure e gli odi di una generazione politica
38 Gilbert Allardyce, What Fascism is not. Thoughts on the Deflation of a Concept, “American Historical Review”, 1979,
n. 84, pp. 367-398.
39 Roger Eatwell, Fascism. A History, London, Chatto & Windus, 1995.
40 Luciano Cheles, Ronnie Ferguson, Michalin Vaughan (a cura di), Neo-Fascism in Europe, London, Longman, 1991.
Si veda inoltre Geoffrey Harris, The Dark Side of Europe. The Extreme Right Today. Edimburgh, Edimburgh University
Press. 1990.
654
Maria Sophia Quine
interamente nuova di giovani delusi. Persino
in un caso unico come quello del Movimento
sociale italiano, che è evidentemente un suc­
cessore diretto del Partito nazionale fascista
di Mussolini, i leader hanno dovuto adattarsi
alle nuove circostanze per ottenere legittima­
zione e, in qualche misura, potere. Il termine
“ postfascismo” è chiaramente inaccettabile
per ragioni politiche e storiche, in quanto im­
pedisce di vedere fino a che punto il nuovo
“ rispettabile” fascismo in giacca e cravatta
sia una versione addomesticata del vecchio
fascismo degli assassini e dei criminali di
Mussolini. Un fascista è sempre un fascista,
sia che si vesta Armani sia che porti la cami­
cia nera. Almeno Mussolini e la sua genera­
zione di squadristi erano abbastanza onesti
da ammettere il loro totale disprezzo per la
democrazia parlamentare. Per quanto prote­
stino la propria estraneità, ai sedicenti “post­
fascisti” non si dovrebbe sicuramente affida­
re mai la cura delle nostre preziose istituzioni
democratiche. Parimenti però gli storici deb­
bono sforzarsi di spiegare il cambiamento ol­
tre che la continuità. Forse i volumi citati
non rispondono a tutte le possibili domande
sul futuro del fascismo in Europa dopo la
guerra fredda, ma certo smentiscono la con­
vinzione dei critici del fascismo secondo cui
la sua povertà intellettuale finirà per conse­
gnarlo all’oblio della storia. Il fascismo si è
dimostrato nel ventesimo secolo una forza
politica potente e duratura, che è riuscita a
sopravvivere al comuniSmo e ad attirarsi la
fedeltà di un numero di seguaci assai maggio­
re di quanti ne abbia mai avuti il liberalismo.
I problemi politici che assediavano l’Italia
del dopoguerra hanno a lungo richiamato
l’interesse degli accademici. Vent’anni fa, ap­
parve per la prima volta Italy: Republic Without Government? di Percy Allum41, un libro
seguito da altri come The Politic o f Uneven
development di Raphael Zariski, The Govern­
ment o f Republican Italy di John Clarke
Adams e Paolo Barile, The History o f Contemporary Italy di Ginsborg e Democracy
Italian Style di Joseph La Palombara42.
Una delle più importanti pubblicazioni re­
centi è Governing Italy: The Politics o f Bargained Pluralism di David Hine43, un libro
complesso e difficile che tenta una valutazio­
ne provvisoria delle significative prospettive
di cambiamento e di riforme nell’Italia odier­
na. Hine descrive il sistema politico nell’Italia
del dopoguerra come una “ partitocrazia”
con grossi limiti che hanno impedito lo svi­
luppo di una condotta di governo decisa e fi­
nalizzata a un disegno preciso. Le manchevo­
lezze del sistema italiano a parere di Hine non
sono soltanto strutturali: le istituzioni demo­
cratiche, compreso il parlamento, l’amministrazione giudiziaria e civile, l’esecutivo e i
partiti, possono presentare dei gravi difetti,
ma le vere cause degli attuali problemi dell’I­
talia risiedono molto più in profondità —
nella stessa cultura politica, nel tessuto della
società, nella mentalità della classe di gover­
no e nel comportamento delle élite. Le osser­
vazioni conclusive di Hine, scritte alla luce
dei risultati delle elezioni del 1992 e delle que­
stioni sollevate dagli imminenti referendum
del 1993, non sono poi tanto ottimistiche.
Esiste il serio rischio di un crollo politico to­
tale? O stiamo assistendo a una “rivoluzione
politica dall’alto” da cui nasceranno quelle
trasformazioni istituzionali e del sistema elet-
41 Percy Allum, Italy. Republic Without Government?, London, Weidenfeld & Nicholson, 1973 (Anatomia di una repub­
blica. Potere e istituzioni in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976).
4~ Raphael Zariski, The Politics of Uneven Development, Hinsdale, Dryden Press, 1972; John Clarke Adams, Paolo Ba­
rile, The Government of Republican Italy, London, Allen & Unwin, 1961; P. Ginsborg, The History of Contemporary
Italy, London, Penguin Books, 1990 (Storia d ’Italia dal dopoguerra a oggi, tr. di Marcello Flores e Sandro Perini, 2 voli.,
Torino, Einaudi, 1989); Joseph La Palombara, Democracy Italian Style, New Haven-London, Yale University Press,
1987 (Democrazia all'italiana, tr. di Laura Noulian, Milano, Mondadori, 1988).
43 David Hine, Governing Italy. The Politics of Bargained Pluralism, Oxford, Oxford University Press, 1993.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
torale e giuridico che sono state all’ordine del
giorno per più di un decennio? La conclusio­
ne di Hine sembra suggerire che negli ultimi
anni non vi è stata una vera rivoluzione, mal­
grado il diffuso riconoscimento dell’urgente
necessità di un cambiamento e la notevole ca­
pacità del sistema giuridico-politico italiano
— capacità che non ha precedenti nell’Euro­
pa del dopoguerra
di mettere sotto pro­
cesso i propri stessi leader, i propri valori,
la propria etica e le proprie tradizioni. Se il
rinnovamento attraverso la rivoluzione può
essere un obiettivo illusorio, un riconsolida­
mento del sistema potrebbe costituire una
possibilità più realistica nella crisi attuale.
Complessivamente, Hine descrive una demo­
crazia che, per quanto imperfetta, si è dimo­
strata solida negli ultimi anni. Se il massimo
che si possa sperare è che la democrazia all’i­
taliana se la cavi per il rotto della cuffia, ciò
è comunque preferibile a un totale crollo del
sistema.
Sull’argomento del fascismo classico del
periodo fra le due guerre sono stati recente­
mente pubblicati alcuni nuovi importanti
studi condotti in una prospettiva nazionale.
Perry R. Willson ha scritto un lavoro che cer­
ca di migliorare la nostra comprensione della
storia della classe operaia italiana sotto il fa­
scismo esaminando il ruolo delle donne nella
forza lavoro dell’industria4445. Giustamente
l’autrice rileva che anche studi definitivi co­
me The Culture o f Conserti. Mass Organization o f Leisure in Fascisi lialy di Victoria
De Grazia43 hanno lasciato fuori quasi com­
pletamente il genere come categoria di anali­
si. Una delle tesi più importanti sostenute nel
libro riguarda però l’organizzazione del tem­
po libero nei luoghi di lavoro. La questione
del controllo fascista sul lavoro in fabbrica,
655
sostiene l’autrice, non è “in alcun modo esau­
rita da uno studio del dopolavoro, poiché per
metà della classe operaia tale istituzione era
praticamente irrilevante”46. Per esemplifica­
re l’esperienza delle lavoratrici, viene assunta
come case study un’impresa elettromeccanica
di Sesto San Giovanni, in cui circa la metà
della forza lavoro era costituita da donne.
L’autrice spiega che la Magneti Marelli era
probabilmente la più moderna impresa del­
l’epoca: fondata nel 1919, produceva compo­
nenti per motori di auto, aereoplani, treni,
radio ed armamenti. La produzione incomin­
ciò a venire razionalizzata sull’esempio ame­
ricano negli anni venti, quando i proprietari
si precipitarono ad adottare le tecniche di re­
golamentazione scientifica dei ritmi di lavo­
ro. Definita una “clockwork factory” in
quanto la produttività del lavoro e la sua or­
ganizzazione erano completamente mecca­
nizzate, l’impresa prosperò. Willson dedica
una buona parte del suo studio ad un’analisi
della politica aziendale della direzione, la
quale fuse principi tayloristici e paternalismo
vecchio stile in un’efficace strategia manage­
riale finalizzata alla creazione di una “forza
lavoro soddisfatta” . A differenza di molte al­
tre imprese italiane, la Magneti Marelli prese
sul serio il problema della salute sul posto di
lavoro e il suo programma di prevenzione de­
gli infortuni produsse risultati positivi. Il tur­
nover della forza lavoro era inoltre estremamente basso, cosi come il livello di militanza
politica fra i lavoratori.
La ricerca di Willson sulle lavoratrici di
questa impresa ha prodotto dati molto inte­
ressanti che confermano le scoperte di altri
studiosi. Come prevedibile, nell’azienda do­
minava una rigida divisione sessuale del lavo­
ro e le donne costituivano il grosso della ma­
44 Perry R. Willson, The Clockwork Factory. Women and Work in Fascist Italy, Oxford, Clarendon Press, 1993.
45 Victoria De Grazia, The Culture of Consent Mass Organization of Leisure in Fascist Italy, Cambridge, Cambridge
University Press, 1981 (Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L ’organizzazione del dopolavoro, tr. di Pietro Ne­
gri, Roma-Bari, Laterza, 1981).
46 P. Willson, The Clockwork Factory, cit., p. 246.
656
Maria Sophia Quine
nodopera non specializzata o semispecializ­
zata. La maggioranza delle lavoratrici, inol­
tre, erano nubili e giovani, circa un terzo
era al di sotto dei diciott’anni di età e quasi
la metà sotto i venti. L’autrice spiega che,
sebbene il matrimonio o la maternità non si­
gnificassero necessariamente l’abbandono
del lavoro in fabbrica da parte delle donne,
la mancanza di dati significativi negli archivi
dell’azienda non permette di raggiungere
conclusioni definitive su questo punto. Willson dedica grande attenzione al problema
deH’atteggiamento delle donne nei confronti
del lavoro in fabbrica. Basandosi su testimo­
nianze orali, mette bene in luce i condiziona­
menti che il costume sociale, gli impegni fa­
miliari, i dogmi della Chiesa e il pregiudizio
maschile esercitavano sulle donne che lavora­
vano fuori casa.
Alcune delle conclusioni cui Willson giun­
ge hanno una rilevanza che va ben oltre i li­
miti di uno studio sul lavoro femminile. L’au­
trice sostiene che i datori di lavoro non subi­
rono alcuna pressione da parte del regime fa­
scista, del partito o dagli organismi governa­
tivi per introdurre provvedimenti a tutela
della maternità, piani di previdenza aziendale
0 strutture per il tempo libero, ma presero es­
si stessi l’iniziativa. Sebbene questo punto
non venga ulteriormente sviluppato, l’osser­
vazione è assai indicativa dei limiti del potere
fascista, che in realtà sembra aver influito as­
sai poco sulla politica interna dell’azienda fi­
no al 1943-1944, quando alcuni lavoratori si
unirono alla resistenza milanese. Sebbene
complessivamente lo studio di Willson sul la­
voro e sulle relazioni di genere in quest’unica
impresa sia eccellente, si può fare qualche
piccolo appunto. L’autrice tende a liquidare
1rapporti dei censimenti, sostenendo che essi
non ci dicono nulla. Non cita però mai il la­
voro di Franca Pieroni Bortolotti47 sui censi­
menti fascisti, che smentisce questa sua affer­
mazione, né tenta di fornire al lettore una de­
scrizione delle principali tendenze nell’occu­
pazione femminile. Una disamina anche bre­
ve dei mutamenti nei modelli del lavoro di
fabbrica per le donne italiane sia prima sia
prima sia durante il fascismo sarebbe stato
utile. Anche le menzogne e le omissioni nei
resoconti delle autorità fasciste possono esse­
re illuminanti. A causa di questa sua evasività, il lavoro di Willson costituisce un esempio
di quella “microstoria” che non fa alcun ten­
tativo significativo di collegare l’evoluzione
interna della singola impresa con le trasfor­
mazioni che avvenivano al livello nazionale
o in altre parti del paese. Si vorrebbe inoltre
sapere di più sull’atteggiamento dei soggetti
femminili da lei esaminati nei confronti della
sessualità e della gravidanza. L’autrice spiega
di non aver voluto violare la privacy delle
donne intervistate ponendo domande di ca­
rattere personale. E un sentimento encomia­
bile, ma se altri specialisti di storia orale, co­
me ad esempio Luisa Passerini48, hanno sa­
puto incoraggiare le intervistate a parlare
apertamente di maternità e di controllo delle
nascite, non vi è ragione di credere che una
studiosa capace come Willson non avrebbe
saputo fare altrettanto.
Un’altra recente pubblicazione assume co­
me tema il periodo fascista. Haile M. Larebo
ha appena pubblicato un libro sulla costitu­
zione dell’impero mussoliniano49. Mi sono
rallegrata nel leggere questa tempestiva ri­
considerazione della colonizzazione attuata
in Etiopia dalla dittatura italiana nel 19351936. In un momento in cui i leader del rina­
scente movimento fascista italiano elogiano
47 Franca Pieroni Bortolotti, Osservazioni sull'occupazione femminile durante il fascismo, in Sul movimento politico delle
donne. Scritti inediti, a cura di Annarita Buttafuoco, Roma, Utopia, 1987, pp. 179-207.
48 Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari, Laterza, 1984.
44 Haile M. Larebo, The Building of an Empire. Italian Land Policy and Practice in Ethiopia 1935-1941, Oxford, Claren-
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
Mussolini come il maggiore statista europeo
del ventesimo secolo, fa piacere leggere un li­
bro che in modo cosi efficace e sistematico di­
strugge il vecchio mito della “conquista”
mussoliniana dell’impero africano. Il libro è
un felice contributo agli studi accademici sul­
la politica estera italiana apparsi nel corso
degli anni, compresa l’autorevole serie di vo­
lumi di Angelo del Boca. Larebo, che è etio­
pe, si autodefinisce revisionista e intende cor­
reggere la visione “italocentrica” della breve
occupazione italiana dell’Etiopia che a suo
avviso domina gran parte della letteratura.
Malgrado a rigore si collochi nell’area degli
studi sull’Africa e sulla storia economica del­
l’Etiopia, più che in quella della storia italia­
na, il libro dovrebbe venire letto da chiunque
sia interessato al regime fascista. La descri­
zione di Larebo riguarda gli sprechi grotte­
schi, i pasticci e la cattiva amministrazione
che hanno caratterizzato la politica coloniale
della burocrazia fascista.
Come sempre nell’Italia fascista, la realtà
terrena non era all’altezza delle grandiose
pretese. Mussolini decise l’invasione dell’E­
tiopia principalmente per ragioni di prestigio
politico, ma anche nella vana speranza che la
creazione dell’impero avrebbe portato a mas­
sicci insediamenti di italiani nei territori oc­
cupati. Questa politica mirava ad arrestare
l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, che
stava prosciugando la nazione dagli elementi
migliori e più brillanti, per reindirizzarla ver­
so l’Africa orientale, dove i coloni sarebbero
stati incoraggiati a servire il duce e la nazione
divenendo una presenza permanente nell’a­
vamposto coloniale. Il maresciallo Pietro Ba­
doglio nel 1936 si vantava del fatto che ben
un milione di italiani sarebbero stati insediati
entro la fine dell’anno e altri fascisti parlava­
no, in modo ancor più irrealistico, del rapido
insediamento di oltre sei milioni di persone. I
piani fascisti erano elaborati e ambiziosi: do50
Haile M. Larebo, The Building of an Empire, cit., p. 56.
657
po lo smembramento dell’Etiopia e la sua fu­
sione con l’Eritrea e la Somalia, il regime im­
pose un “ apartheid” italiano sull’Africa
orientale mediante una politica di “sviluppo
separato” fra bianchi e popolazione indige­
na. Vi fu una convergenza fra politica razzia­
le e politica economica nel feroce tentativo di
affermare l’assoluta superiorità degli occu­
panti sulle popolazioni assoggettate. L’Italia
dispiegò in pieno la sua forza militare in una
lotta brutale contro i guerriglieri che cercava­
no di difendere la loro patria dagli invasori
stranieri. La sanguinosa politica di pacifica­
zione, che riusci infine a reprimere la rivolta,
fu seguita dall’occupazione delle terre miglio­
ri da redistribuirsi ai coloni e dal trasferimen­
to forzato degli indigeni etiopi. Ma i piani per
lo sfruttamento demografico ed economico
della regione fallirono in modo catastrofico
perché, come argomenta l’autore, l’ammini­
strazione fascista dell’Etiopia era “inficiata
da personalismi, corruzione, inefficienza e
da una burocrazia inetta e di mentalità ri­
stretta”50. Tanto per cominciare, il governo
di Mussolini non aveva previsto l’enorme sa­
lasso dei fondi statali che una prolungata
guerra antipartigiana avrebbe comportato,
né i fascisti che avevano pianificato l’impresa
avevano previsto che i costi dell’amministra­
zione coloniale sarebbero stati cosi alti. La
frenetica costruzione di strade e la redistribu­
zione delle terre prosciugarono le scarse ri­
sorse della madrepatria, e così fecero le con­
tinue esportazioni di scorte di viveri dall'Italia alla colonia. L’Etiopia non divenne mai il
prospero e autosufficiente granaio del nuovo
impero romano di Mussolini. Il tentativo di
creare un ceto indipendente di coloni compo­
sto da piccoli proprietari italiani e di intro­
durre un’agricoltura autosufficiente destina­
ta al commercio falli in quanto le capacità
dei coloni erano mediocri ed essi non dimo­
strarono alcun tipo di impegno nei confronti
658
Maria Sophia Quine
dell’impresa fascista nel suo complesso. Nel
giugno del 1940, quando l’Italia fece il suo in­
gresso in guerra, soltanto 400 italiani o poco
più si erano stabiliti in Etiopia e solo 150 circa
erano stati raggiunti dalle loro famiglie. La di­
chiarazione di guerra alla Gran Bretagna e al­
la Francia da parte del duce pose fine all’espe­
rimento, poiché il sostegno britannico ai pa­
trioti etiopi determinò il crollo definitivo del
cosiddetto impero dell’Africa orientale di
Mussolini. 1 coloni che un tempo erano stati
elogiati come eroi sulla stampa fascista ora
abbandonarono le loro fattorie e i loro averi
e vennero rimpatriati in Italia come indigenti.
Tutto ciò che possedevano si era perduto nel
gorgo dell’ambizione e dell’aggressività fasci­
ste. Sulla base di una ricerca archivistica di
prima mano, Larebo fornisce quindi una nuo­
va prospettiva sulla tragica storia della colo­
nizzazione italiana durante il periodo fascista.
Ho iniziato questa rassegna, che non pre­
tende in alcun modo di costituire una valuta­
zione esauriente delle recenti pubblicazioni
sull’Italia contemporanea apparse in Gran
Bretagna, descrivendo il senso di isolamento
che storici come me hanno provato nel corso
degli anni ottanta. Essa non restituirebbe pe­
rò un quadro veritiero dello stato degli studi
odierni sull’Italia contemporanea in Gran
Bretagna se non accennassi ad alcuni sviluppi
recenti, che fanno ben sperare per il futuro.
In primo luogo, va segnalato il crescente inte­
resse per lo studio dell’Italia contemporanea
stimolato dalla recente pubblicazione di un
vasto numero di testi introduttivi destinati
principalmente agli studenti universitari. A
Concise History of Italy di Christopher DugganM esplora il tema degli ostacoli alla co­
struzione della nazione dal periodo della ca­
duta dell’Impero romano d’Occidente fino
ai giorni nostri; nell’ambito della collana
51
52
53
54
The Present and thè Past, Longman ha pub­
blicato Italy Since 1800: a Nation in thè Balance?52, un eccellente sunto della storia del
paese che concentra la sua attenzione sui pa­
radossi e le contraddizioni di lungo periodo
che hanno condotto agli scombussolamenti
politici degli ultimi anni. Philip Morgan ha
da poco pubblicato Italian Fascism 1919194553, un compendio della storia del regime
che sintetizza le più recenti ricerche pubblica­
te in Italia e altrove. Italy and thè Wider
World di Richard Bosworth24 esamina la collocazione dellTtalia nella politica europea e
mondiale nel corso di un secolo. Questi ed al­
tri libri arricchiranno lo studio dellTtalia
contemporanea nelle università britanniche
nei prossimi anni. Bisognerebbe menzionare
poi la disponibilità delle case editrici univer­
sitarie a pubblicare titoli di storia italiana.
Tanto la Oxford quanto la Cambridge Uni­
versity Press continueranno a includere lavo­
ri scientifici sull’Italia contemporanea nei lo­
ro cataloghi.
Parimenti importante per il continuo in­
cremento di pubblicazioni sullTtalia contem­
poranea è la crescente presenza istituzionale
di questo campo di ricerca nelle università
britanniche. Negli anni novanta, si sono veri­
ficati significativi cambiamenti, allorché i
dottorandi degli anni ottanta hanno occupa­
to posizioni all’interno dell’accademia e han­
no a loro volta incominciato ad avanzare nel­
la carriera. Alcuni, come Christopher Duggan, hanno continuato a lavorare per fonda­
re istituzioni di ricerca post-laurea quali il
Centre for thè Advanced Study of Italian So­
ciety all’università di Reading. I vari colleges
dell'università di Londra hanno assunto un
ruolo di guida nella promozione dello studio
della storia dellTtalia contemporanea asse­
gnando posti negli ultimissimi anni a molti
Christopher Duggan. A Concise History of Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1994
Roger Absalom, Italy since 1800. A Nation in the Balance?, Harlow, Longman, 1995.
Philip Morgan, Italian Fascism 1919-1945, Basingstoke, Macmillan Press, 1995.
Richard Bosworth, Italy and the Wider World 1860-1960, London, Routledge, 1995.
Gli studi britannici tra Italia liberale e fascismo
giovani storici come Lucy Riall, Jonathan
Morris e chi scrive. Nei suoi molti istituti e
dipartimenti di lingua e di storia, l’università
di Londra ha oggi fra tutte le università bri­
tanniche la più alta concentrazione di studio­
si dell’Italia contemporanea. Questi recenti
sviluppi hanno opportunamente indotto gli
italianisti che lavorano a Londra a tentare
di creare per sé e per i propri colleghi un’iden­
tità istituzionale stabile all’interno dell’acca­
demia britannica. Il risultato più visibile di
questo sforzo è l’istituzione ad opera di MacGregor Knox, Cari Levy, Jonathan Morris e
Lucy Riall di un seminario sulla storia dell’I­
talia contemporanea che si terrà all’Istituto
di ricerca storica dell’università di Londra a
partire dal gennaio del 1996. Questo ciclo è
stato istituito in risposta alla precisa esigenza
di un forum nazionale per gli italianisti di tut­
to il Regno Unito. Inoltre, esso si propone un
approccio esplicitamente comparativo invi­
659
tando studiosi di altri campi, come la storia
contemporanea della Germania e della Spa­
gna o la storia di genere e la storia delle don­
ne, a confrontarsi con gli italianisti riguardo
alle esperienze europee nel loro complesso.
Fra le altre piacevoli novità si segnala la pub­
blicazione in Gran Bretagna di due nuove ri­
viste: “The Journal of Modern Italian Studies” , ad opera del gruppo americano di
John Davis e David Kertzer a partire dall’ot­
tobre del 1995, e “Modern Italy”, sotto la di­
rezione di accademici che lavorano in Gran
Bretagna. Senza dubbio queste riviste rende­
ranno accessibili a un pubblico internaziona­
le le migliori ricerche sullTtalia oggi disponi­
bili. Questi ed altri avvenimenti verificatisi
negli ultimi anni ci assicurano che la storia
delFItalia contemporanea in Gran Bretagna
avrà un futuro.
Maria Sophia Quine
[ traduzione dall’inglese di Anna Sordini]
GIANO
Sommario del n. 20
1945 Anno zero. L’Onu: interventi di Marcelli, Allegretti, Chemillier-Gendreau, Ferraiolo,
Lattanzi, Voltaggio.
La seconda guerra mondiale: natura, problemi, caratteri, a cura di Bendo-Soupu, (Africa);
Casci (india); Collotti Pischel (Giappone); Cortesi (Napoli 1943); Montessoro (Indocina),
Soverlna (Jugoslavia).
Capitalismo e bomba climatica; La questione cecena-, La guerra Perù- Ecuador
JOURNAL OF MODERN
ITALIAN STUDIES
Volume I, n. 1, autunno 1995
Editorial
Articles
Raffaele Romanelli, Urban Patricians and 'Bourgeois’ Society: a Study of Wealthy Elites in
Florence, 1862-1904; Joel Blatt, The Battle of Turin, 1933-1936: Carlo Rosselli, Giustizia e
Libertà, Ovra and the Origins of Mussolini’s Antisemitic Campaign; David Moss, Patronage
Revisited: the Dynamics of Information and Reputation.
Reflections
H. Stuart Hughes, Doing Italian History: Pleasure and Politics.
Perspectives and debates
Peter Bondanella, Recent Work in Italian Cinema; Donald Sassoon, Tangentopoli or the De­
mocratization of Corruption.
Book reviews
Volume I, n. 2, primavera 1996
Articles
Nadia Urbinati, “A Common Law of Nations": Giuseppe Mazzini's Democratic Nationality,
Margherita Pelaja, Marriage by Exception. Marriage Dispensations and Ecclesiastical Poli­
cies in Nineteenth- Century Rome; John Gatt Rutter, Liberation and Literature: Naples 1944.
Review essays
Judith Chubb, The Mafia, the Market and the State in Italy and Russia; Paolo Bernardini, The
Jews in Nineteenth Century Italy: towards a Reappraisal.
Book reviews
Abbonamenti: Routledge Subscriptions Department, ITPS, North Way, Andover, Hants,
SP105BE, UK. Tel: 0044(0)1264 342713 Fax: 0044(0)1264 342807.
“Italia contemporanea” offre ai propri abbonati la possibilità di ricevere il “Journal of
Modem Itaiian Studies” al prezzo di favore di £. 21 per i paesi della Comunità europea
e $ 32 per Stati Uniti e Canada (le tariffe normali per gli abbonamenti sottoscritti da
persone sono in Gran Bretagna e nella Cee £. 25; negli Usa e in Canada $ 38; negli altri
paesi £. 30; per gli enti le tariffe sono, rispettivamente, £. 50; $ 75; £. 60). Gli interessati
devono scrivere al JMIS allegando fotocopia del pagamento dell’abbonamento a IC.
L ’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
Gerhard Schreiber
Caiazzo, sera del 13 ottobre 1943: soldati del­
la 33 compagnia del reggimento motorizzato
granatieri della 3a divisione granatieri coraz­
zati, comandati dal sottotenente Wolfgang
Lehnigk-Emden, massacrano con bestiale fe­
rocia ventidue civili italiani. Questi “grana­
tieri corazzati” sterminano in un colpo solo
le famiglie Albanese, D’Agostino, Massadoro e Perrone. Fra le vittime innocenti vi sono
dieci bambini dai tre ai quattordici anni, un
adolescente di sedici anni, sette donne fra i
diciotto e i sessantatré anni fra cui una al se­
sto mese di gravidanza e quattro uomini. Gli
autori del crimine danno prova di una bruta­
lità mostruosa, il loro delitto è di un’atrocità
che incute spavento, ma in rapporto a ciò che
i militari tedeschi compirono in Italia e altro­
ve l’eccidio di Caiazzo non si distingue come
qualcosa di eccezionale, bensì appare piutto­
sto un caso emblematico.
Di questo delitto scrisse l’allora corrispon­
dente di guerra William H. Stoneman sul
“Chicago Daily News” già il 18 e il 25 otto­
bre del 1943. Il 4 o il 5 novembre dello stesso
anno il sottotenente Lehnigk-Emden e altri
componenti della 33 compagnia vennero fatti
prigionieri dagli americani. Furono interro­
gati, prima ad Aversa e a partire dal gennaio
1944 ad Algeri, sul massacro da essi perpetra­
to. Il 7 luglio 1946 gli americani trasmisero
gli atti dell’interrogatorio al governo italiano
a Roma, dato che tutte le vittime erano citta­
dini italiani.
Poi, per ventisei lunghi anni, non accadde
più nulla. Varie iniziative da parte di Stone­
man, che fra il 1946 e il 1949 non si dette
mai pace riguardo a questo caso, non porta­
rono ad alcun risultato concreto. Soltanto
nel 1969 qualcosa si mosse. L’impulso non
partì dal governo italiano bensì da Simon
Wiesenthal, l’infaticabile persecutore dei cri­
minali nazisti. Egli allora sporse denuncia,
ma l’istruttoria avviata dalla Procura di Mo­
naco dovette purtroppo essere nuovamente
Quanto esposto in questa introduzione si basa sui seguenti documenti: Gerhard Schreiber, Perizia del 22 agosto 1993 per
l’istruttoria contro Wolfgang Lehnigk-Emden in merito al quesito: “Le uccisioni addebitate all’imputato nella presente
istruttoria sarebbero state penalmente perseguite in base agli ordini in vigore all'epoca dei fatti in Italia per le truppe
tedesche?”, Tribunale di Coblenza, Sentenza in nome del popolo nella causa penale contro l’architetto Richard Heinz
Wolfgang Lehnigk-Emden, 18 gennaio 1994 (101 Js 35779/90 jug — 2 Kls); Corte di Cassazione in nome del popolo,
sentenza del 1° marzo 1995 (2 StR 331/94) (copia depositata presso l'archivio dell’Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia, Milano); Repubblica Italiana, in nome del Popolo Italiano, la Corte di Assise di San­
ta Maria C. V., 25 ottobre 1994 (N. 3/94 Registro Generale) (ringrazio sentitamente il signor Guido Ambrosino per
avermi messo a disposizione questo documento); Paolo Albano, “L’eccidio di Caiazzo. Due procedimenti penali a con­
fronto” (Relazione del pubblico ministero di Santa Maria Capua Vetere all’Associazione culturale italo-tedesca, Saler­
no, 1994); Hans Bader, Caiazzo, “Betrifft Justiz”, 1995, n. 43, pp. 121-125 (H. Bader è giudice al Tribunale amministra­
tivo di Mannheim; lo ringrazio sentitamente per avermi messo a disposizione il manoscritto della sua relazione e la copia
di quella del p.m. dottor P. Albano).
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
662
Gerhard Schreiber
archiviata, poiché gli autori del crimine si
erano resi irreperibili.
La svolta decisiva avvenne finalmente nel
1988, quando l’italoamericano Joseph Agnone si rivolse alla Procura di Santa Maria Capua Vetere alla quale sottopose i risultati di
ricerche private svolte nei “National Archives” di Washington. A questo punto si atti­
varono uffici giudiziari e privati. Fu avviato
un procedimento penale, e in Germania si
riuscì finalmente a reperire quelli fra gli auto­
ri del crimine che erano ancora in vita. Grazie
ai mandati d’arresto emessi dal magistrato
inquirente italiano e dalla Procura di Coblenza il responsabile principale del fatto, Lehnigk-Emden, fu trattenuto in custodia pre­
ventiva dal 15 al 22 ottobre 1992 e dal 6 no­
vembre 1992 al 18 gennaio 1994. Una deci­
sione del Tribunale di Coblenza del 22 otto­
bre 1992, che revocava il mandato d’arresto,
fu a sua volta revocata dalla Corte d’Appello
di Coblenza, la quale in quest’occasione sot­
tolineò energicamente che bisognava partire
dall’idea che il crimine non era stato perse­
guito penalmente dalla giustizia della Wehrmacht.
A differenza di quella Corte d’Appello, la
seconda sezione penale superiore del Tribu­
nale di Coblenza dopo circa quattordici mesi
giunse alla persuasione che il crimine di
Caiazzo sarebbe stato perseguito dalla giusti­
zia della Wehrmacht e in base a ciò, il 18 gen­
naio 1994, archiviò nuovamente il procedi­
mento contro Lehnigk-Emden in quanto ca­
duto in prescrizione. Il Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere, il 25 ottobre dello stes­
so anno, condannò invece all’ergastolo l’ex
sottotenente e il suo correo Kurt Schuster,
che in Germania era ritenuto non in grado
di partecipare al dibattimento per ragioni di
salute.
Sia l’Ufficio del pubblico ministero della
Procura di Coblenza, sia la parte civile ita­
liana presentarono ricorso contro la decisio­
ne del Tribunale di Coblenza. La Corte di
Cassazione di Karlsruhe ha respinto entram­
bi i ricorsi con la sentenza del Io marzo
1995. In proposito va rilevato che né il Tri­
bunale di Coblenza né la Cassazione solleva­
rono dubbi sulla colpa di Lehnigk-Emden.
Ciò significa che l'ex ufficiale è ritenuto un
massacratore, eppure resta libero. Com’è
possibile? La risposta emerge dalla valuta­
zione che i giudici di Coblenza e di Karlsru­
he diedero del crimine.
Sulla base degli ordini vigenti e del com­
portamento della giustizia della Wehrmacht
in casi analoghi, gli autori del crimine pote­
vano giustificare la loro azione delittuosa in
due modi. Potevano cioè appellarsi da un la­
to agli ordini riguardanti le zone di combatti­
mento evacuate e vietate e dall’altro alle ordi­
nanze valide per la lotta contro i partigiani.
L’ordine di evacuare la città di Caiazzo
sembra essere stato diramato il 28 settembre
1943, e in conseguenza di ciò una parte delle
persone poi assassinate aveva cercato e tro­
vato rifugio, nei giorni successivi, in casa del­
la famiglia Albanese ai piedi del monte Carmignano. Poco più tardi, il 4 ottobre, il Co­
mando del XIV corpo d’armata corazzato
ordinò alle unità sottoposte, fra le quali an­
che la 33 divisione granatieri corazzati, di
“evacuare senza riguardi da tutta la popola­
zione civile” il territorio che si estendeva
per una profondità di cinque chilometri die­
tro la principale linea di combattimento te­
nuta dal corpo. Vi sono indicazioni del fatto
che la parte tedesca premeva affinché anche
la città di Caiazzo, che fino a quel momento
non era ancora completamente evacuata, fos­
se sgomberata definitivamente.
Riguardo a quanto accadde ai piedi del
monte Carmignano si deve, in tale contesto,
tenere per certo che la 3- divisione granatieri
corazzati ha ricevuto bensì, il 5 ottobre, l’or­
dine del XIV corpo d’armata corazzato, ma
soltanto la notte precedente il massacro, dun­
que il 12 del mese, l’ha trasmessa alle proprie
unità in forma leggermente modificata. Il
Comando della divisione ordinava l’“ evacuazione dell’area di combattimento in una
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
zona retrostante cinque chilometri la prima
linea” e la fucilazione di tutti gli italiani che
dopo un “preciso termine”, che doveva “es­
sere reso noto in anticipo” , ancora vi sog­
giornassero. Come in altre istruzioni dello
stesso tipo, non si faceva differenza fra uomi­
ni, donne e bambini, ma se ne ordinava som­
mariamente l’uccisione indiscriminata.
Dato il poco tempo a disposizione, sem­
bra inverosimile che l’ordine di evacuazione
potesse essere effettivamente eseguito, ma
ciononostante gli uccisori avrebbero potuto
in teoria appellarsi a questa direttiva, per
giustificare dal punto di vista militare l’as­
sassinio.
Tuttavia ciò non accadde, e la questione
degli ordini che vigevano nelle zone di com­
battimento evacuate non giocò mai un ruolo
decisivo nel processo contro i principali re­
sponsabili già per il fatto che Lehnigk-Emden fece uso della sua seconda possibile linea
di difesa, cioè sostenne che il numero eccessi­
vo di uccisioni avvenute nei pressi di Caiazzo
si era verificato nel corso di un’azione contro
i partigiani. Obiettivamente questo non era
vero e perciò l’affermazione della Procura e
del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere,
secondo la quale questo massacro non era
un crimine militare, ma un delitto puro e
semplice, e precisamente un assassinio, in de­
finitiva è corretta.
Per la giustizia tedesca, che in relazione al
perseguimento penale dell’eccidio di Caiazzo
si trovò ad affrontare il problema della pre­
scrizione, fu necessario oltre a ciò scoprire
se la giustizia della Wehrmacht avrebbe per­
seguito il reato oppure no nel caso in cui ne
fosse venuta a conoscenza. A tal fine non
era sufficiente constatare l'obiettiva fattispe­
cie giuridica, ma bisognava interrogarsi sul
giudizio che sarebbe stato dato al momento
deH’avvenimento, vale a dire su quello che al­
l’epoca la direzione militare avrebbe dato
dell’omicidio.
Per addivenire a una decisione era perciò
indispensabile chiarire se gli ordini che vige­
663
vano per le truppe tedesche nell’ottobre del
1943 in Italia autorizzassero un persegui­
mento penale del crimine in questione, o ad­
dirittura lo prescrivessero o viceversa lo
proibissero. Inoltre, era di importanza deci­
siva ricostruire esattamente lo svolgimento
del fatto.
Nel ripercorrere lo svolgimento degli even­
ti il Tribunale di Coblenza e la Corte di Cas­
sazione di Karlsruhe presero le mosse dal fat­
to che l’imputato, con due altri appartenenti
alla compagnia, si era recato nella casa colo­
nica ai piedi del monte Carmignano, con il
pretesto che da essa sarebbero stati trasmessi
segnali luminosi in direzione delle postazioni
americane. Nella casa i tre tedeschi avevano
trovato gli uomini, le donne e i bambini già
menzionati. Fra questi, Lehnigk-Emden ave­
va arrestato i quattro uomini adulti — Nico­
la Perrone, Francesco d’Agostino, Raffaele e
Vito Massadoro — e li aveva condotti al po­
sto di comando della compagnia. Quivi ave­
va ordinato che quei “ quattro uomini e le
tre donne”, che si sosteneva li avessero segui­
ti liberamente, venissero fucilati senza essere
ascoltati, in base alla legge marziale.
Tutti i giudici o i pubblici ministeri tede­
schi che parteciparono ai diversi procedimen­
ti contro Lehnigk-Emden valutarono questo
atto come un “ omicidio preterintenzionale
caduto in prescrizione”, perché Lehnigk-Em­
den si era basato sulla convinzione che i quat­
tro uomini fossero le persone che avevano
trasmesso i presunti segnali luminosi. Incom­
prensibilmente non venne discussa la que­
stione, se almeno l’uccisione delle donne, le
quali supplicavano per la salvezza degli uo­
mini, si dovesse qualificare come omicidio
volontario.
E non basta! A un’osservazione più attenta
emerge che l’accertamento dei fatti sopra
esposto è il risultato di un’indagine del tutto
insufficiente, per non dire sciatta. Eppure i
giudici del Tribunale di Coblenza e della Cor­
te di Cassazione di Karlsruhe si attennero
ostinatamente al problematico risultato del­
664
Gerhard Schreiber
l’inchiesta del Tribunale, anche quando fu
fatto loro notare che sussistevano giustificati
dubbi sulla sua esattezza. Infatti al posto di
comando della compagnia, come del resto è
indicato già negli atti americani dell’interrogatorio, vennero sì assassinati quattro uomi­
ni, ma chiaramente solo due donne e non tre.
Secondo i precisi accertamenti del Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere queste due
donne erano Angela Insero, moglie di Fran­
cesco d’Agostino, e Orsola d’Agostino, ma­
dre di Raffaele e Vito Massadoro. La settima
vittima era il quattordicenne Antonio Alba­
nese: un bambino per definitionem! Oggi tut­
tavia l’uccisione di bambini viene in generale
classificata non come omicidio preterinten­
zionale, ma come omicidio volontario.
Valutando il primo atto come omicidio
preterintenzionale, si escluse la possibilità di
giudicare l’autore come responsabile di omi­
cidio volontario già a causa della fucilazione
di quattro uomini, due donne e un bambino
da lui ordinata. Eppure è assolutamente cer­
to che la giustizia della Wehrmacht non
avrebbe perseguito penalmente l’assassinio
di Antonio Albanese, in quanto si trattava
— dal punto di vista dei militari tedeschi —
di un atto verificatosi in connessione con
un’azione di lotta contro i partigiani. Una
quantità di esempi sta a dimostrare che non
vi fu mai intervento da parte della giustizia
della Wehrmacht quando nel corso di azioni
contro i partigiani vennero uccisi dei bambi­
ni. A questo proposito appare particolar­
mente degno di nota il fatto che la Corte
d’Appello, il Tribunale e l’Ufficio del pubbli­
co ministero di Coblenza così come i giudici
della Corte di Cassazione abbiano accredita­
to a Lehnigk-Emden, a distanza di circa cinquant’anni, la sincera convinzione di aver
fatto fucilare persone che agivano contro gli
interessi delle forze armate tedesche. Difficil­
mente i giudici della Wehmacht sarebbero
stati più severi.
Incomprensibile è poi la rinuncia a infor­
marsi presso la Procura di Santa Maria Ca­
pua Vetere circa l’effettivo svolgimento dei
fatti. In luogo di ciò, i giudici si pronunciaro­
no sulla base di una falsa definizione del fat­
to. In conseguenza di questa originaria ine­
sattezza, in seguito, nell’accusa mossa contro
Lehnigk-Emden a Coblenza nel 1993, si trat­
tò unicamente e soltanto dell’uccisione delle
quindici persone fra donne e bambini che si
trovavano ancora nella casa colonica dopo
il massacro degli altri sette.
In particolare, si trattava di Orsola Santa­
barbara, madre sessantatreenne di Francesco
d’Agostino, di Saverio (undici anni), Anto­
nio (dieci anni), Orsola (otto anni) e Carmela
(sette anni) figli dei coniugi Francesco d’A­
gostino e Angela Insero, poi di Raffaela Perrone, vedova Albanese, con i figli Maria An­
gela (venf anni), sposata a Vito Massadoro,
Maria (diciotto anni), Elena (sedici anni) e
Angelina (dodici anni), di Anna di Sorbo,
moglie di Nicola Perrone, con i figli Giuseppe
(dodici anni), Antonietta (nove anni), Mar­
gherita (sei anni) e Elena (tre anni).
Dopo il suo primo omicidio, Lehnigk-Em­
den decise di uccidere anche queste persone
innocenti. Con due uomini di scorta, ne am­
mazzò la maggior parte in casa impiegando
granate a mano, mitragliatrici, fucili, pistole,
coltelli o baionette. Coloro che tentavano di
fuggire vennero fucilati quasi a bruciapelo
fuori dalla casa colonica.
I giudici tedeschi fecero di tutto per dimo­
strare che questo crimine si era verificato in
base a una seconda decisione e perciò non
aveva niente a che fare con la prima “azione
di fucilazione” . A loro avviso il secondo atto
rappresentava una “ nuova azione omicida
avvenuta in concorso di reato”, che non po­
teva né essere giustificata in base a circostan­
ze militari, né classificata come lotta contro i
partigiani. Questa logica del Tribunale di Co­
blenza non poteva certo convincere tutti.
Inoltre i giudici ritennero che relativamente
al massacro delle quindici persone fra bambi­
ni e donne non si potesse parlare di un “omi­
cidio attuato con perfidia”, che l’azione non
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
era stata compiuta con “mezzi tali da costi­
tuire un pericolo pubblico” e che il crimine
mancava persino del “tratto distintivo della
crudeltà”. Ma verosimilmente basta figurarsi
per una frazione di secondo la situazione del­
le vittime, rappresentarsi il loro terrore all’in­
gresso degli assassini, immaginarsi le urla dei
massacrati per rendersi conto che il punto di
vista di questi giudici è assurdo. Il Tribunale
di Coblenza ammise soltanto il “carattere dei
motivi abietti”, e soltanto per questo addos­
sò a Lehnigk-Emden l’omicidio delle quindici
persone. Contemporaneamente però i giudici
decretarono che l’atto compiuto dall’imputa­
to era caduto in prescrizione.
A questo proposito i giudici di Karlsruhe
nella motivazione della sentenza del Io mar­
zo 1993 spiegarono che la prescrizione dei
crimini commessi in epoca nazista, allora
non perseguiti per ragioni politiche, confor­
memente alla consolidata giurisdizione della
Corte di Cassazione era sospesa nel periodo
fino alla fine della guerra, l’8 maggio 1945.
Ciò significa che, affinché fosse soddisfatto
il presupposto per una sospensione del pe­
riodo di prescrizione, doveva essere garanti­
to che un determinato atto criminoso noto
alle autorità giudiziarie del Terzo Reich
non era stato perseguito per ragioni politi­
che. Per quanto riguarda i crimini venuti alla
luce soltanto dopo la fine della guerra, la
giustizia tedesca esige la prova certa che il
perseguimento penale di tali crimini fra il
31 gennaio 1933 e i’8 maggio 1945 non ebbe
luogo per motivi politici.
Relativamente al procedimento contro
Lehnigk-Emden, la Corte di Cassazione
non volle escludere che il crimine di Caiazzo
sarebbe stato perseguito qualora fosse dive­
nuto noto, ragion per cui i giudici della Corte
confermarono la sentenza del Tribunale di
Coblenza e constatarono nuovamente che il
periodo di prescrizione per questo atto non
era da considerarsi sospeso fra il 31 ottobre
1943 e l’8 maggio 1945. Ciò vuol dire che il
periodo di prescrizione originariamente vali­
665
do di vent’anni, che secondo l’interpretazio­
ne dei giudici di Coblenza e di Karlsruhe par­
tiva dal 13 ottobre 1943, all’entrata in vigore
della legge di riforma del diritto penale del 16
luglio 1979, con la quale veniva abolita la
prescrizione per il reato di omicidio, era già
trascorso.
In definitiva, per addivenire alla sentenza
nel caso dell’omicidio di Caiazzo si rivelò de­
cisiva la pretesa della Corte di Cassazione, ri­
salente al 1969, secondo la quale doveva esse­
re garantito che un crimine “con certezza non
sarebbe stato punito a causa delle motivazio­
ni dei potenti nazisti” . Questo ostacolo è cosi
alto, da equivalere quasi a un autobloccaggio
nel perseguimento penale dei criminali nazi­
sti. Infatti, che cosa al mondo si può mai dire
“con certezza” , cioè escludendo assolutamente ogni altra eventualità?
Non è questa la sede per analizzare nel
dettaglio gli argomenti, le riflessioni e le
speculazioni dei tribunali tedeschi nel corso
del procedimento contro il massacratore
Lehnigk-Emden. Notiamo soltanto che la
lettura delle sentenze di Coblenza e di Karl­
sruhe ha suscitato in chi scrive l’impressione
che i giudici si siano intensamente sforzati
di mettere in discussione, con considerazio­
ni in parte sorprendenti, tutti gli argomenti
a sostegno della ben fondata tesi del “non
perseguimento penale” del crimine di Caiaz­
zo da parte della giustizia della Wehrmacht,
e questo al fine di poter respingere un’argo­
mentazione stringente ricorrendo al perma­
nere di un dubbio ultimo. Ciò era ed è nel
buon diritto di questi giudici, cosi come
d’altra parte nessuno è obbligato a dichia­
rarsi d’accordo con questa sentenza pur­
troppo irrevocabile. Essa va accettata uni­
camente come un dato di fatto.
Resta da aggiungere che è difficile com­
prendere per quali ragioni i giudici stessi ab­
biano accettato in modo totalmente acritico
le più assurde affermazioni della difesa, che
avrebbero dovuto rendere credibile la tesi
del “perseguimento penale” del crimine di
666
Gerhard Schreiber
guerra da parte della giustizia della Wehr­
macht. Ma dov’era in questo caso la “cer­
tezza”?
A questo proposito si può segnalare, a ti­
tolo di esempio, che la sentenza di Coblenza
nella sua argomentazione sfrutta ad oltran­
za l’affermazione secondo cui il crimine di
Lehnigk-Emden non sarebbe venuto a co­
noscenza degli uffici o dei competenti co­
mandi tedeschi prima dell’8 maggio 1945.
In questo contesto, i giudici si basavano sul­
le dichiarazioni di due ex ufficiali della 3a
divisione granatieri corazzati, uno dei quali
— fatto che la sentenza non prende in con­
siderazione — a Coblenza si era impigliato
in gravi contraddizioni, talché alla fine
non era stato in grado di dire se il coman­
dante del 29° reggimento dei granatieri co­
razzati fosse venuto a conoscenza dell’acca­
duto oppure no, mentre il secondo non si
trovava neanche in Italia all’epoca dei fatti.
Quantunque le sue dichiarazioni a proposi­
to della valutazione della situazione dei par­
tigiani — valutazione importante in relazio­
ne alla formulazione della sentenza — fosse­
ro confutate dal giudizio sulla situazione
dato dal feldmaresciallo generale Kessel­
ring, allora comandante supremo nel Suditalia, nonché dal fatto che la 3- divisione
granatieri corazzati già il 3 ottobre registra­
va perdite nella guerra contro i partigiani,
ciò non scosse agli occhi del Tribunale né
la credibilità né la competenza di questo te­
stimone. Ci si accontentò dunque del fatto
che i due ex ufficiali — senza produrre l’om­
bra di una prova e in contraddizione con la
realtà storicamente accertata oltre che con
l’affermazione dell’imputato, il quale sostie­
ne di aver “fatto rapporto sul fatto dinanzi
al suo battaglione” — asserissero che “nel
caso dell’incidente fosse stata data notizia”,
Lehnigk-Emden sarebbe stato “sicuramente
perseguito penalmente” .
Il Tribunale di Coblenza consapevolmente
valutò maggiormente le dichiarazioni dei due
testimoni citati, che non le conclusioni che ri­
sultavano “dallo stato astratto degli ordini in
vigore”, sebbene proprio quest’ultimo docu­
menti che la giurisdizione della Wehrmacht
non poteva in linea di principio perseguire
penalmente il crimine. Fu inoltre ignorato il
fatto, esaurientemente comprovato, che, nel
corso della guerra ai partigiani, furono com­
messi numerosi delitti contro donne e bambi­
ni, e tuttavia neanche in un solo caso la
Wehrmacht procedette al perseguimento pe­
nale dei ben noti responsabili. La stessa illi­
mitata fiducia che i giudici nutrivano nei con­
fronti dell’obiettività degli ex ufficiali delle
forze armate naziste, la avevano evidente­
mente anche verso i tribunali della Wehr­
macht, che a Coblenza — a quanto pare —
sono stati ritenuti organi imparziali dello
Stato. In realtà si trattava di istituzioni al ser­
vizio della tirannide nazista, che, come tutti
sanno, si comportavano di conseguenza. An­
che questo stato di cose fu dimostrato con
esempi ma — quali che ne siano stati i motivi
— non fu preso in considerazione dal Tribu­
nale nella formazione del giudizio.
I giudici della Corte di Cassazione ritenne­
ro perfino, in relazione al crimine compiuto
presso Caiazzo, di non poter “accertare che
eccessi di questo tipo fossero stati coperti dal­
la direzione dello Stato e del partito” . Si sten­
ta a crederlo, ma qui si sta parlando di quel
regime che, fra l’altro, si è reso responsabile
di inimmaginabili eccessi nei confronti della
popolazione nei paesi occupati dalle sue
truppe, del genocidio degli ebrei, per non
parlare dei dettagli burocratici della sua rea­
lizzazione. E possibile che i giudici della Cor­
te di Cassazione davvero non sappiano quel­
lo che avvenne in Polonia, nei Balcani, in
Unione Sovietica e infine in Italia tra il
1939 e il 1945? Il minimo che si può dire è
che queste sentenze di Coblenza e di Karlsru­
he non saranno certo annoverate fra le pagi­
ne più luminose della giustizia tedesca.
Gerhard Schreiber
[traduzione dal tedesco di Anna Sordini]
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
667
Relazione, in qualità di esperto storico, in occasione del dibattimento nella causa penale contro Wolf­
gang Lehnigk-Emden, presso il Tribunale di Coblenza, II Sezione penale generale, il 13 febbraio
1994, in merito al quesito: “ Le uccisioni addebitate all’imputato nella presente istruttoria sarebbero
state penalmente perseguite sulla base degli ordini in vigore all’epoca dei fatti in Italia per le truppe
tedesche?”
Signor Presidente, Signore e Signori, mi si consen­
ta di premettere all’esposizione sulla questione tre
osservazioni:
1. Il mio esposto peritale si limita in sostanza a
trattare il quesito di quali ordini vigessero nell’ot­
tobre 1943 per la cosiddetta lotta alle bande delle
truppe tedesche in Italia. Sulla base di un’ampia
analisi delle fonti, cercherò di chiarire, attraverso
controllabili accertamenti dei fatti e nel quadro
delle conclusioni che se ne traggono, quali presup­
posti esistessero per la giurisdizione della Wehr­
macht per perseguire penalmente il crimine di
guerra commesso a Caiazzo.
2. Nel redigere la perizia1, i cui risultati riporte­
rò solo in parte ed in forma concisa, sono stato co­
stantemente consapevole della responsabilità par­
ticolare derivante dal fatto che l’attività del consu­
lente storico in un processo penale concerne la sor­
te di uomini, anche se il giudizio sulla colpevolezza
o innocenza sarà emesso dal Tribunale.
3. Rientra nel mio modo di sentire quale stori­
co la ferma convinzione che di regola ci possiamo
soltanto avvicinare alla verità storica assoluta, la
quale — cosi come la perfetta giustizia — rappre­
senta un ideale. Una simile riserva non significa
peraltro che siano impossibili affermazioni stori­
che certe.
Per quanto riguarda gli ordini relativi alla con­
duzione della guerra ai partigiani nell’autunno
1943, a me sembra irrinunciabile — per meglio
comprenderli — tracciare preliminarmente un
quadro sintetico dei principali dati di fatto politici,
militari e organizzativi, nel teatro di guerra in quel
territorio.
In connessione con quanto sinora detto, vi
esporrò i risultati del mio lavoro di ricerca secon­
do tre complessi tematici.
I.
Quando il governo italiano, l’8 settembre 1943, re­
se noto l’armistizio concluso con gli alleati, il feld­
maresciallo generale Rommel, comandante del
Gruppo di armate B, esercitava il comando sulle
truppe tedesche in Italia settentrionale. La linea
di separazione dall’ambito di comando del coman­
dante supremo Sud, feldmaresciallo generale Kesselring, correva dall’Elba attraverso Piombino e
Perugia sino a Porto Civitanova, a circa 30 chilo­
metri a sud di Ancona.
Caiazzo si trovava quindi nella zona di opera­
zioni di Kesselring, al quale, in quell’8 settembre,
sottostavano le unità della Wehrmacht nel territo­
rio intorno a Roma, nell'Italia meridionale e sulle
isole di fronte alla costa tirrenica. Sul continente si
trattava della IO3*8 armata, agli ordini del generale
di squadra aerea von Vietinghoff-Scheel, che più
tardi sarebbe diventato generale d’armata, e dell’XI corpo aereo comandato dal generale Student,
al quale apparteneva allora la 38 divisione grana­
tieri corazzati.
Dal punto di vista strettamente militare, all’u­
scita dell’Italia dalla guerra le truppe tedesche ave­
vano il compito di disarmare le forze armate italia­
ne, occupare il territorio — per la parte che non si
trovava nelle mani degli alleati — e organizzare un
fronte di difesa in Italia meridionale.
Gli obiettivi politici del regime nazionalsocia­
lista — in termini molto semplificati — erano lo
sfruttamento dell’Italia per la condotta tedesca
della guerra e, direttamente connesso a questo,
la creazione di uno Stato-marionetta fascista,
sotto la guida di Mussolini. Quest’ultimo, in real­
tà, dopo che fu costretto a presentare le dimissio­
ni il 25 luglio 1943, era stato imprigionato, ma il
12 settembre le truppe tedesche erano riuscite a
liberarlo.
1 La relazione orale del 13 gennaio 1994 si basava sul testo della perizia scritta del 22 agosto 1993, redatta per l’ufficio
del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Coblenza (di seguito Perizia Schr. 1993). La perizia è consultabile presso
l’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Milano).
668
Gerhard Schreiber
Il re d'Italia ed il governo legale il 9 settembre si
risolvettero ad abbandonare Roma e a fuggire a
Brindisi.
Questa decisione rese possibile garantire la con­
tinuità statale della monarchia.
In quella situazione, l’intenzione dei comandi
tedeschi di assumere defacto il potere in Italia cor­
rispondeva invero alle esigenze strategiche dell’an­
no di guerra 1943, ma nonostante ciò la Wehrmacht operò da aggressore. Seguaci della monar­
chia e altri patrioti italiani reagirono a ciò — già
nel settembre 1943 — scatenando una guerra partigiana.
Da parte tedesca, dopo l’occupazione dell’Ita­
lia, si costituì un complesso apparato di domi­
nio, civile e militare. E in questo contesto l'isti­
tuzione del “ Generale plenipotenziario della
Wehrmacht tedesca in Italia” , nonché la nomina
del “Comandante supremo delle SS e della poli­
zia” , influirono anche sulla lotta dell’esercito
contro i partigiani. Questo avveniva tuttavia so­
lo a partire dalla primavera del 1944, mentre in
questione sono un avvenimento e la situazione
storica dell’ottobre 1943. Il problema delle com­
petenze nella controguerriglia non richiede quin­
di ulteriore trattazione.
Anzi, è sufficiente, sotto l’aspetto organizzati­
vo, con riferimento all’importante quesito posto
nella perizia, circa chi avesse la competenza, nel­
l'ottobre 1943, per la lotta ai partigiani in Italia
meridionale, sottolineare quanto segue:
Nella zona di operazioni a sud della linea di di­
visione dal gruppo di armate B (che si mantenne in
Italia sino al 21 novembre 1943), la lotta contro le
cosiddette bande spettava al comandante supremo
Sud.
Quale zona di operazioni, lo Handbuch fiir den
Generalstabsdienst im Kriege [Manuale per il servi­
zio di Stato maggiore in guerra] definisce quella
parte del territorio di guerra nella quale operava
l’esercito. Era il capo supremo della Wehrmacht
— quindi Hitler — a stabilire il confine verso le re­
trovie di una zona di operazioni dell’esercito. Le
zone di operazioni furono suddivise in zone di ar­
mata. A sua volta, ogni zona di armata si articola­
va in una zona di combattimento e in una zona re­
trostante.
Non appena dichiarata una zona di operazio­
ni, il comandante supremo militare ivi compe­
tente esercitava anche il potere esecutivo. Poteva
emanare ordinanze giudiziarie, insediare tribu­
nali speciali e impartire direttive alle autorità o
agli uffici — con alcune ben determinate eccezio­
ni — pertinenti alla sua zona di operazioni. Kesselring ricevette la “autorizzazione ad esercitare
il potere esecutivo” nella sua zona di operazioni,
che all’epoca comprendeva il territorio a sud del
confine settentrionale delle province di Littoria,
Frosinone, L’Aquila e Pescara, il 10 ottobre
1943.
In tal modo il comandante supremo di una zo­
na di operazioni possedeva — su delega — un po­
tere rilevante. Non poteva peraltro, naturalmente,
trasgredire apertamente alle disposizioni del capo
supremo della Wehrmacht, che gli aveva conferito
quella autorità assoluta2.
Per l’attuazione della lotta ai partigiani, il co­
mandante supremo Sud disponeva delle truppe a
lui sottoposte. In proposito è da tener conto, con
riferimento al procedimento penale per soprusi
da parte di soldati tedeschi — non soltanto nella
guerra contro i partigiani —, che parti della Luft­
waffe e delle Waffen SS impiegate nell’ambito del­
l’esercito erano si sottoposte tatticamente, non pe­
rò disciplinarmente, ai comandanti supremi dei
gruppi di armate e delle armate o ai generali co­
mandanti dei corpi.
Al di fuori della zona di operazioni, la lotta ai
partigiani in Italia nell’autunno 1943 era nelle ma­
ni degli uffici del Reichsfùhrer SS3.
2 Handbuch fiir den Generalstabsdienst, Teil I, Abgeschlossen am 1.8.1939, Berlin, Oberkommando des Heeres, 1939, pp.
4-7 e 117-119; e Akten zur deutschen auswärtigen Politik 1918-1945, Serie E, 1941-1945, voi. VI, 1. Mai bis 30. September
1943, Göttingen, Vandenhoek u. Ruprecht, 1979, pp. 533-535, doc. 311, 11 settembre 1943; e ivi, voi. VII, 1. Oktober
1943 bis 30. April 1944, Göttingen, Vandenhoek u. Ruprecht, 1979, pp. 71-73, doc. 39, 13 ottobre 1943.
3 A. Kesselring, Der Krieg hinter der Front: Der Bandenkrieg, senza luogo, 1949, pp. 15-21, in Bundesarchiv-Militä­
rarchiv Freiburg im Breisgau (di seguito BA-MA) C-032. Si tratta di uno studio redatto, dopo la guerra, dal feldmare­
sciallo generale per il “Foreign Military Studies Program of thè Historical Division, United States Army. Europe". Kes­
selring pubblicò il testo pressoché inalterato nelle sue memorie: Soldat bis zum letzten Tag, Bonn, Athenäum, 1953 (ed.
it. Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954).
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
II.
Relativamente alla questione — ora da discutere
— degli ordini per la guerra ai partigiani nell’otto­
bre 1943, è in primo luogo necessario ricordare
due fatti:
1. Da parte tedesca, dopo l’8 settembre 1943, si
pervenne ad una — dal punto di vista della storia
militare — singolare criminalizzazione della Resi­
stenza armata italiana nel suo complesso. Ed a
questo proposito, non fu soltanto il Comando su­
premo della Wehrmacht ad emanare ordini crimi­
nali;
2. E necessario sottolineare che la direzione
militare tedesca si sforzò di mantenere la discipli­
na della truppa per quanto riguardava il compor­
tamento nei confronti di italiani che non parteci­
pavano alla Resistenza contro gli occupanti. È di­
669
mostrabile che, nonostante le rigorose misure di­
sciplinari, questo obiettivo fu raggiunto solo tem­
poraneamente e non dappertutto.
Nella mia perizia mi sono diffusamente soffer­
mato sull’importanza dei due fatti per l’inquadramento storico del crimine di guerra perpetrato a
Caiazzo4.
Come risultato, in detta perizia ho innanzitutto
constatato che, relativamente alla domanda se la
giurisdizione della Wehrmacht avesse penalmente
perseguito il crimine di guerra del 13 ottobre 1943,
avrebbero dovuto essere prese in considerazione
direttive particolari, dal momento che l’azione, se­
condo le dichiarazioni dell’imputato Lehnigk-Emden, si svolgeva nell’ambito della lotta contro i
partigiani5.
Era quindi necessario esaminare di quali ordi­
ni si trattasse e verificare se questi avessero vali-
4 Perizia Schr. 1993, pp. 2-24. Al riguardo è stata anche ampiamente esaminata la disposizione mentale tout court della
direzione della Wehrmacht nei confronti degli italiani nel periodo 1943-1944, con l’intento di dimostrare se esistesse la
disponibilità a compiere massacri contro la popolazione che appoggiava la Resistenza. Perché è stato ripetutamente af­
fermato che la giustizia della Wehrmacht avrebbe punito crimini come quello commesso a Caiazzo se i comandanti mi­
litari ne avessero avuto conoscenza. Le indagini su questo aspetto hanno dato un risultato assolutamente negativo.
5 Perizia Schr. 1993, p. 26; sulla descrizione del massacro da parte di Lehnigk-Emden dopo il 1945 cfr.: 2 Ws 550/92,
101 Js 35779/90 — Staatsanwaltschaft (di seguito StA) Koblenz, Oberlandesgericht Koblenz, Beschluss, 6 novembre
1992, p. 5: “NeH’interrogatorio da parte del PM di Coblenza, il 16 ottobre 1992, l'imputato [...] ha energicamente con­
testato di aver preso parte all’assassinio, posto a suo carico, di 22 civili italiani. Egli ha soltanto ammesso di aver preso
parte la sera del 13 ottobre 1943 ad una azione di truppe d’assalto, nel corso della quale sarebbe stata attaccata una casa
colonica, situata nei pressi delle posizioni allora tenute dalla sua unità, nella quale si sarebbero trovati dei partigiani”. E
ivi, pp. 5 sg.: “L’imputato ha energicamente contestato l’addebito mossogli dall’accusa di aver sparato diversi colpi con­
tro civili, tra cui donne e bambini piccoli, e di aver ucciso le vittime dopo crudeli maltrattamenti [l’addebito dei “crudeli
maltrattamenti” nel dibattimento di Coblenza fu poi lasciato cadere. G. Schreiber]. A integrazione, ha dichiarato al ri­
guardo che è del tutto possibile che nell’attacco alla casa “questa gente sia stata uccisa. Se questo dovesse effettivamente
essere stato il caso, si è trattato di consueti effetti connessi con il combattimento. Non si poteva supporre che nella casa
si trovassero donne e bambini; anzi, vi era il sospetto che vi si fossero nascosti dei partigiani, dal momento che in pre­
cedenza si era notato che dalla finestra venivano mandati segnali luminosi Morse” . Cfr. ora in proposito anche Landgericht Koblenz, Urteil im Namen des Volkes 101 Js 35779/90 jug — 2 Kls — 18 gennaio 1994 (di seguito Tribunale di
Coblenza, Sentenza 1994), pp. 17 sg., dove sono ancora una volta riassunte le dichiarazioni fatte da!l’“imputato” il 15
ottobre 1992 e la rappresentazione dello svolgimento dell’azione contenuta in una nota da questi redatta. A questo ri­
guardo il Tribunale conferma che T“imputato” dichiarò che relativamente agli italiani “si trattava manifestamente di
partigiani; si poteva pensare che avessero utilizzato le donne e i bambini come scudo, cosa che si è verificata abbastanza
spesso nel corso della guerra in Italia” . In una intervista con il giornalista Erwin Koch, Lehnigk-Emden dichiarò nel­
l’estate 1994: “Protesto con ogni energia contro il fatto che di una azione di guerra venga fatto un massacro, soltanto
perché come tale venne rappresentata dalla guerra psicologica condotta dai nemici oltre cinquant'anni fa”. Affermò
inoltre: “Per fatalità persero la vita quindici persone”, e questo in una azione che per lui “era guerra normale”. Cfr.
E. Koch, Der 13. Oktober, “Das Magazin” , 9 luglio 1994, n. 27, pp. 22-31, qui p. 30. Né le descrizioni fatte nel dopo­
guerra dall’assassino in libertà Lehnigk-Emden, né quelle da lui tracciate durante la prigionia americana corrispondono
alle circostanze di fatto storiche: cfr. in proposito StA Koblenz, Amts-Land-Gericht, Drittakte 101 Js 35779/90 NSG“
(di seguito StA, Drittakte), pp. 101-121; infatti l’autore giustificò il suo crimine del 1943 come reazione al supposto tra­
dimento di postazioni tedesche, considerato come attività delle bande (pp. 105, 108-111 e 115); altra volta si appellò per
il suo modo di agire all’ordine per le zone di combattimento evacuate, che esigeva la fucilazione di tutti i civili presenti
dopo l’evacuazione (pp. 115 sg. e 121). Prescindendo dall’infondatezza oggettiva, le argomentazioni di Lehnigk-Emden
670
Gerhard Schreiber
dità nel periodo considerato, sul teatro di guerra
italiano.
Desidero in proposito rilevare che la documen­
tazione archivistica sui reparti della Wehrmacht
impegnati in Italia presenta lacune. Tuttavia, le
fonti consultate in merito allo specifico quesito
della perizia consentono conclusioni univoche e
ben documentate.
Così è da definire come assolutamente certo il
fatto che nell’autunno 1943 l’allora disposizione
centrale della Wehrmacht per la guerra ai partigia­
ni, ovvero la “Direttiva di combattimento per la
lotta alle bande nell’Est” dell’11 novembre 19426
è stata vincolante anche per il territorio italiano.
L’esattezza di questa constatazione è dimostra­
ta da documenti degli anni 1943 e 1944, così come
da una deposizione del feldmaresciallo generale
Kesselring del 1946.
In particolare è da citare, a questo riguardo,
l’ordine n. 9 del corpo d’armata del comandante
della zona di operazioni Litorale adriatico del 24
febbraio 1944, nel quale il generale Ktibler affer­
mava in merito alla “conduzione della lotta alle
bande” 7: “La 'Direttiva di combattimento per la
avrebbero avuto molto peso per quanto riguarda il perseguimento dell’azione da parte della giustizia della Wehrmacht,
tenuto conto degli ordini (di cui tratteremo oltre), nonché dell’atteggiamento carico di odio dei comandi militari nei
confronti dei partigiani e di quelle parti della popolazione che li appoggiavano. Certo, si potrebbe argomentare che sol­
dati della 3Bcompagnia del reggimento motorizzato granatieri 29 nell’interrogatorio durante la prigionia di guerra ame­
ricana contraddissero l’esposizione dei fatti di Lehnigk-Emden; ma persimo il Tribunale di Coblenza ritenne che non si
dovesse senz’altro partire dal fatto che i testimoni citati su quel punto May, Leila, Sigorski e Ligmanovski avrebbero
deposto “di fronte ad un Tribunale di guerra tedesco” nello stesso modo in cui l’avrebbero fatto di fronte ad ufficiali
americani: Tribunale di Coblenza, Sentenza 1994, pp. 18-25, qui p. 46.
6 Nur für den Dienstgebrauch! Kampfanweisung für die Bandenbekàmpfung im Osten vom 11.11.1942, in BA-MA,
RHD 6/69/1: Anhang 2 zu Heeres-Dienstvorschrift la, p. 69, n. progressivo 1. Nel documento, a proposito del rapporto
verso i partigiani e le persone che li appoggiano, si legge (pp. 31-33): “83. Nel trattamento dei banditi e dei loro fian­
cheggiatori volontari è richiesto il massimo rigore [il corsivo corrisponde, anche di seguito, all’originale in grassetto, G.
Schreiber]. Considerazioni sentimentali in questa questione decisiva sono irresponsabili. La durezza delle misure ed il
timore delle punizioni da attendersi devono di per sé trattenere dall’appoggiare le bande o dal favorirle. — 84. I parti­
giani prigionieri, quando non vengano eccezionalmente [...] fatti operare nelle nostre azioni contro le bande stesse, de­
vono essere impiccati o fucilati; i disertori devono essere trattati, a seconda delle circostanze, come prigionieri al fronte.
— Di regola i prigionieri dopo breve interrogatorio devono essere fucilati sul posto. [...]. Ogni capo di Sezione è respon­
sabile del fatto che banditi e civili prigionieri, trovati a partecipare attivamente alla lotta (anche donne) vengano fucilati
o meglio impiccati. Soltanto in casi eccezionali fondati, egli è legittimato a derogare da questo principio, comunicando il
particolare motivo. — 85. E meritevole di morte colui che appoggia le bande procurando loro rifugio, cibo, tenendo se­
greto il luogo conosciuto dove queste si trattengono, o mediante qualsiasi altra misura. Qualora si tratti di popolazione
maschile abile al lavoro, per la quale si possa dimostrare che sia stata costretta dal terrore ad appoggiare le bande, è
imposto adibirli al lavoro coatto ed è previsto il loro trasferimento per lavoro in Germania. [...]. — 86. Contro paesi,
nei quali le bande abbiano trovato appoggio di qualsiasi genere di regola vengono richieste misure collettive. A seconda
della gravità della colpa, queste possono consistere in una maggiorazione di imposte, confisca di una parte o di tutto il
bestiame, prelevamento di uomini abili al lavoro per farli lavorare in Germania e perfino distruzione dell’intero paese.
L’ordine per misure collettive può essere impartito soltanto da ufficiali con il grado di capitano [o gradi di servizio su­
periori, G. Schreiber]”.
7 Der Befehlshaber in der Operationszone Adriatisches Küstenland la n. 1762/44, 24.2.1944, Betr.: Führung des Bandenkampfes, Korpsbefehl Nr. 9, in BA-MA, RW 4/v. 689. Il generale Kiibler, le cui truppe registrarono nella lotta con­
tro i partigiani, tra il 1° gennaio e il 15 febbraio 1944, complessivamente 503 morti e feriti, ordinò di contrapporre “ter­
rore a terrore” . La inferiorità numerica tedesca doveva essere compensata dalla "durezza della conduzione della
guerra"; e per lui nella lotta alle bande era “tutto giusto e necessario ciò che porta al successo” . Nell’ordine del 16 di­
cembre 1942, che esamineremo più avanti, Hitler esigeva dai soldati di “impiegare ogni mezzo, quando porti al succes­
so”. Evidentemente Kiibler conosceva questo ordine, la somiglianza verbale non è casuale. Nello stesso tempo il gene­
rale assicurava i suoi sottoposti che avrebbe “personalmente coperto ogni misura corrispondente a questo principio” . E
in connessione con questo, fermamente dichiarava: “Che nella lotta talvolta perdano la vita anche degli innocenti è spia­
cevole, ma non si può farci nulla. Possono ringraziare le bande. Non abbiamo iniziato noi la guerra delle bande” . Si­
gnificativo è inoltre il rifiuto di Kiibler di precisare modi di comportamento. In termini lapidari, egli si limitò infatti ad
osservare: “E superfluo ora registrare che cosa sia prescritto, permesso o vietato. Nel terzo anno della guerra alle bande
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
lotta alle bande nell’Est’ vale nei suoi principi fon­
damentali anche per la zona di operazioni Litorale
adriatico”.
Kübler dipendeva a quel tempo da Kesselring,
che dal 21 novembre 1943, quale comandante su­
premo Sudovest e comandante supremo del Grup­
po di armate C, era a capo di tutte le truppe tede­
sche in Italia. A prescindere da questo, nella con­
duzione della guerra ai partigiani Kübler doveva
tuttavia tener conto del commissario superiore
nella zona di operazioni Litorale adriatico. Que­
st’ultimo personificava il vertice dell’amministra­
zione tedesca nella zona di operazioni e contempo­
raneamente rivestiva la carica di consigliere civile
del comandante militare.
La formulazione: “La Direttiva di combatti­
mento” vale “nei suoi principi fondamentali” na­
sceva evidentemente da una “obiezione” del com­
missario superiore. Kübler infatti lo accusò di aver­
lo costretto a modificare l’ordine n. 9 del corpo
d'armata “sulla conduzione della lotta alle bande
contro le disposizioni della direttiva di combatti­
mento per la lotta alle bande nell’Est”8. Una affer­
mazione che sembra indicare che quella Direttiva di
combattimento normalmente valeva senza riserve
in tutta l’Italia occupata dai tedeschi9. D’altra parte
si può obiettare che l’ordine di Kübler fu emanato
soltanto nel 1944 e quindi non comproverebbe nul­
671
la circa la obbligatorietà della Direttiva di combat­
timento dell’autunno 1943. A chiarire il problema
sono d’aiuto alcune dichiarazioni di Kesselring in
merito alla “guerra alle bande in Italia dal 1943 al
1945”. Vale a dire, il feldmaresciallo generale fece
mettere a verbale il 4 ottobre 1946, come prigionie­
ro di guerra dei britannici, che per le cosiddette
operazioni contro le bande — tra l’altro — valeva­
no i “principi generali” della “ norma sulle ban­
de” 10. Egli si riferiva con questo tanto alla Direttiva
di combattimento dell’11 novembre 1942, quanto
anche al foglio d’istruzioni 69/2, “Lotta alle ban­
de”, del ls aprile 1944, come nuova “norma sulle
bande” 1'. In quella occasione, Kesselring prendeva
in considerazione l’arco di tempo dal settembre
1943 al maggio 1945. Non fece parola di un limite
di validità della “Direttiva di combattimento”. An­
che da ciò si deve dedurre che, secondo il ricordo
dell’ex comandante supremo Sudovest, la disposi­
zione era vincolante dal momento dell’uscita dell’I­
talia dal conflitto.
Conferma questa supposizione un decreto del
Comando della 14a armata del 28 novembre
1943 (il Comando della 14s armata il 21 novembre
era subentrato al Gruppo di armate B del feldma­
resciallo generale Rommel ed era stato ad ogni ef­
fetto sottoposto al comandante supremo Sudo­
vest). Nel citato decreto si leggeva12: “Quale chia-
ogni comandante sa comunque che cosa conviene fare”. Kübler, che era stato impiegato in Russia come generale co­
mandante del XXXIX corpo d’armata di montagna e comandante in capo della 4“ armata, chiaramente si riferiva in
proposito alle esperienze che aveva acquisito in quel paese ed esigeva, come fatto naturale, nella lotta contro i partigiani
in Italia lo stesso comportamento tenuto in Unione Sovietica. Ordinò espressamente che i “principi” dell'ordine del cor­
po d’armata fossero “ripetutamente inculcati in tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldati” . Si trattava di “principi” che sul
teatro di guerra italiano non sono stati straordinari, bensì generalmente validi e che devono essere tenuti presenti nella
risposta al quesito se la giustizia della Wehrmacht avrebbe perseguito penalmente il massacro di Caiazzo.
8 Dienstreisebericht von Hauptmann Dr. Cartellieri, F.H.Qu., den 20.3.1944: Die Operationszone Adriatisches Küsten­
land, in BA-MA, RW 4/v. 508 b.
9 Se le cose fossero state diverse, risulterebbe incomprensibile perché Kübler, nel colloquio con il rappresentante del
Comando supremo della Wehrmacht, presentasse l’intervento del commissario superiore, Gauleiter e governatore del
Reich, dr. Friedrich Rainer, come in contraddizione con la disposizione.
10 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring, London, 4 10 1946, in
Zentrale Stelle der Landesjustiz-Verwaltungen zur Aufklärung von NS-Verbrechen Ludwigsburg (di seguito ZSL), JAG
260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 2.
11 Oberkommando der Wehrmacht Nr. 03268/44 — W.F.St./Op., Merkblatt 69/2, Nur für den Dienstgebrauch! Ban­
denbekämpfung (Gültig für alle Waffen) vom 6.5.1944, in BA-MA. RHD 6/69/2. In merito all’entrata in vigore della
nuova disposizione, si legge: “II Foglio di istruzioni 69/2 ’Lotta alle bande’ entra in vigore per la Wehrmacht con il
1" aprile 1944. Il Foglio di istruzioni per esclusivo uso di servizio 69/1 ’Direttiva di combattimento per la lotta alle bande
nell’Est’ (OKW 1216/42 W.F.St/Op. dell’ 11 novembre 1942) è con ciò abolito”.
12 Oberkommando der 14. Armee le Nr. 68/43 g. Kdos., 28.11.1943, Betr.: Behandlung gefangener Saboteure, Agenten
und Bandenangehöriger, in BA-MA, RH 20-14/83. Nel testo è riportato per esteso il punto 84 della Direttiva di com­
battimento per la lotta alle bande all’Est: cfr. BA-MA, RHD 6/69/1 (si veda sopra, nota 6).
672
Gerhard Schreiber
rimento in merito alle questioni che ripetutamente
si ripresentano circa il trattamento da riservare a
prigionieri appartenenti a bande o a sabotatori,
si fanno pervenire ancora una volta [!] ai Comandi
di corpo d'armata e alle Divisioni, in succinto, le
direttive più importanti con le disposizioni in pro­
posito” . Dopo di che, quali direttive più importanti
vengono indicate:
1. l’ordine del Führer del 18 ottobre 1942 sull’“annientamento di gruppi terroristici e di sabo­
taggio” (commandos);
2. l’ordine di Hitler del 19 giugno 1942 sul rap­
porto verso i “sabotatori di origine tedesca”;
3. una direttiva del Gruppo di armate B del 1°
novembre 1943 sul “trattamento di agenti nemi­
ci”, e
4. la “Direttiva di combattimento per la lotta
alle bande nell’Est”.
A conclusione, il Comando della 143 armata de­
cretava: “ Le accluse diposizioni devono essere fat­
te oggetto di accurata istruzione presso le truppe.
L’inoltro scritto di questo ordine non va effettuato
al di fuori degli stati maggiori di reggimento, e ri­
spettivamente di reparto. Dopo comunicazione, i
testi notificati ai livelli inferiori attraverso gli stati
maggiori di divisione devono essere reincamerati e
distrutti” .
Non da ultimo ho citato questa disposizione
perché mette in luce l’atteggiamento prudente dei
comandi della Wehrmacht rispetto a istruzioni di­
rompenti: la disposizione stessa — almeno in gran
parte dei casi — la si è fatta semplicemente scom­
parire. E con ciò si spiegano certe difficoltà incon­
trate nel documentare la perizia.
Ma che cosa dice il citato ordine emesso dal Co­
mando della 143 armata il 28 novembre 1943 (or­
dine che non lascia il minimo dubbio sulla validità
della Direttiva di combattimento in Italia1314) circa
la validità nel tempo di questo provvedimento e
Vestensione della sua applicazione sul teatro di
guerra italiano?
Che il Comando della 143 armata — pochi gior­
ni dopo l’assunzione della carica — nominasse la
Direttiva di combattimento ancora una volta, co­
me testualmente detto, dunque di nuovo o per l ’en­
nesima volta, quale norma vincolante cui attenersi
per il trattamento nei confronti di partigiani signi­
fica innanzitutto che questa norma in Italia già da
prima — dunque ai tempi del Gruppo di armate B
— era stata vincolante. Dal momento che le trup­
pe del Gruppo di armate B — in gran parte — era­
no state inquadrate nella 14a armata, il nuovo Co­
mando confermava in tal modo alle unità ora ad
esso sottoposte il carattere vincolante di quelle
quattro disposizioni che al grosso dei soldati erano
senz’altro già note.
Inoltre, l’atto di conferma documenta che si
trattava di direttive che valevano già prima del
21 novembre 1943 nell’ambito di comando rispet­
tivamente del Gruppo di armate B e del coman­
dante supremo Sud. Ciò risulta innanzitutto dal
fatto che il comando della 143 armata confermasse
il carattere illimitatamente vincolante delle quattro
disposizioni nel momento in cui la grande unità già
sottostava al comandante supremo di tutte le trup­
pe tedesche in Italia. E infatti da escludere che il
feldmaresciallo generale Kesselring, nelle zone di
impiego della 10a e della 143 armata a lui sottopo­
ste, avesse accettato ordini sostanzialmente diversi
per la lotta ai partigiani.
Dimostrato così che la “Direttiva di combatti­
mento” del 1942 rappresentava una norma valida
su tutto il teatro di guerra italiano, desidero analiz­
zare più da vicino la questione di quando questa
disposizione abbia assunto in Italia quel carattere
vincolante. A tale proposito — partendo da quan­
to detto sinora — bisogna considerare anche le se­
guenti circostanze di fatto.
La direzione della Wehrmacht, mentre l’Italia si
preparava ad uscire dal conflitto, aveva messo in
conto — come si ritrova nel Kriegstagebuch des
Oberkommandos der Wehrmacht14 — il sorgere,
13 II consulente della difesa, prof. dr. Alfred de Zayas, lungi dall’avere familiarità con le circostanze storiche, nel dibat­
tito a Coblenza ha sostenuto il contrario, senza alcuna prova. Nel procedimento di cassazione dinanzi alla Corte di
Karlsruhe, un altro consulente della difesa, prof. dr. Franz W. Seidler, cercò di circoscrivere la validità della Direttiva
di combattimento all’Istria. Anche in questo caso si tratta di una speculazione del tutto infondata, in quanto la 14* ar­
mata, competente — come in precedenza il Gruppo di armate B — per l’Italia del Nord e l’Alta Italia trasmise la di­
sposizione a tutte le unità sottoposte come norma vincolante.
14 Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht (Wehrmacht-Führungsstab), voi. III, 1. Januar 1943 — 31
Dezember 1943, Zusammengestellt und erläutert von W. Hubatsch, Frankfurt am Main, Bernard u. Graefe Verlag
für Wehrwesen, 1963, p. 1069. Alla domanda: “Quali svantaggi porta l’attuazione del piano ’Asse’?” , il 7 settem-
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
sin dall’inizio, di raggruppamenti partigiani15. Lo
confermò ancora una volta il generale di corpo
d’armata Hans Ròttiger, ex capo di Stato maggio­
re del Gruppo di armate C16.
È quindi da considerare ovvio che da parte te­
desca, nell’ambito dell’attuazione di misure per
difendersi dall’atteso pericolo partigiano, ci si ri­
chiamasse alla “Direttiva di combattimento per
la lotta alle bande nell’Est” quale norma vinco­
lante. Questa circostanza è stata ora ampiamen­
te dimostrata. Ma appare anche logico, dal mo­
mento che la direzione della Wehrmacht consi­
derava come un’eventualità realistica il nascere
di una guerra partigiana già prima dell’8 settem­
bre 1943, che la Direttiva di combattimento al­
l’uscita dell’Italia dal conflitto fosse già prospet­
tata come disposizione da applicare per la lotta
contro i partigiani.
Certamente la storiografia vede l’apice del mo­
vimento partigiano soltanto nel 1944. Dal canto
mio sono ben lungi dall’avere un’opinione sostan­
zialmente diversa, anche se su questioni marginali
si può discutere. Ricordo ad esempio l’insurrezio­
673
ne — difficilmente separabile dalla lotta partigia­
na — della popolazione civile a Napoli, nel settem­
bre 194317.
Comunque, l’accertamento storico oggettivo,
quale si palesa nello sguardo retrospettivo, non
tocca minimamente quanto ho sinora detto. La
valutazione fatta allora della situazione — da
prendere in considerazione nell’ambito della peri­
zia — sulla quale si fondavano gli ordini emanati
veniva infatti compiuta non già con la prospettiva
e distanza dello storico. Anzi, le decisioni di volta
in volta prese si basavano sull’analisi dei dati di­
sponibili — di diverso spessore e non sempre affi­
dabili — sul nemico. Si ha quindi a che fare con
una visione delle cose condizionata in alta misura
dalla situazione e talvolta assolutamente soggetti­
va, che però ciò nonostante nei confronti del que­
sito centrale della perizia è da ritenersi fondamen­
tale.
Ciò premesso, possiamo citare quale esempio
della valutazione di allora del problema dei parti­
giani un provvedimento di Kesselring del 13 otto­
bre 1943.
bre 1943 si legge: “ 1. diminuzione di forze per il disarmo di circa 80 divisioni italiane e aumento dell’attività delle
bande. La protezione della costa sudoccidentale italiana, lunga mille chilometri, esige forze che non sono dispo­
nibili” .
15 II feldmaresciallo Kesselring dichiarò nel 1949 che subito dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) si erano con­
statati “primi indizi del sorgere di nuclei di resistenza contro la Wehrmacht tedesca” : A. Kesselring, Der Krieg hinter
der Front, loc. cit. alla nota 3, p. 4.
16 Ausarbeitung des Generals der Panzertruppe a.D. Hans Röttiger für das Institut für Zeitgeschichte München
(24.6.1952) über “Die Zuständigkeiten in Italien ab September 1943”, in BA-MA, N 422/23, Nachlass Röttiger.
La Direzione del Reich, non da ultimo a causa della paventata guerra delle bande, già il 9 settembre 1943 insediò
il futuro Oberstgruppenführer delle SS e colonnello generale delle Waffen-SS Karl Wolff come “comandante supre­
mo delle SS e della Polizia” in Italia. Röttiger scrive che “compito” di Wolff sarebbe stato “di impedire il temuto
instaurarsi di una guerra di bande e di prendere comunque tutte le misure di polizia per mantenere nella popola­
zione civile pace, ordine [e] sicurezza” (p. 5). Da rilevare che l’attività del “comandante supremo delle SS e della
Polizia” prima del maggio 1944 si estendeva al territorio fuori della zona di operazioni. Da maggio la responsabi­
lità complessiva per la guerra alle bande ricadde sul comandante supremo Sudovest. Anche nei confronti di Wolff
egli aveva la competenza sulle direttive. Che da parte tedesca, sin dall’inizio si mettesse in conto un’attività di par­
tigiani lo confermano anche ordini di divisione. Cfr. ad esempio 26“ Panzer-Division, Div.Gef.Stand, den 9.9.43,
Befehl für den Rückmarsch der Division in den Raum Catrovillari [Castrovillari], nel quale si legge: “Si devono
mettere in conto azioni di sabotaggio, casi isolati di resistenza degli italiani. La resistenza deve essere spezzata
con le armi” .
1' Si ricordi in proposito che l’estendersi del movimento insurrezionale nella zona di Napoli costrinse il XIV corpo
corazzato, nonostante le “contromisure più aspre” a ritirarsi più velocemente e per una distanza superiore di quanto
in un primo tempo prospettato: Kriegstagebuch XIV. Pz.Korps, 30.9.1943, p. 55, in BA-MA, RH 24-14/72; e Gen.Kdo. XIV. Pz.Korps la, Tagesmeldung 30.9.1943, an Armeeoberkommando 10., in BA-MA, RH 24-14/75. Appare op­
portuno a questo punto richiamare l’attenzione sul cattivo rapporto di molti tedeschi nei confronti della Resistenza
italiana. Significativo al riguardo mi sembra tra l’altro il fatto che il film Le quattro giornate di Napoli, proiettato nel
1962 in cinematografi tedeschi, suscitò tanto nel governo come anche nell’opinione pubblica una violenta ondata di
indignazione verso l’Italia. Evidentemente non soltanto ai generali di Hitler mancava ogni comprensione per l’etica
della Resistenza.
674
Gerhard Schreiber
In esso l’allora comandante supremo Sud,
anche se dopo la guerra parve ricordare diversamente le cose, indicava che nel suo settore —
quindi nei dintorni di Roma ed in Italia meri­
dionale — a quel punto esisteva una rilevante
minaccia per le truppe tedesche a causa dei resi­
stenti italiani.
In quest’ordine del 13 ottobre 1943 si legge tra
l’altro18:
Il comportamento per la maggior parte ostile della popo­
lazione italiana, il rafforzamento di bande in tutta la zo­
na del comandante supremo Sud, commandos operanti
dal mare e la possibilità di azioni di paracadutisti nemici
rendono necessario che ogni soldato in ogni situazione
abbia la sua arma da fuoco a portata di mano.
Rilevante appare che Kesselring parli già il 13
ottobre per la zona di operazioni Italia meridio­
nale di un rafforzamento e non della comparsa
per la prima volta dei partigiani. Da sottolineare
inoltre che in questo caso non si trattava della
valutazione di un comandante subordinato o di
un capo settore, al quale la situazione delle co­
siddette bande poteva apparire diversa — sia
più pericolosa, sia più pacifica — sulla base di
condizioni particolari. Siamo anzi di fronte ad
una elaborazione complessiva del comandante
supremo tedesco nel settore dell’Italia meridio­
nale, nella quale viene valutato il pericolo parti­
giano nel periodo precedente il 13 ottobre
194319. È inoltre da considerare che il giudizio
di Kesselring sulla situazione si basava sulle va­
lutazioni contenute nei rapporti giornalieri delle
divisioni a lui sottoposte. La sua stima sulla si­
tuazione nell’ottobre 1943 si fondava quindi su
un’ampia base di informazioni.
Quale esempio riportiamo una comunicazione
da parte della divisione corazzata paracadutisti
Hermann Gòring, che il 30 settembre informava
dalla zona di Napoli e quindi non lontano da
Caiazzo:
L’imperversare delle bande nelle retrovie aumenta ogni
giorno. Come risulta senza alcun dubbio dal nostro ec­
cellente sistema di informazioni via radio, gli abitanti
del luogo tradiscono in larga misura le nostre proprie
[si intendeva tedesche] basi, postazioni per artiglieria,
ponti preparati per l’esplosione ecc. 20.
18 H.Gr. C, Grundsätzliche Befehle O.K.W./O.B.Südwest, 27.11.1942-29.9.1944, qui foglio 23: O.B.Süd/F.A./Ia H
Br.B.Nr. 12699/geh.. 13.10.1943, in BA-MA, RH 19 X /ll. Che la direzione militare considerasse minacciosa l’attività
delle “bande” nel settore meridionale italiano nel settembre e ottobre 1943 risulta anche da altre fonti. Cfr. BA-MA,
RH 24-76/6, Anlage 15a: Generalkommando LXXVI. Pz.Korps Abt. Ic 2190/43, 10.10.1943, Wochenbericht für die Zeit
vom 27.9.-2.10.1943, con richiamo ad attività di partigiani presso Napoli, Caserta e altre località; ivi, Anlage 52: Ge­
neralkommando LXXVI. Pz.Korps Abt. Ic 2490/43, Feindnachrichtenblatt Nr. 2, p. 3; e BA-MA, RH 2/649: Meldun­
gen O.B.Süd vom 1.9.-30.9. 1943; BA-MA, RH 2/650 e RH 2/651: Tages- und Ic-Meldungen O.B.Süd vom 1.10.31.10.1943, parte I e IL
19 A questo proposito è opportuno sottolineare — come energicamente richiamo nella mia relazione dinanzi al Tribu­
nale di Karlsruhe (il testo della relazione è consultabile presso l’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movi­
mento di liberazione in Italia) — che la Wehrmacht definiva il concetto di attività delle bande in Italia in senso molto
ampio, e quindi non limitato ad atti di sabotaggio e azioni annate. Cfr. al riguardo BA-MA, RH 27-26/27, Anlage 4,
Tätigkeitsbericht Abt. Ic 26. Panzer-Division vom 29.11.1943-27.1.1944, qui: 26. Panzer-Division Abt. Ic Nr. 879/45
geh., 9.12.1943, Feindnachrichtenblatt Nr. 7, dove si afferma tra l’altro: “In tutto il territorio intorno a Pescara è stata
constatata sinora una rilevante attività di bande. Rientrano nel concetto di bande: a) Italiani che commettono atti di
sabotaggio e attentati contro appartenenti e beni della Wehrmacht; b) Ex soldati italiani armati che collaborano con
truppe di sabotaggio sbarcate da aerei o navi o prigionieri di guerra evasi” . Che cosa da parte tedesca si intendesse
per questi “attentati” , ovvero “azioni dirette contro la Wehrmacht” e “punite con la morte” risulta da una “comuni­
cazione” del generale comandante del XIV corpo corazzato del settembre 1943: BA-MA, RH 24-14/135, Anlageheft 1
zum Tätigkeitsbericht 2 Gen.Kdo. XIV. Pz.Korps/Abt. Ic, 3.9.1943-5.10.1943, Anlagen Nr. 300-499, qui Anlage 327.
Secondo il testo, attività di quel tipo comprendevano: “ 1. Attacchi contro veicoli tedeschi e soldati tedeschi; 2. Possesso
di armi e munizioni. [...]; 3. Sabotaggi di ogni tipo, in particolare distruzione di linee telefoniche, disturbi nella eroga­
zione dell’elettricità e dell’acqua, distruzione con esplosivi di strade e ponti e altre installazioni del traffico; 4. Diffusione
di propaganda nemica; 5. Appoggio a tutte le forze ostili alla Wehrmacht tedesca. Accogliere agenti nemici e trasmettere
notizie di tipo militare agli stessi”. Veniva quindi richiamato: “Chi sia a conoscenza di misure dirette contro la Wehr­
macht tedesca e non lo comunica immediatamente al più vicino reparto militare incorre nelle stesse punizioni” .
20 BA-MA, RH 24-14/75, Anlagen zum Kriegstagebuch Nr. 5 XIV. Panzerkorps la, 8.9.1943-30.9.1943, foglio 280/2.
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
Queste azioni di italiani descritte dalla divisione
Hermann Gòring venivano quindi considerate
parte integrante della conduzione della guerra
partigiana. Ciò è di un’importanza assoluta ai
fini del dibattito sul crimine di guerra perpetra­
to a Caiazzo, nel caso in cui sia stato effettiva­
mente scorto l’invio di segnali luminosi. Perché
la comunicazione della divisione dimostra che
la lotta contro i gruppi di resistenti non signifi­
cava soltanto — come talvolta sostenuto — lo
scontro armato. E del resto anche i tedeschi
dal canto loro non hanno combattuto i parti­
giani esclusivamente con mezzi militari. Su que­
sto aspetto ho richiamato l’attenzione nelle ri­
flessioni contenute nella perizia sul concetto di
lotta21.
In relazione alla determinazione della validità
temporale della “ Direttiva di combattimento”
del 1942 in Italia occorre infine menzionare an­
che il “Feindnachrichtenblatt Nr. 36” [“Bolletti­
no di informazioni sul nemico, n. 36”] del 1° no­
vembre 1943. Da questo documento risulta cioè
come il comandante supremo Sud ed il suo Stato
maggiore giudicassero il pericolo partigiano nel
periodo importante per il quesito della perizia,
tra l’8 settembre e il 31 ottobre 1943. Vi si legge
tra l’altro22:
Nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre
1943 ebbero luogo nella zona del comandante supremo
Sud assembramenti di soldati italiani rilasciati, a cui si
mischiavano prigionieri di guerra angloamericani rimessi
in libertà.
A titolo di integrazione vale rilevare in proposito
che il secondo ordine criminale, emesso dal Co­
mando supremo della Wehrmacht nel corso del di­
sarmo delle forze armate italiane il 12 settembre
1943, si riferiva tra l’altro alla cooperazione tra
partigiani ed appartenenti ai reparti italiani23.
675
Anche nel citato “Feindnachrichtenblatt” viene
registrata questa collaborazione. Il che significa
che i gruppi composti da soldati italiani e prigio­
nieri di guerra alleati ricevevano afflusso da parte
della popolazione. Si aggiunga che — dopo un ac­
quietamento temporaneo — “di recente l’attività
delle bande [è] notevolmente aumentata”.
L’accenno all’accresciuta attività dei combat­
tenti della Resistenza si riferiva chiaramente alla
situazione in ottobre. A favore di ciò sta anche il
fatto che il citato ordine di Kesselring del 13 di
quel mese registrava il rafforzamento dei parti­
giani.
Inoltre fu rilevata una “conduzione e struttura”
più consolidata dei gruppi partigiani. Se ne dedu­
ceva che la loro “diminuzione numerica” fosse
“compensata da una crescita della validità” , che
lasciava “presagire il crescere dell’attività delle
bande”. In ogni caso i gruppi militari di resistenza
mettevano in pericolo la sicurezza nella zona di
operazioni del comandante supremo Sud.
Come primo accertamento dei fatti, desidero a
questo punto puntualizzare quanto segue:
Quale risultato di un’analisi degli ordini emessi,
delle dichiarazioni di testimoni dell’epoca e del
giudizio sulla situazione partigiana dall’8 settem­
bre al 31 ottobre da parte del comandante supre­
mo Sud si deduce che la “ Direttiva di combatti­
mento per la lotta alle bande nell’Est” dal settem­
bre 1943 costituì la norma vincolante sul teatro di
guerra italiano per la lotta ai partigiani. Le dispo­
sizioni essenziali di questa norma straordinaria­
mente brutale sono riportate alla lettera nella
mia perizia24. Rinuncio quindi a citarle in questa
sede.
Le circostanze appurate, che i consulenti della
difesa hanno messo in dubbio sulla base di pure
ipotesi ed inconsistenti congetture, hanno dovuto
essere ricostruite tanto dettagliatamente, in quan­
to un ordine di Hitler, che a me sembra decisivo
21 Perizia Sehr. 1993, pp. 69 sg.; e Carlo Gentile, Der Krieg gegen die Partisanen in Italien 1943-1945, Magisterarbeit,
Università di Colonia Colonia, 1993, pp. 67 sg.; la ricerca inedita sarà prossimamente pubblicata in italiano.
22 O.B. Südwest, Abt. Ic, 18.6.1943-23.2.1944, fogli 243 sg.: Feindnachrichtenblatt Nr. 36 der Führungsabteilung des
Oberbefehlshabers Süd vom 1.11.1943, in BA-MA, RH 19 X/12. Nel documento le bande vengono suddivise in tre ca­
tegorie: gruppi militari, gruppi di resistenza e gruppi politici. Di ciascuna categoria sono esattamente descritte le fun­
zioni; cfr. Perizia Sehr. 1993, pp. 28 sg.
3 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich ¡943-1945. Traditi — Di­
sprezzati — Dimenticati, Roma, Ussme, 1992, pp. 141 sg.
24 Perizia Sehr. 1993, pp. 41 sg.; cfr. direttamente sul tema nota 6, ivi BA-MA, RHD 6/69/1, dove sono riportati i pas­
saggi contenuti nella perizia.
676
Gerhard Schreiber
per rispondere al quesito centrale della perizia, si
richiama a quella direttiva di combattimento. In
altri termini, le due disposizioni costituiscono un
insieme unitario.
in.
Mi riferisco all’ordine di Hitler del 16 dicembre
1942, che porta la firma del capo del Comando su­
premo della Wehrmacht, feldmaresciallo generale
Keitel, e la cui analisi costituisce il secondo com­
plesso tematico della mia relazione. Per compren­
dere in dettaglio l’interpretazione e l’inquadramen­
to storico da me dati a questo documento chiave, è
necessario leggerne integralmente il testo25:
11 Führer è in possesso di rapporti, secondo i quali singoli
appartenenti alla Wehrmacht impiegati nella lotta con­
tro le bande sono stati chiamati a render conto del loro
comportamento in combattimento. In proposito il Füh­
rer ha disposto:
1. Nella lotta alle bande il nemico fa impiego di com­
battenti fanatici, formati secondo principi comunisti, i
quali non rifuggono da nessun atto di violenza. Mai co­
me in questo caso si tratta di essere o non essere. Questa
lotta non ha più nulla a che fare con la cavalleria militare
o con accordi della Convenzione di Ginevra.
Se questa lotta contro le bande, tanto all’Est come nei
Balcani, non viene condotta con i mezzi più brutali, in un
prossimo futuro le forze disponibili non saranno più suf­
ficienti a dominare questa pestilenza.
La truppa è quindi legittimata e obbligata in questa
lotta ad usare senza limitazioni qualsiasi mezzo, anche
contro donne e bambini, se questo porta ad un successo.
Riguardi, non importa di quale tipo, sono un crimine
contro il popolo tedesco ed il soldato al fronte, che deve
patire le conseguenze degli attentati delle bande, non può
avere nessun genere di comprensione per qualsiasi cle­
menza usata nei confronti delle bande e dei loro fian­
cheggiatori.
Questi principi devono dominare anche l’applicazio­
ne della “ Direttiva di combattimento per la lotta alle
bande nell’Est” .
2. Nessun tedesco impiegato nel combattimento con­
tro le bande deve essere chiamato a render conto del suo
comportamento nella lotta contro le bande ed i loro fian­
cheggiatori, né in via disciplinare né secondo la legge
marziale.
I comandanti delle truppe impiegate nella lotta alle
bande sono responsabili:
di inculcare questo ordine a tutti gli ufficiali delle uni­
tà a loro sottoposte, immmediatamente e nella forma più
incisiva;
di rendere subito noto questo ordine ai propri giureconsulti;
di far si che nessuna sentenza che contraddica questo
ordine venga confermata.
Dato che il professor de Zayas è purtroppo assen­
te26, non mi sembra corretto soffermarmi sulle sue
affermazioni e valutarle. E però inevitabile un
chiarimento oggettivo. De Zayas ha cercato di
suggerire, martedì, che l’ordine del 16 dicembre
1942 valesse soltanto per le cosiddette grandi azio­
ni contro le bande e per i reparti in esse impegnati.
In effetti, nell’ordine si parla di “lotta alle ban­
de”, concetto che può includere “grandi azioni” .
Ma nella disposizione ci si riferisce anche ad “at­
tentati delle bande” . Ossia si tratta complessiva­
mente di ogni tipo di difesa contro i partigiani,
dal momento che normalmente non si reagisce
ad attentati27 con grandi azioni. In ogni caso, il te­
sto dell’ordine non si riferisce affatto in modo
esclusivo alla grande azione ipotizzata da de
Zayas.
E quanto alla pretesa limitazione del carattere
vincolante dell’ordine a ben determinati reparti,
si osservi in proposito quanto segue: unità delle
forze armate tedesche — il fatto è sufficientemente
noto — venivano costantemente ritirate dal fronte
ed impegnate nella lotta contro i partigiani. La tesi
sostenuta da de Zayas, secondo la quale il divieto
contenuto nell’ordine del 16 dicembre di persegui­
re soprusi commessi nelle cosiddette azioni contro
le bande si sarebbe riferito unicamente a queste
truppe è una congettura lungi dalla realtà. Se così
25 Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof Nürnberg 14. November 1945
— 1. Oktober 1946, Band XXXIX, Amtlicher Text deutsche Ausgabe, Urkunden und anderes Beweismaterial Nummer
1218-RF bis JN, München, Delphin Verlag GmbH, 1989, documento 066-UK, pp. 128 sg.
26 A. de Zayas espose la sua relazione verso la fine del primo giorno di dibattimento; a causa di ulteriori impegni do­
vette partire la sera stessa. Non fu quindi possibile discutere criticamente il contenuto delle sue affermazioni.
27 Cfr. al riguardo le fonti citate alle note 19 (BA-MA, RH 27-26/27 e BA-MA, RH 24-14/135) e 20 (BA-MA, RH 2414/75), dalle quali risulta la definizione del concetto di partigiano e di attività dei partigiani sul teatro di guerra italiano
da parte della direzione politica e militare tedesca.
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
fosse stato, ciò avrebbe significato che un crimine
o delitto perpetrato da truppe che agivano nel­
l’ambito di un’azione programmata di lotta ai par­
tigiani sarebbe rimasto impunito, mentre la giusti­
zia della Wehrmacht avrebbe perseguito secondo
la legge marziale lo stesso atto, qualora commesso
da truppe ordinarie in un inatteso scontro con par­
tigiani: rappresentazione questa chiaramente as­
surda28. Ciò che l’ordine invece realmente signifi­
cava tout court era né più né meno l’impunità
per soprusi commessi nella lotta contro i partigia­
ni ed i loro cosiddetti fiancheggiatori.
Dal momento che nel testo citato si faceva rife­
rimento unicamente alla lotta contro i partigiani
all’Est e nei Balcani, si trattava, nell’indagine, di
verificare innanzitutto il carattere vincolante del­
l’ordine del 16 dicembre per il teatro di guerra ita­
liano.
Le ricerche in merito hanno dimostrato che
l’ordine era già noto il l s gennaio 1943 al Quartier
generale del comandante supremo Sud. Cosa che,
peraltro, nell’ambito del quesito da considerare in
questa sede, appare anzitutto irrilevante, al pari di
una dichiarazione resa da Kesselring nel marzo
1946 nel processo contro il maresciallo del Reich
Hermann Göring dinanzi al Tribunale militare in­
ternazionale di Norimberga. In qualità di testimo­
ne egli confermò in proposito che era a conoscenza
del suddetto ordine del Führer29.
Dalle due fonti citate risulta che all’inizio del
1943 allo Stato maggiore di Kesselring si aveva co­
gnizione della direttiva di Hitler; questo non dice
però nulla circa il suo carattere vincolante. Al ri­
guardo l’allora comandante supremo Sudovest fe­
677
ce mettere a verbale, nell’ottobre 1946, in termini
univoci, che l’ordine di dicembre era valido anche
per il teatro di guerra italiano. Kesselring lo fece in
occasione delle sue considerazioni, già da me cita­
te, sulla “guerra alle bande in Italia dal 1943 al
1945”. In quella sede, egli si riferiva ora alla “Di­
rettiva di lotta”, ora all’ordine di dicembre, a pro­
posito del quale dichiarò testualmente30:
In quale misura [nel quadro della lotta contro i partigia­
ni] il decreto del 16.12.42 del Comando supremo della
Wehrmacht sulla guerra alle bande abbia avuto effetto
sull’uno o sull’altro Comando, io non lo so. Lo conside­
rai, al pari di tutti gli altri decreti del genere, all’interno
del mio particolare teatro di guerra di coalizione, come
decreti [sic] generali, nell’ambito dei quali io mi potevo
muovere a seconda della situazione, in accordo con il
Comando italiano.
Tornerò sulla asserzione, chiaramente autodifen­
siva, di aver considerato il decreto di Hitler come
un decreto generale il cui contenuto andava elabo­
rato. Qui basti per ora la constatazione che il feld­
maresciallo generale confermava la validità di
principio della disposizione del 16 dicembre 1942
sul teatro di guerra italiano.
Lo stesso fece, in modo univoco, anche il gene­
rale d’armata von Vietinghoff-Scheel, impegnato
in Italia dall’agosto 1943 sino alla fine della guer­
ra, dapprima come comandante della 10a armata e
poi, dal 10 marzo 1945, come successore di Kessel­
ring. In una annotazione per il dottor Laternser,
difensore a Norimberga dello Stato maggiore del­
l’esercito e del Comando supremo della Wehr­
macht, Vietinghoff-Scheel scriveva31:
28 A titolo di precisazione, vale rilevare in merito alla pratica della “lotta alle bande”: all’interno della sfera di compe­
tenza di armata — nel caso Caiazzo ciò significa nella sfera di competenza della 10“ armata corazzata — responsabili
della “lotta complessiva alle bande” erano sempre i comandi superiori di armata. Ciò significa che le loro truppe, tra cui,
presso il comando della IO8 armata , il 13.10.1943, la 3“ divisione granatieri corazzati, combattevano le “bande” in azio­
ni pianificate o in scontri improvvisi. Per l’impiego nella “lotta alle bande” nelle restanti parti del paese vi erano unità
della polizia, nonché distaccamenti da caccia e forze di scorta, composti di unità, stati maggiori e uffici distaccati. A
questi si aggiunsero le forze di sicurezza sottoposte alle Militär-Kommandanturen, che potevano consistere in truppe
della Wehrmacht, delle SS o della polizia. Cfr. in proposito O.B. Südwest la Nr. 0402/44 g.Kdos., 17.6.1944, in
ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 7.
Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof Nürnberg 14. November 1945
— 1. Oktober 1946, voi. IX, Amtlicher Text in deutscher Sprache, Verhandlungsniederschriften 8. März 1946 — 23. Marz
1946, München und Zürich, Delphin Verlag GmbH, 1984, pp. 250 sg.
30 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring , in ZSL, JAG 260, Straf­
verfahren Kesselring, Exhibit 2.
11 BA-MA, N 574/3, Nachlass v. Vietinghoff, qui: Antworten des Generalobersten vom 16.4.1945 zum Fragebogen der
Kanzlei Dr. Hans Laternser vom 23.3.1946. Sebbene fosse dimostrato in modo assolutamente univoco (cfr. Perizia Sehr.
678
Gerhard Schreiber
Nonostante il Comando supremo della Wehrmacht aves­
se vietato di intervenire contro i soprusi commessi nelle
azioni contro le bande ecc., si intervenne immediatamen­
te, secondo la legge marziale, in ogni caso di cui si fosse
venuti a conoscenza.
Con il suo accenno ad un divieto di perseguire
disposto dal Comando supremo della Wehrmacht
valido per soprusi commessi durante la lotta con­
tro i partigiani, il generale poteva riferirsi soltanto
all’ordine di Hitler del 16 dicembre 1942. Dato che
in Italia era l’unico decreto.
Sull’affermazione di Vietinghoff (come pure su
dichiarazioni dello stesso tono di altri generali),
secondo cui in casi del genere erano state intrapre­
se misure secondo la legge marziale, nella mia pe­
rizia mi sono soffermato in modo particolare. Nel­
le fonti consultate per il periodo 1943-1944 non si
ritrova peraltro conferma dell’esattezza di simili
asserzioni.
Come risultato della prima fase dell’indagine è
comunque possibile stabilire che per quanto ri­
guarda il teatro di guerra italiano, sulla base delle
prese di posizione dei due ex comandanti supremi,
non esiste alcun dubbio legittimo sul fatto che l’or­
dine del 16 dicembre 1942 fosse per principio vin­
colante per la lotta ai partigiani in quei territori.
Vero è che né Kesselring, né Vietinghoff men­
zionarono il giorno esatto in cui l’ordine del Füh­
rer entrò in vigore. Si è quindi dovuto, in una se­
conda fase dell’indagine, cercare di determinare
in via indiretta questo dato.
Nella ricerca è stato possibile partire dal fatto
che le citate deposizioni di Kesselring e di Vietin­
ghoff si riferivano a tutta la durata della loro
presenza personale in Italia; quindi, in ogni caso,
al periodo tra l’8 settembre 1943 e il 10 marzo
194532. Vale a dire, i due comandanti supremi
erano in grado di seguire continuativamente
per il periodo in questione la situazione degli or­
dini; dovevano comunque avere conoscenza di
modifiche aggravanti. E soprattutto per questa
ragione il loro silenzio sulla data esatta dell’en­
trata in vigore dell’ordine di dicembre di Hitler
si spiega con un grado di probabilità che rasenta
la sicurezza, con il fatto che questo ordine era
già diventato vincolante con l’introduzione delle
contromisure tedesche all’uscita dell’Italia dal
conflitto.
A favore di ciò, del resto, parla anche il fatto
che proprio Kesselring — e nella mia perizia ho ri­
chiamato l’attenzione su questo aspetto33 — aveva
la tendenza a circoscrivere il più possibile la validi­
tà temporale di ordini che rischiavano di configu­
rare sue specifiche responsabilità.
Si aggiunga — ciò che ha un peso particolare in
questo contesto — che il feldmaresciallo generale,
per il quale era allora imminente un processo come
criminale di guerra — era consapevole della forza
esplosiva dell’ordine del 16 dicembre 1942, da lui
riconosciuto come valido. Questa la ragione per
cui cercò di presentare questa disposizione tassati­
va come un decreto generale relativamente non
vincolante.
Se quindi Kesselring, in una situazione del ge­
nere, nell’ottobre 1946 rinunciò a definire con mag­
gior precisione o anche soltanto a mettere in dubbio
la validità temporale dell’ordine di dicembre, è
perché sapeva esattamente che il suddetto ordine
— al pari della “Direttiva di combattimento” —
era in vigore sul teatro di guerra italiano sin dall’i­
nizio di settembre.
In effetti, le due disposizioni, che nel contenuto
facevano riferimento l’una all’altra, costituivano
un complesso unitario. Ciò risulta inequivocabil­
mente dalla prescrizione, espressamente richiama­
ta nell’ordine del 16 dicembre 1942, secondo la
quale i “principi fondamentali” in esso contenuti
— quindi direttive di comportamento e di azione
— dovevano “dominare anche l’applicazione della
1993, p. 60), che con questa deposizione Vietinghoff si riferiva esclusivamente alla sua attività quale comandante in capo
della 10* armata e comandante supremo Sudovest in Italia, il Tribunale di Karlsruhe ignorò questo energico richiamo
contenuto nella perizia e sostenne che la “annotazione” di Vietinghoff potesse riferirsi al teatro di guerra russo. “A fa­
vore di ciò” parlerebbe il fatto che “il richiamo era destinato al difensore dello Stato maggiore e dell’OKW e con ciò
non limitato al settore dell'Italia meridionale” . Citazione da Bundesgerichtshof, Im Namen des Volkes, Urteil vom
1.3.1995, 2 StR 331/94, p. 20. Manifestamente, il Tribunale non era a conoscenza del fatto che l’Italia era un teatro
di guerra-OKW, nel quale — nell’ottobre 1943 — rientrava l’Italia meridionale. Stupisce inoltre constatare che i giudici
rinunciarono, nell’udienza del 10 febbraio 1995, ad interrogare il consulente perito sulla deposizione di Vietinghoff.
32 Perizia Schr. 1993, pp. 48 e 60.
33 Perizia Schr. 1993, p. 85.
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
‘Direttiva di combattimento per la lotta contro le
bande nell’Est’”.
A tutto ciò si potrebbe aggiungere che lo svilup­
po della cosiddetta situazione delle bande tra il
settembre 1943 e l’aprile 1944 non avrebbe assolu­
tamente reso necessario porre in vigore, sul terri­
torio italiano, una direttiva come quella del 16 di­
cembre34. Cosa che avvalora il fatto che l’ordine di
dicembre di Hitler avesse assunto validità sin dal­
l’uscita dell’Italia dal conflitto. Ovvero, l’ordine
faceva parte di una serie di misure con le quali i co­
mandi tedeschi si preparavano alla dissociazione
dell’Italia dalla guerra.
Cercando argomentazioni con le quali confu­
tare la validità delle prove assunte, si potrebbe
— con riferimento all’accertamento storico già
citato — richiamare il fatto che la cosiddetta
guerra alle bande in Italia tese al suo culmine
nel giugno 1944, quando la Wehrmacht dovette
abbandonare Roma. Di quando in quando, in
questo contesto, viene ricordato che il mare­
sciallo britannico Alexander, quale comandante
supremo delle forze alleate in Italia, invitò per
radio il 7 giugno 1944 i combattenti della Resi­
stenza italiani a incrementare le loro attività
contro le truppe di occupazione tedesche. E in
effetti questi lo fecero35, ma con l’entrata in vi­
gore dell’ordine del 16 dicembre 1942 ciò non ha
assolutamente nulla a che fare.
Lo dimostra il fatto che, già il l s aprile 1944 il
Comando supremo della Wehrmacht aveva predi­
sposto l’entrata “in vigore” del “ Foglio di istru­
zioni 69/2 ’Lotta alle bande’[...]” e contempora­
neamente “abolito” il “Foglio di istruzioni, esclu­
sivamente per uso di servizio, 69/1 ’Direttiva di
combattimento per la lotta contro le bande nel­
l’Est’ [...]”, che era stato valido sino allora36. Ed
679
a quella nuova disposizione, nella quale tra l’altro
si legge che “ per principio tutti i banditi” , che
“vengono catturati o si arrendono in combatti­
mento, in uniforme nemica o in abito civile” dove­
vano essere trattati come “prigionieri di guerra”37,
l’ordine del Führer del 16 dicembre 1942 non era
certo più conforme. Quindi è del tutto fuorviante
supporre che tale ordine fosse entrato in vigore
in Italia dopo il 1° aprile 1944.
Quale risultato delle due fasi di indagine si può
complessivamente affermare:
1. L’ordine di dicembre, emesso circa quattro
settimane dopo la “ Direttiva di combattimento
per la lotta alle bande nell’Est”, la completava, sot­
to il profilo del contenuto, secondo il volere di Hitler
e aveva vigore là dove l ’aveva avuto la “Direttiva di
combattimento".
2. Data l’affinità di contenuto con la “Diretti­
va di combattimento”, l’ordine di dicembre, insie­
me con questa, assunse in Italia il carattere di nor­
ma all'inizio di settembre.
3. Quando il foglio di istruzioni “ Lotta alle
bande” divenne, nell’aprile 1944, norma vincolan­
te per il comportamento nei confronti dei partigia­
ni e di quelle parti della popolazione che li appog­
giavano, l’ordine di dicembre e la “ Direttiva di
combattimento” furono aboliti.
IV.
Passo ora al terzo complesso tematico, ovvero al
significato dell’ordine del 16 dicembre 1942 per
le possibilità della giurisdizione della Wehrmacht
di perseguire penalmente soprusi commessi da sol­
dati tedeschi nel quadro di azioni contro i partigia­
ni sul teatro di guerra italiano.
’J Nella relazione dinanzi al Tribunale di Karlsruhe, il 10 febbraio 1995, fu precisato che, dal momento che è fuori dub­
bio la validità, sul teatro di guerra italiano, al 28 novembre 1943, della Direttiva di combattimento (cfr. BA-MA, RH
20-14/83), anche se il Tribunale nella citata sentenza del l 5 marzo 1995, p. 18, ignorando la situazione storica, si è
espresso in modo diverso, bisogna partire dal fatto che il periodo di tempo in cui — dopo il massacro di Caiazzo —
si poteva arrivare a un aggravamento del problema rappresentato dai partigiani, dal quale sarebbe sorta la necessità
dell’entrata in vigore della Direttiva di combattimento (e dell’ordine del 16 dicembre 1942 ad essa inscindibilmente con­
nesso), si riduce a circa sei settimane tra il 13 ottobre e il 28 novembre 1943. Ed in questo periodo non si manifestò alcun
inasprimento straordinario della “situazione dei partigiani” .
35 Francis Harry Hinsley, Britisli Intelligence in thè Second World War. Its Influence on Strategy and Operations, 4 vo­
lumi, London, Her Majesty’s Stationary Office, 1979-1988 (History of thè Second World War, United Kingdom Military Series), qui voi. 3/II, p. 885; e C. Gentile, Der Krieg gegen die Partisanen, cit., pp. 92 sg.
36 Cfr. nota 11.
37 Citazione da BA-MA, RHD 6/69/2 (vedi sopra nota 11), nr. 163.
680
Gerhard Schreiber
Nell’interpretare questo ordine è necessario
prestare un’attenzione molto accurata alla scelta
dei termini. In proposito, salta subito agli occhi
che il Comando supremo della Wehrmacht, esten­
sore dell’ordine per incarico di Hitler, non parlò
semplicemente di principi fondamentali secondo
i quali si dovesse agire, che dovessero valere o ai
quali si dovesse ubbidire. Ognuna di queste for­
mulazioni sarebbe stata sufficiente a raggiungere
lo scopo desiderato. Il Comando supremo della
Wehrmacht, però, scelse un modo di esprimersi
al tempo stesso particolarmente vincolante, esi­
gente e rigoroso, ovvero rigido: ordinò cosi che
le Direttive della nuova disposizione dovessero do­
minare anche l’applicazione del precedente provve­
dimento per la lotta alle bande. E questo verbo do­
minare comportava una notevole sottolineatura.
Cionondimeno, nell’interpretazione e nell’in­
quadramento storico dell’ordine di Hitler che se­
guono voglio avanzare la supposizione, in termini
generali, ma del tutto ipotetici, che i comandanti
tedeschi in Italia non avessero avuto l’intenzione
di attenervisi. Voglio persino ammettere che l’af­
fermazione, costantemente riproposta a partire
dal processo di Norimberga contro i criminali di
guerra, di aver proceduto secondo la legge marzia­
le contro soprusi, di cui si era venuti a conoscenza,
di appartenenti alla Wehrmacht nella lotta contro
i partigiani, corrisponda in ogni singolo caso per­
lomeno alla sincera convinzione personale.
Fatte queste premesse, compito della perizia a
quel punto era di verificare in primo luogo la sfera
di azione che l’ordine di Hitler del 16 dicembre
1942 riconosceva ai comandanti supremi, ai gene­
rali comandanti ed ai capi di divisione sul teatro di
guerra italiano.
Simile sfera di azione si traduceva — almeno in
teoria — nella possibilità che, in contrasto con la
prescrizione del Comando supremo della Wehr­
macht, i “comandanti delle truppe impiegate nella
lotta alle bande” non informassero del suddetto
ordine. In tal modo, si sarebbe comunque evitato
un effetto disinibente, che la conoscenza dell’ordi­
ne poteva causare.
È inoltre pensabile che i “comandanti delle
truppe impiegate nella lotta alle bande”, quando
ne fossero stati essi stessi informati, rinunciassero
dal canto loro a “inculcare [...] quest’ordine a tutti
38
gli ufficiali delle unità a loro sottoposte nella for­
ma più incisiva” . Anche così avrebbero potuto es­
sere arginate conseguenze negative che l’inoltro
della disposizione di dicembre poteva provocare.
E il feldmaresciallo generale Kesselring per cer­
to non doveva far mettere in pratica alla lettera le
linee per la lotta contro i partigiani, che Hitler ave­
va indicato nel suo ordine di dicembre. Come, ad
esempio, nel caso del permesso — equivalente a
carta bianca per brutalità di ogni tipo — “di usare
senza limitazioni qualsiasi mezzo anche contro
donne e bambini, se questo porta a un successo”.
Si noti in proposito che in Italia, per la condu­
zione della guerra contro i partigiani, esistevano
tanto provvedimenti che rinunciavano all’uso dei
“mezzi più brutali” raccomandato da Hitler,
quanto altri che ordinavano proprio questo. Fu
questo il caso in particolare nell’estate del 1944,
quando l’ordine di dicembre era già stato abroga­
to. Sarebbero inoltre da considerare gli ordini per
zone di combattimento evacuate, che costituivano
un caso a parte. Tali disposizioni esistevano dal
settembre 1943 e, come risulta in modo evidente,
in esse non si faceva chiaramente mai differenza
tra l’uccisione di uomini, donne o bambini. E nella
mia perizia ho detto in termini inequivocabili che
il crimine di Caiazzo già sulla base di questi ordini
non sarebbe stato punito. Ho inoltre provato, por­
tando esempi, che i comandi della 33divisione gra­
natieri corazzati dimostrarono un sorprendente
disinteresse di fronte a rapporti sulla fucilazione
di civili. Nella mia perizia mi sono diffusamente
soffermato su questa circostanza (che in questa se­
de non intendo ulteriormente approfondire), che
offre indicazioni istruttive per valutare il compor­
tamento dei militari tedeschi in Italia38.
Circa la valutazione storica dell’ordine del 16 di­
cembre 1942, sarebbe innanzitutto necessario sta­
bilire come principio fondamentale che esso —
per la parte riguardante l’attuazione della condu­
zione della lotta ivi prevista — non doveva essere
eseguito. Vale a dire, poteva essere aggirato. Un
simile aggiramento o una parziale non osservanza
di disposizioni non è circostanza inusuale. Lo si
può dimostrare, tra l’altro, sia per il cosiddetto
“ Kommissarbefell” [ordine sul trattamento dei
commissari politici delle forze armate sovietiche]
del 6 giugno 1941 sia per l’ordine sui commandos,
Perizia Sehr. 1993, pp. 26-34, 38, 72-76, 78-83, 86-90 e 101-112.
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
da me già citato, del 18 ottobre 1942. D’altro can­
to gli ordini suddetti si differenziavano radical­
mente su un punto dalla direttiva del 16 dicembre
1942. Ed io desidero dimostarlo sulla scorta delle
argomentazioni del feldmaresciallo generale Kesselring nel processo contro i criminali di guerra a
Norimberga39. In questo contesto risultano con­
temporaneamente evidenti le conseguenze deri­
vanti dalla particolarità dell’ordine di dicembre
per il perseguimento penale di cosiddetti soprusi
nella lotta alle bande.
Kesselring fu interrogato a Norimberga il 13
marzo 1946 dall’accusatore capo americano, Justice Robert H. Jackson in merito al suo atteggia­
mento nei confronti del punto 6 dell’ordine sui
commandos, che dice: “Io [ossia Hitler] renderò re­
sponsabili secondo la legge marziale di non esecu­
zione di questo ordine tutti i comandanti e ufficiali
che, contro il loro dovere, non abbiano inculcato
questo ordine alla truppa o che, nell’eseguirlo, agi­
scano contro di esso” .
Alla domanda concreta se avesse mai comuni­
cato di non aver eseguito quell’ordine o avesse in­
gannato i suoi superiori circa la sua osservanza, il
feldmaresciallo rispose tra l’altro: di “inganno”
non voleva parlare, ma piuttosto “ affermare
espressamente che sul [suo] teatro di guerra opera­
zioni di questo genere [erano] considerate ordini
generali, e che l’ordine sui commandos senza dub­
bio ha dato adito a diverse interpretazioni” .
Jackson, che non ha nascosto la propria mera­
viglia per questa “situazione della Wehrmacht te­
desca”, chiese allora se Kesselring intendesse con
ciò affermare che “ai comandanti era [stato] la­
sciato di decidere in quale misura un ordine di quel
tipo dovesse essere eseguito”. Inoltre, l’accusatore
capo americano voleva sapere se fosse “vero”
“che Hitler non poteva confidare nel fatto” che
poi i suoi comandanti adempissero un ordine tan­
to tassativo come quello del 18 ottobre 1942.
681
La spiegazione data al riguardo dall’ex coman­
dante supremo Sudovest mi sembra particolar­
mente illuminante dell’effettiva situazione sul tea­
tro di guerra italiano. “No”, disse Kesselring, le
cose non stavano cosi. E aggiunse: “ Se da parte
di una armata una operazione di quel tipo” degli
alleati “fosse stata comunicata in alto come opera­
zione di commando", nel senso dell’ordine sui com­
mandos, allora avrebbero dovuto essere “eseguite
anche le misure necessarie” .
Ciò significa, cosa che il feldmaresciallo del re­
sto non dice, che gli appartenenti al commando,
come previsto al punto 3 dell’ordine — armati o
meno — avrebbero dovuto essere “annientati fino
all’ultimo uomo”40.
In ogni caso, secondo Kesselring, dipendeva
dal “resoconto della formazione” ciò di cui il Co­
mando supremo della Wehrmacht veniva a cono­
scenza in merito a operazioni alleate di commando
in territorio italiano. A commento aggiunse che
nel suo ambito di comando “ a poco a poco si
era imposta una interpretazione unitaria, secondo
la quale persone in uniforme che compivano un
compito tattico non rappresentavano comman­
dos” nel senso dell’ordine sui commandos.
Il che significa — ed io ho ritenuto importante,
non soltanto stabilirlo, ma documentarlo attraver­
so la deposizione del feldmaresciallo — quanto se­
gue: la libertà di azione di Kesselring, quale co­
mandante supremo sul teatro di guerra italiano,
si limitava — relativamente all’osservanza di ordi­
ni contro il diritto internazionale — alla possibili­
tà di manipolare rapporti su determinati avveni­
menti o di non comunicare affatto un accadimen­
to. Null’altro si nascondeva dietro l’affermazione
pretenziosa e di grande importanza del feldmare­
sciallo generale del 4 ottobre 1946, di avere egli
considerato e trattato le disposizioni di Hitler —
come quella del 16 dicembre 1942 — unicamente
come “decreti di carattere generale”41.
39 Der Prozess, voi. IX, cit., pp. 239 sg.
40 W. Hubatsch, Hitlers Weisungen für die Kriegführung 1939-1945, Dokumente des Oberkommandos der Wehrmacht, 2.
durchgesehene und ergänzte Auflage, Koblenz, Bernard u. Graefe Verlag, 1983, p. 206.
41 Freiwillige Aussage des Kriegsgefangenen LD 1573 Generalfeldmarschall Albert Kesselring, London, 4.10.1946, in
ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kesselring, Exhibit 2. Kesselring affermò: “Per le operazioni contro le bande valevano
i principi generali — norma sulle bande — e quelli scritti nel diritto internazionale. In quale misura il decreto del 16
dicembre 1942 dell’OKW sulla guerra alle bande abbia avuto effetto sull’uno o sull’altro Comando, io non lo so. Lo
considerai, al pari di tutti gli altri decreti del genere, alfinterno del mio particolare teatro di guerra di coalizione, come
decreti generali, nell’ambito dei quali io mi potevo muovere a seconda della situazione [...]” . Sebbene Kesselring parli
espressamente del suo teatro di guerra e non di parti del suo teatro di guerra, la Corte di giustizia valutò la deposizione
682
Gerhard Schreiber
Relativamente al passaggio, decisivo ai fini del­
la risposta al quesito posto alla perizia, dell’ordine
di dicembre, questo tipo di libertà di azione deve
essere a dire il vero valutato come del tutto privo
di importanza. Perché nell’ambito della perizia
non si tratta del più o meno corretto rapporto su
un crimine di guerra, bensì del problema della pu­
nizione penale dello stesso da parte della compe­
tenza giurisdizionale della Wehrmacht.
Ed al riguardo è noto che al punto 2 dell’ordine
del 16 dicembre 1942 si dice testualmente: “Nes­
sun tedesco impiegato nel combattimento contro
le bande deve essere chiamato a rendere conto
del suo comportamento nella lotta contro di esse
ed i loro fiancheggiatori, né in via disciplinare né
secondo la legge marziale” .
Vale osservare a questo punto che tra i fian­
cheggiatori, secondo l’opinione di Kesselring e di
altri ufficiali, rientravano anche bambini e adole­
scenti, che spesso ritroviamo tra le vittime della
cosiddetta lotta alle bande. La mia perizia riporta
le relative prove documentali42.
Relativamente al punto 2 dell’ordine di dicem­
bre, appare innanzitutto utile rilevare che i giuristi
della Wehrmacht hanno immediatamente colto la
straordinaria importanza delle direttive ivi conte­
nute. Lo dimostra esemplarmente la reazione del
giudice capo e consigliere legale presso il coman­
dante supremo Sud, giudice capo dell’aviazione
Spreiberg, in occasione dell’inoltro — fuori d’Italia
— dell’ordine, il 1Qgennaio 1943. Nella lettera di
accompagnamento Spreiberg cosi si esprimeva:
“La presente copia viene trasmessa per conoscenza
e per i provvedimenti del caso, in particolare relati­
vamente al punto 2”43.
Desidero a questo punto interrompere il mio
ragionamento, per rilevare, a titolo di integrazio­
ne, che il divieto di perseguire penalmente conte­
nuto nel punto 2 dell’ordine di dicembre è in linea
di massima paragonabile ad un decreto dell’8 otto­
bre 1943 proveniente dal Comando supremo della
Wehrmacht44. In questo, le fucilazioni di ufficiali
ordinate, contro il diritto internazionale, in occa­
sione del disarmo delle forze armate italiane veni­
vano dichiarate misure politiche al di fuori della
competenza giurisdizionale della Wehrmacht. Va­
le a dire, la direzione della Wehrmacht reiterò un
divieto di azione penale. Non risulta che un qua­
lunque giudice militare in Italia, nei Balcani o nel­
la Francia meridionale abbia protestato contro
quella prescrizione illegale, che violava anche il di­
ritto tedesco, ma esprimeva il volere del Führer. E
soltanto una manciata di ufficiali rifiutò di esegui­
re gli ordini criminali allora emanati. In una disa­
mina storica più ampia degli ordini dell’autunno
1943, anche un simile atteggiamento sarebbe da
prendere in considerazione (ed io l’ho fatto nella
perizia scritta)45. Perché in questo caso si tratta
nella sentenza citata del l s marzo 1995 (pp. 19 sg.) nei termini seguenti: “Dato che l’ambito di comando del comandante
supremo Sud, successivamente Sudovest, comprendeva dopo la sostituzione di R.s [Rommel] anche l’ambito del Gruppo
di armate B con la zona di operazioni Litorale adriatico, anche nella valutazione necessariamente cauta della deposizio­
ne, non si può desumere soltanto dalla menzione della ’norma sulle bande’, con la quale dovrebbe essere intesa la ’Di­
rettiva di lotta’, e dell”Ordine del Führer’, la validità dei due ordini in Italia meridionale nell’ottobre 1943. L’osserva­
zione di Kesselring può essersi riferita ad altri territori del suo successivo ambito di comando, in particolare alla zona di
operazioni Litorale adriatico”. E difficile seguire la logica di questa argomentazione, vista la dichiarazione di Kesselring
del 4 ottobre. E soltanto a margine si noti che se il ragionamento del Tribunale coincidesse con la realtà storica, il pri­
gioniero di guerra Kesselring, in attesa del giudizio quale criminale di guerra per l’uccisione di ostaggi contro il diritto
internazionale, sicuramente non avrebbe rinunciato ad alleggerire la propria posizione con il richiamo alla validità re­
gionale, indicata dal Tribunale, dell’ordine criminale.
42 Perizia Sehr. 1993, pp. 25, 57, 82 sg., 90 sg. 94, 99, 104 sg., 108, 110 sg., 114 sg., 117 sg. 123 sg. e 138.
43 OKW-Wehrmachtführungsstab, Erlasse über Vernichtung von Terror- und Sabotagetrupps, foglio 22, in BA-MA,
RW 4/v. 604. La comunicazione, da cui la citazione, non si ritrova nei documenti del processo di Norimberga.
44 OKH/ Generalstab des Heeres, J I c, Italien, 13.5.1943-29.3.1944, foglio 96, in BA-MA, RH 2/637. Lo Stato mag­
giore dell’esercito rese noto, in questa occasione, il decreto del Comando supremo della Wehrmacht.
45 Sugli ordini criminali cfr. Perizia Sehr. 1993, pp. 6-20. In connessione con ciò sorprende la formulazione — che na­
sconde le vere circostanze di fatto — del Tribunale (sentenza del 1° marzo 1995, cit., p. 21): “Dopo l’8 settembre 1943 vi
sono stati [...] ordini sommamente rigorosi per il disarmo delle truppe italiane” . Quelle direttive non erano soltanto “ri­
gorose”, si trattava in parte di veri e propri ordini di assassinio, fondati su basse motivazioni e la cui singolarità storica è
stata illustrata nella perizia. I giudici di Karlsruhe credevano inoltre (ivi), basandosi sulle affermazioni del consulente F.
W. Seidler dell’Università della Bundeswehr di Monaco, che al regime nazionalsocialista premesse soprattutto “mante-
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
della disposizione mentale della direzione militare
tedesca in Italia.
Per quanto riguarda concretamente il punto 2
dell’ordine del 16 dicembre 1942, esso vietava da
un lato di punire tedeschi che si fossero resi colpe­
voli di soprusi nella lotta contro i partigiani che
doveva essere condotta con i mezzi più brutali, dal­
l'altro affermava che “non dovevano essere con­
fermate sentenze” che contraddicessero la disposi­
683
zione di dicembre. Era una specie di rafforzamen­
to del divieto. Dunque, in relazione a ciò, sul tea­
tro di guerra italiano non esisteva alcuno spazio di
manovra per i comandanti o le autorità giudiziarie.
In altre parole: l’illimitato divieto di azione penale
contenuto nell’ordine di dicembre non poteva es­
sere né aggirato né manipolato46.
Infatti le procedure del tribunale militare porta­
vano a sentenze che dovevano venire confermate e
nere il più possibile la forza di combattimento e di lavoro delle truppe italiane e la benevolenza della popolazione civile
nei confronti dei tedeschi, quale [risultava] tra l’altro dal foglio di istruzioni dell'OKW del 12 settembre 1943 sul com­
portamento dei soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile italiana” . Non mancano ricerche scientifiche, an­
che in lingua tedesca, sulla effettiva situazione in Italia dopo l’uscita dalla guerra del Paese. Per meglio capirlo, sarebbe
bastato leggere il diario dell’ufficiale le della 26° divisione corazzata, pubblicato già nel 1971: Udo von Alvensleben,
Lauter Abschiede. Tagebuch im Kriege, a cura di Harald von Koenigswald, Berlin, Propyläen, 1971, pp. 277-355, sull’I­
talia 1943. A p. 333 (23 settembre 1943) si legge: “La distruzione dell’Italia si compie in forme molto più terribili di
quanto non ci si aspettasse. Per che cosa viene punito questo popolo: per il fatto di tollerare pazientemente la tirannia,
che lo portò alla guerra o per il tradimento dell’alleato non amato”? E ivi, p. 336 (26 settembre 1943): “Il comandante
del 79° reggimento granatieri corazzati riceve l’ordine di catturare e di allontanare dal posto, con il suo reggimento, il
maggior numero possibile di abili al servizio militare a Napoli. Sono aperte tutte le porte ad ogni tipo di crimine”. Ap­
pare incomprensibile che il Tribunale cerchi di motivare la sua sentenza proprio con un elaborato della propaganda del­
la Wehrmacht, più che scarso sotto il profilo del contenuto, che — come evidentemente non era noto né al Tribunale né
al consulente F. W. Seidler, era datato 12 settembre, ma trasmesso al XIV corpo corazzato, nel quale rientrava la 3“
divisione corazzata granatieri, soltanto il 18.10.1943: Tätigkeitsbericht 2 Gen.Kdo. XIV. Pz.K./Abt. Ic vom 1.9.194331.12.1943, p. 89 (18.10.1943), in BA-MA, RH 24-14/134; sul “foglio di istruzioni” cfr. BA-MA, RH 24-14/136, Anla­
genheft 2 zum Tätigkeitsbericht 2 (vedi sopra), qui Anlagen 526 e 625.
46 Ciò nonostante sarebbe stato possibile avviare una istruttoria contro colpevoli di reati come Lehnigk-Emden. In ef­
fetti il divieto di azione penale dell’ordine per la “lotta alle bande” non vi contrastava assolutamente. Anzi, l’autorità
giudiziaria era tenuta a far compiere accertamenti al suo funzionario della giustizia militare (capo istruttore), quando
venisse a conoscenza “del sospetto di una azione da perseguire penalmente secondo la legge militare”. Citazione da H.
Dv. 3/13, M.Dv. Nr. 132, L.Dv. 3/13, I. Verordnung über das Sonderstrafrecht im Kriege und bei besonderem Einsatz
(Kriegssonderstrafrechtsverordnung KSSVO) mit den Änderungen und Ergänzungen der 1. Ergänzungsverordnung
vom 1. November 1939 [e] II. Verordnung über das militärische Strafverfahren im Kriege und bei besonderem Einsatz
(Kriegsstrafverfahrensordnung KStVO) mit den Änderungen und Ergänzungen der 2. bis 6. Durchführungsverordnung
vom 17. August 1938. Ristampa gennaio 1940, Berlin 1940, p. 21, comma 17. Quello che importa è la conclusione del
procedimento. E al riguardo la direttiva del 16 dicembre 1942 è univoca. Ossia, anche se un’autorità giudiziaria avesse
decretato l’imputazione (ivi, p. 29, comma 46) e il deferimento a un Tribunale militare di guerra (ivi, p. 32, comma 49),
da ultimo gli sarebbe stato vietato di convalidare la sentenza, qualora fosse stata di colpevolezza. Tuttavia, senza questa
convalida la sentenza del Tribunale militare di guerra non sarebbe stata legalmente valida (ivi, p. 42 sg., comma 79).
Bisogna inoltre considerare che ad un condannato — nel caso puramente teorico che un processo fosse stato tenuto
e che la sentenza del Tribunale militare di guerra fosse stata convalidata — era aperta la via della istanza di grazia.
Questa istanza poteva interrompere il procedimento penale e in un caso, come quello di Caiazzo, dove si trattasse di
giurisprudenza che andava contro un “ordine del Führer” — quindi contro il dichiarato “volere del Führer”, la difesa
avrebbe con sicurezza scelto la via della grazia. Da rilevare al riguardo che il “diritto di grazia” era riservato al “Führer
e cancelliere del Reich” in tutti quei casi “in cui un ufficiale era stato condannato per un crimine o mancanza dovuta ad
abuso d’ufficio”. Contemporaneamente a Hitler era possibile la“cancellazione di procedimenti penali” (ivi, pp. 53 sg.,
comma 108). Nel caso — ancora una volta sul piano assolutamente ipotetico — che il Tribunale militare di guerra aves­
se, per la gravità dell’azione, emanato una sentenza capitale, questa sentenza — indipendentemente dall’istanza di gra­
zia — sarebbe stata portata dinanzi a Hitler (ivi, pp. 42 sg., comma 79). Perché a lui soltanto era “riservato il diritto di
convalida o di cancellazione” nel caso di “ufficiali o funzionari della Wehrmacht col grado di ufficiali condannati a
morte” . È impensabile che Hitler, imbattendosi, nella prassi quotidiana, in un caso complesso come quello ora descritto,
avrebbe deciso a sfavore di un ufficiale che a propria discolpa personale si appellava all’“ordine del Führer” del 16 di­
cembre 1942, sottoscritto dal feldmaresciallo generale Keitel quale capo del Comando supremo della Wehrmacht.
684
Gerhard Schreiber
alla fine giungevano all’ufficio Personale dell’eser­
cito. In quella sede, al più tardi, si sarebbe venuti a
conoscenza del rifiuto di obbedienza agli ordini di
un comandante militare in qualità di autorità giu­
diziaria47.
In proposito non è irrilevante richiamare due
circostanze di fatto:
1. L’aiutante in capo della Wehrmacht presso
il Fùhrer, generale di brigata Rudolf Schmundt,
dal l s ottobre 1942 era contemporaneamente an­
che capo dell’ufficio Personale dell’esercito;
2. Nelle fonti consultate mancano prove del
fatto che il feldmaresciallo generale Kesselring o
uno dei comandanti superiori della IO8e 148 arma­
ta, si sia apertamente opposto, prima del 1945, agli
ordini per la lotta contro i partigiani provenienti
dal Comando supremo della Wehrmacht.
V.
Riassumendo:
1. Nel caso della disposizione del 16 dicem­
bre 1942 abbiamo a che fare con un provvedi­
mento di Hitler quale comandante supremo e
suprema autorità giudiziaria della Wehrmacht,
ordine che ha “ oggettivamente contrastato” ,
sul teatro di guerra italiano dal settembre
1943 all’aprile 1944, un perseguimento penale
di crimini commessi nel corso della cosiddetta
lotta alle bande48;
2. In considerazione di questo accertamento, è
del tutto irrilevante quale intimo atteggiamento
nei confronti di quella disposizione avessero il co­
mandante supremo Sud, il comandante superiore
della IO8 armata, il capo della 38 divisione grana­
tieri corazzati, che contemporaneamente rivestiva­
no la carica di autorità giudiziaria. Nessuno di lo­
ro era autorizzato a o in condizione di abrogare
ordini del Fiihrer, legalmente vincolanti per la
Wehrmacht o parti di essa. Soltanto lo stesso Hi­
tler ed il Comando supremo della Wehrmacht
per suo incarico potevano modificare o revocare
provvedimenti del genere.
3. La circostanza di fatto appena constatata
mette fine alle affermazioni di singoli generali,
di aver proceduto secondo la legge marziale —
in contrasto con la disposizione del Comando su­
premo della Wehrmacht — nel caso di soprusi
noti, commessi durante la lotta contro i partigia­
ni. Le fonti consultate, comunque, per il periodo
di validità in Italia dell’ordine di Hitler, non con­
tengono alcuna prova del fatto che si sia cercato
di perseguire penalmente soprusi commessi in
azioni contro i partigiani. Di fronte al punto 2
dell’ordine del 16 dicembre 1942 ciò non sorpren­
de. Da rilevare, in connessione con questo, che il
complesso di fonti utilizzate per la perizia ab­
bracciava tra l’altro tutte le sentenze disponibili
dei tribunali di guerra da campo di tutte le divi­
sioni tedesche impiegate in Italia e i rapporti di
attività, trasmessi in gran parte, dei giudici di ar­
mata della IO8 e della 14* armata.
4. L’affermazione contenuta nella tesi della
azione penale, secondo la quale i comandanti non
sarebbero stati a conoscenza di soprusi del genere
è inattendibile per diversi motivi. Ad integrazione
delle argomentazioni al riguardo contenute nella
perizia scritta, vale qui richiamare che nell’ottobre
del 1943 la stessa “Neue Zùrcher Zeitung”, certa­
mente non ostile ai tedeschi, poteva riferire che i
“tedeschi [in Italia], prima di [ritirarsi] [distruggeva­
no] tutto e [uccidevano] molti civili”49.
5. Dall’analisi degli ordini descritti e all’epoca
in vigore in Italia a seguito dell’ordine del 16 di­
cembre 1942 risulta, ai fini del procedimento pena­
le per il crimine di guerra perpetrato a Caiazzo il
13 ottobre 1943, che la giurisdizione della Wehr­
macht non avrebbe perseguito questo atto, com­
piuto nell’ambito della cosiddetta lotta alle bande,
47 La gerarchia giuridica per le truppe tedesche sul teatro di guerra italiano — dal basso in alto — era la seguente: Corte
marziale, Tribunale militare divisionale (autorità giudiziaria il comandante di divisione), Tribunali dei comandi di ar­
mata (10" e 14" armata), Comando supremo dell’esercito (autorità giudiziaria Keitel), Autorità giudiziaria suprema della
Wehrmacht tedesca (Hitler, ufficio amministrativo OKW/WR). Kesselring aveva soltanto il diritto di convalida per le
unità a lui direttamente sottoposte. I corpi d’armata non avevano Tribunale. Cfr. ZSL, JAG 260, Strafverfahren Kes­
selring, Exhibit 102.
48 Cfr. Perizia Schr. 1993, p. 47.
49 Citazione da W. Muehlon, Tagebuch der Kriegsjahre 1940-1944, a cura e con introduzione di J. Heisterkamp, Dornach, Spicker Verlag, 1992, p. 1132 (21 ottobre 1943). Il testo completo suona: “Da tutto il fronte si ha costante notizia
che i tedeschi, prima di ritirarsi, distruggono tutto e uccidono molti civili”.
L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca
in quanto non doveva né poteva perseguire il cri­
mine in forza del divieto di azione penale pronun­
ciato dal Comando supremo della Wehrmacht
per incarico di Hitler.
E risulta inoltre dagli ordini in vigore nell’otto­
bre 1943 per le zone di combattimento evacuate,
che la giurisdizione della Wehrmacht in Italia
non avrebbe perseguito l’atto compiuto a Caiazzo,
in quanto coperto dagli ordini ai quali il coman­
dante supremo Sud e i comandanti a lui sottoposti
dovevano rispondere.
685
Il risultato complessivo della perizia afferma
così che le uccisioni commesse a Caiazzo — si trat­
ti di fatti nell’ambito di un’azione partigiana o del
comportamento contro civili in zone di combatti­
mento evacuate — non sarebbero state penalmente
perseguite da parte della giurisdizione della Wehr­
macht, sulla base degli ordini in vigore all’epoca
dei fatti in Italia per le truppe tedesche.
Gerhard Schreiber
[traduzione dal tedesco di Francesca Ferratini Tosi]
ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO
DI LIBERAZIONE
Massimo Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche Modena 19451946, Milano, Angeli, 1995
Il volume di Storchi, pubblicato con il contributo finanziario dell’Anpi provinciale di Modena,
sottopone a una doppia indagine il fenomeno della violenza politica nella provincia
modenense. Da un lato infatti esso individua, seguendo il dibattito politico In sede locale,
l’evolversi dei comportamenti nella crescente contrapposizione fra schieramenti politici nel
corso della transizione, anche violenta, della realtà bellica verso la ricostruzione; dall’altro,
attraverso la ricerca statistica e documentaria, consente per la prima volta di definire con
esattezza le dimensioni del fenomeno degli atti di violenza e di giustizia sommaria nella
zona nota come “triangolo della morte", fornendo cosi un utile strumento per approfondire la
specificità del caso emiliano.
Indice
Premessa. Modena: per una nuova geometria della realtà; 1. Passata la tempesta. Le grida
di festa; 2. La difficile strada della ricostruzione; 3. Anno nuovo, vita (quasi) nuova; 4. Verso
la Costituente; 5. La calda estate del 1946; 6. Verso il dopoguerra; Appendice statistica;
Indice del nomi di persona; Indice dei luoghi.
ABRUZZO CONTEMPORANEO
Sommario del n. 1, 1995
Costantino Felice, L'Abruzzo nella storiografia contemporanea
Studi e ricerche
Adolfo Pepe, Per una storia dell’Italia repubblicana. Fonti, problemi, periodizzazione; Augu­
sto D'Angelo, L’Abruzzo come regione ecclesiastica: un profilo storico tra continuità e tra­
sformazione-, Loretta Bonlfaci Di Marzio, Alle origini di un conflitto: politica forestale e gestio­
ne della risorsa boschiva in provincia dell'Aquila all’indomani dell'Unità.
Osservatorio
Giovanni Tocci, Itinerari storiografici della modernistica attuale. La storia locale e le sue applicazioni/implicazioni-, Pino Mauro, L'economia abruzzese oggi-, Enzo Fimlani, Due aspetti
della guerra in Abruzzo: la liberazione di Mussolini e gli eventi militari dal Sangro ad Ortona.
Fonti e testimonianze
Raffaele Colapletra, Uomini e fatti del circolo socialista aquilano nell’anno 1907\ Luigi Pic­
cioni, / due maggiori archivi per la storia delle origini del Parco nazionale d ’Abruzzo-, Giorgio
Palmieri, La Descrizione di Casacalenda nel panorama delle monografie municipali molisa­
ne dell’Ottocento-, Carmine Viggiani, Il fondo archivistico del processo Matteotti a Chieti.
Schede e recensioni
P. Muzi (Ponziani), M. Cimini (Trinchese), C. Felice (Borri, Fabilli, Setta), A. Orlando (De Nardis), R. Bosco (Tinari).
STUDI ECONOMICI E SOCIALI
Sommario del n. 4, ottobre-dicembre 1995
Articoli
R. Dulbecco, Scienza e cultura-, S. Agnelli, L'Unione europea: prospettive economiche e fi­
nanziarie-, G. Salvini, Cento anni fa la radio-, L. Mossa, L’opera di Giuseppe Toniolo-, L
Corradini, Economia e criminalità: il compito della scuola nel contesto dell’educazione civi­
ca-, P. P. Coccorese, Nuove frontiere del mercato del lavoro; F. Luciani, Protezione civile e
protezione ambientale nei paesi in via di sviluppo-, A. Poli Bortone, Qualità e approvvigiona­
mento delle acque-, G. Gambaro, / tassi di interesse del mercato finanziario italiano.
Note e rassegne
S. Trucco, Rinata la prestigiosa rivista "Nuova economia e storia"-, V. Campetti, Spoleto fe­
stival 1995.
Una ricerca impossibile
Le perdite italiane nella seconda guerra mondiale
Giorgio Rochat
Calcolare le perdite umane di una guerra è
possibile soltanto in termini approssimativi,
malgrado i complessi sistemi di registrazio­
ne e controllo della popolazione e della for­
za alle armi di cui dispongono gli stati e gli
eserciti moderni. Inoltre le elaborazioni dei
dati ufficiali, anche quando esistono, non
possono rispondere a tutti gli interrogativi
che pone lo storico. Facciamo l’esempio del­
le perdite italiane nella prima guerra mon­
diale, che furono oggetto di rilevazioni siste­
matiche promosse dal Comando supremo e
dal ministero della Guerra subito dopo il
termine del conflitto, con la pubblicazione
di opere pregevoli, e poi tema privilegiato
della propaganda fascista, come base “mo­
rale” della rivendicazione di un ruolo mag­
giore deU’Italia nella politica europea. Ciò
nonostante queste rilevazioni lasciano aper­
ti grossi interrogativi, per esempio sugli uffi­
ciali (nomine, carriere, perdite)1 e nulla ci
dicono dei prigionieri. Fino a poco tempo
fa tra i 500.000 militari morti per ferita o
malattia entro il 1918 e i 650.000 caduti
complessivi avevamo un buco, che non po­
teva essere spiegato soltanto con i morti
per cause belliche dopo il 1918. Poi, nel
1993, Giovanna Procacci ha scoperto che i
morti in prigionia non erano poche diecine
di migliaia, ma 100.000; e che il loro ricordo
era stato del tutto rimosso non soltanto per
l’ingiusto sospetto di viltà (se non di diser­
zione) che gravava su chi si era arreso, ma
anche perché l’altissima mortalità era dovu­
ta al rifiuto delle autorità politiche e militari
di fornire ai prigionieri i soccorsi alimentari
che li avrebbero salvati dalla morte per fa­
me (i 600.000 prigionieri francesi ricevano
regolari rifornimenti dalla madrepatria e
quindi ebbero soltanto 20.000 morti, men­
tre i morti italiani furono 100.000 su
600.000 prigionieri)2. Ricordiamo poi che
accanto alle perdite belliche non si possono
dimenticare i 600.000 morti provocati nel­
l’inverno 1918-1919 dall’epidemia di “spa­
gnola” in Italia, i cui tragici effetti sono an­
che una conseguenza indiretta della guerra,
che aveva inciso sull’alimentazione della
popolazione e sulla riduzione dell’assistenza
sanitaria3.
Veniamo alla seconda guerra mondiale,
anzi alla sua prima parte, la guerra “regola­
re” fino all’armistizio dell’8 settembre 1943.
La prima cosa che balza agli occhi è la
mancanza del grosso sforzo di documenta­
zione dell’impegno bellico condotto per la
1 Cfr. Giorgio Rochat, Gli ufficiali italiani nella prima guerra mondiale, in Giuseppe Caforio, Piero Del Negro (a cura
di), Ufficiali e società, Milano, Angeli, 1988 (ora anche in G. Rochat, L ’esercito italiano in pace e in guerra, Milano,
Rara, 1991).
Cfr. Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale, Roma, Editori Riuniti, 1993.
Cfr. Giorgio Cosmacini, Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 5-21.
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
688
Giorgio Rochat
prima guerra mondiale. Per fare un esem­
pio, non abbiamo dati sicuri per la forza al­
le armi nei diversi periodi, ma soltanto
quelli disponibili all’epoca presso gli alti co­
mandi, senza alcun coordinamento tra eser­
cito, marina e aeronautica4.
Per quanto riguarda le perdite disponia­
mo di una serie di dati ufficiali per le singo­
le campagne, elaborati con criteri diversi
dagli Uffici storici delle tre forze armate,
ancora senza alcun coordinamento, e con
una serie di dubbi e buchi più o meno gran­
di. Non basta a giustificare questa situazio­
ne il disastro dell’8 settembre, che provocò
la perdita di quasi tutti i carteggi dei co­
mandi operativi e la dispersione (tempora­
nea, ma con danni dolorosi) degli archivi
centrali degli Stati maggiori e dei ministeri
militari. Il vero problema è il disinteresse
che le autorità, sia politiche sia militari
(ma anche studiosi e opinione pubblica), di­
mostrarono nel dopoguerra (e continuano a
dimostrare) per un’opera di riordino e con­
fronto dei dati disponibili (o ricuperabili
negli archivi militari stranieri, per esempio
per la prigionia), certo non facile, ma dove­
rosa. Succede cosi che chi riesce a ottenere
gli elenchi dei caduti di una divisione, con­
servati e messi su computer dalla Divisione
generale leva del ministero della Difesa,
scopre con amara sorpresa che sono inuti­
lizzabili perché largamente incompleti e
zeppi di errori5.
In uno studio in corso di pubblicazione,
frutto di un lungo e paziente lavoro, il gene­
rale Antonio Rossi ha riunito e vagliato le ci­
fre disponibili sulle perdite 1940-1943. Le ri­
portiamo, accorpando alcuni teatri e lascian­
do da parte quelli minori6:
Fronte occidentale
Guerra di Grecia
Occupazione balcanica
Africa orientale
Africa settentrionale
Russia
Mari e cieli
Territorio metropolitano
1.251
20.645
9.065
8.550
19.882
79.789
29.356
21.431
Per capire come queste cifre non possano es­
sere che approssimative basti pensare alla
difficoltà di calcolare le perdite nel Mediter­
raneo, che comprendono uomini della mari­
na, dell’aeronautica e dell’esercito (le truppe
imbarcate sulle navi affondate) e civili milita­
rizzati, registrati dalle tre forze armate con
criteri diversi, senza coordinamento e con di­
versi livelli di completezza e attenzione.
Facciamo un esempio concreto della diffi­
coltà di stabilire le perdite di una campagna.
La dettagliata relazione dell’Ufficio storico
dell’esercito fornisce questi dati per le truppe
italiane inviate in Russia7:
morti fino al 10 dicembre 1942
morti e dispersi dopo il 10 dicembre
di cui: rimpatriati dalla prigionia
quindi morti
4.989
84.830
10.030
74.800
totale morti
79.789
A un esame attento risulta però che: a) non
sappiamo quanti perirono in epoca succes-
4 Cfr. G. Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943, in Id., L'esercito italiano in pace e in guerra, cit.
5 In una ricerca sui caduti della divisione Acqui abbiamo potuto constatare che i dati in possesso della Divisione ge­
nerale leva, elaborati a partire da schede individuali, sono largamente incompleti sul piano quantitativo e inaffidabili
nell’indicazione del fronte e della data di morte. Cfr. G. Rochat e Marcello Venturi (a cura di), La divisione Acqui a
Cefalonia, settembre 1943, Milano, Mursia, 1993, p. 45.
6 Cfr. Antonio Rossi, Guerra 1940-1945. Gli italiani caduti. Breve storia de! conflitto in cifre, bozze per la stampa, To­
rino, 1995, p. 6. Ringrazio il generale Rossi per avermi concesso l’utilizzazione del suo prezioso studio con grande ge­
nerosità.
Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito, Le operazioni delle unità italiane sul fronte russo 1941-1943, Roma.
Ussme, 1977, p. 487.
Una ricerca impossibile
siva dei 13.592 feriti e congelati registrati fi­
no al 10 dicembre 1942 e dei 29.690 feriti e
congelati che, quasi sempre in condizioni fi­
siche disastrose, riuscirono a sottrarsi agli
accerchiamenti russi di dicembre 1942-gennaio 1943; b) le cifre ufficiali non tengono
conto dei morti per malattia; c) la relazione
dell’esercito non ricorda le perdite dell’ae­
ronautica; d) esistono dubbi sulla sorte di
alcuni reparti complementi in arrivo sul
Don nel gennaio 1943, forse fermati in tem­
po o forse caduti preda dei russi. E perciò
possibile che le cifre ufficiali debbano essere
aumentate di qualche centinaio o migliaio
di morti.
E invece quasi corretto comprendere tutti
i caduti in Russia tra le perdite verificatesi
prima dell’8 settembre: l’altissima mortalità
tra i prigionieri (di 40-50.000 ne ritornaro­
no 10.030) è concentrata nei primi mesi do­
po la cattura; dopo l’estate 1943 i campi
russi garantirono la sopravvivenza dei su­
perstiti, con un livello di mortalità “fisiolo­
gico”8.
Un altro esempio della difficoltà di questi
calcoli. Le cifre ufficiali delle perdite della
guerra contro la Grecia sono le seguenti9:
morti
feriti
dispersi
malati
congelati
totale
13.755
50.874
25.067
52.108
12.368
154.172
689
La percentuale dei morti sulle perdite com­
plessive è insolitamente bassa; e infatti a
quelli accertati bisogna aggiungere parte
dei dispersi (“per la maggior parte caduti
sul campo” , dice la relazione dell’Ufficio
storico, che però non fornisce alcun dato
sui prigionieri liberati dopo la resa della
Grecia o già trasferiti nei campi inglesi) e
certamente una aliquota dei feriti e dei mala­
ti. Il totale dei morti della campagna dovreb­
be perciò salire a 30.000, forse più (dipende
soprattutto dalla percentuale dei prigionieri
sui dispersi). Inoltre, per avere il costo com­
plessivo della campagna bisognerebbe tener
conto delle perdite dell’aeronautica, della
marina e delle truppe imbarcate sulle navi
affondate tra i porti pugliesi e l’Albania.
In sostanza, gli studi e gli archivi militari
hanno finora fornito dati sulle perdite utili
per la storia delle singole campagne, ma in­
sufficienti per un discorso complessivo. Un
apporto di grande interesse viene però da
un'altra parte. Nel 1957 l’Istituto centrale
di statistica pubblicò il volumetto Morti e
dispersi per cause belliche negli anni 19401945, frutto di uno straordinario lavoro a
partire dalle anagrafi comunali con l’utiliz­
zazione di schede perforate individuali (lo
strumento tecnico che precede l’avvento
dei computer) che hanno permesso l'elabo­
razione e l’incrocio dei seguenti dati: anno
e luogo di nascita, luogo (teatro bellico), da­
ta e causa di morte, sesso, condizione civile,
professione, grado militare10. Una parte di
queste rilevazioni sono inutilizzabili o insuf-
8 Definiamo “fisiologica”la mortalità che si registra in ogni collettività militare per ragioni non direttamente collegate
alle operazioni belliche (anche se certamente favorite dallo stato di guerra) per malattie, incidenti, suicidi e simili. Par­
liamo quindi di mortalità fisiologica (ci si perdoni la bruttezza del termine) sia per le truppe sul territorio nazionale non
impegnate in azioni belliche, sia per i campi di prigionia che assicuravano condizioni “normali”di vita.
9 Mario Montanari, L ’esercito italiano nella campagna di Grecia, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’eser­
cito, 1991 (2a ed.), p. 805.
10 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45, Roma, 1957. Sono compresi i mor­
ti dal 10 giugno 1940 al 31 dicembre 1945. Gli accertamenti, chiusi alla fine del 1949, sono dichiaratamente incompleti
per i nati nei territori perduti dall’Italia con la guerra. Purtroppo le tavole di dati non sono accompagnate da spiega­
zioni o note critiche, anche in presenza di lievi variazioni degli stessi dati nelle diverse tavole; e queste sono compilate in
modo uniforme, senza che siano messi in evidenza né approfonditi i nodi che possono interessare allo storico.
690
Giorgio Rochat
ficienti, come vedremo, ma è difficile conte­
stare quelle complessive, anche perché per
farlo bisognerebbe avere altre rilevazioni
da contrapporre. Le prenderemo perciò co­
me base, pur scontando che abbiano margi­
ni di errore variabili a seconda dei dati.
Prima di utilizzarle avvertiamo che non te­
niamo conto della distinzione tra morti e
dispersi mantenuta nel volumetto. Nelle
statistiche del tempo di guerra la voce di­
spersi comprende i caduti di cui non si ab­
bia precisa testimonianza, i prigionieri, an­
che i disertori e tutti gli irreperibili a qual­
siasi titolo.
Nelle statistiche postbelliche dispersi so­
no soltanto i morti del cui decesso non si
abbia certezza legale (salvo casi individuali
sempre possibili, ma quantitativamente trascurabili). Perciò tutte le cifre che darem o
(tranne diverso avviso) corrispondono alla
somma dei m orti e dei dispersi del volumetto citato .
Morti dal 10 giugno 1940
all’8 settembre 1943
di cui maschi 216.032, femmine 10.500
226.532
Morti dal 9 settembre 1943
al 31 dicembre 1945
di cui maschi 173.768, femmine 36.381
210.149
Morti in data imprecisata
di cui maschi 7.675, femmine 167
Totale morti 1940-1945
di cui maschi 397.475, femmine 47.048
cettabile come ordine di grandezza (a titolo
di confronto, sui 650.000 morti ufficiali del­
la prima guerra mondiale circa 50.000 risul­
tano deceduti dopo il 1918), anche se nasce
dalle opposte tendenze delle famiglie, che
reclamano il riconoscimento della causa bel­
lica dei decessi per assicurarsi le magre pen­
sioni relative, e delle istituzioni, che per tu­
telare l’erario (o per insensibilità burocrati­
ca) tendono a adottare criteri restrittivi nei
riconoscimenti.
Il totale complessivo delle perdite della se­
conda guerra mondiale si avvicina così al
mezzo milione.
Alcuni dati sul periodo fino all’8
settembre
Ci fermiamo per il momento soltanto sui dati
fino aH’armistizio. Per questi 39 mesi l’Istitu­
to centrale di statistica offre alcune articola­
zioni interessanti:
Ripartizione dei morti militari e civili fino all’8 set­
tembre 1943
7.842
444.523
militari
civili al seguito delle truppe
civili
non precisati
Ripartizione per anno dei morti fino all '8 settembre
1943
1940
Questo totale comprende i morti fino alla fi­
ne dell’anno 1945. L’Associazione nazionale
vittime di guerra calcola in 40.000 i deceduti
per cause belliche negli anni seguenti (cifra
tonda non dettagliata). La cifra sembra ac­
il
198.501
2.032
25.702
306
militari, civili
militarizzati,
imprecisati
civili
Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.1.
1941
1942
1943
12.746 40.844 62.936 84.304
441
1.004
2.849 21.408
Una ricerca impossibile
Ripartizione per grado dei militari mortifino all ’8 set­
tembre 1943 (le percentuali si riferiscono a 190.658
uomini su 204.346, cioè al 93,3 per cento)'2
militari di truppa
sottufficiali
ufficiali inferiori
ufficiali superiori
generali
grado non specificato
168.421
12.698
8.632
828
79
13.688
(89,0%)
(6,3%)
(4,3%)
(0,3%)
(0,01%)
I problemi emergono quando si passa alla ripartizione dei caduti sulla base del luogo di
morte (regione o teatro di operazioni):
Morti (militari e civili) fino all’8 settembre 1943 per
paese o teatro di operazioni1213
Territorio nazionale
Francia
Germania
Grecia e Albania
Iugoslavia
Russia
Altri paesi europei
Africa settentrionale
Egitto
Africa orientale
Altri paesi africani
Asia, America e Oceania
Mare
Luogo ignoto
Totale
61.799
1.023
1.206
26.668
11.115
75.977
570
16.259
680
3.309
472
351
24.301
2.802
226.532
Si può ripetere per queste cifre quanto ab­
biamo già detto per quelle elaborate dal ge­
691
nerale Rossi: valgono come ordine di gran­
dezza, ma un esame attento, che tenga conto
della ripartizione per mese che qui non pos­
siamo riprodurre, lascia gravi dubbi. È cer­
tamente possibile che le schede individuali
preparate dai comuni, su cui si basano i cal­
coli dell’Istituto centrale di statistica, siano
più precise per i dati civili che per quelli mi­
litari, anche perché, a giudicare dagli elenchi
citati della Direzione generale leva, le locali­
tà di morte venivano comunicate dai coman­
di con criteri disomogenei e parecchia ap­
prossimazione o confusione. E comunque
interessante ciò che appare sul peso delle
perdite nelle occupazioni balcaniche e sulla
presenza italiana nei più diversi paesi, che
possiamo in parte attribuire alla dispersione
dei prigionieri in mano gli inglesi, ma per il
resto è da chiarire14.
Diamo ora la “nostra” ripartizione delle
perdite 1940-1943. Diciamo “nostra” perché
non è basata su ricerche più sicure di quelle
già citate, ma soltanto su impressioni e ap­
prossimazioni (le cifre sono volutamente ar­
rotondate), e quindi vale unicamente come
ordine di grandezza e base di discussione15:
territorio nazionale: militari
civili
guerra di Grecia
occupazioni balcaniche
campagna di Russia
Africa orientale e settentrionale
mare
varie (prigionia britannica, teatri minori)
totale
35.000
25.000
30.000
10.000
80.000
20.000
25.000
10.000
230.000
12 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 1.1 e 2.4. S’intende che le cifre per il 1940 partono dal 10
giugno e quelle per il 1943 si arrestano all’8 settembre, in questa come in tutte le altre tabelle analoghe.
13 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.10.
14 Per avere un’idea parziale della dispersione di militari e civili italiani all’estero si veda: Istituto storico della Resisten­
za in Piemonte, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano, Angeli,
1989 (tra gli altri cfr. Jean-Louis Miege, Gli internati militari nell'Africa del Nord e Colette Dubois, I dimenticati: pri­
gionieri di guerra e internati italiani nell’Impero francese durante la seconda guerra mondiale).
15 Un attento spoglio degli archivi militari potrebbe dare molte notizie utili per l’analisi delle operazioni, ma, riteniamo,
non cifre complessive articolate più sicure di quelle elaborate dal generale Rossi e dall’Istituto centrale di statistica, per­
ché troppi dati si sovrappongono senza possibilità di controllo, mentre altri mancano perché non furono raccolti a tem-
692
Giorgio Rochat
Torniamo al volumetto di statistiche del
1957, che offre la possibilità di alcuni appro­
fondimenti sulle perdite verificatesi sul terri­
torio nazionale fino all’8 settembre 1943,
non soltanto per il miglior livello delle regi­
strazioni e la possibilità di controlli, ma an­
che per il basso numero di dispersi (per i quali
le notizie, per ovvi motivi, sono sempre in­
complete)16.
Ripartizione per anno dei morti sul territorio nazio­
nale fino all’8 settembre 1943
1940
1941
1942
1943
2.418
8.647
12.533
38.201
totale
di cui militari
61.799
37.152
Per la maggioranza dei militari abbiamo la ripartizione per arma e per grado:
Ripartizione per arma dei militari morti sul territorio
nazionale fino all’8 settembre 1943
Esercito. Armi combattenti
Carabinieri
Servizi
Totale
Marina
Aeronautica
Milizia
Coloniali
11.427
855
962
13.244
1.977
3.207
1.343
7
Cappellani
Finanza, polizia, pompieri,
guardie carcerarie
Non specificati
701
16.665
Totale
37.152
8
Ripartizione per grado dei militari morti sul territo­
rio nazionale fino all'8 settembre 1943 (le percen­
tuali si riferiscono a 24.080 uomini su 37.152, cioè
al 64,7 per cento)17
militari di truppa
sottufficiali
ufficiali inferiori
ufficiali superiori
ufficiali generali
non specificati
20.086
2.217
1.424
288
57
13.080
totale
37.152
(83,4%)
(9,2%)
(5,9%)
(1,2%)
(0,24%)
Dal confronto con la precedente tabella sulla
ripartizione per grado del totale dei militari
morti si può rilevare che i decessi di ufficiali
e sottufficiali rispetto alla truppa erano per­
centualmente più numerosi in patria che all’e­
stero. I generali morti in patria sono addirit­
tura 57 contro 22 all’estero. Queste differenze
sono certamente da collegare alla concentra­
zione (e sovrabbondanza) di comandi, Stati
maggiori e organi amministrativi in Italia, ol­
tre che alla ridotta incidenza delle perdite in
combattimento sul territorio nazionale.
Passiamo a qualche dato sulle cause di
morte, con l’avvertenza che per ovvie ragioni
po debito. Per poter avere dati esaurienti e sicuri sulle perdite (e prima ancora sulle chiamate alle armi e sulla destina­
zione degli uomini) bisognerebbe ripartire da capo con un solido gruppo di lavoro in grado di affrontare e confrontare
sistematicamente gli archivi militari e civili nazionali e quelli stranieri, ma anche di arrivare alla documentazione dei
distretti (che comincia a essere accessibile presso gli archivi di Stato provinciali soltanto per periodi più arretrati).
Lo spoglio sistematico di un paio di distretti potrebbe dare un campione affidabile delle vicende dei militari italiani nella
seconda guerra mondiale. Ci vorrebbero però risorse notevoli.
16 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.5.
Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 2.2 e 2.9. L'elevata percentuale di casi non specificati in
entrambe le tabelle è sorprendente (tanto più che per i morti fuori del territorio nazionale è quanto mai ridotta) e senza
alcun cenno di spiegazione da parte dei curatori delle statistiche. Forse è dovuta al fatto che una parte delle segnalazioni
sulla morte dei militari (per esempio nel caso di bombardamenti) poteva pervenire alle anagrafi comunali dalle autorità
civili e non da quelle militari.
Una ricerca impossibile
si riferiscono soltanto ai morti accertati e non
ai dispersi, che però sul territorio nazionale
sono trascurabili per i civili e non più del 13
per cento per i militari. Le statistiche divido­
no le cause di morte in due grandi categorie:
malattia e morte violenta o accidentale. In
patria i militari muoiono soprattutto di ma­
lattia: 18.550 casi (di cui 6.198 di tubercolosi,
1.068 di tifo, 565 di malaria, 1.605 di polmo­
nite) che costituiscono il 57,3 per cento dei
32.354 di cui è indicata la causa del decesso
(sempre per il periodo 1940-1943). Le malat­
tie sembrano invece risparmiare i civili: 125
morti in tutto, ma questo vuol dire soltanto
che il riconoscimento della causa bellica
(che comportava una piccola pensione) era
automatico per i militari deceduti per malat­
tia e invece negato ai civili (quelli citati sono
presumibilmente civili militarizzati). Fuori
del territorio nazionale i morti per malattia
scendono al 10 per cento dei decessi accertati;
e la percentuale scenderebbe ancora se si po­
tesse tener conto dei dispersi. D’altra parte va
considerato che una aliquota imprecisabile
dei morti in patria per malattia la avevano
contratta all’estero.
La morte violenta o accidentale colpisce
invece soprattutto i civili: 24.842 casi (di cui
10.418 donne) rispetto a 13.804 militari. L’in­
dicazione delle cause è però in buona parte di
difficile interpretazione. Le ordiniamo secon­
do il rapporto tra morti militari e civili.
Cause di morte violenta o accidentale sul territorio na­
zionale fino all'8 settembre 1943 (morti accertati) 18
(prevalenza militare)
suicidi
militari
393
civili
1
693
caduta di velivolo
investimento in genere
annegamento
ferite diverse
altre cause e mal definite
1.166
899
994
3.465
3.070
43
92
114
1.124
1.495
(prevalenza civile)
azioni belliche varie
altri bombardamenti
scoppio di ordigni
bombardamento aereo
688
162
401
2.576
754
754
2.089
18.376
Alcune voci sono chiare. Gli annegamenti
sono dovuti all’affondamento di navi vicine
alla costa (sarebbero da aggiungere ai morti
in mare) e gli “altri bombardamenti” do­
vrebbero essere quelli navali; le “cadute di
velivolo” riguardano l’aeronautica. Ma non
sappiamo che differenza ci sia tra i morti
per “ ferite diverse” , “ azione bellica” e
“scoppio di ordigni”, il che rende impossibi­
le separare i morti in combattimento da
quelli per cause diverse19.
Nelle grandi linee queste cifre non sono
sorprendenti, se si ha presente da una parte
che la forza alle armi sul territorio nazionale
sali gradualmente fino a due milioni e mezzo
per il solo esercito nel 1943, dall’altra che si
ebbero combattimenti terrestri soltanto sulle
Alpi nel giugno 1940 e in Sicilia in luglio-ago­
sto 1943. Si può quindi capire come i soldati
morissero soprattutto di malattia, di inciden­
ti e sotto i bombardamenti, con una frequen­
za che ci ricorda come le perdite belliche non
si verifichino soltanto al fronte.
Queste cifre documentano anche il peso
crescente del conflitto per la popolazione ci­
vile, soprattuto per i bombardamenti aerei,
18 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavole 2.7 e 2.8.
19 Tra le 55.273 cause di morte violenta o accidentale di militari registrate fuori del territorio nazionale quelle più fre­
quenti sono le ferite (56,8 per cento), gli annegamenti (15,4 per cento), le azioni belliche (11,8 per cento) e le cause varie
(8,1 per cento). Tra le 13.804 morti violente o accidentali di militari in patria le cause più frequenti sono le ferite (25,1
per cento), le cause varie (22,2 per cento) i bombardamenti aerei (18,6 per cento), le cadute di velivoli (8,4 per cento), gli
annegamenti (7,2 per cento) e gli investimenti (6,4 per cento). Un indizio che le morti per investimento siano da inter­
pretare come incidenti del traffico motorizzato è dato dall’alto numero di decessi tra gli autieri in patria, 345, più di tutti
gli altri servizi, più di bersaglieri, carristi o paracadutisti.
694
Giorgio Rochat
che causano il 74 per cento delle perdite (77
per cento con i bombardamenti navali).
Certo vorremmo sapere di più sulle altre
cause di morte. E registriamo con qualche
perplessità il fatto che per tutte le cause di
morte i civili maschi (pur fortemente dimi­
nuiti dalle chiamate alle armi) superano le
femmine, anche per i bombardamenti aerei
(9.719 contro 8.657) e navali (450 contro
304), che pure dovrebbero uccidere senza di­
stinzione di sesso20.
La ripartizione territoriale delle perdite ci­
vili è quanto mai ineguale. L’Italia setten­
trionale ha il 18,9 per cento dei morti, quella
centrale il 19,8, il Mezzogiorno senza la Sici­
lia il 26,0 e la Sicilia da sola 8.549 morti, il
34,6 per cento, come conseguenza dei com­
battimenti di luglio-agosto 1943. Nella gra­
duatoria delle regioni seguono la Campania
con 3.391 morti, il Lazio con 2.865, la Cala­
bria con 1.578, la Toscana con 1.408, il Pie­
monte con 1.364, la Liguria con 1.357, la
Lombardia con 1.294; ma il Veneto ha solo
70 morti e le Marche 11. La provincia più
colpita è Napoli con 2.630 morti, poi Roma
con 2.598, Catania con 2.381, Palermo con
1.554, T orino con 1.278, Genova con
1.257, Milano con 1.210; per contro 42 pro­
vince hanno meno di 20 morti21. La geogra­
fia delle perdite segue quella dei bombardamenti, aggravati per la Sicilia dai combatti­
menti dell’estate 1943.
Se invece si torna ai circa 200.000 militari
morti fino aU’armistizio, la metà risulta nata
nell’Italia settentrionale. La Lombardia ha
31.946 morti, il Veneto 21.412, il Piemonte
17.641, l’Emilia-Romagna 16.410; vengono
poi la Sicilia 15.865, la Campania 14.893,
la Puglia 12.442, la Toscana 11.669. La gra­
duatoria delle province vede al primo posto
Milano con 9.209 morti, poi Cuneo 7.526 e
Udine 6.893 (sono gli alpini periti in Rus­
sia), Napoli 5.770, Brescia 5.385 e Vicenza
4.238 (pesano ancora gli alpini in Russia),
poi Genova 3.592; 14 province hanno meno
di mille morti22.
Le perdite dopo l'8 settembre 1943
Le difficoltà per questo periodo sono tali e
tante, da giustificare appieno la definizione
di “ricerca impossibile” che diamo a queste
note. Con l’armistizio saltano infatti tutti i
punti di riferimento, per la perdita o la man­
canza all’origine della documentazione, tan­
to che quasi tutte le cifre che daremo sono sti­
me orientative. Anche le registrazioni del vo­
lumetto citato dellTstituto centrale di statisti­
ca si rivelano insoddisfacenti.
Proviamo a elencare i principali gruppi di
perdite. Cominciamo col dire che la distin­
zione dei 210.149 morti del volumetto citato
tra militari e civili (rispettivamente 85.915 e
126.668, dei quali 36.381 donne) perde signi­
ficato. Appartengono alle forze armate pra­
ticamente tutti i morti fuori del territorio na­
zionale, tranne i deportati periti nei lager del
Reich nazista; ma per i morti sul territorio
nazionale una distinzione è possibile soltan­
to per casi minori (gli equipaggi delle navi
affondate all’8 settembe 1943, i caduti delle
forze regolari schierate con gli angloameri­
cani). Non avrebbe senso classificare come
militari tutti gli “abili e arruolati” alla visita
di leva, ossia la grande maggioranza della
popolazione maschile, ma neanche tutti
quelli che all’8 settembre buttarono la divisa
per poi morire sotto i bombardamenti o nel­
le rappresaglie nazifasciste. Né tra i partigia­
ni si può distinguere chi all’8 settembre era
sotto le armi da chi aveva evitato il richia-
Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 2.8. Una spiegazione può venire dallo sfollamento che di­
minuiva la presenza femminile nelle città.
■' Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.8.
Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.3.
Una ricerca impossibile
mo, a prescindere dal fatto che una buona
parte era composta di giovanissimi che fug­
givano i “bandi Graziani” della Rsi. Certa­
mente non furono pochi coloro che scelsero
la Resistenza in quanto militari, come conti­
nuazione della guerra del regio esercito,
mentre altri rifiutarono il loro passato mili­
tare: sono vicende complesse e importanti,
che però non possono avere rilevanza nelle
statistiche generali. Per parte nostra, ritenia­
mo che la Resistenza appartenga alle forze
armate nella misura in cui sono parte della
nazione, ma che non abbia senso tentare di
quantificare il loro apporto alla guerra partigiana. E perciò indicheremo come militari
i caduti nei combattimenti di Cefalonia o
nei campi di prigionia e come italiani senza
distinzioni quelli morti sul territorio nazio­
nale dopo l’8 settembre.
Veniamo ora a elencare i grandi gruppi in
cui si possono suddividere i 210.149 morti
dall’8 settembre alla fine del 1945 (che an­
drebbero aumentati di qualche migliaio non
classificabile, tenendo conto dei 7.842 caduti
di cui non si conosce la data di morte).
Militari morti nei combattimenti successivi
all'8 settembre 1943. I dati disponibili sono
piuttosto approssimativi per le grosse lacune
della documentazione (gran parte dei coman­
di furono sopraffatti dai tedeschi, quindi le
loro relazioni furono compilate molto tempo
dopo e senza carte d’appoggio) e la consueta
mancanza di coordinamento tra le forze ar­
mate anche in sede storiografica. Per l’eserci­
to, l’Ufficio storico calcola 18.965 caduti fino
al 13 ottobre23; l’Ufficio storico della marina
dà un totale di 4.236 morti nel mese di set­
695
tembre24*.Mancano dati sulle perdite dell’ae­
ronautica e degli altri corpi militari e natural­
mente sui civili, salvo la cifra di 150 caduti
nella difesa di Roma. Molti di questi dati an­
drebbero rivisti. Per esempio l’Ufficio storico
dell’esercito calcola 6.000 caduti a Cefalonia
nei combattimenti e nei massacri dopo la resa
e 3.000 dei superstiti annegati nel trasporto
come prigionieri verso il continente, mentre
gli accurati studi di Gerhard Schreiber sulle
fonti tedesche danno 6.500 morti sull’isola e
1.350 in mare23. Prendiamo come totale ap­
prossimativo 20.000 morti, senza tenere con­
to dei civili.
Militari prigionieri dei tedeschi morti in
mare. Dopo la resa 98.000 militari italiani ri­
masero prigionieri dei tedeschi nelle isole del­
l’Egeo e dello Ionio. Nei mesi seguenti furo­
no in gran parte trasportati sul continente
in navi sovraffollate, senza alcun riguardo
per la loro salvezza in caso di affondamento,
malgrado gli attacchi inglesi al traffico nava­
le. Le perdite furono numerose: Schreiber le
ha calcolate con molta precisione in 13.298
morti. I trasporti via aerea erano più sicuri,
soltanto tre apparecchi andarono persi con
un centinaio di prigionieri italiani26.
Militari caduti nelle guerriglie balcaniche.
Non esistono dati complessivi attendibili sui
militari che, dopo il collasso delle forze arma­
te italiane nei Balcani, si sottrassero alla pri­
gionia tedesca scegliendo di combattere con
le bande partigiane (accolti in modo duro,
ma positivo dai comunisti iugoslavi e albane­
si, trattati generalmente in modo infame dai
greci sia comunisti sia nazionalisti), né tanto
meno su quelli che caddero in combattimento
23 Cfr. Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma, Ufficio storico dello Stato
maggiore dell’esercito, 1975, pp. 643-644. Alcuni dati sono presentati come approssimativi.
24 Ufficio storico della marina militare, La marina italiana nella seconda guerra mondiale, voi. I, Dati statistici, Usmm,
Roma, 1972 (23 ed.), pp. 203-210. I morti con le navi affondate sono 2.088, certamente precisi, i morti a terra 2.148,
senza dettagli.
23 Cfr. Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento de! Terzo Reich 1943-1945, Roma,
Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, 1992 (ed. orig. München, R. Oldenbourg Verlag, 1990). Il volume
offre anche un’accurata descrizione dei combattimenti seguiti all’8 settembre condotta sulle fonti tedesche.
26 G. Schreiber, I militari italiani internati, cit., pp. 339 sg.
696
Giorgio Rochat
oppure morirono di stenti. La cifra di 10.000
morti è del tutto approssimativa.
Militari morti come prigionieri dei russi.
Come abbiamo già detto, i morti nei campi
di prigionia dopo l’8 settembre sono pochi e
compresi in tutti gli studi tra le diecine di mi­
gliaia periti nei mesi precedenti per l’oggettiva difficoltà di una ripartizione.
Militari morti come prigionieri dei tedeschi.
Dalle accurate ricerche di Schreiber risulta
confermato che dopo l’8 settembre i tedeschi
fecero prigionieri 800.000 militari italiani, di
cui circa 650.000 furono deportati nei campi
di prigionia del Reich27. Degli altri 150.000
sappiamo ben poco: in parte furono incorpo­
rati nelle forze armate naziste, in unità com­
battenti come le SS, più spesso come mano­
valanza ausiliaria; in parte furono trattenuti
come lavoratori coatti senza un preciso status
nelle retrovie tedesche, specialmente nei Bal­
cani. Una valutazione numerica non è possi­
bile, tanto meno per le loro perdite. Le uniche
cifre precise riguardano i 13.400 morti nei
trasporti già citati dalle isole greche al conti­
nente, ma per tutti gli altri non abbiamo alcu­
na indicazione.
Per quanto riguarda i 650.000 prigionieri,
subito ribattezzati come internati militari e ri­
dotti a circa 600.000 dalle adesioni alla Rsi, le
perdite documentate sono di poco superiori
alle 20.000, ma sono sicuramente inferiori alla
realtà. Il totale generalmente accettato è di
40.000. E probabile che comprenda anche le
perdite dei lavoratori coatti citati sopra28.
Militari morti come prigionieri degli alleati.
Disponiamo in materia di una sola cifra pre­
cisa, elaborata da Miège a partire dagli archi­
vi francesi: tra i 41.237 italiani chiusi nei du­
rissimi campi francesi del Nordafrica si ebbe­
ro tremila morti, il 7,3 per cento, in poco più
di due anni29. Per i 400.000 prigionieri in ma­
no agli inglesi e per i 125.000 in mano agli sta­
tunitensi (totali che andrebbero verificati)
non abbiamo alcun dato utilizzabile (gli ar­
chivi degli ex alleati sono consultabili, ma
non sono stati finora oggetto di ricerche si­
stematiche)30. I campi di prigionia sia inglesi
che americani erano tenuti secondo le norme
internazionali e, pur nella varietà delle situa­
zioni, garantivano generalmente condizioni
di vita accettabili. Possiamo quindi ritenere
che la mortalità in questi campi fosse “fisio­
logica” . Tenendo conto che per oltre mezzo
milione di uomini la detenzione durò da 3 a
6 anni, non è certamente eccessivo dare un
totale di 10.000 morti (compresi quelli nei
campi francesi ricordati), se non altro come
totale orientativo.
Militari caduti nella guerra di liberazione.
Ci riferiamo ai caduti delle forze armate re­
golari, che si aggirano sui 3.000.1 dati ufficia­
li non sono sempre utilizzabili, perché uni­
scono a questi i militari morti come partigia­
ni o nelle rappresaglie nazifasciste.
Partigiani caduti. Il totale generalmente
accettato è di 40.000 morti, compresa una di­
screta aliquota di donne, ma si tratta di una
stima orientativa più che del risultato di cal­
coli parziali. Questo totale dovrebbe com­
prendere non soltanto i combattenti caduti
in combattimento o fucilati dopo la cattura,
ma anche i collaboratori che fornivano alla
bande rifornimenti, informazioni e collegamenti, come pure i partigiani deportati e
morti in Germania. Si possono avere dati at­
tendibili per singole situazioni (per esempio
27 G. Schreiber, I militari italiani internati, cit., passim.
_s La cifra di 40.000 morti è accettata da tutti gli studiosi italiani e da Schreiber, s’intende come approssimativa. Una
verifica è possibile soltanto per situazioni particolari.
"9 Cfr. Jean Louis Miège, I prigionieri di guerra in Africa del nord, in Romain H. Rainero (a cura di), / prigionieri mi­
litari italiani durante la seconda guerra mondiale, Milano, Marzorati, 1985, pp. 171-182.
30 Cfr. Flavio Conti, Iprigionieri di guerra italiani, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 63. Le cifre sono quelle che risultavano
al ministero della Guerra nel 1946, ancora da controllare negli archivi britannici e statunitensi. Cfr. Istituto storico della
Resistenza in Piemonte, Una storia di tutti, cit.
Una ricerca impossibile
l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e
provincia ha condotto un censimento di tutti
i caduti della provincia nella seconda guerra
mondiale), ma per i dati complessivi non sarà
possibile anche in futuro andare al di là di
una stima per la mancanza di fonti documen­
tarie articolate e comparabili (le notevoli ri­
cerche in corso sul partigianato piemontese
si basano sulle domande di riconoscimento
presentate dopo la liberazione e quindi non
possono estendersi ai caduti).
Civili uccisi nelle rappresaglie nazifasciste.
La stima di 10.000 sembra attendibile come
ordine di grandezza. Chi la ritiene esagerata,
non ha che da sommare le vittime dei massa­
cri di maggiori dimensioni e notorietà, che
danno già cifre impressionanti.
Ebrei. Le lunghe, accurate ricerche con­
dotte da Liliana Picciotto Fargion per il Cen­
tro di documentazione ebraica danno un to­
tale di 5.916 morti dei 6.746 ebrei italiani de­
portati in Germania e nominativamente ac­
certati, cui sono da aggiungere 303 ebrei ucci­
si in Italia e circa un migliaio di deportati per
i quali le notizie sono incomplete o manca­
no31. Sono gli italiani uccisi perché ebrei',
non teniamo conto in questa voce di quelli
che caddero come partigiani, sotto i bombar­
damenti o per altre cause.
Deportati politici in Germania. I deportati
nei lager tedeschi furono 45-46.000, i soprav­
vissuti circa il 10 per cento. Sono cifre abba­
stanza sicure, che però comprendono anche
gli ebrei già considerati, 7.000 circa, e soprat­
tutto un buon numero di partigiani, già com­
presi nella voce specifica. Separare i deporta­
ti “politici” da quelli partigiani non è facile
né corretto, ma dobbiamo farlo per non con­
697
tare questi ultimi due volte. Calcoliamo quin­
di 16.000 morti tra i deportati politici e altret­
tanti o poco più tra quelli partigiani32.
Vittime dei bombardamenti. Il numero di
40.000, generalmente accettato, trova riscon­
tro nel volumetto dell’Istituto centrale di sta­
tistica33.
Fascisti. Un calcolo delle perdite fasciste in
combattimento o negli attentati partigiani
non è probabilmente possibile per la disper­
sione della documentazione, ma non è mai
stato tentato dagli studiosi della Rsi (anche
perché attesterebbe soprattutto la disorga­
nizzazione e scarsa efficienza dei reparti).
La cifra di 3.000 morti è orientativa (e ritenu­
ta troppo bassa da molti partigiani). Non è
possibile calcolare le perdite dei reparti al di­
retto servizio dei tedeschi.
Anche il totale dei fascisti fucilati al mo­
mento della liberazione non può essere accer­
tato con qualche precisione. Studiosi di parte
partigiana li stimano in 10-12.000, cifra mol­
to più attendibile delle diecine di migliaia di
morti reclamati dalla propaganda fascista.
Il volumetto dell’Istituto centrale di statistica
riporta per il 1945 le cifre seguenti per i morti
sul territorio nazionale per cause belliche:
gennaio 4.798, febbraio 4.373, marzo 5.375,
aprile 16.749, maggio 6.547 (poi le cifre crol­
lano, ma ancora nel dicembre dicono di 692
morti per ferita o malattia di guerra). Se si
tiene presente che tra la fine di aprile e i pri­
missimi di maggio si registrano sia la grande
offensiva partigiana, sia gli ultimi massacri
tedeschi, si può accettare che i fascisti fucilati
siano stati appunto 10-12.000. Diciamo
15.000 comprendendo anche le perdite prece­
denti34.
31 Cfr. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1991.
Non teniamo conto dei 1.820 ebrei, cittadini italiani del Dodecaneso, deportati da Atene.
32 Dati fornitici cortesemente dall’amico Federico Cereja sulla base delle sue ricerche sulla deportazione.
33 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 2.8, dove sono indicati 43.402 morti per “bombardamento
aerei” e 5.321 per “altri bombardamenti”che non sapremmo come classificare. Dei limiti di queste cifre diciamo più
avanti.
34 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.10 e 3.12. I morti di aprile sono 4.954 in Emilia, 3.355 nel
Veneto, 2.862 in Lombardia, 2.203 in Piemonte, 944 in Liguria.
698
Giorgio Rochat
Proviamo a sommare i dati finora esposti:
bia?) e che non tengono conto delfaumento
della mortalità “normale” per il drammati­
militari caduti nei combattimenti dopo
co peggioramento delle condizioni di vita
l’8 settembre
20.000 della popolazione.
militari morti nei trasporti dalle isole
Tutti questi calcoli sono però rimessi in
greche
13.400
questione dal volumetto citato, che dà
militari caduti nelle guerriglie balcaniche 10.000
155.642 morti sul territorio nazionale, inve­
militari morti prigionieri dei tedeschi
40.000
ce
dei 100.000 che ci risultano36. Il che signi­
militari morti prigionieri degli alleati
10.000
fica
che i nostri dati sono in parte non pic­
militari caduti nella guerra di liberazione 3.000
partigiani caduti
40.000 cola errati, oppure, e più verosimilmente,
civili uccisi nelle rappresaglie nazifasciste 10.000 che il rilevamento dell’Istituto centrale di
ebrei
7.300 statistica non è affidabile per quanto riguar­
deportati politici (meno ebrei e partigiani) 16.000 da il luogo di morte, perché considera come
vittime bombardamenti anglo-americani 40.000 periti in patria una parte cospicua dei morti
fascisti
15.000 all’estero. Questa scarsa affidabilità risulta­
va già dalle indicazioni per il 1940-1943
totale
224.700lI
sui morti all’estero (e viene confermata dal­
l’analisi delle analoghe indicazioni per il
Il totale supera di circa 10.000 unità quello 1943-1945, poco convincenti); ma è più dif­
del volumetto citato (210.149 più alcune mi­ ficile accettare che anche i dati per il territo­
gliaia di morti senza data); un risultato del rio nazionale siano in parte errati, ossia au­
tutto accettabile, se si tiene presente che mentati sino al 50 per cento, anche tenendo
quasi tutte le nostre cifre sono orientative. conto della situazione di precarietà dell’ItaNe risulta che i militari caduti in combatti­ lia 1943-1945 (interruzione delle comunica­
mento o in prigionia dovrebbero essere qua­ zioni tra nord e sud, crisi delle istituzioni,
si 100.000, mentre per tutti gli altri italiani collasso dell’apparato militare, bombardamorti come partigiani o sotto i bombarda- menti, operazioni belliche e via dicendo, so­
menti non è possibile separare militari e ci­ prattutto la mancanza di rilevamenti siste­
vili35. Per quanto riguarda le 36.000 donne matici subito dopo la fine del conflitto). Il
morte, una buona metà furono vittime dei risultato è sconfortante per la nostra ricer­
bombardamenti, mentre non è possibile cal­ ca, perché le cifre dettagliate sulla riparti­
colare con qualche precisione le partigiane zione dei morti sul territorio nazionale del
cadute, certo non poche. Sono quasi sempre volumetto citato diventano inutilizzabili in
cifre orientative, con lacune e interrogativi quanto gonfiate (un vero peccato, dato che
(come viene classificato il reduce morto nel sono interessanti e come linee di tendenza
1944 per le ferite riportate in Russia o in Li­ confermano quanto si sa sulle perdite del
Sommando i morti nei combattimenti dopo l’8 settembre, nei trasporti dalle isole greche, nelle guerriglie balcaniche,
nella guerra di liberazione, i prigionieri dei tedeschi e degli alleati, si hanno 96.400 appartenenti alle forze armate. Il
totale è ovviamente approssimativo e comunque superiore agli 85.915 militari morti nel 1943-1945 dato dal volumetto
dell Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.1, probabilmente per l’insufficienza della registrazioni
sul luogo di morte di cui diciamo dopo.
Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 1.5. Calcoliamo come morti sul territorio nazionale una
parte minore dei caduti nei combattimenti dell’8 settembre, i caduti della forze armate regolari nella guerra di libera­
zione, i partigiani (meno quelli morti in Germania), le vittime della rappresaglie e dei bombardamenti, i fascisti, in tutto
meno di 100.000. Il divario con i 155.00 morti sul territorio nazionale del volumetto è troppo forte per essere riportato
all’imprecisione delle nostre cifre.
Una ricerca impossibile
periodo), ma anche perché ne viene indeboli­
ta la credibilità complessiva del rilevamento
dell’Istituto centrale di statistica.
Rinunciamo quindi a esaminare i dati sulle
perdite sul territorio nazionale e, nel presup­
posto (in realtà da verificare) che le registra­
zioni “civili” (in particolare la provincia di
origine dei morti) dell’Istituto centrale di sta­
tistica meritino più fiducia di quelle “milita­
ri”, diamo soltanto alcuni dati generali.
Ripartizione per anno dei morti 1943-194537
1943 (dal 9 settembre)
1944
1945 (fino al 31 dicembre)
Totale
38.966
110.603
60.580
Donne
6.800
22.137
7.444
210.149
36.381
Ripartizione dei morti perprovincia o regione di nasci­
ta (sono riportate le province che danno più di 3.000
morti nel 1943-1945 o di 5.000 nel 1940-1945)3S
1943-1945
1940-1945
3.479
4.884
11.170
8.522
di cui donne
504 (4,5%)
999 (11,7%)
Cuneo
Torino
Piemonte
(e Aosta)
15.079
34.021 2.518 (7,4%)
Brescia
Milano
Lombardia
3.187
6.554
21.382
8.656 391 (4,5%)
16.506 1.049 (6,4%)
54.597 2.566 (4,7%)
Trentino-Alto
Adige
Padova
Treviso
Venezia
Verona
Vicenza
Veneto
Udine
1.506
4.380
3.548
3.248
3.239
3.770
21.914
5.648
3.621
273 (7,5%)
7.721 722
7.325 612
5.966 543
6.857 610
8.117 519
43.913 3.564
12.707
(9,4%)
(8,4%)
(9,1%)
(8,9%)
(6,4%)
(8,1%)
763 (6,0%)
699
Friuli-Venezia
Giulia
6.928
14.427
Genova
Liguria
3.391
7.525
7.654 924 (12,1%)
14.976 1.723 (11,5%)
Bologna
Ferrara
Forlì
Modena
Ravenna
Emilia
Romagna
8.410
3.137
5.207
4.041
3.690
11.482 2.351 (20,5%)
5.534 749 (13,5%)
7.580 1.601 (21,1%)
6.276 747 (11,9%)
4.761 1.413 (29,7%)
31.284
48.375 7.877 (16,3%)
Arezzo
Firenze
Toscana
3.018
6.124
22.807
4.456 612 (20,3%)
8.859 1.432 (16,2%)
36.155 5.652 (15,6%)
Umbria
3.567
Marche
7.480
13.630 1.430 (10,5%)
3.025
7.337
16.121
5.346 874 (16,3%)
12.698 2.557 (20,1%)
25.836 4.837 (18,7%)
3.030
5.012 814(16,2 %)
Abruzzi e Molise 8.385
17.082 1.879 (11,0%)
Caserta
Napoli
Salerno
Campania
5.503 799 (14,5%)
13.965 2.368 (17,0%)
6.094 538 (8,8%)
32.473 4.330 (13,3%)
Frosinone
Roma
Lazio
Chieti
2.854
5.353
2.655
13.870
6.813
913 (6,3%)
881 (12,9%)
Bari
Puglia
2.992
7.454
8.452
21.103
361 (4,3%)
773 (3,6%)
Basilicata
1.833
4.631
147 (3,2%)
Calabria
3.967
14.223
878 (6,2%)
Catania
Messina
Palermo
Sicilia
1.601
1.559
1.294
8.015
6.801 1.053 (15,5%)
5.215 405 (7,8%)
5.486 612 (11,2%)
32.537 3.653 (11,2%)
Sardegna
1.928
Trieste, territori
ex italiani, varie 11.117
37 Istituto centrale di statistica. Morti e dispersi, cit., tavola 1.1.
j8 Istituto centrale di statistica, Morti e dispersi, cit., tavola 3.3.
6.080
231 (3,8%)
19.155 2.832 (14,8%)
700
Giorgio Rochat
Riportiamo queste cifre (che andrebbero con­
frontate con quelle lievemente diverse sui
morti secondo la provincia di residenza e
con quelle sui morti secondo la provincia di
morte, malgrado i dubbi già espressi) per sot­
tolineare l’interesse del rilevamento condotto
dall’Istituto centrale di statistica. Anche dal
nostro sommario elenco risulta l’incidenza
delle operazioni belliche sulla popolazione
(si vedano le perdite elevate della Sicilia per
i combattimenti dell’estate 1943, delle provin­
ce di Caserta, Fresinone e Chieti per quelli
dell’inverno 1943-1944, di quelle tosco-emi­
liane sulla linea gotica 1944-1945) e della
guerra partigiana in Emilia, nel Veneto, in
Lombardia (con forti differenze da provincia
a provincia). Viene posto in evidenza anche il
tributo di sangue che la guerra continuava a
prelevare in regioni che furono appena sfiora­
te dalla campagna d’Italia e non conobbero la
guerra partigiana (come la Sardegna). Il dato
più difficile da interpretare riguarda però le
donne: rimane da spiegare perché i bombar­
damenti uccidessero più maschi che femmine
(limiti nel rilevamento delle perdite, conse­
guenze dello sfollamento?), perché la guerra
partigiana fosse più cruenta per le donne in
Emilia che in Piemonte, ma anche perché le
istituzioni pubbliche, così avare nel riconosci­
mento della causa bellica dinanzi ai decessi di
civili, fossero costrette a concederla a centi­
naia di donne morte in regioni rimaste ai mar­
gini della guerra combattuta.
Questa sulle perdite della seconda guerra
mondiale è davvero una “ricerca impossibi­
le”, che non può arrivare a conclusioni gene­
rali di qualche certezza, anzi porta a eviden­
ziare i limiti del grande rilevamento dell’Isti­
tuto centrale di statistica, l’unico tentatitivo
organizzato per una quantificazione e un’a­
nalisi delle perdite del conflitto. Le ricerche
già condotte dagli Istituti per la storia della
Resistenza e quelle in corso possono dare ri­
sultati settoriali del massimo interesse e apri­
re prospettive stimolanti, ma arrivare a cifre
complessive affidabili sembra proprio una
“ricerca impossibile” .
G iorgio R ochat
Otto settembre 1943
Documenti a margine dell’armistizio
Andrea Curami
Proponiamo a corredo di queste brevi note
di commento alcuni documenti del carteggio
personale del generale di squadra aerea Eral­
do Ilari, che all’epoca dell’armistizio coman­
dava la 33 Squadra aerea, da cui dipendeva­
no i reparti dislocati nell’Italia centrale e in
particolare attorno a Roma. Il fondo è stato
fortunosamente trovato qualche anno fa sul­
le bancarelle di un mercatino di militaria e
contiene documenti originali o minute della
corrispondenza che il generale scambiò con
lo Stato maggiore della regia aeronautica
nel periodo 1944-1946 sugli eventi dell’otto
settembre, oltre ad alcune filze sull’attività
di Ilari presso l’Aeronautica Macchi nell’im­
mediato dopoguerra, quando l’industria va­
resina forni all’Egitto velivoli da caccia
MC205 e aviogetti De Havilland “Vampire”, costruiti su licenza britannica per la no­
stra aeronautica.
Trascurando queste ultime carte, peraltro
interessanti in quanto forniscono spunti sui
modi sbrigativi con cui l’industria italiana af­
frontò il periodo della ricostruzione1, soffer­
miamo qui la nostra attenzione sugli eventi
deH’armistizio.
Elena Aga Rossi ha recentemente scritto
che
Il comportamento schizofrenico di de Courten è
uno dei tanti elementi di difficile spiegazione della
situazione nei giorni dal 3 all’8 settembre 1943. Il
ruolo dei vari protagonisti e i loro rapporti riman­
gono oscuri. Il re evidentemente fu tenuto costan­
temente informato da Badoglio, ma vi fu uno
stretto collegamento anche tra Badoglio e gli altri
generali? A posteriori quasi tutti hanno sostenuto
di aver saputo pochissimo delle trattative, e il mi­
nistro della Guerra, Antonio Sorice, ha perfino af­
fermato di essere stato informato dell’armistizio
soltanto l’8 settembre. E possibile che Ambrosio,
vedendo “quasi ogni sera” i tre capi di Stato mag­
giore delle forze armate non li tenesse al corrente
degli avvenimenti?2
documentando in modo inconfutabile che
l’ammiraglio Raffaele de Courten era perfet­
tamente al corrente dell’evoluzione degli
eventi al punto di diramare tardivi precisi or­
dini “agli ammiragli Comandanti in Capo o
Comandanti autonomi di forze navali e di
Dipartimento nella riunione tenuta a Super­
marina nel pomeriggio del 7 settembre3” .
1 L’industria aeronautica nazionale armò, infatti, contemporaneamente tanto la Siria e l’Egitto (tramite la Macchi e la
Fiat), quanto il nascente Stato d’Israele (con Spitfire radiati dall’Aeronautica militare e ricondizionati in parte presso la
stessa Macchi), oltre ad addestrare i piloti di tutti i contendenti presso sedicenti scuole di volo, quali l’Alica, per aviatori
civili situate nel centro Italia.
2 Elena Aga Rossi, L ’inganno reciproco. L ’armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Roma, Mini­
stero per i Beni culturali e ambientali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 1993, p. 58.
1 E. Aga Rossi, L ’inganno reciproco. L'armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit., doc. 7. 1, pp.
353-354. Fra gli altri era presente alla riunione l’ammiraglio Bruto Brivonesi, fratello del parimenti incauto ammiraglio
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
702
Andrea Curami
Secondo il memorandum dettato dal sotto
capo di Stato maggiore Sansonetti agli am­
miragli presenti, oltre alla nota generica frase
“Tutte le unità in condizioni di muoversi si
tengano rifornite al completo di nafta, acqua,
viveri”, le azioni “proprie della Marina” do­
vevano essere:
a) cattura o distruzione unità navali germaniche
(accordi con Comando artiglieria Regia Marina);
b) difesa ed eventuale autoaffondamento navi da
guerra e sabotaggio mercantili. Vigilanza preven­
tiva (fin d’ora) verso le unità fornite di siluri;
c) catturare o eliminare reparti Marina germanica;
[•■■]
in pieno accordo con quanto stabilito nel
Promemoria n.l del Comando supremo, di­
ramato il 6 settembre 1943, nel “caso che for­
ze germaniche intraprendano di iniziativa atti
di ostilità contro gli organi di governo e le
forze armate italiane4” , tranne il fatto che
non vi è traccia di questa ipotesi negli ordini
impartiti agli ammiragli il 7 settembre, facen­
do assumere a queste istruzioni un’imposta­
zione totalmente offensiva, singolarmente
omessa nella relazione che de Courten com­
pilò il 12 febbraio 1944 sugli avvenimenti
dell’8 settembre5.
Di egual tenore offensivo doveva essere
il contenuto della Memoria op. 44, dirama­
ta a mano dallo Stato maggiore del regio
esercito la notte del 2 settembre. Come è
noto i destinatari del dispaccio dovevano
prendere nota degli ordini, bruciare il testo
della Memoria e restituirne l’ultima pagina
controfirmata quale ricevuta. Secondo la
ricostruzione che ne è stata fatta, il docu­
mento, dopo una premessa in cui si accen­
nava a una “probabile e prossima aggres­
sione germanica in forze” , assegnava tra i
compiti specifici
— 28 Armata: far fuori la 718 Divisione tedesca e
interrompere le comunicazione ai tedeschi da Tar­
visio al mare;
— 43 Armata: raccogliere le forze residue nelle
Valli Roia e Vermenagna e agendo sui fianchi delle
unità tedesche, interrompere le comunicazioni con
la Cornice (Liguria); col XX Raggruppamento
sciatori sbarrare i passi del Moncenisio e del Monginevro, e interrompere la ferrovia del Fréjus;
— 53 Armata: tenere saldamente La Spezia e pun­
tare su forze e mezzi tedeschi dislocati tra il Lago
di Bolsena e il Senese6
rimandando le disposizioni per la difesa di
Roma a ordini a parte, ma specificando che
“l’applicazione della Memoria avrebbe do­
vuto effettuarsi o in seguito a ordine dello
Stato maggiore dell’esercito con fonogram­
ma convenzionale (‘Attuare misure ordine
pubblico Memoria 44 Superesercito’) o di ini-
Bruno, comandante in capo del Dipartimento di Taranto nei cui depositi si rifornì di mine alle 21:20 dell’8 settembre
(circa un’ora e mezza dopo il proclama radiofonico di Badoglio) la motozattera tedesca MFP 478. Lo stesso Brivonesi
autorizzò che lo MFP 478, asssieme alle due motosiluranti S. 54 e 5. 61, superasse alle 5:00 del 9 settembre le ostruzioni
esterne del Mar Grande che aveva provveduto a minare con gli ordigni italiani. Sul banco di mine posato affondarono il
9 settembre l’incrociatore inglese Abdiel e in seguito il rimorchiatore Sperone e la cannoniera inglese MMS 70. Altre
vittime della crociera delle due motosiluranti tedesche verso Venezia furono il motoveliero R240 Vulcania, la cannoniera
Aurora, silurata e affondata al largo di Ancona N I settembre, il piroscafo Leopardi, abbordato e catturato sempre ITI
settembre assieme al Pontinia, e il cacciatorpediniere Quintino Sella. Su queste vicende si veda Erminio Bagnasco, Fulvio
Petronio, Un’incredibile "crociera di guerra" in Adriatico, “Storia militare”, 1994, n. 4.
4 E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L ’armistizio tra l ’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit., doc. 6. 2, pp.
339-346.
5 A tale interpretazione riduttiva dei fatti si attenne ancora recentemente Gino Galuppini nel presentare la relazione
ufficiale dell Ufficio storico della Marina al convegno di Milano sul 7-8 settembre 1943 (cfr. G. Galuppini, L'armistizio
e la Marina, in Aldo A. Mola, Romain H. Rainero (a cura di), Otto settembre 1943. L'armistizio italiano 40 anni dopo,
Roma, Ministero della Difesa, 1985, pp. 147-160).
Riprendiamo il probabile testo della Memoria op. 44 da Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settem­
bre-ottobre 1943, Roma, Ussme, 1975, pp. 43-44.
Otto settembre 1943
ziativa dei comandanti in posto, in relazione
alla situazione contingente”7.
Lasciano, quindi, perplessi gli ultimi scritti
del generale Mario Capitani, all’epoca colon­
nello di Stato maggiore presso il corpo d’ar­
mata di Roma:
Giustamente vi fu chi scrisse, fra molte panzane,
che “ una volta tanto si era riusciti a mantenere
l’assoluto segreto intorno ai piani progettati: ar­
mistizio — rovesciamento del fronte”.
[-3
Non ha quindi interesse appurare se uno o due uo­
mini in Roma fossero a conoscenza dei propositi
relativi al futuro rovesciamento del fronte: se vi
erano avanti F8 settembre, il 9 questi uomini a Ro­
ma non c’erano più e, prima, non avevano mai
parlato. Sta di fatto che per tutti gli enti militari
interessati nella difesa di Roma, tale difesa era na­
ta, cresciuta e continuava a essere interpretata —
anche durante il periodo del governo Badoglio —
esclusivamente in funzione di probabili attacchi di
paracadutisti anglo-americani, o di sbarchi dal
mare, perché si riteneva possibile, anzi probabile
un’azione alleata contro Roma per rendere acefa­
la l’Italia, perché tale era il senso letterale delle
parole con le quali lo Stato maggiore si era sem­
pre espresso e si continuava a esprimere nelle
sue circolari in proposito, tale era lo spirito delle
circolari stesse.8
proponendo l’inedito documento a firma
Roatta contenente le disposizioni per la dife­
sa di Roma e così commentandolo:
[...] per ovviare all’inconveniente della mancata
unità di comando — cosa più volte lamentata
dai sottordini — lo Stato Maggiore con circolare
n. 11/35775 recante la data del 5 settembre, aveva
avocato a sé il comando diretto, cioè l’onore e l’o­
nere della difesa. Ma qui, per lettore eventualmen­
703
te distratto, ripetiamo difesa contro attacchi di pa­
racadutisti e sbarchi anglo-americani dal cielo e
dal mare, non difesa contro il tedesco. Questo, in
sostanza, e nulla più tutti sapevano l’8 settembre9.
Il documento, a firma del capo di Stato mag­
giore generale Mario Roatta, venne inviato a
mano ai comandanti dei corpi d’armata di
stanza a Roma il 5 settembre e recitava che
“la difesa interna ed esterna della Capitale nel­
la nota eventualità di attacco di unità paracadu­
tisti e simili è di pertinenza di questo S.M.”101.
Queste disposizioni, a somiglianza delle
precedenti che mai parlarono di armistizio,
non specificavano né lo Stato di appartenen­
za delle unità avio-lanciate (dando libero sfo­
go al pensiero ipotetico, dalla genericità del
documento gli ufficiali di Stato maggiore
non avrebbero dovuto escludere neppure un
avio-sbarco di parà elvetici in aiuto alle guar­
die svizzere che, forse, stavano tramando per
ripristinare il potere temporale del Papato),
né l’atteggiamento da assumere da parte dei
corpi d’armata sottoposti (considerare i pa­
racadutisti invasori o amici in aiuto?), ma
sembra oggi esagerato considerarle al pari
delle profezie della sibilla cumana.
Di fronte a simili diffuse reticenze, ritenia­
mo interessante proporre il documento n.3,
stilato dal generale Ilari in risposta a una
esplicita richiesta del ministero dell’Aeronau­
tica del 14 luglio 1944. La relazione, analoga
a quella già ricordata dell’ammiraglio de
Courten11, è quindi posteriore ai fatti e moti­
vata dalle richieste ministeriali di far luce sui
fatti dell’8 settembre al fine di valutare le re­
sponsabilità dei vari comandi italiani nei tra­
gici fatti che seguirono l’armistizio.
7 Analogamente, le disposizioni per la Regia marina prevedevano che al ricevimento del fonogramma convenzionale
dovessero essere “attuate misure ordine pubblico pro-memoria numero uno Comando supremo” o d’iniziativa dei Co­
mandi in capo.
s Italica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, Modena, ed. f. c., 1971, p. 159.
9 Iltalica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, cit., p. 167.
10 Italica Virtus, Mario Capitani. Scritti e ricordi, cit., p. 168, ove è riportata la riproduzione fotografica del documento.
11 Pubblicato in E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L ’armistizio tra l'Italia e gli angloamericani de! settembre 1943, cit.,
doc. 7. 3.
704
Andrea Curami
Due fatti risultano a nostro avviso impor­
tanti. In primo luogo, il generale Eraldo Ilari
e il generale Giuseppe Santoro furono posti a
conoscenza il 5 settembre 194312 dal ministro
dell’Aeronautica, generale Renato Sandalli,
dell’imminente armistizio e nel corso di quella
riunione fu letto “un promemoria nel quale
erano fissate in via generale alcune predisposi­
zioni da attuarsi per agevolare uno sbarco ae­
reo da parte degli alleati su aeroporti intorno
a Roma” . È singolare la coincidenza di data
con il promemoria Roatta e la ricordata
“nota eventualità di attacco di unità paracaduti­
sti e simili”, nonché il fatto che il promemoria
n.l del Comando supremo, inviato il 6 settem­
bre, stabilisse:
Dovrà essere mantenuto il saldo possesso, a qua­
lunque costo, degli aeroporti di Cerveteri, Furbara, Guidonia, Centocelle, Urbe: accordi con l’eser­
cito. [...]
h) la situazioni dei predetti ordini richiede imme­
diati e completi accordi con l’Esercito13.
Circostanza quest’ultima confermata anche
da Ilari che nel colloquio con Sandalli del 6
settembre venne a conoscenza dei nominativi
“degli aeroporti sui quali avrebbero dovuto
atterrare due ore dopo la denunzia dell’armi­
stizio (quindi verso le ore 21 di un giorno non
indicato) i velivoli recanti le due divisioni che
gli alleati inviavano a concorso della difesa di
Roma. Detti aeroporti, secondo gli ordini del
Comando supremo dovevano essere difesi da
Grandi unità del Regio esercito”.
Il fatto che anche nella relazione del gene­
rale Ilari non si parli di contromosse da effet­
tuare in occasione di attacchi tedeschi, ma,
bensì, di iniziative offensive coordinate da
prendere, cogliendo di sorpresa le truppe ger­
maniche, ci porta a supporre, senza partico­
lare originalità da parte nostra, che le perso­
ne a conoscenza dei piani fossero ben più di
“uno o due uomini in Roma”, come sostiene
il generale Capitani.
I restanti documenti, qui presentati, sono
successivi all’armistizio e relativi alla resa
con la cessione delle caserme, dei campi e del
materiale di volo ai tedeschi sulla base dell’ac­
cordo firmato il 12 settembre dal generale Ilari
con il generale Mahncke (doc. n. 4: il nome è
quello indicato nella traduzione originale del­
l’epoca, non difforme dal testo tedesco auto­
grafato presente tra le carte reperite)14, accor­
do che, pur dimenticato da tutti, fu approvato
dallo Stato maggiore della regia aeronautica
(doc. n. 7). Con quell’atto, e i suoi successivi
perfezionamenti, la regia aeronautica cessò
di esistere di fatto al di qua delle linee di com­
battimento e il personale fu lasciato libero di
collaborare con i tedeschi15.
I documenti ritrovati, e qui non proposti,
non permettono, infine, di sciogliere il lecito
interrogativo riguardo al mancato intervento
delle restanti forze della 3a Squadra aerea, ot­
temperando agli ordini emanati per tempo con
il Promemoria n.l del Comando supremo,
contro le truppe tedesche che affluivano verso
Roma dopo l’armistizio16.
Andrea Curami
12 L’incontro del 5 settembre non è confermato nella relazione ufficiale dell’Ufficio storico dell’Aeronuatica (cfr. Luigi
Casolini, L ’armistizio e l'Aeronautica, in A. A. Mola, R. H. Rainero (a cura d i) , Otto settembre 1943, cit., pp. 103-146),
che riprende integralmente la versione dei fatti proposta da Giuseppe Santoro in L ’aeronautica italiana nella seconda
guerra mondiale, voi. II, Milano-Roma, Esse, 1957, p. 569.s
13 Cfr. E. Aga Rossi, L'inganno reciproco. L'armistizio tra l'Italia e gli angloamericani del settembre 1943, cit, doc. 6. 2.
14 L’accordo presentava un perfezionamento del documento di resa firmato dal tenente colonnello Leandro Giaccone il
10 settembre 1943 con il generale di brigata Siegfrid Wasphal. Riteniamo inutilmente provocatorio commentare il di­
verso grado militare dei firmatari.
15 Nacque così l’idea, propugnata da Aldo Franco Pagliano, di formare una Aviazione legionaria italiana (cfr. Gian­
carlo Garello, La nascita dell’aviazione del Nord, “Storia militare”, 1993, n. 3).
16 La documentazione acquisita da chi scrive è stata integralmente donata all’archivio dell’Istituto nazionale per la sto­
ria del movimento di liberazione in Italia (Milano).
Otto settembre 1943
Documento n. 1
Ministero dell’Aeronautica
705
mente l’8 Settembre perché la ritengo strettamente
collegata con quella esplicata nei giorni successivi
la suddetta data.
Gabinetto del Ministro
Prot. n. 461
Roma, li 13-7-1944
All’Ecc. Gen. S.A. Ilari Eraldo
Via Montopoli n. 3 - Roma
Oggetto: Relazione sull’attività svolta dal
Settembre 1943 in poi.
S.E. il ministro dell’Aeronautica prega di voler
far pervenire con cortese sollecitudine una detta­
gliata relazione (in duplice copia) dalla quale risulti
l’azione svolta dalla E.V. dall’8 settembre 1943 al 4
giugno 1944.
Il Capo di gabinetto
(Generale D.A. - U. Cappa)
Cappa
Documento n. 2
Roma, 1 agosto 1944
All’Ufficio di S.M. della R. Aeronautica
Roma
In relazione a quanto richiesto da S.E. il Mini­
stro, nel foglio 461 del 13/1/944, trasmetto in alle­
gato la relazione richiesta, in duplice copia.
Per quanto ha tratto all’attività da me svolta
successivamente al 18 settembre, mi richiamo alla
relazione già presentata al Ministero.
Il Generale di S.A.
(E. Ilari)
Documento n. 3
A S.E. il Ministro della R. Aeronautica
Roma
In relazione a quanto richiesto da V.E. nel foglio
461 del 13/7/944, trasmetto l’acclusa relazione in
duplice copia.
Ho ritenuto opportuno far precedere ad essa un
breve cenno sull’attività da me svolta precedente­
Il giorno 5/9/1943 venni invitato, col Sottocapo
di S.M. Generale Santoro, a conferire con S.E. il
Ministro.
Il Generale Sandalli, dopo averci raccoman­
dato la massima discrezione su quanto avrebbe
comunicato, ci mise al corrente che erano in cor­
so trattative per la stipulazione di un armistizio,
la cui denunzia doveva avvenire non prima del
15 Settembre.
Lesse quindi un promemoria nel quale erano fis­
sate in via generale alcune predisposizioni da at­
tuarsi per agevolare uno sbarco aereo da parte degli
Alleati su Aeroporti intorno a Roma.
Il giorno 6 Settembre avemmo, io ed il Gen. San­
toro, un secondo colloquio col Gen. Sandalli, il
quale comunicò i nominativi degli aeroporti sui
quali avrebbero dovuto atterrare due ore dopo la
denunzia deU’armistizio (quindi verso le ore 21) i
velivoli recanti i reparti delle due divisioni che gli
Alleati inviavano a concorso della difesa di Roma.
- Detti aeroporti, secondo gli ordini del Comando
Supremo, dovevano esser difesi da GRANDI UNITA
del REGIO ESERCITO.
Inoltre, su di essi dovevano essere subito avviati
sentieri luminosi, sezioni luci ed alcune stazioni ra­
dio trasmittenti necessarie per le rotte di avvicina­
mento degli aerei e per gli atterraggi notturni.
Per quanto riguardava i reparti di volo, il Capo
di S.M. stabilì che quelli in buona efficienza bellica
si trasferissero al momento opportuno su aeroporti
controllati dagli Alleati, i cui nominativi per altro
non erano stati ancora determinati.
Rientravano per la 3“ Squadra, in base ai criteri
di cui sopra, i seguenti reparti:
- Raggruppamento da Bombardamento
(Cant Z. 1007 bis)
- Raggruppamento Siluranti
(S.79)
- 2° Stormo Caccia
(M.C. 202)
- 8° Gruppo Caccia
(M.C. 200).
Per gli altri apparecchi, considerati tutti di scarsa
efficienza, e che a detta del Capo di S.M. avrebbero
inutilmente ingombrato i campi, non era previsto
alcun movimento.
706
Andrea Curami
S.E. Sandalli concluse chiarendo che tali disposi­
zioni non erano definitive e che occorreva attendere
conferma per l’esecuzione di alcune di esse.
11 giorno 7 Settembre tenni rapporto ai Coman­
danti degli Aeroporti interessati, per comunicar lo­
ro che era probabile che i tedeschi tentassero di im­
padronirsi di qualche nostro aeroporto.
In questo caso, occorreva opporsi decisamente,
reagendo con tutti i mezzi a disposizione. - Partico­
larmente per quello di Viterbo, già sede di numerosi
Reparti da bombardamento tedeschi, che avrebbe­
ro costituito un grave pericolo per Roma, in caso di
reazione da parte germanica, detti istruzioni al Co­
mandante dell’Aeroporto Colonn. Abriata, affin­
ché cercasse al momento opportuno di far sabotare
il massimo numero di velivoli tedeschi e, se possibi­
le, anche il deposito carburanti.
Nel pomerigio dell’8 Settembre tornai (era la se­
conda volta) a Velletri per prendere col Comando
di CORPO DI ARMATA ivi dislocato gli accordi
relativi alla difesa dei Campi.
Il Gen. Comandante mi disse che per la difesa
dei Campi nessuna particolare disposizione era
stata ancora emanata e che lo schieramento delle
sue Unità non era ancora ultimato, tanto che
egli stesso si trovava con il Comando spostato
in avanti rispetto al previsto schieramento e
che per conseguenza sarebbe rientrato al più pre­
sto a Roma.
Rientrato a Roma verso le 20, appresi l’annun­
zio delTawenuto armistizio.
In relazione a quanto precede, la situazione la se­
ra dell’8 era la seguente:
a) sistemazione del materiale necessario per l’at­
terraggio notturno dei velivoli da trasporto Alleati
non ancora ultimata;
b) iniziato l’arrivo sugli aeroporti previsti del­
l’armamento individuale indispensabile per portare
almeno al 50% il numero degli avieri armati;
c) disposizioni da parte del R.E. per la difesa dei
Campi non ancora attuate;
d) Comandanti di reparto affluiti solo in parte a
Roma per essere orientati, secondo le direttive del
Capo di S.M., sul comportamento da tenere in caso
di atti ostili compiuti dai tedeschi;
e) ordini esecutivi non ancora emanati ai co­
mandi di aeroporto interessati, data la mancata de­
finizione delle modalità relative all’atterraggio degli
aerei, allo sbarco, e al deflusso delle Unità sbarcate
sugli aeroporti.
Alle 20.30 mi recai a riferire a S.E. Sandalli sul
colloquio avuto a Velletri e per ricevere ordini in
merito agli avvenimenti in corso.
Il Gen. Sandalli, perfettamente al corrente della
situazione, dichiarò che lo sbarco aereo, data l’im­
provvisa denunzia dell’armistizio, non era più at­
tuabile e si riservò di farmi avere istruzioni.
f) numerosi aeroporti occupati già da tempo to­
talmente od in parte dai tedeschi;
g) collegamenti con tutti gli aeroporti a sud di
Roma interrotti da qualche giorno, salvo qualche
sporadica comunicazione e ciò a causa dei bombar­
damenti aerei;
h) provvedimenti relativi alla sostituzione di
qualche Comandante di Reparto e di qualche Uffi­
ciale del Comando Squadra (in relazione alle mie
direttive di nuovo Comandante della Squadra ed
al particolare momento) non ancora attuati.
La stessa sera dal Comando Squadra venivano
emanate le seguenti disposizioni:
l 5) Ordine di sospendere le missioni e di rientro
ai reparti da bombardamento e siluranti partiti nel­
le prime ore della sera, per azioni di guerra.
2Q) Ordine agli aeroporti di attuare tutte le mi­
sure di sicurezza previste dai progetti per la difesa
dei Campi.
Nessun ordine di trasferimento fu dato ai Repar­
ti di volo, in attesa di istruzioni dello S.M.
Fino alle ore 21.30 la situazione si mantenne cal­
ma; nessuna particolare segnalazione pervenne alla
Squadra da parte degli Enti dipendenti.
Alle 21.30 dall’Aeroporto di Pontecagnano il
Colonnello Fabbri telefonò, comunicando che i te­
deschi chiedevano l’allontanamento del nostro per­
sonale dal Campo. Ne riferii subito al sottocapo di
S.M. Gen. Santoro, che dopo qualche minuto mi ri­
telefonò, dicendomi che, essendo l’aeroporto già in
consegna all’aviazione germanica e non essendovi
sul campo nostri reparti di volo ma solo un reparto
servizi, praticamente già decentrato fuori del campo
stesso, autorizzava ad aderire alla richiesta tedesca.
Alle 22.30 detti a mezzo telefono al Colonn.
Fabbri le disposizioni del caso, ordinandogli di op­
porsi decisamente alla cessione delle armi costi­
tuenti Tarmamento individuale degli Ufficiali e del­
la truppa.
Alle 24 circa il Colonn. Palamenghi, Comandan­
te dell’Aeroporto di Ciampino Sud, segnalava che
Ufficiali tedeschi chiedevano la consegna dell’aero­
porto.
Ordinai al Colonn. Palamenghi di reagire energi­
camente e di non aderire.
Chiamai subito a telefono il Gen. Sandalli e lo mi­
si al corrente della situazione. - Dopo qualche istan­
te di silenzio S.E. Sandalli interruppe la comunica­
zione, avvertendomi che mi avrebbe richiamato.
Otto settembre 1943
Mi chiamò infatti poco dopo, dicendomi che era
opportuno addivenire con i tedeschi ad una solu­
zione di compromesso, ossia essi potevano occupa­
re l’adiacente aeroporto di Ciampino Nord (già in
gran parte da essi tenuto), purché lasciassero a
noi quello di Ciampino Sud.
Detti disposizioni in tal senso al Colonn. Palamenghi, il quale verso le tre mi comunicò che era
riuscito a stabilire l’accordo secondo gli ordini rice­
vuti.
Questo accordo fu secondo il solito sistema tede­
sco, presto violato, e infatti i rinforzi affluiti nella
notte sull’Aeroporto di Ciampino Nord, consenti­
rono nel pomeriggio del giorno successivo il dilaga­
re delle forze tedesche sull’adiacente Aeroporto di
Ciampino Sud.
Tutto il resto della notte passò tranquillo.
La mattina del 9 settembre, recatomi al Ministe­
ro, vi trovai rispettivamente delegati per la parte
operativa il Gen. Santoro, Sottocapo di S.M. e
per quella propriamente ministeriale il Gen. Urba­
ni, Capo di Gabinetto.
L’improvvisa partenza del Capo di S.M. avve­
nuta nelle prime ore del mattino e la mancanza di
disposizioni, avevano dato luogo ad un grave diso­
rientamento e data la sensazione che la situazione
fosse sostanzialmente mutata. - Si deve poi aggiun­
gere che l’impossibilità di collegamento con Enti e
Comandi di altre F.F.A.A. aveva reso ancor più
difficile un preciso orientamento sulla nuova situa­
zione ed impedito quei contatti indispensabili per
meglio fronteggiarla.
Il Sottocapo di S.M. si limitò quindi ad ordinare
che venissero inviati alcuni velivoli in osservazione
sulle principali vie di comunicazione per rilevare
l’entità delle forze tedesche in marcia su Roma.
Sul risultato di dette esplorazioni effettuate il
giorno 9 ed il mattino del 10, fu infatti regolarmen­
te informato lo S.M.
La mattina e quasi tutto il pomeriggio passaro­
no senza fatti degni di rilievo.
Verso le 19 mi telefonò il sottocapo di S.M. av­
vertendomi che era stato informato che le truppe
germaniche stavano entrando in Roma senza in­
contrare resistenza, e che era quindi necessario
prendere tutte le predisposizioni perché il materiale
ed il carteggio segreto del Comando Squadra non
cadesse in mano ai tedeschi.
Soggiunse di andare subito da lui per esaminare
la possibilità di far funzionare il Comando Squadra
in altra sede, e che era bene data quest’eventualità,
che il personale del Comando stesso, ad eccezione
di quello di servizio, si allontanasse dagli uffici
707
pur rimanendo sempre a portata di mano per poter
ricevere ordini.
Lasciai al Gen. Maceratini le disposizioni op­
portune e mi recai dal Gen. Santoro.
Questi ebbe subito a dichiarare che la notizia era
falsa. - Rientrai allora immediatamente alla Squa­
dra.
Alle 19.45 ebbi notizia dall’Ufficiale Superiore di
Servizio che degli avieri si erano allontanati dalla
Caserma Cavour (fatti analoghi si erano verificati
nelle vicine Caserme del R.E.). Detti subito ordine
di provvedere con numerose ronde, integrate da
Carabinieri, per il rastrellamento degli avieri e per­
ché tutta la truppa rimanesse consegnata in caser­
ma (com’è noto, il Regg. Avieri era composto di at­
tendenti e di scritturali).
Contemporaneamente disposi per la suddivisio­
ne della città di Roma, per quanto riguardava la
parte aeronautica, in tre settori, a capo dei quali mi­
si Ufficiali generali (Toccolini, Sozzani, Spadacci­
no) con incarico di sovraintendere a tutti gli Enti
Aeronautici dislocati in ciascun settore.
Il Comandante della Caserma Colonn. Stefani
fu immediatamente sostituito per la sua poco ener­
gica azione di comando.
Nella notte dal 9 al 10 Settembre situazione
tranquilla su tutti gli aeroporti, ad eccezione di
quello di Centocelle Sud, ove alcuni avieri e pa­
racadutisti avevano abusivamente abbandonato
il Campo.
Nella notte stessa, a mezzo di autocarri, inviai
dalla Caserma S. Michele avieri armati ad integra­
zione della difesa di quel campo.
Il mattino del 10 il Sottocapo di S.M. mi comuni­
cò (era stato chiamato, col. Gen. Urbani, dal mare­
sciallo Caviglia) l ’avvenuta tregua con i tedeschi e
la conseguente cessazione delle ostilità.
La situazione era la seguente:
1) nessun aeroporto intorno alla Capitale occu­
pato, ad eccezione di quelli di Ciampino e di quello
di Pratica di Mare, già da tempo completamente ce­
duto ai tedeschi;
2) nessun aeroporto a Nord di Roma occupato,
ad eccezione di quelli ceduti in precedenza all’avia­
zione germanica (Viterbo, Grosseto, Pistoia, Metato e parte di quello di Pisa);
3) nessuna notizia degli aeroporti a sud di Ro­
ma, data l’interruzione completa dei collegamenti.
- (Solo fu possibile trasmettere per radio al Coman­
dante dell'Aeroporto di Pontecagnano che tutto il
materiale e il personale dell’aeroporto stesse a di­
sposizione degli Anglo Americani, già sbarcati
presso Salerno).
708
Andrea Curami
Non si ebbe quindi nessuna vera e propria azione
offensiva da parte dei tedeschi contro gli aeroporti,
la cui sorte fu piuttosto decisa dal crollo della situa­
zione generale.
I collegamenti erano in gran parte interrotti od
intercettati dai tedeschi e pertanto i rapporti con
gli Enti dipendenti risultavano, discontinui e diffici­
lissimi.
La situazione era comunque ancora favorevole
per la partenza dei reparti di volo, ed in tal senso
sollecitai il Gen. Santoro, raccomandandogli di
far sapere al più presto il nominativo degli aeropor­
ti sui quali trasferire gli apparecchi.
Nel pomeriggio del 10 pervenne infatti l’ordine
di concentrare in Sardegna il Raggrupp. da Bom­
bardamento (Aeroporto di Perugia), il Raggruppa­
mento Siluranti (Aeroporto di Siena), il 2QStormo
caccia (Aeroporto di Cerveteri) e l’8e Gruppo Cac­
cia (Aeroporto di Castiglion del Lago).
II mattino dell’11 tutti i velivoli efficienti al volo
(circa 100) partivano regolarmente per gli aeroporti
della Sardegna.
Inoltre disposi che tutti gli apparecchi efficienti
del 15e Stormo in formazione a Peretola, della
Squadriglia B.G.R. (aeroporto Foligno) e della
Squadriglia Caccia (M.C. 205 fotografici) dislocati
a Guidonia, si trasferissero egualmente in Sarde­
gna, mentre quelli del 24s Gruppo Caccia tempora­
neamente dislocati presso l’Aeroporto di Littoria
furono diretti a Brindisi.
Solo 20 Macchi 202 del 2° Stormo Caccia in pre­
cedenza danneggiati per non farli cadere in mano ai
tedeschi dovettero essere lasciati sul campo di Cer­
veteri.
Dal Ministero ebbi disposizioni di aderire alla ri­
chiesta e la comunicazione che sarei stato accompa­
gnato dal Gen. D’Aurelio (in servizio al Ministero)
e da due Ufficiali interpreti.
Il mattino del 12 il Gen. Sandalli trasmetteva da
Brindisi, a mezzo radio, l’ordine ai Gen.li Santoro
ed Urbani ed a me di rimanere al proprio posto.
Lo stesso mattino, accompagnato dagli Ufficiali
messi a mia disposizione e dal Gen. Maceratini, mi
recai presso il Comando Luftgau Sud ove il Co­
mandante, Gen. Marcke [rectius: Mahncke], mi co­
municò che desiderava prendere accordi per la con­
segna dell’organizzazione aeroportuale della 39
Squadra.
Risposi che non avevo veste per trattare in tal
senso e lo invitai a rivolgersi al Ministero dell’Aero­
nautica. - Egli mi pregò allora di prendere visione
del documento contenente le richieste da parte te­
desca e di trasmetterlo al Ministero.
Rientrato a Roma verso le ore 12, consegnai il
documento stesso al Gen. Urbani.
Nel pomerigio ebbi dallo S.M. una lettera con la
quale si autorizzava ad aderire alle richieste del Co­
mando germanico.
Le disposizioni relative a quanto precede venne­
ro impartite soltanto agli Enti di Roma e delle im­
mediate vicinanze, data l’interruzione di tutti i collegamenti.
Intanto il Ministero stabiliva che il personale do­
vesse essere inviato in congedo illimitato od in li­
cenza illimitata a seconda delle varie categorie e fis­
sava le modalità di carattere amministrativo che
dovevano regolare la smobilitazione del personale
stesso.
Presso la Caserma Cavour fu pertanto creato
uno speciale Ufficio per il pagamento delle compe­
tenze; ad esso affluirono perfino elementi residenti
in alta Italia (Is e 2a Squadra) che dopo lo sgretola­
mento dei propri Reparti si erano recati a Roma.
Nei giorni 16 e 17 Settembre si presentavano al
Comando Squadra alcuni Ufficiali tedeschi, tra
cui il Gen. Muller.
I contatti con essi furono presi per mia delega
dal Gen. Maceratini, e le relative richieste trasmesse
al Commissariato per l’Aeronautica, che aveva sta­
bilito di essere il solo Ente competente a trattare
tutte le questioni con le autorità germaniche.
Dopo lo scioglimento del Comando Squadra (18
Settembre) mi limitai a seguire l’opera assistenziale
a favore del personale, per quanto riguardava il sol­
lecito e regolare pagamento delle competenze effet­
tuato, com’è noto, all’insaputa dei tedeschi.
Già in precedenza avevo disposto perché venis­
sero occultati automezzi e materiali della Squadra,
dando incarico al Capit. dei Carabinieri Manila, di
tener nota di coloro a cui era stato affidato il mate­
riale, per poter procedere al ricupero al momento
opportuno. - Mi risulterebbe però che buona parte
di esso sia stato preso dai nazi-fascisti, a seguito di
delazione.
Nella terza decade di Settembre d’intesa con i
Generali Sozzani ed Urbani presi contatto con ele­
menti che organizzavano il passaggio delle linee per
raggiungere Bari. - Il tentativo non fu poi effettua­
to per sopraggiunte difficoltà.
Non intendendo sottostare allora all’obbligo di
trasferimento al Nord previsto dai numerosi bandi,
mi diedi alla macchia dopo aver fatto spargere la
voce al Ministero che mi sarei recato a Biella.
Otto settembre 1943
Cambiai nel giro di due mesi tre volte domicilio
(come specificato nella precedente relazione) ed in­
fine il 10 novembre entrai, per sottrarmi alle ricer­
che delle S.S. germaniche, a S. Giovanni in Lutera­
no ove rimasi fino al 4 Giugno 1944.
Mi risulterebbe che fui ancora ricercato nel mese
di Aprile dalle guardie repubblicane.
Durante tutto questo periodo ho svolto attività
assistenziale a favore di numeroso personale della
R. Aeronautica provvedendo anche a mezzo del
Magg. Tedeschi alla distribuzione di viveri di riser­
va a suo tempo fatti nascondere per sottrarli ai te­
deschi.
Ho appartenuto al fronte clandestino di resi­
stenza.
Documento n. 4
Generale Rahne [rectius: Mahncke] saluta gli
ufficiali italiani e dichiara di annettere il massi­
mo valore al fatto che la consegna si svolga in
reciproco accordo e possibilmente con meno at­
triti possibili.
Scopo delle trattative
Nelle conversazioni si deve fissare in grandi li­
nee, come si deve svolgere la consegna dell’organiz­
zazione territoriale italiana con rispettive installa­
zioni alla Luftwaffe.
I particolari saranno decisi attraverso i Comandi
inferiori in reciproco accordo.
II generale Mahnke [rectius: Mahncke] comuni­
ca come sarà svolta la presa in consegna da parte
tedesca. - L’ECC. Ilari ne prende conoscenza e in­
forma che ne riferirà al Ministero dell’Aeronautica.
1) Presa in Consegna degli aeroporti della 3
Squadra;
2) Consegna degli apparati aeronautici, vetto­
vaglie, vestiario, autoveicoli, combustibili, apparec­
chi per telecomunicazioni.
3) Presa in consegna di ufficiali e soldati che sia­
no volontari;
In riferimento all’articolo 1. - Comandi tedeschi
si recano sugli aeroporti e li prendono in consegna
con i relativi servizi (depositi munizioni, di combu­
stibile e macchinario per il funzionamento).
I soldati italiani lasciano le caserme. - La loro
partenza deve essere attuata dopo due giorni, a par­
tire dal giorno della occupazione attraverso i co­
mandi tedeschi. - Si deve consegnare viveri per
tre giorni.
709
Eccezione: il personale navigante rimane al po­
sto, finché verrà deciso il suo impiego.
In riferimento all’articolo 2 . - 1 Comandanti ita­
liani dispongono che i competenti commissari ed il
personale specializzato diano le consegne. - Instal­
lazioni, depositi, arnesi come rifornimento non
possono essere distrutti o tolti a nessuna condizio­
ne. - 1 soldati italiani possono portare via proprietà
privata.
In riferimento all’articolo 3 . - 1 Comandi italiani
disporranno che ufficiali, sottufficiali e truppa che
si mettono volontariamente a disposizione dei tede­
schi, trovino occasione di presentarsi ai Comandi
tedeschi sui rispettivi aeroporti.
Questi soldati verranno vettovagliati e pagati co­
me soldati tedeschi. - La Luftwaffe tiene specialmente al personale navigante e tecnico.
Per l’esecuzione della consegna la R. Aeronauti­
ca metterà subito a disposizione dei Comandi tede­
schi 5 Ufficiali (che rivestano come minimo il grado
di capitano e che parlino possibilmente il tedesco).
Questi Ufficiali verranno mandati a prendere il
giorno 13 sett. presso la 3 Aerosquadra a Roma.
- I suddetti ufficiali devono essere muniti di carte
circa l’organizzazione territoriale italiana ed i suoi
servizi.
Documento n. 5
Per filo
Guidonia: Vignoli
Furbara: Garand
Perugia: Ten. Casella
Cerveteri S.T. Lagana
Per radio
N.N.
Regia Aeronautica
Fonogramma in arrivo
Dal Comando IIP Areosquadra a tutti gli areoporti
Trasmesso Ten. Col. Ragnelli
Addì 12 sett. 1943
Comandi areoporti in indirizzo provvedano af­
finché personale in areoporto inquadrato perman­
ga in attesa di effettuare regolare consegna di tutto
il materiale esistente sull’areoporto at autorità tede­
sca areonautica. Seguiranno ordini per lo smista­
mento del personale: Gen. Ilari.
Andrea Curami
710
Documento n. 6
Roma, 12-9-1943
Documento n. 7
Stato Maggiore della R. Aeronautica
Segreteria
Comando
3BSquadra aerea
Prot. n. 425/R/P/ Allegati [...]
Roma, 12 settembre 1943
Ufficio Comando
A tutti i comandanti
di aeroporto e di enti vari
Prot. n. C/14157 [...]
Oggetto: Consegna Aeroporti ed Enti vari al
Comando dell’Aeronautica Tedesca.
Il Ministero dell’Aeronautica a seguito accordi
con il Comando della Luft Gau Sud, ha disposto
quanto appresso:
1) Una Commissione di Ufficiali Tedeschi ac­
compagnati da un Ufficiale della R. Aeronautica
si presenterà su ciascun Aeroporto ed Ente per
prendere in consegna l’Aeroporto o l’Ente con tutti
gli impianti ivi esistenti, aeroplani, autoveicoli,
combustibili, apparati telecomunicazioni, vestiario
e vettovagliamento. Le installazioni, i depositi di
materiali vari devono essere consegnati nello stato
in cui si trovano all’arrivo della predetta Commis­
sione.
2) Il personale della R. Aeronautica deve lascia­
re l’Aeroporto allo scadere di due giorni dall’arrivo
della predetta Commissione, portando seco tutti gli
oggetti privati e munito di tre giornate di viveri. Se­
guiranno istruzioni di carattere amministrativo e
per lo smistamento.
Prima di lasciare l’Aeroporto il predetto perso­
nale, con particolare riguardo a quello navigante
(piloti e specializzati), potrà essere interpellato dal­
la Commissione Tedesca a voler dichiarare se desi­
dera rimanere volontariamente in servizio presso
l’Aeronautica Tedesca, presso cui sarà vettovaglia­
to e pagato alla stessa stregua delle truppe tedesche.
Il personale volontario, che conserverà l’attuale suo
grado, dovrà essere lasciato a disposizione dei loca­
li Comandi Tedeschi per ulteriori impieghi.
3) I comandanti di Aeroporto faranno perveni­
re allo scrivente gli elenchi nominativi del personale
volontario ed a consegna ultimata si presenteranno
a questo Comando di Squadra.
Il Comandante
(Generale di S.A. - Eraldo Ilari)
Al Comandante della 3Bsquadra aerea
Roma
Oggetto: Comunicazione.
Presa visione di quanto stabilito dal Comandan­
te Luft Gau Sud, Generale MANKE [rectius:
Mahncke], in merito alla consegna dell’organizza­
zione territoriale della 3BSquadra Aerea, e sentito
al riguardo anche il parere dell’Ecc. il Generale di
S.A. TEDESCHINI LALLI, più anziano dei Gene­
rali in servizio, e del Generale D.A. URBANI Aldo
- rappresentante il Ministero dell’Aeronautica - lo
scrivente approva la linea di condotta dell’E.V. e
non ha nulla da osservare circa l’accettazione delle
condizioni imposte dal Comando Germanico.
Il sottocapo di Stato Maggiore
Documento n. 8
Nota Radio Marina Brindisi
per Generale SANTORO
12 settembre 1943
ricevuto ore 19
Generale SANTORO, Maggiore BERTELLI et
qualche ufficiale Superaereo mi raggiungano se
possibile - Generali Urbani ed Ilari rimangano pro­
prio posto Generale SANDALLI
Documento n. 9
Comando 3BSquadra Aerea
Telegramma in partenza
13 settembre 1943
Luftgaukommando Sud - Sua sede
C/14158 terza aerosquadra punto comunico che
accordi presi data 12 corrente sono in parte di dif­
Otto settembre 1943
ficile pratica attuazione in quanto truppe tedesche
prelevano direttamente materiali Regia Aeronauti­
ca da aeroporti et da magazzini senza attendere ar­
rivo note commissioni punto in conseguenza di
quanto sopra est accaduto presso vari enti che an­
che parte del personale habet già lasciato enti stessi
punto Generale Ilari
Documento n. 10
711
successivamente prospetta [’opportunità di non fare
della propaganda pubblicitaria ma di attendere che
“corra la voce” di questi arruolamenti volontari.
A tutt’oggi il Ten. Col. Blodern non si è anco­
ra ripresentato al Comando della III Squadra.
Comunque si rimane in attesa di disposizioni al
riguardo.
Roma, li 18 settembre 1943
Il Comandante
Generale di squadra aerea
E. Ilari
Comando 3a Squadra aerea
Ufficio comando
Nota nr. 1 per il commissario dell’aeronautica
Alle ore 9.45 del giorno 16 settembre 1943 si so­
no presentati al Comando della III Squadra Aerea
il Ten. Col. BLODERN ed il S. Ten. pilota (inter­
prete) FRANZ, della Luffwaffe.
Introdotti alla presenza del Comandante in II Generale di D.A. Giuseppe Maceratini -, dopo
aver premesso che in data 15 settembre 1943 il DU­
CE ha riassunto il Governo della Nazione ed il Co­
mando della FF.AA., il Ten. Col. Blodem ha chie­
sto, quale rappresentante del Maresciallo Kesselring, che il Comando della III Squadra Aerea con­
tinui a funzionare per la ricostituzione di reparti
aerei italiani da affiancare a quelli germanici.
Quanto sopra anche perché presso alcuni Aeropor­
ti sarebbe iniziato l’afflusso di personale militare
della R. Aeronautica, volontario per prestare servi­
zio alle dipendenze dell’Aeronautica Tedesca.
Il Ten. Col. Blodem ha assicurato che il rientro
in servizio del personale dovrà essere prettamente
volontario, senza alcuna forma di coercizione; il
personale conserverebbe l’uniforme della R.A. e
fruirebbe del trattamento goduto dai pari grado
dell’Aeronautica Tedesca.
L’impiego del personale stesso sarebbe definito a
seguito di ordini che saranno emanati dal DUCE.
Per il momento dovranno costituirsi due nuclei di
volontari (piloti e specialisti) sugli Aeroporti di
Cerveteri e di Marcigliana per l’urgente trasporto
dei velivoli da caccia e bombardamento rispettiva­
mente sugli Aeroporti di Siena Ampugnano e di
Isola S. Antonio.
Per comunicare al personale che si è allontanato
dalle proprie sedi che può volontariamente ripren­
dere servizio, mentre in un primo tempo il Ten.
Col. Blodern suggerisce di servirsi dell’E.I.A.R.,
Documento n. 11
Comando 33 Squadra aerea
Ufficio comando
Nota nr. 2 per il Commissario dell’Aeronautica
Alle ore 11.00 di oggi 18 settembre si è presenta­
to al Comando della 33 Squadra Aerea il Capitano
dell’Aviazione tedesca KOHWEYH dipendente
dal Tenente Colonnello BLODERN, dicendo di es­
sere incaricato di ripristinare i collegamenti telefo­
nici, radio e delle telescriventi tra Roma e gli Aero­
porti già alle dipendenze della 38 Squadra Aerea,
secondo una precedenza che verrà successivamente
indicata dal Comando tedesco in base alle proprie
necessità.
[da qui in poi il documento originale è cancellato
con tratti a penna]
Successivamente il Capitano KOHLWEYH ha
chiesto come lavoro urgente il collegamento telefo­
nico tra Roma e Cerveteri, Roma-Marcigliana e
Roma Guidonia. Si rimane in attesa di conoscere
la decisione al riguardo.
18 settembre 1943
Documento n. 12
Nota nr. 3 per il Commissario dell’Aeronautica
Alle ore 12 del giorno 19 settembre 1943 si è pre­
sentato al Comando della III Squadra Aerea il Te­
nente Generale MULLER, qualificandosi nuovo
Comandante dell’Aviazione in Italia, accompagna­
to dal Ten. Col. Blodern e dal S. Ten. pilota inter­
prete Franz. Il predetto Generale è stato ricevuto
Andrea Curami
712
dallo scrivente. Il Generale Muller ha chiesto l’elen­
co del personale del Comando della 3a Squadra Ae­
rea con l’indicazione, per ciascun elemento, se lo
stesso desidera o meno passare quale volontario al­
le dipendenze dell’Aeronautica Tedesca. Ciascun
volontario deve indicare se vuol prestare servizio
come combattente o come addetto ai Servizi. Ha
confermato inoltre che a tutto il personale già di­
pendente dalla III Squadra deve essere rivolto ana­
logo quesito.
Lo scrivente ha comunicato che il Comando del­
la III Squadra è stato disciolto, per ordini superiori,
il giorno 15 settembre e che, pertanto, riuscirà im­
possibile, per mancanza di collegamenti, interpella­
re il personale di tutta la Squadra. Il quesito sarà in­
vece posto al personale del Comando Squadra qua­
lora reperibile. Lo scrivente ha soggiunto inoltre
che il Comando Squadra funziona come Ufficio
Stralcio per la sola parte tecnico-amministrativa e
che, comunque, ogni disposizione circa le richieste
da parte tedesca deve essere rivolta al Ministero.
Il Generale Muller, per agevolare l’arruolamen­
to dei volontari - che secondo lui dovrebbero essere
in buon numero in quanto parecchi elementi si pre­
sentano agli Aeroporti dicendo di voler combattere
per il Duce e non più per il Re - propone che sia in­
vitato un Ufficiale pilota per ciascuna Specialità
che goda di alto prestigio presso i propri commili­
toni, perché svolga opera di propaganda. Aggiunge
inoltre che gli Ufficiali volontari dovranno prestare
giuramento al Fuhrer.
Il sottoscritto conclude ribadendo il concetto
che per tutte queste questioni, relative all’arruola­
mento del personale, le Autorità tedesche si rivol­
gano al Ministero.
Il Generale Muller, in seguito a sua richiesta, ha
infine visitato la sede del Comando Squadra di Via
Piemonte 51, riservandosi di far sapere fra qualche
giorno se la predetta Sede verrà o meno occupata
dal Comando alle sue dipendenze.
Roma, lì 20 settembre 1943
Il Comandante
Generale di squadra aerea
E. Ilari
Il giorno 20 settembre, alle ore 12, si è presentato
al Generale Maceratini - Comandante in II della
Squadra - il Generale MULLER accompagnato
dal Ten. Col. BLODERN e dall’interprete S. Ten.
FRANZ.
Il Generale Muller esaminò l’elenco, già da lui
precedentemente richiesto, del personale del di­
sciolto 1QReparto del Comando della III Squadra
Aerea e comunicò essergli necessario solamente il
nominativo degli Ufficiali Capi dei Vari Servizi.
Soggiunse che nella stessa giornata avrebbe manda­
to a ritirare la lista.
Il Generale Muller soggiunse che appena effet­
tuati i nuovi collegamenti telefonici, che nello stesso
giorno il personale tedesco istallò nel dipendente
Centralino, avrebbe preso possesso dei locali di
Via Piemonte 51.
Concluse infine che nello stesso pomeriggio
avrebbe inviato una guardia per fare servizio al
cancello del Comando insieme con il nostro Cara­
biniere.
L'elenco richiesto dal Generale Muller è stato
compilato, limitando a sei il numero degli Ufficiali
Capi Servizio, in relazione a quanto autorizzato
con foglio n. 82035, in data 21 corrente, di codesto
Ministero.
Tale elenco, a tutt’oggi, non è stato ancora riti­
rato. A tutt’oggi non si è ugualmente presentato
né il personale per la guardia al cancello, né quello
per il servizio al Centralino telefonico.
Roma, lì 22 settembre 1943
Il Comandante
Generale di squadra aerea
E. Ilari
Documento n. 14
Ministero dell’Aeronautica
Gabinetto del Ministro
Prot. n. 82035 [...]
Roma, 21 settembre 1943
Al Comando Presidio Aeronautico di
ROMA
Documento n. 13
Comando 38 Squadra aerea
Ufficio Comando
Nota nr. 4 per il Commissario dell’Aeronautica
Oggetto: Accordi con il Generale dell’Aviazione
Tedesca Müller.
e, per conoscenza
- Al Generale dell’Aviazione Germanica Müller
Otto settembre 1943
In relazione al colloquio avuto il 20 Settembre
con il Generale Müller, Comandante della costi­
tuenda Aviazione Italiana e agli accordi successiva­
mente approvati dall’Ecc. Calvi di BERGOLO, co­
mandante della città aperta di Roma, codesto Co­
mando è autorizzato:
a) - Cedere al Generale Müller i locali del co­
mando della ex 38 Squadra, sita in Via Piemonte;
b) - A non frapporre ostacoli di sorta acciocché
Ufficiali dell’ex Comando di Squadra prestino ser­
vizio con le autorità tedesche qualora volontari;
c) - In mancanza di volontari a comandare 6
Ufficiali Capi Servizio (Operazioni, Meteorologia,
Genio, Servizi, Personale, Comunicazioni).
Tali Ufficiali presteranno opera di collegamento
e orientamento con le Autorità tedesche svincolati
in modo assoluto da qualunque obbligo verso le
stesse e rimanendo alle dipendenze delle autorità
militari italiane.
d) - Per il personale piloti e specialisti che, come
è noto è stato tutto inviato o in licenza o in congedo
le autorità tedesche useranno la forma di propa­
ganda più opportuna per avere la loro collabora­
zione fermo restando che le autorità aeronautiche
italiane non potranno usare a riguardo alcuna for­
ma comunque coercitiva.
Il Commissario
(Gen. D.A. Aldo URBANI)
Documento n. 15
Ministero dell’Aeronautica
Gabinetto del Ministro
Il Ministero dell’Aeronautica secondo precise
disposizioni del Comandante della Città Aperta
di Roma, Eccellenza Conte Calvi di Bergolo, può
solo fornire alle Autorità germaniche una collaborazione prevalentemente tecnico-amministrativa
con esclusione di tutto quanto possa concernere an­
che indirettamente la parte operativa.
713
In relazione alla nota da Voi presentata. Vi po­
tremmo dare il nostro appoggio limitatamente al ri­
pristino dei collegamenti telefonici e telescriventi
fra Roma e gli aeroporti della 33 Squadra.
Si rappresenta però le seguenti difficoltà:
1) - Alcuni depositi materiali telefonici sono in
Vostro possesso;
2) - Quasi tutte le macchine attrezzate meno
due che questo Comando potrà rintracciare nel­
l’ambito della 3BSquadra sono state asportate e
bisognerebbe avere il Vostro aiuto per rintrac­
ciarle essendo probabilmente in mano di Reparti
militari tedeschi. Una di queste risulta fra il ma­
teriale del 25 C.A.P.T.A. (Via Nomentana) in
Vostra mano;
3) - Poter prelevare dai magazzini i materiali
necessari ai lavori di riparazione nonché i riforni­
menti necessari alle macchine attezzate;
4) - I magazzini materiali collegamenti sono i
seguenti:
8° Magazzino Torricola in Vostra mano
8° Magazzino Via Papareschi
25 C.A.P.T.A. Nomentano in Vostra mano
Galleria della Farnesina
303® Deposito Via San Michele 22;
5) - Questo Comando, a nome del Ministero
dell’Aeronautica rappresenta ancora l’assoluta ne­
cessità che le richieste da parte tedesca vengano
presentate da un unico ente tedesco al Ministero
dell’Aeronautica - Gabinetto per evitare, come si
è già verificato e si verifica, l’individuale preleva­
mento di materiale, ciò che è di grave nocumento
ed intralcio al regolare svolgimento di ogni even­
tuale comune collaborazione limitata s’intende al­
l’ambito tecnico-amministrativo.
Il Tenente Colonnello Baldini del Comando del­
la 3SSquadra Aerea è incaricato della rimessa in ef­
ficienza delle linee telefoniche e telescriventi che vi
interessano.
A Lui e al personale che vi indicherà come ai re­
lativi mezzi di locomozione sarà opportuno rila­
sciare permessi di circolazione validi per tutte le
Autorità tedesche.
ISTITUTO NAZIONALE PE R LA STORIA DEL MOVIMENTO
D I LIBERAZIONE IN ITALIA - ISTITUTO STORICO
PROVINCIALE DELLA RESISTENZA D I BOLOGNA
Brunella D alla Casa, A lb erto Preti (a cu ra di), Bologna in guerra. 1940-1945, M i­
lano, A ngeli, 1995, pp. 505, L. 62.000.
Il volum e si Inserisce nell’attività di p rom ozione sc ie n tific a d e ll’Istituto sto rico p ro ­
vincia le della R esistenza di B o log na e ra c c o g lie c o n trib u ti di ric e rc a su alcuni
aspetti d ella so cie tà b olog ne se tra II 1940 e il 1945: i poteri co stituiti; la vita e c o ­
nom ica e so cia le nel suol a spetti collettivi, ma a nch e nella sua q uo tidian ità ; la m e­
m oria privata e p u b b lic a di q ue gli anni; le idee che c o n trib u iro n o alla co stru zion e
dello stato d em ocratico . Da un lato, d unque, la rico struzio ne dei m odi, più o m eno
peculiari, nei quali la g ue rra è stata vissuta, costruita, Intesa e relnterpre tata In
q ue sta città. D all’altro, u n ’a rtico la ta ve rific a delle d in a m ich e d e lla s o cie tà civile b o ­
lognese, nella qua le la guerra o pe ra talora d a forte elem ento di frattura, ovvero si
inserisce, m o d ifica n d o n e la ve lo cità o l’Intensità in linee di te n d e n z a di più a m pio
respiro o, ancora, può ra p prese ntare una sorta di laboratorio per realizzazioni fu ­
ture sul terreno istituzionale e su que llo d ell'a m m inistrazio ne locale.
Indice
Parte I: Il potere e la città. A lb erto Preti, Spirito pubblico, fronte interno e carte
di polizia (1940-1943)\ Brunella D alla Casa, Il Pnf e la mobilitazione bellica-, Luca
Baldlssara, Il governo della città: la ridefinizione del ruolo di Comune nell'emer­
genza bellica-, Lutz Kllnkham m er, L'amministrazione tedesca di Bologna e il crol­
lo della linea Gotica. Parte II: L’economia, la società, la vita quotidiana. L u cia ­
no B ergonzini, Demografia, composizione sociale e condizioni di vita nella città
in guerra; G io rg io P edrocco, L’industria tra autarchia e guerra-, Lorenzo Bolelll,
L'industria bolognese attraverso il fondo dell'ispettorato regionale del lavoro-,
Paola Z agatti, Il problema dell’alimentazione-, A ntonio Lovallo, Società e giustizia:
i reati annonari attraverso le sentenze del Tribunale di Bologna-, Fiorenza Tarozzi,
Organizzazione sanitaria e malattie-, C arla Tonini, Sui banchi di scuola: insegnan­
ti, studenti e politica scolastica-, M auro M aggiorana Uscire dalla città: lo sfolla­
mento-, G iam piero Rom anzi, La chiesa bolognese e la guerra attraverso i bollet­
tini parrocchiali. Parte III: La memoria della guerra. Laura M ariani, Memorie e
scritture delle donne-, Patrizia D ogllani, Luoghi della memoria e monumenti. Parte
IV: Verso la democrazia. M aria Serena Piretti, Dalla periferia al centro: l ’immagi­
ne dello Stato nelle forze politiche di Bologna e dell'Emilia Romagna (19431946).
Immagini della seconda guerra mondiale
La fotografia da illustrazione a documento
P aolo F errari
Alle origini, e ancor oggi nel senso comune,
fotografia e cinema documentario (e succes­
sivamente la televisione) rappresentano inge­
nuamente gli strumenti di riproduzione tecni­
ca del reale che meglio consentono di docu­
mentare “ oggettivamente” gli accadimenti
storici. Se per il cinema di fiction montaggi
ed effetti speciali fin dall’inizio hanno intac­
cato questa fiducia anche tra i non addetti
ai lavori, è forse solamente con Forrest
Gump, il recente film (uscito nel 1994) di Ro­
bert Zemeckis, che diviene a tutti palese non
soltanto l’“infinita gamma di attività adulte­
ratone” 1 che il cinema rende possibili, ma
A ch ille R astelli
anche l’efficacia della falsificazione elettroni­
ca, dell’elaborazione delle immagini resa pos­
sibile dall’informatica, al di là di ogni possi­
bilità dei sensi di cogliere l’“inganno” . Se in­
fatti un esperto può scoprire un fotomontag­
gio, come dimostra il libro di Jaubert, di cui
parleremo oltre, in Forrest Gump è unicamen­
te il ragionamento che consente di rifiutare
l’evidenza suggerita dalla vista, e cioè che
un attore possa essere a un certo punto del
film privo delle gambe o che il regista abbia
potuto riunire una folla sterminata di com­
parse2. Naturalmente, in tutto il cinema di
fiction a mettere in guardia lo spettatore è il
1 Cfr. Giovanni De Luna, L ’occhio e l'orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della sto­
ria, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 18. Tutto il volume risulta comunque di particolare utilità per impostare in modo
critico l’uso delle fonti dell’“occhio e dell’orecchio” in relazione sia alla ricerca storica sia alla didattica. Il volume com­
prende comunque poche considerazioni sulla fotografia, essendo incentrato su cinema, radio e televisione. Sul rapporto
storia-fotografia e storia-cinema, e sulla convinzione, alle origini, sulla possibilità di usare i due mezzi come strumenti in
grado di documentare senza mediazioni e manipolazioni la realtà, cfr. Peppino Ortoleva, La fotografia e Gianni Rondolino, Il cinema, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca 2. Questioni di metodo, Firenze, La Nuova Ita­
lia, 1983. Secondo Ortoleva, “anche al di là della fase culminante dell’ideologia positivistica, la speranza di poter fare
della fotografia un documento, anzi il documento per eccellenza, per la conoscenza storica si è manifestata con conti­
nuità, lungo l’intera storia della fotografia” (p. 1122) [...] “mentre il cinema è divenuto sinonimo di irrealtà e di illusio­
ne, la fotografia è e resta sinonimo di riproduzione fedele del reale” (p. 1130). Cfr. anche P. Ortoleva, Il mito del do­
cumentario. Ideologia e pratica della fotografia “sociale" nella cultura americana degli anni trenta, “Movimento
operaio e socialista”, 1986, n. 3, pp. 395-396 (ma si veda tutto il saggio) e Michele Giordano, Fotografia e storia, “Studi
storici”, 1981, n. 4.
David Morgan, Effetti speciali. Chip si gira (“Ciak si gira”, novembre 1994, n. 11, p. 60), spiega alcuni procedimenti
adottati: “Accostare stralci di film vecchi e nuovi per rimaneggiare o reinventare la storia è un vecchio trucco [...] Grazie
alle più avanzate tecniche informatiche perfezionate su ‘Jurassic Park'. l'Industrial Light & Magic (Ilm) ha fatto fare al
procedimento di mascherino un prodigioso balzo avanti con ‘Forrest Gump’ [...] Inserendo il materiale originale in un
computer, gli animatori dell’Ilm potevano dividere qualsiasi immagine in migliaia di pixel [...] Con un computer si po­
teva cancellare o modificare ogni pixel, alterando non soltanto la composizione della scena ma anche le luci, le ombre, la
messa a fuoco, il colore e la grana del film di ogni elemento dell’immagine. L’insieme di vari elementi in una sola im­
magine sarebbe risultato un tutt’uno privo di ‘cuciture’ anche una volta ingrandito su uno schermo cinematografico” .
Ricordiamo quattro delle manipolazioni effettuate: 1) “le mani, le labbra, le mascelle e gli occhi del presidente Kennedy
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
716
Paolo Ferrari
genere stesso (specialmente in alcuni casi, co­
me nel film di fantascienza), ma nel caso cita­
to la falsificazione è applicata anche al vero­
simile, risultando cosi più difficile da identifi­
care, ed è attuata dopo la ripresa delle imma­
gini (e non soltanto allestendo una scena o in­
tervenendo sulle modalità di registrazione),
con tecniche, infine, particolarmente efficaci.
La falsificazione elettronica trova applica­
zione in ambiti ben più vasti dei circoli fre­
quentati da chi si occupa, per motivi di ricer­
ca o didattici, di storia, mentre il dominio
sempre più incontrastato delfimmagine sulle
altre forme di comunicazione non consente di
archiviarla tra le tecnologie prive di conse­
guenze culturali. Conseguenze che sarà com­
pito degli specialisti della comunicazione in­
dagare, mentre entro ciascun ambito discipli­
nare si dovranno elaborare i percorsi meto­
dologici atti a garantire un uso critico di
una documentazione — fotografica e filmica
in questo caso — con proprie caratteristiche
peculiari, cosi come recentemente Giovanni
De Luna ha fatto, prendendo in esame in mo­
do complessivo le questioni poste dalle “nuo­
ve fonti” prodotte dalle tecnologie contem­
poranee allo storico3. Questioni che sono de­
Achille Rastelli
stinate a essere rilanciate dalla recente inizia­
tiva del presidente della Microsoft, Bill Gates, di acquistare l’archivio Bettmann, un’a­
genzia fotografica che possiede un enorme
patrimonio di immagini del nostro secolo,
con l’intento di renderle disponibili a paga­
mento e con distribuzione on-line in tutto il
mondo4. Anche in questo caso il lavoro degli
storici, dei ricercatori come dei divulgatori, è
chiamato a fare i conti con la situazione de­
terminata da innovazioni tecnologiche che
modificano le condizioni dello svolgimento
del proprio lavoro.
La consapevolezza della centralità dell’im­
magine come veicolo, nei mass media, di sug­
gestioni, informazioni e interpretazioni stori­
che è stata finora accompagnata, salvo non
numerose eccezioni, da una scarsa attenzione
al problema da parte degli storici di profes­
sione, in larga parte disposti, al massimo, a
una benevola condiscendenza nei confronti
di chi si occupa di documentazione fotografi­
ca, giudicata una sorta di “ genere minore”
nel mare magnum della documentazione sul­
l’età contemporanea o, peggio ancora, unica­
mente uno strumento illustrativo la cui utilità
è confinata al settore della didattica5. Resta
(immagini tratte da un film di repertorio in cui Kennedy stringe la mano a una vecchia signora alla Casa Bianca) sono
stati fatti muovere diversamente, cosi che adesso il presidente sembra dire altre parole (la voce è quella di un attore) e
stringere la mano di Hanks”; 2) “[...] alcune delle scene pericolose, ambientate in Vietnam (in realtà girate in un South
Carolina fornito di palme digitali) e interpretate da stuntmen, sono state ritoccate con il computer, con l’inserimento di
Hanks nei panni di uno stuntman che scappa da una violentissima esplosione” ; 3) “[...] La cancellazione di elementi
deU’immagine è stata utilizzata per trasformare l’attore Gary Sinise, che interpreta un reduce della guerra nel Vietnam,
in un amputato. Cosa ancora più importante, i set e gli oggetti di scena sono stati ideati in modo che gli spettatori ven­
gano ingannati sul modo in cui sono stati realizzati i trucchi. [...] Dopo aver coperto le gambe e i piedi dell’attore con un
paio di collant azzurri e aver eliminato elettronicamente l’azzurro dall’immagine, creando cosi uno spazio vuoto, gli
animatori hanno sostituito la parte vuota dell’immagine con una parte di sfondo raffigurante una parete o altre persone
che occupano lo spazio occupato nella realtà dalle gambe” ; 4) “[...] I computer hanno anche contribuito al numero degli
elementi delle scene. In una scena di massa girata al Washington Monument, una folla di 1000 comparse è stata molti­
plicata finché lo schermo non si è riempito di una massa di 200.000 persone” .
3 G. De Luna, L'occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, cit.
4 L’archivio Bettmann, ceduto nel 1981 al gruppo Kraus, è stato poi arricchito da 11,5 milioni di fotografie dell’agenzia
Upi. Gates ha quindi acquistato tutto questo sterminato archivio (cfr. Ora Bill regna sulle foto, “La Repubblica”, 12
ottobre 1995). A titolo di confronto, l’Imperial War Museum conserva circa tre milioni di fotografie. In questo come
nel caso di tanti altri archivi, l’importanza storica delle immagini conservate deriva dal rappresentare spesso l’unica do­
cumentazione esistente di singoli avvenimenti.
5 Tra le eccezioni si può ricordare che nella storia militare l’uso della fotografia come documento ha avuto un maggiore
sviluppo, pur con alcune particolari caratteristiche. Le “storie fotografiche” di argomento militare spesso associano una
Immagini della seconda guerra mondiale
quindi ampiamente valido ancor oggi il giu­
dizio formulato oltre un decennio fa da Orto­
leva: “saldamente insediata, nella pratica sto­
riografica, in una posizione ancillare e quasi
inosservata, apparentemente ininfluente e
marginale ma a ben vedere assai significativa,
la fotografia è invece pressoché inutilizzata,
nei fatti se non in teoria, come documento,
come fonte storica autonoma”6. Il volersi at­
testare nel munito castello della parola scrit­
ta, sulla base della considerazione — di per sé
sostenibile e condivisibile — della sua centra­
lità nel discorso storico, può tuttavia consen­
tire alcuni equivoci. Se il problema della di­
versità dei linguaggi è ovviamente centrale,
esistono peraltro tradizioni di studi che co­
struiscono il discorso storico su una vasta
gamma di fonti che comprende quelle icono­
grafiche e artistiche, dai lavori di Ariès sulla
mentalità collettiva all’uso delle fonti carto­
grafiche e delle immagini paesaggistiche, al­
717
l’impiego della fotografìa nelle ricerche ar­
cheologiche7. Alla base della sfiducia per il
mezzo vi è comunque la difficoltà di utilizza­
re la fotografia per studiare tutta una serie di
questioni, cosi come non si presta all’analisi
di processi di lunga durata una fonte che al
contrario documenta l’“attimo” relativo alla
“superficie” delle cose, colto attraverso “l’in­
trusione che modifica la realtà operata dal
fotografo” e tale da generare un documento
dotato di una carica inesauribile di ambigui­
tà8, caratterizzato da una continua tensione
“tra concretezza del riferimento reale e co­
struzione simbolica”9. In primo luogo preci­
siamo però di voler fornire, nelle pagine che
seguono, soltanto alcune considerazioni, sul­
la base di recenti pubblicazioni sulla seconda
guerra mondiale, relativamente all’uso della
fotografia come documento e non al suo im­
piego nella divulgazione, ovvero per il vasto
pubblico dei “non addetti ai lavori” 10.
documentazione fotografica autentica e precisa a testi di mero commento alle immagini, con tutti i pericoli — dal punto di
vista strettamente storico — dello sconfinamento nel collezionismo. Ma quali che siano le origini e le motivazioni delle
singole raccolte, le immagini possono poi essere utilizzate come documenti storici. Si vedano a questo proposito i volumi
sui mezzi militari, che costituiscono quasi un mondo a sé, impermeabile rispetto a quello degli studiosi di storia contem­
poranea. Questi libri contengono spesso elementi assai utili (per esempio per studiare l’industria di guerra) e diversamente
non facilmente disponibili. Vi sono poi esempi nei quali i due mondi non procedono separatamente e ricche collezioni pub­
bliche e private sono state impiegate in lavori storici originali. Pensiamo al lavoro di Lucio Ceva e Andrea Curami, La
meccanizzazione dell’esercito italiano dalle origini al 1943 (2 voli., Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito,
1994, ed. orig. 1989), nel quale le immagini fotografiche vengono utilizzate anche per documentare l’esistenza di progetti e
produzioni, colmando cosi lacune delle fonti scritte. Per un esempio di ricostruzione di un singolo evento militare dovuto
unicamente a documenti fotografici, ci permettiamo di rinviare a Erminio Bagnasco, Achille Rastelli, V “affondamento"
della portaerei Aquila a Genova nel ¡945, “Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della marina militare”, giugno 1992.
Ha prestato attenzione al problema della documentazione audiovisiva Valerio Castronovo, Mass media e storia contem­
poranea, “Società e storia”, 1981, n. 11; si veda anche, tra i moltissimi scritti dedicati ai rapporti storia-mass media, il
recente volume a cura di Nicola Gallerano, L ’uso pubblico della storia, Milano, Franco Angeli, 1995.
6 P. Ortoleva, La fotografìa, cit., p. 1123. Ma si veda tutto il saggio su questo tema: soltanto l’antropologia culturale,
tra le scienze sociali, fa un uso sistematico della fotografia (p. 1126).
7 Federico Chabod (Lezioni di metodo storico, Bari, Laterza, 1969) non aveva pregiudizi sull’uso della fotografia (p. 58),
semmai sottolineando, in relazione a tutte le fonti, la “vana illusione” di poter disporre di un documento “oggettivo”,
che consenta cioè di cogliere direttamente la “realtà esterna” (p. 66).
8 Cfr. P. Ortoleva, La fotografìa, cit., e R. Arnheim, Sulla natura della fotografìa, “Rivista di storia e critica della foto­
grafia”, 1981. Ma si veda tutto il saggio di Ortoleva sull’ambiguità della fotografia, che “è pressoché impossibile da
leggere in sé, come un messaggio autonomo: i contesti in cui è di volta in volta inserita ne influenzano la lettura più
di quanto accada per altre forme di documentazione” (p. 1134). Michele Giordano finisce per arrivare a questo propo­
sito a conclusioni del tutto negative (Fotografia e storia, cit.).
9 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 317.
10 Sui due versanti in cui i media si intrecciano al discorso storico, rimandiamo al volume di G. De Luna, L'occhio e
l’orecchio dello storico, cit.
718
Paolo Ferrari
Si intende cioè affrontare il problema del­
l’uso della fotografia indipendentemente da
alcuni settori di studio (per esempio la storia
della propaganda o dell’architettura) dove
tale documentazione costituisce uno dei mo­
menti centrali della ricerca1’. Ma anche nella
convinzione che manchi nel nostro paese una
educazione alla lettura deH’immagine che
consenta di evitare una supina accettazione
della maggior parte dei messaggi di cui cia­
scuno è giornalmente destinatario, mentre vi­
ceversa soltanto in parte gli studiosi che cer­
cano di costruire una conoscenza critica del­
l’età contemporanea (e di comunicarla al di
fuori della cerchia degli specialisti)112 si sono
preoccupati di elaborare strumenti di comu­
nicazione più adatti a catturare l’attenzione
— presupposto per l’approfondimento criti­
co — di un più largo pubblico13.
Partiamo dalla questione della falsifica­
zione — la cui “ultima frontiera” è costituita
dall’elaborazione elettronica delle immagini
richiamata all’inizio —, ricordando in primo
Achille Rastelli
luogo che la prima possibilità di intervenire
sul risultato finale è quella di scegliere gli
“attimi” , i particolari da registrare. Ricorda
Giulio Bollati a proposito delle decisioni del
governo britannico durante la guerra di Cri­
mea — che tenne tra l’altro a battesimo il fotogiomalismo e la figura del corrispondente
di guerra14 — che “ la missione guidata da
Roger Fenton fu incaricata di fotografare
le truppe e i luoghi in modo da tranquillizza­
re l’opinione pubblica inglese, profondamen­
te turbata dalle pessime notizie lette sul ‘Ti­
mes’. Manipolare l’opinione mediante uno
strumento come la fotografia, che il senso
comune considera la garanzia stessa dell’o­
biettività: ecco un’idea ingegnosa e ricca di
futuro” 15.
Alcune delle più note immagini associate
alle guerre del nostro secolo costituiscono al­
trettanti “falsi” o sono state accusate di es­
serlo (vedremo poi in quale accezione usiamo
il termine). Quello che per certi aspetti fu il
“laboratorio” del secondo conflitto mondia-
11 Naturalmente sono diverse le discipline che hanno utilizzato la fotografia ai propri fini: “Sembra che la psichiatria
italiana sia stata la prima a impiegare la fotografia come strumento diagnostico e quindi come parte integrante della
cartella clinica” . Cfr. Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, Storia d'Italia. Annali
2. L'immagine fotografica 1845-1945, t. I, Torino, Einaudi, 1979, p. 39.
12 Sul ritardo relativo dell’Italia rispetto ad altri paesi cfr. Francesca Anania, Patrizia Dogliani, David W. Ellwood,
Mass media e storia - storia dei mass media: un bilancio per gli anni novanta, “Memoria e ricerca”, 1993, n. 2.
13 Vorremmo evitare di aprire — e insieme chiudere — il discorso con il richiamo alla sempre più dilagante “civiltà
dell’immagine” . Si tratta infatti di un concetto che, come ogni semplicistica equazione tra (aspetti del) reale e razionale,
può mascherare una “dottrina oscurantista”, come è stato sottolineato, se non altro perché presuppone la superiorità
deirimmagine sulla parola, quasi che determinati contenuti non possano essere trasmessi che attraverso quest’ultima.
Come di recente è stato ricordato in tono polemico, “qualsiasi parola [...] vale più di mille immagini perché può susci­
tarle tutte, in cambio una immagine senza parola è pura decorazione o trucco illusionistico [...] Non esiste altro modo di
esprimere quello che ci succede e di capire quello che succede se non attraverso la parola scritta che impone un processo
di astrazione delle emozioni, uno sforzo, sia pur minimo, di riflessione” : intervista di Daniela Pasti a Fernando Savater,
“ La Repubblica”, 28 gennaio 1995. Savater prosegue con alcune considerazioni riguardanti i temi che più avanti affron­
teremo accennando alla serie televisiva “Combat film”: “L’informazione televisiva riduce i fatti ad immagini di grande
impatto, ineguagliabili nel suscitare commozione, che però resistono a convertirsi in problemi intellegibili. Inoltre poi­
ché le immagini sono più espressive delle parole, il tempo dedicato a ogni notizia si fa via via più breve [...] E il trionfo di
quella che il sociologo Thorstein Weblen chiama ‘la disinformazione concisa’” . Si tratta di una posizione speculare a
quella di chi sottolinea appunto l’ambiguità — e quindi anche la ricchezza — della fotografia e che rimanda alla diver­
sità (e intraducibilità) dei linguaggi. Sulla questione cfr. P. Ortoleva, La fotografia, cit. e M. Giordano, Fotografia e
storia, cit. Nota opportunamente G. Bollati: “Si ripetono [...] fino alla noia le deprecazioni per i guasti prodotti dalla
‘civiltà visuale’ con la sostituzione dell’immagine alla parola, del pensiero visivo al pensiero concettuale” (Note su foto­
grafia e storia, cit., p. 9).
14 Patrizia Dogliani, Fotografia ed antifascismo negli anni trenta, “Passato e presente”, 1989, n. 19, p. 128.
15 Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, cit., p. 27.
Immagini della seconda guerra mondiale
le, la guerra civile spagnola, è stato consegna­
to alla memoria collettiva da tante immagini,
ma in particolare dall’inquadratura di Ro­
bert Capa del miliziano colpito, sulla cui au­
tenticità le polemiche sono state non poche16.
Analogo discorso vale, a conclusione del con­
flitto, per la famosa immagine dei soldati del­
l’Armata rossa che innalzano la bandiera so­
vietica sul Reichstag, un avvenimento avve­
nuto durante la notte e ripetuto, a vantaggio
dei fotografi incaricati di immortalarlo, il
mattino successivo.
Ricordiamo infine una delle fotografie che
più simboleggiano la guerra condotta dagli
Stati Uniti nel Pacifico, quella scattata da
Joe Rosenthal a Iwo Jima, e che ritrae sei sol­
dati americani che innalzano la propria ban­
diera sulla cima del monte Suribachi, tanto
famosa da aver reso il nome del lembo di ter­
ritorio giapponese, di notevole rilevanza stra­
tegica, noto al grande pubblico ben più di al­
tre tappe — Tarawa, Bouganville, Okinawa
— dell’avanzata americana.
Si sovrappongono in questo caso diverse
modalità di “ produzione della memoria” .
La foto, subito famosa, ha dato origine a
un bronzo, a diversi film (a partire da Sands
of Iwo Jima del 1949), a trasmissioni televisi­
ve (con la partecipazione di testimoni), alla
produzione di numerosi racconti da parte
di soldati che avevano partecipato all’even­
to, infine all’esposizione in un museo (a
Washington) della famosa bandiera — senza
ovviamente considerare le numerose rico­
719
struzioni scritte della presa dell’isola. Recen­
temente Dave E. Severance, allora capitano
comandante della Easy Company, una delle
unità che ebbero il compito di prendere la ci­
ma Suribachi dopo lo sbarco sull’isola, è tor­
nato sull’argomento17, in quanto spesso si
era sostenuto che la foto fosse un falso, nel
senso di una messa in scena destinata ai fo­
tografi18, precisando invece come questo
“stirring work o f patriotic art’’ fosse la se­
conda bandiera portata sulla cima. Conside­
rando che entrambe furono issate mentre le
operazioni militari erano in corso, il falso
consiste nel fatto che venne fatta passare co­
me unica quella che in realtà era la seconda
bandiera posta sul monte19. Questi esempi
consentono di distinguere tra diversi tipi di
manipolazione, tra quella motivata dall’in­
tento di suggerire un diverso svolgimento
di determinati episodi e quella che vuole at­
testare, surrogandola con una messa in sce­
na, una ripresa fotografica che non si è po­
tuta realizzare all'atto dell’avvenimento.
Nel primo caso abbiamo un falso in senso
proprio, nel secondo un falso in senso tecni­
co, che non contraddice quanto sappiamo
attraverso altre fonti. In ogni caso viene in­
taccato il valore documentario della foto;
usando un paragone letterario, nel secondo
caso si ha una “narrazione” fedele dell’avvenimento quale possiamo trovare in un buon
romanzo storico, nel primo un racconto ve­
rosimile scritto per fornire una falsa versione
degli avvenimenti (un problema analogo si
16 Ne accenna anche P. Dogliani, (Fotografia ed antifascismo negli anni trenta, cit., pp. 152-153), sottolineando inoltre
che “per tutta la nuova generazione di fotoreporter europei, la guerra civile spagnola segnò in modo definitivo il loro
destino professionale ed esistenziale” (p. 154).
17 Cfr. l’intervista di Dorothea M. Eiler, “Military History”, febbraio 1995. Il colonnello Severance sottolinea tra l’al­
tro efficacemente la scarsa affidabilità di molte testimonianze orali prive di conferme incrociate (pp. 40-41). Sulla foto­
grafia, cfr. anche P. Ortoleva, La fotografia, cit., p. 1139.
18 “The word that it was a staged shot [...] got back to the media in the States, and that incorrect stigma still crops up
from time to time in articles about the two flags. It’s like a virus that you can’t get rid of it” (cfr. l’intervista citata di
Dorothea M. Eiler, “Military History”, febbraio 1995, p. 44).
19 Resta poi naturalmente aperta la questione, in questo come in altri casi, dell’influenza esercitata dalla presenza del
fotografo e della macchina fotografica sul comportamento dei soggetti, e quindi della correlata riduzione del grado di
spontaneità della scena immortalata.
720
Paolo Ferrari
pone nell’uso della diaristica come fonte sto­
rica).
Questioni che sono tornate alla ribalta a
proposito del ciclo di trasmissioni prodotte
dalla Rai, “Combat film”, caratterizzate dal­
l’intreccio tra alta qualità delle immagini,
spesso dal fortissimo potenziale di coinvolgi­
mento emotivo, e incapacità dei curatori di
presentarle in maniera tale da renderle “leg­
gibili” e utilizzabili criticamente, pur non
mancando studi e riflessioni sull’attività dei
fotografi e dei cineoperatori di guerra20.
Una impostazione del resto non isolata: “in
Rai i piani piuttosto elaborati per le ‘celebra­
zioni’ del cinquantesimo anniversario degli
anni di guerra sono stati elaborati senz’alcun
rapporto apparente da parte della nostra
professione. A quanto mi risulta, nessuno
ha sentito la necessità di commentare questo
fatto senza precedenti”21.
È forse opportuno, a questo punto, preci­
sare ulteriormente che cosa si può intendere
parlando di “falso” .
Un documento storico può avere diverse
forme, può anche essere costituito da una fo­
tografia o dalla registrazione meccanica di
suoni o di immagini in movimento, ma in
ogni caso lo studioso deve porsi una serie di
quesiti — relativi all’autore del messaggio22,
alla sua origine, alle motivazioni della sua
produzione, al destinatario, alle circostanze
di tempo e di luogo cui si riferisce, al contesto
nel quale si colloca la singola immagine e via
Achille Rastelli
dicendo — senza risposta ai quali il suo uti­
lizzo storico (o meglio critico in generale) ri­
sulta impossibile o fortemente limitato23. Va
cioè affrontata la critica della fonte, articola­
ta in relazione alle peculiarità del documento.
Per le immagini fotografiche, cinematografi­
che o televisive la questione è ulteriormente
complicata dal fatto che, a differenza di de­
terminate tipologie di documenti (per esem­
pio una serie statistica), ma analogamente a
quanto avviene per altre fonti (come quelle
orali), è possibile un utilizzo su almeno due
versanti. L’alto coinvolgimento emotivo
spesso suscitato dalle immagini filmiche e te­
levisive, infatti, consente, accanto all’uso in
quanto fonte storica — da vagliare al pari
di ogni altra — l’impiego del materiale come
testo narrativo autonomo e quindi utilizzabi­
le e valutabile secondo criteri diversi da quelli
della affidabilità delle conoscenze storiche
fornite. Due piani che ovviamente non devo­
no essere confusi.
L’impiego a fini di documentazione storica
di fotografie e filmati richiede dunque che si
ponga una serie di domande critiche adegua­
te alla specificità del documento, alle possibi­
lità della sua manipolazione e alla considera­
zione del contesto nel quale il singolo filmato
o fotogramma si inserisce. Questioni sulle
quali esiste ormai un’abbondante letteratura.
In questa prospettiva lo storico deve anche
indagare la specifica intenzionalità sottesa a
ciascun documento, con un procedimento
20 È sufficiente scorrere la rivista di uno dei più famosi musei di guerra per rendersene conto, la “Imperial War Museum
Review”: cfr. Kay Gladstone, British Interceptions of German Export Newsreels and the Development of British Combat
Filming, 1939-1942 (1987, n. 2); Clive Coultass, The Ministry of Information and Documentary film, 1939-1945 (1989, n.
4); Gianfranco Casadio, Images of War in Italy: the Record made by the Army Film and Photographic Unit in Emilia
Romagna, 1944-1945 (1989, n. 4) (e si veda anche Id., Immagini di guerra in Emilia Romagna. I servizi cinematografici
del War Office, Ravenna, Longo, 1987). Dai testi citati si risale a una ben più ampia bibliografia, sulla quale non insi­
stiamo per motivi di spazio. Sul programma rimandiamo alle osservazioni di Gianni Isola, Considerazioni sull’uso pub­
blico della storia, “Protagonisti”, 1994, n. 56, nonché a quelle, nello stesso fascicolo della rivista, di Giovanni Cesareo e
Giuliana Muscio.
21 Cfr. l’intervento di D. W. Ellwood, “Memoria e ricerca”, 1993, n. 2, p. 16.
2~ Sulla questione della firma delle fotografie sui periodici, cfr. P. Dogliani, Fotografia ed antifascismo negli anni trenta,
cit., p. 151.
23 Per un tentativo di precisare i criteri di catalogazione dei materiali fotografici, si veda Giuseppina Benassati (a cura
di), La fotografia. Manuale di catalogazione delle fotografie, Bologna, Grafis, 1990.
Immagini della seconda guerra mondiale
analogo a quello seguito in relazione ad altre
fonti: Le Goff ha dimostrato il superamento
della contrapposizione documento-monu­
mento basata appunto sulla discriminante
costituita dall’intenzionalità24.
Molte domande, però, sono destinate a re­
stare senza risposta, a cominciare da quelle
relative agli elementi identificativi essenziali
dei documenti fotografici (autore, data, luo­
go, ecc.). Occorre allora porre il documento
in relazione ad altre testimonianze relative al­
l’episodio registrato, sebbene sia piuttosto ra­
ro disporre di documenti fotografici o filmati
la cui lettura sia resa possibile anche dalla di­
sponibilità di archivi tradizionali25. L’opera­
zione pone la questione della eventuale falsi­
tà, che può assumere numerosi aspetti. Anzi­
tutto, la scena riprodotta può essere stata, co­
me si è detto, appositamente preparata per
l’obiettivo, o perché una scena analoga è ef­
fettivamente avvenuta ma non è stato possibi­
le riprenderla, o per inventare, per i più diver­
si scopi, un episodio in realtà mai avvenuto. Il
falso cinematografico o televisivo si presenta
anche in maniera più sottile: la registrazione
di un fatto realmente accaduto (non rappre­
sentato) può essere poi montata alla moviola
tagliando sequenze o spostando l’ordine tem­
porale delle stesse26. Nessuno può allora ne­
721
gare la veridicità di quanto filmato, ma, senza
il negativo originale, difficilmente è possibile
accorgersi della manomissione27. Vi è poi il
fatto, ricordato, che comunque la fotografia
rappresenta soltanto un frammento, il cui si­
gnificato è legato al contesto (serie in cui è in­
serita, modalità di presentazione, didascalia e
via dicendo) come alle modalità della sua pro­
duzione, mentre la presenza del fotografo e
dello strumento può influire sul comporta­
mento delle persone ritratte. Tutte questioni
troppo note per richiedere più di qualche ac­
cenno; e del resto lo stesso concetto di mani­
polazione assume in contesti diversi significa­
ti differenti, anche da parte dei fotografi che si
pongono un problema etico nei confronti del­
la propria professione28.
Quando poi le immagini sono stampate, si
apre tutta una serie di ulteriori possibilità, re­
centemente considerate da Alain Jaubert29,
alle quali si devono aggiungere quelle corre­
late all’uso dell’informatica, che, per esem­
pio, facilita la colorazione di immagini in
bianco e nero o la variazione dei toni in foto
già a colori (e consente anche la modifica del
rapporto tra altezza e larghezza delle imma­
gini memorizzate), fino al totale sganciamen­
to dell’immagine dalla realtà operato agendo
sui singoli pixel richiamato in apertura.
24 Cfr. Jacques Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, voi. V, p. 1078 e G. De Luna,
L’occhio e l ’orecchio, cit., p. 22.
25 Un esempio in questo senso è l’archivio storico della Cinzano, presentato da De Luna ( L'occhio e l ’orecchio dello
storico, cit.).
26 II film di propaganda del 1919 sull’affondamento della Santo Stefano (Ricostruzione sulle memorie di Luigi Rizzo,
filmato di Gioacchino Gengarelli e Arturo Giordani, a cura dell’Unione cinematografica italiana di Edoardo Bencivenga), costituisce un collage di immagini originali e di falsi particolarmente credibile. Abbiamo infatti: gli stessi mezzi e le
stesse persone che presero parte all’azione (ma ripresi successivamente); scene originali dell’affondamento della Santo
Stefano: interni della Santo Stefano (in realtà della gemella Tegetthoff, passata all’Italia come preda bellica). L’altro ele­
mento di falsificazione è poi ovviamente costituito dal montaggio.
27 Alla duplice selezione (ciò che si riprende e come e il montaggio) si aggiunge poi un terzo elemento, per cui le singole
immagini possono non essere “meccaniche riproduzioni di avvenimenti reali”, come nel cinema documentaristico e di
attualità (G. Rondolino, Il cinema, cit., p. 1162).
28 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 401. Cfr. anche V. Castronovo, Mass media e storia contemporanea, cit.,
p. 100 e M. Giordano, Fotografìa e storia, cit. Tra i riferimenti obbligati vi è Susan Sontag, Sulla fotografìa, Torino,
Einaudi, 1978.
~9 Alain Jaubert, Commissariato degli archivi. Le fotografie che falsificano la storia, Milano, Corbaccio, 1993 (ed. orig.
Parigi, Musée d’Art Moderne, 1986).
722
Paolo Ferrari
In Commissariato degli archivi Jaubert af­
fronta un argomento di grande rilievo, la ma­
nipolazione a scopi politici dell’immagine fo­
tografica fatta nel nostro secolo, demolendo
così ogni pretesa di “oggettività” dell’immagine fotografica stessa. Il volume si legge con
particolare interesse, sia perché rappresenta
un unicum nel suo genere, sia perché è parti­
colarmente efficace la presentazione delle di­
verse “ versioni” della stessa foto. Jaubert
conduce cioè il lettore per mano, svelando,
in un discorso essenzialmente per immagini,
le falsificazioni attuate dai vari regimi politi­
ci. Sono possibili comunque alcune osserva­
zioni a margine della ricerca. L’autore insiste
unicamente sulle manipolazioni effettuate
dai regimi fascisti e comunisti, suggerendo
implicitamente che l’uso di falsi fotografici
sia assente (o molto limitato) nelle democra­
zie. Nessun dubbio, naturalmente, sul fatto
che la pluralità di enti autonomi nel campo
delfinformazione costituisca il limite princi­
pale alla falsificazione dei messaggi, ma an­
che nessuna illusione sul fatto che la manipo­
lazione delfimmagine non costituisca co­
munque una consuetudine anche in sistemi
democratici. Costruire allora il libro unica­
mente sulla base di esempi tratti dalla storia
del fascismo, del nazionalsocialismo e del
“ socialismo reale” implica il suggerire in
qualche misura che l’uso propagandistico
della fotografia sia nella sostanza confinato
a precise esperienze storiche, all’esistenza di
regimi privi di opposizioni politiche legitti­
me, e cioè, appunto, alle esperienze alle quali
si riferiva l’Orwell di 1984 richiamato nel ti­
tolo del volume di Jaubert. Mentre, per fare
un esempio, se si pensa ai manifesti elettorali
dei nostri anni, certamente nessuna immagi­
ne compete con quelle del Breznev eterna­
mente cinquantenne presentato dall’icono­
grafia ufficiale sovietica, ma non mancano
Achille Rastelli
“abbellimenti” anche grossolani e insistiti
di uomini politici. Si può poi aggiungere
che la radio e la fotografia furono, negli anni
trenta, i principali strumenti propagandistici
impiegati dalle autorità statunitensi, mentre
nei grandi regimi totalitari di massa “ l’uso
propagandistico della fotografia (inclusa l’ef­
figie del leader) era assai meno enfatizzato, a
tutto vantaggio del monumento stradale, del­
l’architettura monumentale, del film a sog­
getto o del documentario cinematografico ri­
tuale (e, si può ben dire, ‘monumentale’)”30.
Si può poi osservare che l’autore considera
solamente un tipo di falsificazione possibile.
Innanzitutto precisiamo che viene presa in
esame una serie di falsificazioni, dal ritoccare
allo scontornare (per esempio per cancellare
personaggi indesiderati o stabilire nuove re­
lazioni tra i soggetti), al tagliare (cioè operare
fotomontaggi), reinquadrare (che è forse l’o­
perazione più diffusa, anche senza intento
falsificatorio: è anzi generalmente accettata
la liceità di non riprodurre interamente una
foto, anche se precisione documentaria im­
porrebbe di indicarlo sempre), a cancellare
del tutto quanto risulta indesiderato (elimi­
nare cioè una parte non ai bordi dell’inqua­
dratura, conservando il complesso dell’im­
magine: ‘Teliminazione di Trockij è il model­
lo universale che ha ispirato i ritoccatori ce­
chi, ungheresi, jugoslavi e cubani”31). Un al­
tro tipo di falsificazione è quello ottenibile
operando sulla didascalia e, più in generale,
sul contesto nel quale ogni immagine viene
presentata, ma il primo momento della mani­
polazione è la selezione di un certo numero di
immagini all’interno di un più ampio insie­
me.
Non si pensi però a prodotti finali sempre
perfetti o quasi. Molte falsificazioni sono de­
cisamente grossolane, in alcuni casi perché è
lo stesso potere politico a voler mostrare di
30 P. Ortoleva, Il mito del documentario, cit., p. 397, anche per la spiegazione “della diffidenza per la fotografia in regimi
come, ad esempio, il fascismo”.
31 A. Jaubert, Commissarialo degli archivi, cit., p. 18.
Immagini della seconda guerra mondiale
aver la possibilità di cancellare la stessa im­
magine (e la memoria) dei propri avversari,
in altri per la scarsa competenza dei censori
o la convinzione di destinare le immagini a
un pubblico assai poco in grado di esercitare
capacità critiche32. Oggi anche il grande pub­
blico rifiuta immagini di qualità scadente, a
testimonianza di un’evoluzione del gusto e
delle tecniche di riproduzione, che non impli­
cano però anche una migliorata capacità di
lettura critica delle immagini. Semmai, l’evo­
luzione della tecnologia informatica consente
manipolazioni impensabili sino a non molti
anni fa33.
Le considerazioni finora svolte sono di ca­
rattere generale. Riteniamo quindi necessario
articolarle prendendo in considerazione alcu­
ni esempi di come l’immagine fotografica è
stata utilizzata sotto il profilo storico in volu­
mi editi negli ultimi anni. La casa editrice
Rizzoli ha di recente pubblicato un libro fo­
tografico sull’occupazione tedesca, a cura di
Silvio Bertoldi34, che costituisce, al pari di
tanti altri volumi sull’argomento, una occa­
sione perduta. E infatti evidente, per la quan­
tità e la qualità delle immagini riprodotte,
che l’autore ha avuto a sua disposizione ar­
chivi sicuramente ricchi. Nondimeno ha fini­
to per pubblicare molte immagini note e più
volte utilizzate. Inoltre manca l’indicazione
delle fonti delle immagini, una informazione
sicuramente indispensabile per la loro lettura
critica. Se anche si volesse sostenere l’inutilità
dell’indicazione in una pubblicazione divul­
gativa destinata a un largo pubblico, resta
comunque il fatto che non è certo l’indicazio­
723
ne della fonte in ogni didascalia ad ‘appesan­
tire’ il testo. Inoltre anche nelle opere divul­
gative la ricerca dovrebbe essere condotta
in maniera rigorosa, come un autore dalla va­
sta esperienza di Bertoldi avrebbe potuto fa­
re, a meno che non si voglia sostenere l’ap­
partenenza della divulgazione a un genere
condannato all’imprecisione e alla genericità.
L’impostazione dell’opera a capitoli tra lo­
ro autonomi, ciascuno su un argomento a se
stante, inoltre, crea delle duplicazioni nei di­
scorsi fotografici, tanto da indurre il sospetto
che il lavoro sia stato svolto da più collabora­
tori. In ogni caso manca un sufficiente coor­
dinamento fra le diverse parti, poiché, per
esempio, la vicenda di via Rasella e delle Fos­
se Ardeatine viene trattata due volte, nel ca­
pitolo dedicato a “La tragedia degli ebrei di
Roma” e poi in quello su “Kappler: un robot
del nazismo”, con illogica dispersione del di­
scorso. Va poi criticato, in un volume che ha
forse l’ambizione di trattare in uno spazio li­
mitato un argomento troppo vasto, l’utilizzo
di immagini generiche, che possono servire
come “poster” per indicare in termini vaghi
una determinata vicenda storica, ma non co­
me riferimenti fotografici da contestualizza­
re. Il volume può destare l’interesse di chi
non conosce dal punto di vista iconografico
l’Italia occupata del 1943-1945, ma certo si
poteva fare qualcosa di più dopo non poche
pubblicazioni sull’argomento.
Del tutto diversa l’impostazione del volu­
me di Angelo Pesce sullo sbarco alleato a Sa­
lerno35, che costituisce il tentativo di rico­
struire sulla base della documentazione foto-
32 Nota Sergio Romano nella prefazione ad A. Jaubert, Commissariato degli archivi, cit. (p. 11): “Le fotografie sono
quasi sempre imperfette e portano vistosamente le tracce della falsificazione [...] Vi è in questi falsi una sorta di arro­
gante sfacciataggine. I falsari non cercano di convincere: si limitano a proclamare e a imporre rozzamente la loro verità
ideologica” .
33 Cfr. Information Revolution (di Joel L. Swerdlow, foto di Louise Psihoyos, art di Alien Carroll), in particolare p. 33:
“As computers become more powerful and software easier to use, more manipulation is possible and even probable. So
where does that leave the viewer? More dependent than ever on the integrity of a publication to ensue the authenticity of
its images”, "National Geographic”, voi. 188, n. 4, ottobre 1995.
34 Silvio Bertoldi (a cura di), Album di una occupazione, Milano, Rizzoli, 1994.
’5 Angelo Pesce, Salerno 1943 "Operation Avalanche", Santa Maria La Bruna, The Falcon Press, 1993.
724
Paolo Ferrari
grafica giorno per giorno, se non ora per ora,
lo sbarco alleato, avvenuto in stringente con­
temporaneità con l’armistizio italiano e che
costituì uno dei motivi che forzarono i tempi
per una pubblica diffusione dell’avvenuta fir­
ma.
L’autore ha raccolto i materiali negli ar­
chivi americani, inglesi e, in minima parte, te­
deschi, mentre l’assenza di immagini prove­
nienti da archivi italiani si spiega con il fatto
che la coincidenza dell’armistizio impedi la
presenza di corrispondenti di guerra. La con­
fusione e il dramma di quei giorni, inoltre,
hanno fatto sì che fino ad ora non ci siano
pervenute neppure foto scattate da singoli
combattenti, fotografi dilettanti, general­
mente una fonte alternativa più ricca di quel­
la ufficiale.
All’insufficienza invece della documenta­
zione di produzione tedesca — proveniente
in parte dai Bundesarchiv e in parte da priva­
ti — si sarebbe potuto in qualche misura ov­
viare ricorrendo agli Etablissements Cinématographiques et Photographiques des Armées francesi, che conservano una ricca col­
lezione di foto di provenienza tedesca e dove,
dunque, con ogni probabilità sono conserva­
te anche immagini di queU’avvenimento.
La prima cosa che colpisce sfogliando il
volume è l’eccezionale qualità delle immagi­
ni, a riprova dell’abilità dei fotografi ameri­
cani e inglesi — professionisti dell’immagine
dalla lunga esperienza prebellica —, pronti
allo “scatto” anche in condizioni difficili e ri­
schiose, senza rinunciare all’inquadratura e
alla ricerca del valore storico del soggetto fo­
tografato. L’autore avrà sicuramente dovuto
scartare migliaia di immagini per lui meno si­
gnificative ed è proprio dalla selezione che
nasce il discorso da lui prodotto; in altri ter­
mini avrebbe anche potuto “montare” un di­
verso discorso sulla base di altre immagini. Si
può poi aggiungere che Pesce ha operato una
selezione sulla base delle immagini conserva­
te (nulla si sa dell’esistenza di altre andate di­
strutte), mentre l’assenza di foto scattate da
Achille Rastelli
singoli combattenti di propria iniziativa ci
priva di un punto di vista sovente assai meno
“ufficiale” e più “spregiudicato”.
Date queste premesse, si possono fare al­
cune considerazioni sul “racconto” cosi co­
struito, che ha un tono generale “tranquillo”,
nel quale le rare action photographs sparisco­
no tra le immagini ufficiali degli “alti papave­
ri”, quelle mielose che illustrano i buoni rap­
porti tra soldati alleati e i ‘miserabili’ (termi­
ne impiegato in senso proprio, senza inten­
zione offensiva) abitanti della zona, quasi
analoghi agli incontri dell’iconografia colo­
nialista tra l’uomo bianco portatore di civiltà
e il buon selvaggio. Anche le foto di guerra
vera e propria sono state scattate nelle retro­
vie, tanto tempo prima o dopo il combatti­
mento da far nascere il sospetto che almeno
in parte rappresentino scene ricostruite a sco­
po propagandistico. Impressione avvalorata
dal fatto che anche le poche immagini di ca­
duti suscitano, più che orrore, un sentimento
di pietà accompagnato da una serena mesti­
zia. E l’osservazione sarebbe avvalorata con­
frontando il volume con uno dei tanti pubbli­
cati sulla guerra nel Pacifico o sul fronte rus­
so, nel corso delle quali i corrispondenti, per
loro maggiore sensibilità o per l’estrema cru­
dezza degli scontri, hanno spesso fotografato
scene che restituiscono tutta la tragicità e
l’orrore della guerra.
L’autore ha in ogni caso raggiunto lo sco­
po che si era prefissato, grazie soprattutto a
immagini intrinsecamente drammatiche, co­
me quelle degli ex internati razziali in coda
per il rancio, dignitosi e “presentabili” nono­
stante le circostanze, o toccanti come quella
della bambina italiana nata durante la batta­
glia, in braccio a una infermiera americana.
L’autore ha inoltre compiuto un notevole
sforzo, oltre che nella ricerca e nella selezione
del materiale, nella stesura delle didascalie e
dei commenti affiancati alle immagini, tanto
che ognuna è corredata dall’indicazione della
data, della località e, quando possibile, dall’i­
dentificazione delle persone fotografate, spe­
Immagini della seconda guerra mondiale
cialmente quando si tratta di salernitani o di
abitanti della zona. Sarebbe interessante, co­
me si è detto, estendere la ricerca alla docu­
mentazione prodotta dai tedeschi, né è colpa
dell’autore non averlo fatto. Forse la carenza
va addebitata al fatto che, spesso, degli avve­
nimenti militari viene più facilmente traman­
data l’immagine fornita dai vincitori, mentre
i vinti restano muti.
Un altro lavoro particolarmente valido,
sia dal punto di vista della qualità delle im­
magini che da quello delle informazioni poste
a loro corredo, è il catalogo della mostra sul­
l’amministrazione militare alleata dell’Appennino e la liberazione di Bologna36. Si trat­
ta di una raccolta di fotografie selezionate da
archivi americani, francesi e italiani, con net­
ta preponderanza delle immagini provenienti
dagli Stati Uniti. Di alcuni operatori (in par­
ticolare Robert H. Schmidt) si ricostruisce
anche il percorso professionale, mentre le im­
magini sono accompagnate da quattro inte­
ressanti saggi sugli ambienti ripresi, durante
la guerra e dopo.
Le immagini vanno in questo caso consi­
derate tenendo presente in particolare l’espe­
rienza e la formazione dei fotografi, con tra­
scorsi di foto d’ambiente sociale o di docu­
mentazione, fotoreporter professionisti spes­
so con molto “mestiere” alle spalle. Ogni fo­
to è infatti ben costruita e di ottima qualità e
anche le immagini d’azione (un po’ rare) ma­
nifestano il tentativo di documentare am­
biente e circostanze. Un elemento, questo,
che suggerisce l’eccessiva professionalità dei
fotografi nel cercare di creare prodotti di si­
curo effetto. Molte inquadrature sono trop­
po costruite, in particolar modo quelle relati­
ve ai rapporti con i civili, con effetti di stati­
cità attenuati dal fatto che il fotografo deve
725
aver scattato una serie di istantanee tra le
quali ha scelto poi la migliore. Anche per
queste immagini di guerra, come per tutte
quelle dei corrispondenti americani in Italia,
vale l’osservazione relativa al tentativo di far
apparire i soldati americani come i “salvato­
ri” di un popolo oppresso, mentre in altri tea­
tri (ricordiamo ancora la guerra contro il
Giappone) prevaleva l’immagine del solda­
to-vendicatore. Una pregiudiziale sulla quale
pesava probabilmente anche il fatto che una
parte del pubblico che fruiva delle immagini
era di origine italiana.
La parte più interessante del volume è pe­
rò, forse paradossalmente, non quella dei
combattimenti ma quella relativa alla libera­
zione di Bologna, risultando raro poter vede­
re una serie così completa e ben documentata
di immagini sulla liberazione di una città. I
volumi pubblicati negli anni passati su que­
sto tema erano infatti per lo più viziati sia
dalla limitatezza della selezione, sia da un
commento che potremmo definire “entusia­
stico” , cioè teso a sottolineare la rilevanza
positiva dell’evento ma carente dal punto di
vista dell’analisi storica. Nel caso di questo
volume su Bologna, a parte alcune foto un
po’ scontate (la solita ausiliaria fascista cat­
turata dai partigiani, generalmente una bella
ragazza circondata da individui che non pro­
mettono nulla di buono), la maggior parte
delle immagini costituiscono una completa
documentazione dell’aspetto di una grande
città nel travagliato momento del passaggio
dalla guerra alla pace, suggerendo almeno
in parte le passioni, i sentimenti, le sensazioni
grazie alla ripresa di volti particolarmente
espressivi. Si tratta, in altri termini, di un la­
voro molto valido, dal punto di vista della
qualità delle immagini e dell’informazione,
36 Vito Paticchia, Luigi Arbizzoni (a cura di), Combat Photo. L'Amministrazione militare alleata dell’Appennino e la li­
berazione di Bologna nelle foto e nei documenti della 5“ armata americana, Bologna, Grafis edizioni, 1994, che raccoglie
scritti di Luigi Arbizzoni, Remigio Barbieri, Vito Paticchia, Paolo Pombeni, Ezio Raimondi, Adriano Simoncini. La
mostra è stata inaugurata alla Biblioteca comunale deH’Archiginnasio di Bologna il 21 luglio 1994 e successivamente
presentata in molti comuni della zona.
726
Paolo Ferrari
frutto di un metodo di ricerca che fornisce un
ampio quadro storico della guerra in una del­
le zone cruciali della campagna d’Italia.
A questo volume si può affiancare il cata­
logo di un’altra mostra, relativa alla città di
Siena37, curato da Claudio Biscarini e Vitto­
rio Meoni. Il primo è noto nel settore della ri­
cerca fotografica per il lavoro sul bombarda­
mento di Poggibonsi, oltre che per altri volu­
mi su Siena, costruiti secondo il metodo im­
piegato anche in quest’ultimo caso38. Il volu­
me costituisce il vero e proprio catalogo di
una mostra, con un commento iniziale molto
limitato e un discorso affidato alle sole im­
magini e a brevi didascalie in quattro lingue,
evidentemente redatte tenendo presente il
pubblico estivo di una città turistica. Anche
in questo caso le immagini utilizzate proven­
gono da archivi americani (National Archives e Smithsonian Museum), britannici (Im­
periai War Museum e University of Keele),
con un robusto apporto degli Etablissements
Cinématographiques et Photographiques des
Armées francesi, evidente per la notevole
quantità di foto relative a reparti francesi, i
primi ad entrare nella Siena liberata. L’opera
si divide in quattro parti: dal dicembre 1943
al gennaio 1944, il momento più difficile
per la città per i bombardamenti e l’occupa­
zione tedesca (tuttavia non particolarmente
dura rispetto ad altre esperienze); il periodo
dal giugno al 4 luglio 1944, con il progressivo
avvicinarsi del fronte; il luglio 1944, che vide
la liberazione della città e il periodo dall’ago­
sto al luglio dell’anno successivo, il “primo
dopoguerra” per i senesi.
Achille Rastelli
I materiali fotografici raccolti documenta­
no prima i bombardamenti aerei sul capoluo­
go e su altri centri vicini, poi l’avanzata dei
reparti alleati attraverso Chiusi e gli altri co­
muni del Senese, l’ingresso dei vincitori in cit­
tà, la grande parata militare in piazza del
Campo e il Palio organizzato per la fine della
guerra. A parte le foto di stile tipicamente mi­
litare (truppe in avanzata, mezzi nemici di­
strutti, prigionieri, ecc.), rimpianto discorsi­
vo risulta un po’ troppo localistico, a diffe­
renza delle opere precedentemente segnalate
che hanno un maggiore respiro. Pur essendo,
infatti, anch’esse relative a un’area geografi­
camente ristretta, riescono tuttavia a uscire
dall’ambito locale sia per la rilevanza del fat­
to storico documentato (lo sbarco di Anzio),
sia, nel caso del volume su Bologna, per la
maggiore considerazione di una globalità di
aspetti relativi all’avvenimento della libera­
zione.
Questa osservazione non toglie comunque
nulla al valore del lavoro su Siena, sia per
l’accuratezza della ricerca iconografica, sia
per il commento alle immagini, conciso ma
esauriente.
II recente catalogo su Rovereto durante la
guerra, curato da Diego Leoni e Labrizio Ra­
sera,39 si impone all’attenzione anzitutto co­
me ricerca condotta in maniera corale, con
la partecipazione di decine di persone, grup­
pi, enti e aziende. Questo catalogo di due mo­
stre tenutesi nella città si articola in otto capi­
toli su altrettanti temi, che a loro volta affian­
cano ricordi dovuti alla memoria e alla docu­
mentazione fotografica, testimonianze cioè
37 Istituto storico della Resistenza, Provincia di Siena, Comune di Siena, Siena 1944. Guerra e liberazione. Mostra foto­
grafica 3 luglio-16 agosto 1994, a cura di Claudio Biscarini e Vittorio Meoni, Siena, Nuova immagine, 1994.
3S Claudio Biscarini, Franco Del Zanna, Poggibonsi 1943-1944, Poggibonsi, Lalli editore, 1993; C. Biscarini, 1944: i
francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova immagine, 1991; Id., 1944:
la liberazione di Murlo: storia e immagini delle operazioni militari 1943-1944, Siena, Nuova immagine, 1993; C. Biscaretti, Paolo Paoletti, V. Meoni, 1943-1944: vicende belliche e Resistenza in terra di Siena, Siena, Nuova immagine,
1994. Un altro volume fotografico di sicuro interesse è Nino Bisi, Empoli il giorno di Santo Stefano, Poggibonsi, Lalli
editore, 1993.
37 Diego Leoni, Fabrizio Raserà (a cura di), Frammenti di un’autobiografia di una città. Rovereto 1940-1945, Rovereto,
Edizioni Osiride - Materiali di lavoro, 1993 (Laboratorio di storia dell’Università della terza età e del tempo libero).
Immagini della seconda guerra mondiale
di persone e immagini provenienti da archivi
pubblici e privati. In questo volume l’imma­
gine assume un ruolo centrale nell’imposta­
zione del lavoro, è cioè paritaria come quan­
tità e qualità al testo scritto, agli antipodi del
più consueto ruolo di subalternità o addirit­
tura di “contorno” rispetto alla memoria
orale o scritta. Che l’impostazione del volu­
me sia essenzialmente fotografica risulta an­
che dalla cura e dalla ricerca svolta per in­
quadrare ogni immagine nel proprio conte­
sto. Particolarmente interessanti sono i capi­
toli sui bombardamenti di Rovereto e quello,
abbastanza sconosciuto, relativo al Corpo di
sicurezza trentino, che riunì i trentini che, vo­
lenti o nolenti, dopo l’8 settembre prestarono
servizio militare a fianco dei tedeschi, sia nel­
la Flak che in questo corpo, nel quale, al di là
del nome che ne sottolineava il reclutamento
e la dislocazione, si tentò di offuscare l’italia­
nità della regione, come ricordano coloro che
ne fecero parte.
Di notevole interesse è anche il capitolo
“Dialogo di un venditore di arazzi e di un
passeggere”, un testo di Diego Leoni che ri­
costruisce con ironia il pensiero di Fortunato
Depero sul fascismo, il tutto illustrato con riproduzioni di opere plastiche e grafiche per
lo più ignote di Depero aventi per tema il fa­
scismo e lo sforzo bellico.
Uno dei problemi che ci si pone quando si
legge — e si guarda — un libro di storia foto­
grafica è se il lavoro di ricerca riesce ad af­
francarsi da un ambito strettamente locale
o settoriale avviando così un discorso storico
di carattere generale. Data la diversità degli
argomenti trattati, in questa ricerca alcuni
capitoli conseguono risultati particolarmente
significativi, come quello appunto su Depe­
ro, la cui vicenda è paradigmatica di quella
di molti artisti durante il ventennio. Altri ca­
pitoli, come quello relativo ai bombardamen­
727
ti sulla città, nell’apparente somiglianza e ri­
petitività rispetto a centinaia di altri bombar­
damenti su altre città italiane, divengono una
tessera importante del tragico mosaico della
guerra. In altri casi è maggiore il legame
con la realtà locale, e, dal punto di vista della
ricerca fotografica, è più forte il condiziona­
mento dovuto alla scarsità del materiale. Po­
co sviluppato rispetto alla realtà locale è per
esempio il settore delle immagini che docu­
mentano le lavorazioni di guerra negli stabi­
limenti della zona, in particolare quello del­
l’attivissima Caproni.
Risulta in ogni caso interessante il tentati­
vo di descrivere in tutti i suoi aspetti, soprat­
tutto nella dimensione della vita quotidiana,
la guerra in una cittadina di provincia, senza
indulgere a schematismi drammatizzanti. Se
non mancano le immagini d’orrore, i morti
per i bombardamenti o gli attentati, la “nor­
malità” dell’esistenza in tempo di guerra —
normalità spesso dimenticata — viene resti­
tuita dalle gite aziendali e dai bambini sfollati
nei paesi nei dintorni di Rovereto.
Sfugge però alla documentazione fotogra­
fica una delle più dolorose presenze della
guerra descritte nel testo, e cioè la fame e la
miseria. E probabilmente una tendenza quasi
irrefrenabile, quando si posa davanti a un
obiettivo, sforzarsi di assumere un aspetto di­
gnitoso, cercando di nascondere almeno in
parte le proprie sofferenze, sebbene molte fo­
to restituiscano una semplicità di vita e con­
sumi non più riscontrabili nel nostro paese.
O forse, più semplicemente, molte immagini
ritraggono persone più povere ma più ricche
di speranze: una delle migliori foto è forse
l’ultima, quella delle due ragazze che, liberate
dal campo di concentramento di Bolzano,
sorridono, nonostante tutto, al futuro.
La recente mostra La Gioconda di Lvov40 è
invece esplicitamente costruita come tentati-
4U Sulla mostra inaugurata ad Aosta — curata da Ando Gilardi, Adolfo Mignemi, Paolo Momigliano Levi, Patrizia
Piccini, Angelo Schwarz e organizzata dal Comitato valdostano per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della
Resistenza, della liberazione e dell’autonomia, dall’Istituto storico della Resistenza in Valle d’Aosta, dall’Associazione
728
Paolo Ferrari
vo di rendere possibile la lettura di un mate­
riale fotografico agghiacciante, quello relati­
vo al genocidio nazista, il cui impatto è però
stato intaccato — a volte quasi annullato —
dalla iterazione del messaggio stesso. “ Il
trauma delle atrocità fotografate svanisce ve­
dendole ripetutamente” , scrive Susan Sontag41: gli autori di questa mostra sono piena­
mente consapevoli del pericolo e riescono a
trattare l’argomento in maniera originale.
Ma soprattutto riescono a contestualizzare
fotografie di orrori che sono spesso divenute
— e sono spesso presentate come — simboli
del “male” , finendo, per questo, per essere
collocate in una dimensione sottratta alla
spiegazione storica.
La mostra viene costruita attraverso lo
stretto reciproco rimando tra fotografie da
una parte e studi, memorie e documenti dal­
l’altra. Gli autori di questa iniziativa origina­
le e di notevole interesse esplicitano lo scopo
dell’operazione — “Il testo delle pagine spie­
ga il significato dell’immagine e l’immagine
illustra e conferma il testo” — ed esprimono
la propria convinzione sulla necessità di que­
sto interscambio ricorrendo a un’iperbole ap­
parentemente diminutiva dell’utilità del do­
cumento fotografico: “diecimila immagini
non valgono un solo capitolo di uno dei libri
che si suggeriscono”; le immagini sono usate
“per sollecitare a leggere alcuni libri”42.
“Iperbole” in quanto l’attenzione alle con­
dizioni e ai passaggi che consentono la lettura
di una fotografia non implica una minore at­
Achille Rastelli
tenzione e cura filologica nella scelta delle im­
magini — e non a caso tra gli autori della mo­
stra vi sono noti specialisti in ricerca fotogra­
fica. Le 109 fotografie (“realizzate non per es­
sere mostrate e diffuse presso il grande pubbli­
co, non da fotografi professionisti, e nemme­
no prodotte da fotoamatori — così come oggi
si dice — ‘evoluti’, ma [...] realizzate da sem­
plici e spesso maldestri dilettanti, come ricor­
do visivo privato della loro esperienze perso­
nale”) sono dunque di diversa provenienza,
altrettanti snodi di un percorso critico che
ha anche il compito di traformare testimo­
nianze della ferocia umana in precisi docu­
menti di un’epoca e di un sistema di potere.
La premessa di Ando Gilardi e le didascalie
spiegano dunque le origini dei fotogrammi
— da quelli opera di soldati e civili, ai foto­
grammi tratti da riprese filmate tedesche di
propaganda, alle immagini dovute a fotore­
porter americani e britannici giunti nei lager
subito dopo la fine della guerra — sia in senso
tecnico, sia fornendo una serie di elementi cri­
tici che consentono la lettura di questi docu­
menti, dalle indicazioni sugli autori a quelle
sui percorsi seguiti dalle immagini giunte fino
a noi. In questo modo i curatori della mostra
offrono una serie di documenti fotografici
strettamente legati dal punto di vista temati­
co, insieme agli elementi necessari alla loro let­
tura, sottraendosi ai pericoli insiti nelle imma­
gini dal forte impatto emotivo.
Una valutazione complessiva delle opere
esaminate non può che essere molto positiva.
nazionale ex deportati e dalla Fototeca storica nazionale (Milano) — si può consultare La Gioconda di Lvov. Immagini
“spontanee" e testi relativi ai fatti dello Sterminio, Aosta, 1995. Si tratta di un opuscolo di 31 pagine seguito da 114 fogli
di 4 pagine ognuno. Nel primo sono stampate le introduzioni alla mostra — si veda in particolare il testo di Ando Gilardi,
Un capitolo mancante nella storia dellafotografia — mentre 109 fogli riportano una fotografìa in prima pagina, brani di com­
mento nelle due pagine interne e, nell’ultima, la didascalia e “una stella gialla o altri segni cuciti addosso alle vittime del
nazismo”. Gli altri fogli contengono materiali diversi tra cui una bibliografia e una introduzione alla mostra. All’opera si
può fare soltanto un appunto: questa forma a foglietti staccati non favorisce certo la conservazione, ma la configura conme
uno strumento di lavoro di rapido consumo. Forse è stata cosi composta per favorire una fruizione di tipo scolastico, ma la
soluzione adottata rende comunque il lavoro un prodotto culturale almeno in parte sprecato.
41 S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 19.
4~ Scrive A. Gilardi (Un capitolo mancante nella storia della fotografia, cit., p. 23): “Nell’assenza degli ormai riconosci­
bili cadaveri delle arcinote fosse comuni, le altre immagini della Fotografia dello Sterminio hanno un significato solo in
Immagini della seconda guerra mondiale
Esse dimostrano che molti ricercatori sono in
grado di effettuare serie ricerche negli archivi
fotografici di guerra43, valutando l’impor­
tanza delle diverse immagini e identificando
esattamente tempi, luoghi, persone e circo­
stanze, mentre contemporaneamente — ma
accenniamo soltanto a questo tema — anche
molte opere divulgative sono corredate da un
apparato fotografico preciso, spesso origina­
le e strettamente correlato al testo, tanto da
costituirne una diretta integrazione44.
Sarebbe quindi auspicabile superare sem­
pre più un uso impreciso e generico delle foto
di guerra43, considerate mere “appendici” ai
testi. Alle origini dell’approccio documenta­
rio alla fotografia di guerra vi sono probabil­
mente i volumi fotografici di storia locale e
quelli di storia militare relativi alle armi e ai
mezzi, spesso al confine del collezionismo.
Un’ultima critica applicabile a quasi tutti i
volumi oggi disponibili è l’assenza, nelle di­
dascalie, delle indicazioni relative alla prove­
nienza dell’immagine, al suo numero di cata­
logazione, all’autore nei rari casi in cui è pos­
sibile l’identificazione, e via dicendo. Ma è
proprio, naturalmente, il limitato uso docu­
729
mentario della fotografia ad aver ostacolato
anche la stesura, per ciascuna immagine, dei
riferimenti completi indispensabili per un
suo uso critico, così come viene normalmente
fatto presentando un documento (scritto)
d’archivio.
Confrontando il loro lavoro con molti dei
volumi citati, appare evidente che i seleziona­
tori dei filmati della serie televisiva “Combat
film” (prima serie) devono ancora fare parec­
chia strada per raggiungere i migliori ricerca­
tori fotografici. Anche nella seconda serie gli
autori del programma, pur appoggiandosi a
seri studiosi — forse più usati per legittimare
la pretesa scientifica del programma stesso
che per impostare effettivamente il discorso
svolto attraverso le immagini — per esamina­
re i documenti visivi selezionati, dimostrano
di cadere ancora negli equivoci — e nelle
trappole — di una documentazione di propa­
ganda bellica, magari — ma è una ipotesi —
trascurando immagini forse meno appari­
scenti, suggestive o drammatiche, ma di mag­
giore valore storico.
Paolo Ferrari
Achille Rastelli
rapporto alla cultura degli eventi acquisita con la lettura di testi storici affidabili [...] La Fotografia ha una efficacia il­
lustrativa e educativa, secondo la quantità di conoscenza storica relativa, che il soggetto possiede e amalgama con le
immagini” .
4:! E ovviamente non soltanto in quelli di guerra. Si potrebbero citare ovviamente vari autori, ed è significativo anche un
interesse specifico di molte riviste per la fotografia, da “Passato e presente” a “Ventesimo secolo”, fino a riviste anche
in misura più o meno ampia divulgative (differenti per impostazione e risultati) come “Storia e dossier”, “Rivista sto­
rica”, “Storia illustrata” e “Storia militare” (alla quale chi scrive collabora direttamente). La quasi neonata rivista
“Memoria e ricerca” dedica una rubrica alla documentazione iconografica: cfr. gli articoli di Piero Lucchi, Edoardo
Turci, Sant’Angelo di Gatteo, anno 1937-XV: vivere nel "Tignai", (1993, n. 1) e di Giordano Conti, Sergio Leonetti,
I! mondo di sotto. Immagini di vita e lavoro per un museo della Romagna mineraria (1994, n. 2). Mentre questo articolo
è in corso di stampa è uscito un volume di notevole interesse, la Storia fotografica della Resistenza, a cura e con Intro­
duzione di Adolfo Mignemi (Torino, Bollati Boringhieri, 1995).
44 Si vedano per esempio i volumi di Marc Ferro, La seconda guerra mondiale. Problemi aperti, e di Enzo Collotti, Hitler
e il nazismo, editi nella “Collana XX secolo” di Giunti gruppo editoriale (Firenze) rispettivamente nel 1993 e nel 1994.
43 Spesso le foto o i filmati che appaiono in servizi di attualità o anche in ricostruzioni storiche si riferiscono a zone,
contendenti, periodi diversi da quelli trattati dal testo redatto dall’autore della trasmissione. Sicuramente influisce la
difficoltà di avere sempre immagini precise, ma soprattutto divengono determinanti il disinteresse per un uso delle im­
magini accurato e preciso dal punto di vista documentario e l’attenzione prevalente al risultato estetico e drammatico.
Un discorso analogo vale per molte videocassette (cfr. Giuliana Muscio, Il dibattito sulla Resistenza nelle videocassette
edite, “Protagonisti” , n. 56, 1994).
ISTITUTO NAZIONALE PE R LA STORIA DEL MOVIMENTO
D I LIBERAZIONE
Gianni Perona (a cura di), Formazioni autonome nella Resistenza. Documenti, Milano,
Angeli, 1996, pp. 563, lire 72.000.
Le quattro serie di documenti raccolte in questo volume sono la continuazione del lavoro di
edizione di fonti promosso daH’Insmli che ha già visto la pubblicazione degli A t t i d e l C o m a n ­
d o g e n e ra le d e l C o rp o v o lo n ta ri d e lla lib e rtà (Angeli, 1972), de L e b r ig a te G a r ib a ld i n e lla
R e s is te n z a (Feltrinelli, 1979) e de L e fo rm a z io n i G l n e lla R e s is te n z a (Angeli, 1985). Con que­
sto volume - che analizza l’universo variegato delle formazioni partigiane nelle quali si rac­
colsero patrioti che ritenevano preminenti, su quelli partitici, interessi definibili genericamen­
te come nazionali o di importanza regionale - si arricchisce così un c o r p u s fondamentale
per lo studio della Resistenza armata.
Indice
Gianni Perona, U n a le ttu ra d e i d o c u m e n ti p a r tig ia n i ; 1. I m ilita r i n e l C o m a n d o g e n e r a le , a
cura di Gaetano Grassi e Gabriella Solaro; D o c u m e n ti ; 2. L e fo rm a z io n i O s o p p o F riu li, a cu­
ra di Alberto Buvoli; D o c u m e n ti, 3. Il p r im o g r u p p o d i d iv is io n i a lp in e in P ie m o n te , a cura di
Luciano Boccalatte; D o c u m e n ti 4. M ilita ri e R e s is te n z a in T o s c a n a , a cura di Maria Giovan­
na Bencistà e Giovanni Verni; D o c u m e n ti. Indice dei nomi; Indice dei nomi geografici; Indice
degli enti e degli organismi.
ITALIA CONTEMPORANEA
A cquisto di singoli fascicoli: è possibile ricevere, senza aggravio di spe­
se postali, singoli numeri di “ Italia contemporanea” al prezzo unitario di co­
pertina di lire 25.000.
Abbonam ento annuo 1996: lire 80.000 per l’Italia e lire 110.000 per l’estero.
I versamenti devono essere eseguiti sul CCP n. 16835209 intestato all’Isti­
tuto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Piazza
Duomo 14, 20122 Milano), specificando se si tratta di abbonamento o della
richiesta di uno o più fascicoli. I singoli numeri della rivista possono anche
essere inviati, a richiesta, in contrassegno.
La “lotta di classe nella scienza storica”
Il processo contro gli accademici sovietici 1929-1931
Antonella Salomoni
Con la pubblicazione del volume iniziale di
una ricca collezione di documenti intitolata
Akademiceskoe deio 1929-1931 gg. [Il proces­
so agli accademici. 1929-1931] si può final­
mente cominciare a conoscere il contenuto
di uno dei primi e forse dei più importanti
processi politici dell’età staliniana1. Ma so­
prattutto, secondo l’intenzione esplicita dei
curatori, si possono ricostruire le complesse
modalità di “fabbricazione” giudiziaria del
caso ad opera della speciale commissione in­
caricata di allestire e concludere l’inchiesta.
L’intera vicenda venne definita come Vakade­
miceskoe deio, perché coinvolse un nutrito
gruppo di studiosi e ricercatori dell’Accade­
mia delle scienze dell’Unione delle repubbli­
che socialiste sovietiche (AN SSSR). Gli arre­
sti degli indiziati, che cominciarono nell’otto­
bre del 1929, coinvolsero oltre cento persone
e portarono alla fine dell’autonomia della
prestigiosa istituzione scientifica russa. Fra
gli studiosi implicati figuravano quattro illu­
stri membri ordinari dell’Accademia (Sergej
F. Platonov, Evgenij V. Tarle, Nikolaj P. Lichacev, Matvej K. Ljubavskij) e cinque soci
corrispondenti, oltre a numerosi esponenti
degli istituti superiori di ricerca, al centro e
in periferia. Gli storici, in particolare, furono
accusati di aver svolto attività controrivolu­
zionaria collaborando alla creazione dell’U­
nione nazionale di lotta per la rinascita di
una Russia libera. Questa organizzazione si
sarebbe proposta di abbattere il potere sovie­
tico e ristabilire la monarchia; avrebbe allac­
ciato rapporti con l’emigrazione bianca e con
i rappresentanti di alcuni governi stranieri;
avrebbe allestito una rete spionistica interna
nell’interesse di altre potenze. L’inchiesta si
protrasse per oltre un anno e si concluse
con la condanna di quasi tutti gli imputati al­
la fucilazione o a dure pene detentive. La re­
visione del processo sarà avviata immediata­
mente dopo il XX congresso e si concluderà
nel 1966-1967 con la piena riabilitazione delle
vittime2.
Il primo volume della collezione Akademi­
ceskoe deio 1929-1931 gg. contiene i materiali
riguardanti uno dei principali accusati, Ser­
gej Fedorovic Platonov (1860-1933), al quale
fu assegnato il ruolo di capo della presunta
1 Akademiceskoe deio 1929-1931 gg. [Il processo agli accademici. 1929-1931], voi. I, Deio po obvineniju akademika S. F.
Platonova [Gli atti di accusa contro l’accademico S. F. Platonov], Sankt-Peterburg, Biblioteka Rossijskoj Akademii
nauk, 1993. Il comitato di redazione del volume è formato da Z. I. Alferov, B. V. Anan’ic, V. P, Leonov, E. V. Lukin,
V. M. Panejach, S. V. Stepasin, A. N. Camutali. L’edizione è a cura di V. P. Zacharov, M. P. Lepechin e E. A. Fomina.
2 Per avere informazioni precise sulle pene inflitte e sul successivo destino dei condannati, cfr. Akademiceskoe deio, cit.,
voi. I, pp. XLVIII-XLIX. Sul processo di riabilitazione delle vittime delle repressioni avviato immediatamente dopo la
morte di Stalin, vedi A. P. Van Goudoever, The Limits of Destalinization in the Soviet Union. Political Rehabilitations in
the Soviet Union since Stalin. New York, St. Martin’s Press, 1986; Maria Ferretti, La memoria mutilata. La Russia ri­
corda. Milano, Corbaccio, 1993, pp. 25-49.
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
732
Antonella Salomoni
“unione controrivoluzionaria”3. Platonov è
stato un protagonista della storiografia libe­
rale russa del primo novecento. Oltre che alla
smuta (l’epoca dei torbidi tra Cinquecento e
Seicento), ha legato le sue ricerche al tema
del ruolo predominante dello Stato nello svi­
luppo e condizionamento della storia russa,
insistendo soprattutto sul fatto che, per via
dell’incessante e molteplice pressione militare
sui confini dell’impero, l’organizzazione in­
terna della società è sempre stata subordinata
alle necessità belliche. Non c’è da stupirsi
dunque che, con la dissoluzione dell’Urss,
vi sia stata una crescente valorizzazione della
sua opera critica: una rivalutazione culmina­
ta nella ripresa da parte di diverse case editri­
ci del manuale di storia russa preparato per la
scuola secondaria nel 1909-19IO4.
Nel periodo prerivoluzionario, proprio at­
torno a Platonov si era formata una tenden­
za, che ha poi ricevuto il nome di Scuola pietroburghese degli storici russi, orientata —
come si diceva allora — verso lo studio, “im­
parziale” dei fatti e impegnata nell’analisi,
“obbiettiva” delle fonti, oltre che interessata
(come del resto numerose altre correnti della
storiografia occidentale) alla definizione del­
le leggi di sviluppo storico delle nazioni. È in­
fatti solo l’accettazione dell’idea che vi sia
una legge che determina il corso locale degli
avvenimenti a giustificare la fondatezza di
uno studio che sia imparziale e di un’analisi
che sia obbiettiva. Platonov viene oggi consi­
derato, dalla cultura russa, come modello
dello “storico-oggettivista” (istorik-ob’ektivisi), del “fattografo” (faktograf); come so­
stenitore di un realismo scientifico che si af­
ferma in primo luogo con un approccio alla
fonte storica non inquinato da mediazioni
ideologiche.
L’interesse odierno per Platonov è indice
di un’attenzione molto più vasta per quella
scuola storica “ positivistica” composta da
uomini attenti ai metodi di ricerca del marxi­
smo (soprattutto legale), ma culturalmente
estranei al sistema dei partiti socialdemocra­
tici e politicamente refrattari alla rivoluzione
bolscevica. Molti di questi storici, all’inizio
degli anni venti, rifiutarono sia la scelta del­
l’emigrazione che quella dell’adeguamento
ideologico. Essi, sostenendo la possibilità di
una scienza storica apartitica, iniziarono la
loro collaborazione con il potere comunista
e cercarono di rimanere ben saldi all’interno
delle prime istituzioni sovietiche. Platonov,
ad esempio, a partire dalla primavera del
1918, affianca lo studioso marxista David
B. Rjazanov nella salvaguardia e riorganiz­
zazione degli archivi e delle biblioteche di
Pietrogrado. Come direttore della sezione lo­
cale dell’Archivio centrale (1918-1923), svol­
ge un’attività capitale per la riunificazione
dei più importanti fondi archivistici ereditati
dai dicasteri e dalle amministrazioni del vec­
chio regime. Ricopre poi, nella sua intensa
“carriera sovietica”, numerosi altri incarichi
di prestigio: è presidente della Commissione
archeografica (1918-1929), direttore dell’Isti­
tuto archeologico (1918-1923), presidente
della Sezione archeologica della facoltà di
scienze sociali dell’università di Pietrogrado
(dall’aprile del 1923), direttore della Com­
missione di studio per la storia del lavoro in
Russia, presidente della Società archeologi­
ca, dell’Unione degli archivisti e del Comita­
to per lo studio della pittura anticorussa, ol-
3 Gli editori hanno già annunciato che il secondo volume conterrà i materiali dell'inchiesta contro lo storico Evgenij V.
Tarle. E anche previsto uno speciale volume di consultazione con l’elenco di tutti i documenti pubblicati, un indice an­
notato degli autori citati e un indice cronologico per l’intera edizione.
4 Cfr. Sergej F. Platonov, Ivan Groznyj [Ivan il Terribile], Moskva, Vsesojuznaja knionaja palata, 1991; Id., Ucebnik
russkoj istorii [Manuale di storia russa], Moskva, Progress-politika, 1992; Id., Lekcii po russkoj istorii [Lezioni di storia
russa], Moskva, Vyssaja skola, 1993; Id., Sobranie socinenij po russkoj istorii [Raccolta delle opere di storia russa], 2
voli., Sankt-Peterburg, Strojlespecat’, 1993-1994; Id., Ucebnik russkoj istorii dlja srednej skoly [Manuale di storia russa
per la scuola secondaria], Moskva, Zveno, 1994.
La “lotta di classe nella scienza storica”
tre che redattore di importanti riviste specia­
lizzate. Il 3 aprile 1920 è eletto membro effet­
tivo dell’AN SSSR e nel 1922 gli viene affida­
ta la direzione della Commissione storica
permanente. Nel 1925 è nominato direttore
della Casa Puskin e della Biblioteca dell’AN
SSSR. Il 7 marzo 1929 l’assemblea generale
dell’AN SSSR lo elegge accademico-segreta­
rio della sezione di scienze umane5.
Gli studi che abbiamo a disposizione per
comprendere adeguatamente la “carriera so­
vietica” di un uomo come Platonov (sia per
quanto riguarda il versante della volontà di
promozione di uno specialista senza partito,
sia per quanto riguarda la disponibilità del­
l’interessato a farsi coinvolgere come orga­
nizzatore di cultura in un sistema politico
che non condivideva) sono ancora pochi e
piuttosto modesti. Per quanto Platonov non
vi venga nemmeno citato, si può ritenere tut­
tavia ch’egli faccia legittimamente parte di
quell’intreccio che Mikhail Agursky, ne La
terza Roma, ha chiamato “la continuità cul­
turale”6. A questo proposito ci possono esse­
re di qualche aiuto alcune osservazioni intro­
duttive delle Lezioni di storia russa dello stes­
so Platonov (iniziate nel 1899), oggi frequen­
temente citate come esempio a chi, intrapren­
dendo il lavoro di storico della Russia, voglia
733
sostituire alle generalizzazioni economicisti­
che sovietiche quelle derivanti dalle partico­
lari leggi di sviluppo della nazione7. Si tratta
di enunciati analoghi a quelli che, dal provvi­
sorio esilio parigino, esprimerà, accettando
lo schema “ nazionalbolscevico” , l’ultimo
procuratore del sinodo della chiesa russa:
“Nel paese [la Russia] in cui è stata procla­
mata, [l’idea comunista] non produrrà alcun
risultato. La rivoluzione, spogliata di tale
idea, seguirà il cammino della necessità stori­
ca, sottomettendosi alle catene delle leggi del­
la storia”8. Chi conosce la letteratura storica
della socialdemocrazia russa bolscevica e poi
del partito comunista dell’Urss, una produ­
zione costruita come applicazione dell’idea
di “necessità” e di “legge”, dovrà riflettere
di più sulle contrapposte implicazioni politi­
che di un metodo di lavoro che, per troppi
versi, coincide. E allora avrà forse meno mo­
tivi per stupirsi dell’inversione improvvisa
che si verifica nella “carriera sovietica” di
Platonov e dell’apertura del processo agli
storici dell’Accademia delle scienze. L’8 no­
vembre Platonov è costretto a dimettersi dal­
l’incarico di accademico-segretario della Se­
zione di scienze umane, oltre che dal posto
di membro del Presidium dell’AN SSSR. Il
12 gennaio 1930 viene arrestato dalla polizia
5 Sullo storico Platonov, cfr. Viktor S. Bracev, Opasnaja professija — istorik. Stranicy zizni akademika S. F. Plalonova
[Una professione pericolosa: lo storico. Pagine di vita dell’accademico S. F. Platonov], “Vestnik AN SSSR”, 1991, n. 9,
pp. 65-73; Id., Zizn’ i trudy S. F. Platonova [La vita e le opere di S. F. Platonov], in S. F. Platonov, Sobranie socinenij,
cit., voi. I, pp. 11-33, e il profilo biografico pubblicato in Akademiceskoe deio, cit., voi. I, pp. LXIII-LXXIV. Per alcuni
aspetti particolari dell’attività di Platonov durante il primo decennio postrivoluzionario, si possono aggiungere: Viktor
S. Bracev, Zarubeznyepoezdki akademika S. F. Platonova [I viaggi all’estero dell’accademico S. F. Platonov], in lz istorii
rossijskoj emigracii [Sulla storia deU’emigrazione russa], Sankt-Peterburg, Tret’ja Rossija, 1992; Id., 1917 goda v osvescenii S. F. Platonova [L’anno 1917 secondo S. F. Platonov], in Rossija v 1917 godu. Novye podchody i vzgljady [La Rus­
sia nel 1917. Nuove concezioni ed opinioni], voi. II, Sankt-Peterburg, Tret’ja Rossija, 1993.
6 Mikhail Agursky, La terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, Bologna, Il Mulino, 1989.
7 Cfr. Sergej F. Platonov, Lekcii po russkoj istorii [Lezioni di storia russa], in Id., Sobranie socinenij, cit., voi. I, p. 40:
“Per comprendere la natura e il significato di un determinato fatto nella storia della Rus’ [kieviana], lo storico russo può
cercare delle analogie nella storia universale. Con i risultati raggiunti, egli può essere di aiuto a chi si occupa di storia
universale e dare il proprio contributo alla fondazione di una sintesi storica generale. Ma a questo si limita il suo legame
con la storia generale e la sua influenza su di essa. Lo scopo ultimo della storiografia russa resterà sempre la costruzione
di un sistema del processo storico locale”.
8 Vladimir L’vov, Sovetskaja vlast’ v bor'be za russkuju gosudarstvennost' [Il potere sovietico in lotta per l’edificazione
dello stato russo], Berlin, 1921, pp. 3-4. Cfr. M. Agursky, La terza Roma, cit., p. 421.
734
Antonella Salomoni
politica (OGPU) di Leningrado. Espulso dall’AN SSSR e condannato alla deportazione,
muore a Samara, per malattia, il 10 gennaio
1933.
Il caso Platonov va letto nel quadro della
trasformazione del ruolo sociale delle discipli­
ne storiche nella Russia sovietica degli anni
venti. Si poteva, nel momento stesso in cui il
comuniSmo al potere si accingeva a dotare
l’Urss del suo mito fondatore (la “lotta di clas­
se”), affidare la definizione delle leggi di svi­
luppo della storia proprio a chi vedeva iscritto
in queste leggi il processo di riduzione dell’e­
vento rivoluzionario (l’apice armato della lot­
ta di classe) al corso generale della storia rus­
sa? Si poteva accettare la presenza, ai vertici
“amministrativi” della disciplina, di specialisti
il cui principale obbiettivo era quello di pre­
sentare tutto il processo storico (anche la lotta
di classe) come manifestazione del ruolo cen­
trale dello Stato nella storia russa? Si poteva,
quando ormai era chiaro che si trattava di co­
struire il socialismo in un solo paese, lasciare
circolare l’idea che l’organizzazione (militare)
della società fosse determinata — come nel­
l’antica Russia — dai nemici in armi sui con­
fini invece che dall’ideologia comunista?
Una serie di interventi dello Stato (fonda­
zione di alcuni importanti enti di ricerca co­
me l’Accademia comunista, l’Istituto per la
storia del partito, l’Istituto dei professori ros­
si, l’Istituto Lenin, l’Istituto Marx-Engels e
l’Associazione degli istituti di scienze sociali)
aveva gettato le basi per organizzare, a tutti i
livelli, una “spiegazione comunista” degli
eventi del passato, anche quello più remoto.
Non restava che concluderla con l’assogget­
tamento definitivo delle istituzioni che non
volevano accettare le leggi “comuniste” di
sviluppo della storia russa e, operando il ri­
getto dell’interpretazione di Stato che stava
“creando” il passato, rompevano lo schema
primario messo alla base del “patto” stabili­
to tra il governo sovietico e gli specialisti su­
bito dopo la Rivoluzione d’ottobre. Lo sche­
ma, proposto dal potere comunista e accetta­
to da molti intellettuali di mestiere, prevede­
va infatti, per esprimerci nel linguaggio di
Platonov, “l’obbligo di raccogliere semplicemente i fatti e illustrarli” , cioè “dare loro
un’elaborazione scientifica elementare”, pri­
ma di consegnarli a coloro che, reggendo l’uf­
ficio delle generalizzazioni, avevano il compi­
to di organizzarli in ideologia di Stato9.
Tra le principali operazioni d’assoggetta­
mento vanno ricordate: la cessazione dell’in­
segnamento delle materie storiche nella scuo­
la secondaria; la liquidazione delle facoltà
storico-filologiche e la svalutazione dei loro
saperi. Non si deve però pensare che lo stato
operaio, rinunciando ad uno dei principali
dispositivi di formazione dello stato moder­
no, avesse elaborato un progetto per costi­
tuirsi ed esistere come stato senza un “passa­
to” ; avesse stabilito un progetto di società
che, per fondare la propria identità, non
avesse bisogno della “storia” . Lo stato ope­
raio, orientando dapprima gli operatori cul­
turali verso tematiche di attualità — legate
tutte alla storia della lotta di classe — e poi
cercando di costituire il grande archivio
“orale” della rivoluzione, si sforzerà proprio
di sostituire la “memoria” dei protagonisti
alla “storia” dei ricercatori. Il nuovo orienta­
mento che si fa strada è quello della “lotta di
classe sul fronte storico” , sostenuto dalla
“ scuola marxista” di Michail N. Pokrovskij10, che riteneva giunto il momento di su-
9 S. F. Platonov, Lekcii po russkoj istorii, cit., p. 40.
10 Sulla figura di Michail Nikolaevic Pokrovskij (1868-1932), cfr. George M. Enteen, The Soviet Scholar-Bureaucrat. M.
N. Pokrovskii and the Society of Marxist Historians, University Park (London), Pennsylvania State University Press,
1978; John Barber, Soviet Historians in Crisis 1928-1932, London, Macmillan, 1981; A. A. Cernobaev, "Professor s pikoj”, ili tri zizni istorika M. N. Pokrovskogo [Il “professore con la picca”, o le tre esistenze dello storico M. N. Pokrov­
skij], Moskva, 1992.
La “lotta di classe nella scienza storica”
perare l’epoca del compromesso con gli stu­
diosi non bolscevichi11. Venne creata una “li­
nea di combattimento” contro gli storici
“borghesi”, considerati avversari della classe
operaia e del governo proletario, apologeti di
un altro ordine sociale1112. L’AN SSSR era
considerata uno dei santuari del loro potere
e bisognava piegarla ai disegni dello Stato
operaio.
L’accademia si presentava in effetti, fino al
1929, come un centro di studiosi senza parti­
to. Pur contrastando la Rivoluzione d’otto­
bre, aveva accettato i rivolgimenti della vita
politica del paese offrendo la sua collabora­
zione al governo bolscevico. Aveva sostan­
zialmente conservato la sua autonomia, di­
fendendo le prerogative di cui godeva contro
tutti i tentativi dello stato sovietico di regola­
mentare l’attività degli enti di ricerca. Il 31
maggio 1927, il Consiglio dei commissari
del popolo (Sovnarkom) approvò però un
nuovo statuto, che ne ampliava l’organico
ed estendeva, a strutture scientifiche non ac­
cademiche e a diverse organizzazioni sociali,
il diritto di proporre e discutere le candidatu­
re di nuovi membri. S’introdusse inoltre l’ob­
bligo di privilegiare le scienze più utili all’edi­
735
ficazione economica e culturale del paese,
aprendo così la strada alla valorizzazione
delle scienze applicate a danno di quelle pure.
Si creò un’unica sezione di scienze umanisti­
che sottraendo influenza a quella che veniva
considerata la parte più conservatrice dell’i­
stituzione e ponendo in questo modo le pre­
messe per spostare il centro di gravità del la­
voro accademico verso i saperi tecnici e scien­
tifici. In definitiva, il nuovo statuto costituiva
il primo atto destinato a porre l’istituto sotto
il controllo governativo, a limitare la sua
autonomia, a sottomettere all’approvazione
del Sovnarkom i suoi piani di lavoro. Sotto
il pretesto di democratizzare la struttura ac­
cademica ed elevare la sua autorità scientifi­
ca, si esercitava una pressione sulla sua orga­
nizzazione13. L’AN SSSR riuscì a resistere
tuttavia, per qualche tempo, ai tentativi di
bolscevizzazione. Nel marzo del 1928 si pote­
vano contare al suo interno solo 7 membri ef­
fettivi e 4 candidati a membri del partito. Nel
luglio 1929, su 1158 addetti, i membri del
partito erano 16. Per porre rimedio a questa
situazione ormai anomala si tentò di sostitui­
re l’AN SSSR con altre strutture, alle dirette
dipendenze del potere centrale e sottoposte
11 Per uno sguardo d'insieme sui rapporti tra la scuola storica ufficiale, guidata da Pokrovskij, ed alcuni autorevoli rap­
presentanti del mondo accademico, cfr. V. S. Bracev, Opasnaja professija, cit., pp. 66, 70-71. Negli ultimi anni è iniziata
la pubblicazione di una serie di documenti d’archivio volti a dimostrare il ruolo negativo esercitato da Pokrovskij e di­
mostrare la sua attiva collaborazione con l'OGPU nell’opera di controllo e repressione degli storici non marxisti (cfr. A.
V. Esina (a cura di),"Mne ze oni soversenno ne nuzny" (Sem'pisem iz licnogo archiva akademika M. N. Pokrovskogo)
[“Non mi servono affatto” (Sette lettere dall’archivio personale dell’accademico M. N. Pokrovskij)], “Vestnik RAN”,
1992, n. 6, pp. 103-114; Michail N. Pokrovskij, K otcetu o dejatel’nosti Akademii nauk za 1926 g. [In occasione del rap­
porto sull’attività dell'Accademia delle scienze per il 1926], in Zven’ja. Istoriceskij al'manach [Elementi. Almanacco sto­
rico], II, Moskva-Sankt-Peterburg. Feniks-Atheneum, 1992, pp. 580-599).
12 Per studiare la critica bolscevica della “vecchia scuola” sono fondamentali: Sergej A. Piontkovskij, Velikorusskaja
burzuaznaja isloriografija poslednego desjatìletija [La storiografia borghese grande russa dell’ultimo decennio], “ Istorik-Marksist”, 1930, n. 18-19, pp. 157-176; Grigorij Zajdel’, Michail Cvibak, Klassovyj vragna istoriceskom fronte: Tarle i Platonov i ich skoly [Il nemico di classe sul fronte storico: Tarle, Platonov e le loro scuole], Moskva-Leningrad, Gosudarstvennoe social’no-ekonomices koe izdatel’stvo, 1931; Sergej A. Piontkovskij, Burzuaznaja istoriceskaja nauka v
Rossii [La scienza storica borghese in Russia], Moskva, 1931: M. N. Rubinstejn, Klassovaja bor’ba na istoriceskom fronte
[La lotta di classe sul fronte storico], Ivanovo-Voznesensk, 1931; Vreditel’stvo na fronte istoriceskoj nauki [Il sabotaggio
sul fronte della scienza storica], “Problemy Marksizma", 1931, n. 3, pp. 86-126; Zapartijnost’ v istoriceskojnauke [Per la
partiticità nella scienza storica], Moskva, 1932.
13 Ustavy Akademii Nauk SSSR [Gli statuti dell’Accademia delle scienze dell’Urss], Moskva, Nauka, 1975, pp. 120-129.
Su questo punto cfr. le prime precisazioni di A. N. Gorjainov, Esce raz ob "akademiceskoj istorii" [Ancora una volta
sulla “storia accademica”], “Voprosy Istorii”, 1990, n. 1, pp. 180-181.
736
Antonella Salomoni
ad un rigido controllo degli organi politici14.
Nel contempo s’intensificarono gli attacchi
ideologici, in particolare contro la sezione
storico-filologica, considerata una cittadella
della vecchia storiografia.
Grazie ai recenti studi pubblicati in Russia
è ormai possibile ricostruire le diverse tappe
di questo primo episodio della “lotta di classe
nella scienza storica” e analizzare il meccani­
smo dell’espansione deH’influenza del partito
e dello stato in questo ambito. L’offensiva
contro l’autonomia dell’AN SSSR fu lancia­
ta nel 1928, per mezzo di una violenta campa­
gna di stampa contro il vecchio corpo acca­
demico. L’attacco venne organizzato direttamente dal comitato regionale di Leningrado
del partito comunista e condotto principal­
mente attraverso il suo organo a stampa, la
“ Leningradskaja Pravda” 15. Si trattava di
preparare le nuove elezioni nell’AN SSSR
che si dovevano tenere il 12 gennaio 1929.
Al fine di trasformare l’istituto di ricerca in
uno strumento fedele al governo non si scelse
tuttavia la strada delle misure repressive (co­
me, per esempio, l’espulsione degli accademi­
ci “reazionari”), ma si decise di procedere al­
la progressiva “sovietizzazione” dell’appara­
to attraverso 1’inserimento di studiosi comu­
nisti da affiancare all’ala conservatrice della
cultura. Le elezioni vennero scrupolosamente
preparate dagli organi direttivi del partito,
che avanzarono delle candidature forti e det­
tero delle precise indicazioni di voto16. Ven­
nero così nominati accademici, fra gli altri,
alcuni noti esponenti bolscevichi: Nikolaj I.
Bucharin, Ivan M. Gubkin, Gleb M. Kroioanovskij, Michail N. Pokrovskij, David B.
Rjazanov. Il 13 febbraio inoltre, durante
una sessione straordinaria, vennero ammessi
anche alcuni membri respinti alle precedenti
votazioni: Abram M. Deborin, Nikolaj M.
Lukin, Vladimir M. Frice17.
Le elezioni di gennaio e febbraio non riusci­
rono tuttavia ancora a garantire il pieno con­
trollo del partito. Si aprì allora una seconda
fase che vide il Politbjuro partecipare direttamente alla gestione dell’AN SSSR con il con­
corso degli accademici bolscevichi (aprile
1929). Seguì una terza fase con l’intervento
dell’OGPU e l’avvio di una purga delle strut­
ture accademiche guidata da una commissione
governativa. Ufficialmente la purga rientrava
nel quadro di una più ampia revisione dell’ap­
parato amministrativo di stato, iniziata a Le­
ningrado a partire dal primo luglio 1929.1dati
ufficiali danno un’idea piuttosto precisa delle
14 È il caso della fondazione, nell’aprile del 1927, del Varnitso (Associazione pansovietica dei lavoratori della scienza e
della tecnica per contribuire alla costruzione socialista) studiato da I. A. Tugarinov, VARNITSO i Akademija nauk
(1927-1937 gg.) [11 Varnitso e l’Accademia delle scienze (1927-1937)], “Voprosy Istorii Estestvoznanija i Techniki”,
1989, n. 4, pp. 46-55; Id., Istorija VARNITSO, ili kak lornali Akademiju v "god velikogo pereloma” [La storia del Var­
nitso, o come fu demolita l’Accademia nell’“anno della grande svolta”], “Priroda”, 1990, n. 7, pp. 92-101.
15 La campagna di stampa, che fu particolarmente virulenta nei mesi di giugno e ottobre del 1928, è stata studiata da A.
N. Gorjainov, "Leningradskja pravda" — kollektivnyj organisator "velikogopereloma" v Akademii nauk [La “Leningrad­
skaja Pravda” : l’organizzatore collettivo della “grande svolta” nell’Accademia delle scienze], “Vestnik AN SSSR”,
1991, n. 8, pp. 107-114.
16 Cfr. Feliks F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome" [L’Accademia delle scienze durante la “grande svol­
ta”], in Zven’ja. Istoriceskijal’manach [Elementi. Almanacco storico], voi. I, Moskva, Progress-Feniks-Atheneum, 1991,
pp. 175-185.
17 Sulla sovietizzazione dell’apparato dell’AN SSSR e le elezioni del 1929, cfr. Viktor S. Bracev, Ukroscenie stroplivoe,
ili kak AN SSSR ucili poslusaniju [La caparbietà domata, o come s’insegnò l’ubbidienza all’Accademia delle scienze dell’Urss], “Vestnik AN SSSR”, 1990, n. 4, pp. 120-127; A. V. Kol’cov, Vybory v Akademiju nauk SSSR v 1929 g. [Le ele­
zioni presso l’Accademia delle scienze dell’Urss nel 1929], “Voprosy Istorii Estestvoznanija i Techniki”, 1990, n. 3, pp.
53-66; P. K. Kokovcov, Dlja ustanovlenija istiny [Per ristabilire la verità], in Kunstkamera. Elnograficeskie leiradi
[Kunstkamera. Quaderni etnografici], voi. I, Sankt-Peterburg, 1993, pp. 151-156; Alevtina I. Alatorceva, Kak nacinalas'
",sovetizacija" Akademii nauk [Come iniziò la “sovietizzazione” dell’Accademia delle scienze], in Rossija v XX veke. Isloriki mira sporjal [La Russia nel XX secolo. Una discussione tra storici di tutto il mondo], Moskva, 1994, pp. 719-726.
La “lotta di classe nella scienza storica”
sue dimensioni. Vennero licenziati complessi­
vamente 128 impiegati di ruolo su di un totale
di 960 e 520 soprannumerari su 830. Dalla
cancelleria furono licenziate 11 persone su
99, dal segretariato 4 su 15, dalla biblioteca
36 su 149, dalla Casa Puskin 4 su 2918.
In un primo tempo la campagna di diffa­
mazione pubblica, gli interrogatori, gli inviti
alle delazioni ed infine i licenziamenti vennero
imputati alla presenza tra i collaboratori di
uno strato abbastanza numeroso di “elementi
estranei e pericolosi”. Ben presto, però, si fece
ricorso ad un argomento più sicuro: il “rinve­
nimento”, da parte della commissione gover­
nativa, in un fondo non catalogato della bi­
blioteca dell’AN SSSR, il 19 ottobre 1929,
di una serie d’importanti documenti di Stato.
A questo primo ritrovamento fece seguito la
“scoperta” di altri materiali presso la Casa
Puskin e la Commissione archeografica. Essi
comprendevano alcuni esemplari originali
del manifesto di abdicazione di Nicola II e
della rinuncia di suo fratello Michail a succe­
dergli sul trono, scritture del partito socialista
rivoluzionario e del comitato centrale del par­
tito cadetto, carte dell’ex-ministro del gover­
no provvisorio Aleksandr F. Kerenskij e del
marxista legale Petr B. Struve, numerosi ma­
teriali provenienti dagli archivi del diparti­
mento di polizia, delle gendarmerie e della po­
lizia segreta dell’epoca zarista. Si trattava in­
somma di documenti di grande attualità per il
loro contenuto storico-politico e la cui con­
servazione — secondo le disposizioni vigenti
dopo i decreti di centralizzazione archivistica
del giugno 1918 e dell’agosto-settembre 1923
737
— non spettava agli organismi accademici.
Immediatamente dopo il ritrovamento co­
minciarono, a Leningrado, i primi arresti,
che proseguirono a ritmo sempre più intenso
fino al dicembre del 1930 (con particolare fre­
quenza nei mesi di gennaio e febbraio di quel­
l’anno). Gli imprigionamenti, che si erano
estesi a Mosca e alla provincia, coinvolsero
soprattutto lavoratori della sezione di scienze
umanistiche dell’AN SSSR (storici, archivisti,
etnografi, museografi).
Finora sono stati molto rari gli studi che
hanno affrontato questo episodio centrale
per comprendere il destino delle discipline
storiche in Urss dopo il 1930. Le monografie
sovietiche consacrate all’AN SSSR non vi
hanno dedicato che qualche breve cenno.
Mi riferisco qui tanto a quegli interventi
che hanno esplicitamente sostenuto la neces­
sità di un radicale rinnovamento dei quadri
accademici ancora saldamente in mano in
mano alla “vecchia scuola” e refrattari all’in­
gerenza del potere politico, quanto a quelli
che hanno minimizzato la purga del settem­
bre-dicembre 1929 presentandola come una
normale verifica dell’apparato amministrati­
vo o una necessaria riorganizzazione dell’isti­
tuto di ricerca (sollecitata dagli stessi interes­
sati) in vista dei nuovi compiti che lo stato so­
vietico assegnava alla scienza19.1 lavori occi­
dentali, d’altro canto, scontando soprattutto
il fatto che le informazioni sull’arresto di Platonov e degli altri storici implicati nella vi­
cenda erano estremamente ridotte, si sono
dovuti limitare ai pochi documenti ufficiali
disponibili20. Sono state le memorie di alcuni
18 Ju. P. Figatner, Proverka apparata Akademii nauk [La verifica dell’apparato delPAccademia delle scienze], “Vestnik
AN SSSR”, 1930, n. 2, pp. 73-76.
19 Ad esempio: V. A. Ul’janovskaja, Formirovanie naucnoj intelligencii v SSSR. 1917-1937 gg. [La formazione dell’intelligencija scientifica in Urss. 1917-1937], Moskva, Nauka, 1966, pp. 162-163; V. D. Esakov, Sovetskaja nauka v gody
pervoj pjatiletki. Osnovnye napravlenija gosudarstvennogo rukovodstva naukoj [La scienza sovietica negli anni del primo
piano quinquennale. Principali indirizzi della gestione statale della scienza], Moskva, Nauka, 1971, pp. 195-198; A. V.
Kol’cov, Razvitie Akademii nauk kak vyssego naucnogo ucreodenija SSSR. 1926-1932 [Lo sviluppo dell’Accademia delle
scienze come istituto scientifico superiore dell’Urss. 1926-1932], Leningrad, 1982, pp. 156-157.
20 Loren R. Graham, The Soviet Academy of Sciences and thè Communist Party, 1927-1932, Princeton (N. J.), Princeton
University Press, 1967, pp. 121-130; Alexander Vucinich, Empire of Knowledge. The Academy of Sciences of thè USSR
(1917-1970), Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1984, pp. 127-129.
738
Antonella Salomoni
ricercatori che vissero gli eventi della repres­
sione e pubblicarono le loro testimonianze in
samizdat, alla fine degli anni settanta, a getta­
re per la prima volta una qualche luce sull’ac­
caduto e a sollecitare l’interesse degli studio­
si21. Più di recente, a partire da una meticolo­
sa analisi della stampa quotidiana dell’epoca
pubblicata nella zona di Leningrado, è stata
anche proposta un’ardita, ma assai contesta­
ta, interpretazione dei fatti: i documenti d’ar­
chivio rinvenuti dalla commissione governa­
tiva avrebbero contenuto informazioni assai
compromettenti per alcuni noti esponenti
bolscevichi (in particolare Stalin) che, a loro
tempo, sarebbero stati legati ai servizi segreti
della polizia zarista22.
Sul declinare degli anni ottanta, quando le
istituzioni russe hanno messo a disposizione
degli studiosi un’enorme massa di documenti
conservati da sempre “in regime di rigorosa
segretezza”, è finalmente iniziata la ricogni­
zione delle fonti primarie negli archivi della se­
zione leningradese dell’AN SSSR. tra i fasci­
coli personali dell’accademico Platonov (rac­
colti tra i manoscritti della biblioteca Salty-
kov-scedrin di Pietroburgo) e soprattutto nel
fondo che contiene tutti gli atti istruttori del
ministero della Sicurezza della federazione
russa. Qui sono stati rinvenuti i 17 volumi del­
l’inchiesta giudiziaria assieme ai due tomi del
processo di riabilitazione delle vittime dell’akademiceskoe deio. Mentre, ad opera di Viktor S. Bracev, usciva il primo saggio significa­
tivo sulla “fabbricazione” del dossier contro
Platonov e il gruppo degli storici assediati23,
alcuni studiosi (tra i quali merita una menzio­
ne particolare Feliks F. Percenok) s’impegna­
vano ad approfondire i termini e la portata del
conflitto tra l’istituzione accademica e l’esecu­
tivo sovietico nelle mani di un partito che non
intendeva rinunciare a fare la sua politica cul­
turale24*.Altri studiosi cercavano negli stessi
anni (sotto la direzione di M. G. Jarosevskij)
di misurare gli effetti che, sulla comunità
scientifica dell’Urss, ha esercitato l’ideologizzazione sempre più rigorosa dei saperi e l’inse­
rimento della questione da noi denominata
“autonomia dell’intellettuale” nella “politica
sociale” dello stato23. In quest’ultimo caso,
però, la pur ampia utilizzazione di testi inediti
21 Aleksej Rostov [S. V. Sigrist], Deio cetyrech akademikov [L’affare dei quattro accademici], in Pamjat'. Istoriceskij
sbornik [Memoria. Miscellanea storica], voi. IV, Moskva, 1979, pp. 470-495; N. P. Anciferov, Tri glavy iz vospominanij
[Tre capitoli dai ricordi], in Pamjat'. Istoriceskij sbornik, cit., pp. 57-110 (cfr. Id., Iz vospominanij [Dai ricordi], “Zvezda” , 1989, n. 4, pp. 117-165; Id., Iz dum o bylom. Vospominanija [Dalle riflessioni sul passato. Ricordi], Moskva, 1992).
Aleksey E. Levin, Expedient Catastrophe: A Reconsideralion of thè 1929 Crisis al thè Soviet Academy of Science, “ Slavic Review”, 1988, n. 2, pp. 261-279. Levin ha poi confermato questa ipotesi in "Zagovor monarchistov": komu on byl
nuoen? [Il “complotto dei monarchici”: a chi serviva?], “Vestnik AN SSSR” , 1991, n. 1, pp. 123-129. Una critica alla sua
tesi, effettivamente priva di riscontri oggettivi, è avanzata da I. S. Rozental’, Esce raz o "zagovore monarchistov” [An­
cora una volta sul “complotto dei monarchici”], “Vestnik AN SSSR", 1991, n. 10, pp. 126-128.
23 Viktor S. Bracev, “Delo" akademika Platonova [L’“affare” dell’accademico Platonov], “Voprosy Istorii”, 1989, n. 5,
pp. 117-129. Lo stesso autore ha pubblicato alcuni primi documenti d’archivio inediti: Ispoved' uznika OGPV (Neizvestnaja rukopis’ akademika S. F. Platonova) [La confessione di un prigioniero dell’OGPU (Un manoscritto inedito dell’ac­
cademico S. F. Platonov)], “Vestnik RAN”, 1992, n. 9, pp. 118-128; Pokajanie akademika Platonova [La confessione
dell’accademico Platonov], “Sankt-Peterburgskaja Panorama”, 1993, n. 5, pp. 17-19 (in collaborazione con S. V. Cernov).
24 F. F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome”, cit., pp. 163-235; Id., ‘‘Deio Akademii nauk” [L’“affare del1 Accademia delle scienze”], “Priroda”, 1991, n. 4, pp. 96-104; V. A. Kolobkov, Sergej Platonov: god nakanune aresta
[Sergej Platonov nell’anno prima dell’arresto], in Istocnikovedceskoe izucenie pamjatnikov pis’mennoj kul'tury v sobranjach i archivach GPB. Istorija Rossii XIX-XX vekov [Lo studio documentario dei monumenti della cultura scritta nelle
raccolte e negli archivi della Biblioteca pubblica di stato. La storia della Russia nei secoli XIX-XX], Leningrad, Gosudarstvennaja publicnaja biblioteka im. M. E. Saitykova-S cedrina, 1991, pp. 156-174; Nacalo ‘‘Dela" Akademii nauk
[L’inizio dell’“affare” dell’Accademia delle scienze], “Istoriceskij Archiv”, 1993, n. 1, pp. 79-109.
“3 M. G. Jarosevskij (a cura di), Repressirovannaja nauka [La scienza repressa], Leningrad, 1991.
La “lotta di classe nella scienza storica”
non aveva compreso materiali provenienti da­
gli archivi degli organi di sicurezza (Kgb). E
sono invece proprio questi archivi a offrire,
sparse nei fascicoli contenenti le pratiche degli
studiosi soggetti alla repressione, moltissime
informazioni (protocolli degli interrogatori,
lettere e documenti confiscati, manoscritti di
lavori preparati durante la cattività) utili a
portare in luce quei “meccanismi psicologici”
che sono stati messi in atto per ottenere la col­
laborazione degli intellettuali alla negazione
della propria autonomia26.
Il volume ora curato daH’Accademia russa
delle scienze, in un periodo in cui ferve la
pubblicazione delle fonti d’archivio, fa fare
un notevole passo in avanti alle nostre cono­
scenze relative al rapporto tra le istituzioni
preposte alia produzione della storia e la for­
mazione di un nuovo Stato. La documenta­
zione è preceduta da un ampio saggio storico
che presenta in un insieme organico quasi
tutte le informazioni raccolte in ordine spar­
so negli ultimi anni da un cospicuo numero di
ricercatori. L’avviamento dell'akademiceskoe
deio rappresenterebbe — nella ferrea logica
espansiva della sfera del potere statale — l’al­
largamento, ad un altro soggetto sociale con­
siderato infido, della campagna di purghe
aperta negli ambienti dell’industria e tra gli
organi della burocrazia statale. E questa la
tesi dei curatori dell’opera che, in proposito,
richiamano le analogie con la sequenza di
procedimenti intentati a diversi esponenti
dell’intelligencija tecnica e scientifica che, alla
fine degli anni venti, lavoravano ancora nel­
l’apparato economico sovietico, negli uffici
statististici, nelle imprese di produzione e di­
stribuzione, negli enti per la gestione dell’a­
gricoltura e, soprattutto, nella commissione
statale per la pianificazione.
739
L'akademiceskoe deio occupa gli anni
1929-1931. E dunque coevo a quell’insieme
compatto di procedimenti giudiziari che se­
gnano la “svolta” verso l’età staliniana. Ri­
cordiamo che il 18 maggio 1928 inizia il sachtinskoe deio contro alcuni ingegneri minerari
del bacino del Donee; nel luglio del 1930 ven­
gono arrestati gli economisti Nikolaj D.
Kondrat’ev, Aleksandr V. Cajanov e un
gruppo di agronomi, atto preliminare alla ce­
lebrazione della causa contro il sedicente Par­
tito dei lavoratori contadini (trudovaja krest’janskaja partija); tra il 25 novembre e il 7 di­
cembre 1930 vengono portati in tribunale i
membri del Partito industriale (prompartija);
nel marzo del 1931 è la volta del processo
contro l’ufficio centrale unificato del comita­
to centrale del Partito menscevico (sojuznoe
bjuro mensevikov). Non basta però dire che i
processi politici, con il loro terrore fisico e
morale, diventano “uno strumento di raffor­
zamento del potere” . Bisogna aggiungere —
insistono i curatori — che costituiscono, nelle
varie fasi di cui si compongono, “una parti­
colare forma di ‘educazione’ delle masse”27.
I processi si trasformarono in “eventi sociali”
a cui parteciparono attivamente i mezzi d’in­
formazione. Le vittime designate, ancor pri­
ma della conclusione delle inchieste e dei pro­
cedimenti giudiziari, venivano giudicati dai
lettori sulla stampa e in assemblee pubbliche.
Si precostituiva in tal modo una partecipa­
zione attiva dei militanti e poi dei cittadini al­
la lotta contro il “nemico (interno) di classe”
indipendentemente dalle responsabilità per­
sonali dell’imputato. Si può parlare, a questo
proposito, di una fase del processo di sovietizzazione della popolazione. Si tratta di
una questione assai rilevante. Anche perché,
concentrando tutta l’attenzione del ricercato­
26 Come ha sottolineato per primo F. F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome", cit., pp. 208-209. Va per
altro segnalato che la ricerca su questi materiali non è stata condotta senza difficoltà nemmeno dagli editori del dossier
Platonov, come risulta da una nota in cui si rivela che non tutti i fascicoli sono stati messi a disposizione degli studiosi
(Akademiceskoe deio, cit., p. XXII).
“7 Akademiceskoe deio, cit., p. XI.
740
Antonella Salomoni
re sui materiali finora utilizzati ci si espone al nati: “Dopo avermi interrogato, mi sottopo­
rischio di vedere unicamente lo scontro tra i nevano i verbali delle mie deposizioni e mi fa­
vertici delle istituzioni politiche e quelli delle cevano cambiare diverse espressioni con al­
istituzioni culturali e si finisce per pensare tre. Queste modifiche non erano mai a mio
che questo conflitto sia stato privo di effetti vantaggio. M’indicavano in quale stile e tono
“sociali” . La lettura della stampa quotidiana dovevo rendere le mie testimonianze, poiché
di partito e della pubblicistica ad alta tiratu­ un rifiuto — mi si diceva — non sarebbe sta­
ra, che si prestarono a diffondere le innume­ to a mio favore. Mi leggevano le deposizioni
revoli richieste di sottomettere l’attività del- di Ljubavskij [un altro degli accademici im­
l’AN SSSR al controllo della obscestvennost’ putati], mi riferivano singoli fatti [confessati
[opinione pubblica] proletaria, lascia invece da altri] e mi obbligavano ad inserirli nelle
intravvedere una forte spinta dal basso intor­ mie deposizioni. Mi costrinsero infine a rico­
no alla parola d’ordine della “ unione di noscermi membro di un’organizzazione della
quale non avevo alcuna cognizione. Io firmai
scienza e lavoro” .
L’“affare Platonov” non fu soltanto una tutto che ciò ch’era stato trascritto dal giudi­
delle prime tappe nella carriera professionale ce istruttore. Non si può condurre un’inchie­
di numerosi agenti della polizia politica, mol­ sta in questo modo. È una falsificazione. Non
ti dei quali resteranno a loro volta vittime potevo protestare di fronte a loro, poiché mi
delle purghe della fine degli anni trenta. Servì avrebbero condannato”28.
Rimangono alcuni punti in sospeso che
anche e soprattutto ad introdurre dei metodi
d’inchiesta che verranno perfezionati e poi sembrano meritevoli di approfondimento.
applicati su vasta scala, tanto nell’attività Come si è detto, i curatori collocano Yakadeteorica che in quella pratica, durante gli anni miceskoe deio nel quadro più ampio dei pro­
del terrore. Gli atti di revisione del processo cessi politici che stanno tra la fine degli anni
per la riabilitazione dimostrano che Yakade- venti e l’inizio degli anni trenta. Insistono
miceskoe deio fu fabbricato interamente sulla poi, a ragione, sul fatto che la politica di “ad­
base delle “confessioni” degli imputati. Gli domesticamento”, tipica del primo potere so­
atti dell’inchiesta, resi adesso di pubblico do­ vietico, venne progressivamente sostituita
minio, confermano che mancava qualsiasi dalla politica della sanzione amministrativa,
prova fattuale o documentaria per legittima­ cui fecero seguito le vere e proprie purghe.
re le perquisizioni e gli arresti; che l’imputa­ Ma non rispondono ad un quesito che pure
zione di avere dato vita a un’organizzazione dev’essere posto: per quale ragione l’inchie­
antisovietica e controrivoluzionaria segreta sta, che non sembra proprio potersi definire
era basata su confessioni falsificate ed estor­ “amministrativa” , non fu conclusa con un
te; che le ammissioni erano ottenute facendo processo pubblico, come avvenne nel caso
ampio ricorso a ricatti e minaccie, regime d’i­ della prompartija nel dicembre 1930 e del sosolamento carcerario, pressioni fisiche e psi­ juznoe bjuro dei menscevichi nel marzo del
cologiche. Il meccanismo dell’indagine venne 1931? Il modo e il luogo di enunciazione della
d’altra parte subito denunciato dagli stessi notizia relativa ai risultati finali delFinchiesta
accusati, come risulta ad esempio da questa sembrano essere puramente “amministrati­
lettera, inviata dal confino allo storico Pok- vi” . Ma ciò che si disse il 2 febbraio 1931, du­
rovskij il 12 novembre del 1931. L’autore è rante un’assemblea generale straordinaria
Vladimir I. Piceta, uno degli studiosi condan­ dell’AN SSSR, evocando lo spettro della
28
“Mne ze oni soversenno ne nuzny”, “Vestnik RAN”, cit., p. 110.
La “lotta di classe nella scienza storica”
“cospirazione”, sembra indicare esattamente
il contrario. Il segretario permanente, Vjaceslav P. Volgin, informò infatti che si era ac­
certata la partecipazione degli accademici
Platonov, Tarle, Lichacev e Ljubavskij ad
una cospirazione: “I quattro accademici so­
no stati arrestati sotto l’accusa di attività
controrivoluzionaria, di organizzazione di
un complotto controrivoluzionario che si
proponeva di abbattere l’ordinamento sovie­
tico esistente e di restaurare la forma di go­
verno monarchico-costituzionale. Il materia­
le dimostra in modo assolutamente inconfu­
tabile la loro partecipazione effettiva a que­
sta congiura ed essi stessi ne hanno dato con­
ferma con la propria confessione”. In appli­
cazione del paragrafo 19 dello statuto (intro­
dotto di recente su esplicita richiesta gover­
nativa), che prevedeva l’esclusione dai ranghi
accademici di chi avesse svolto “ attività a
danno dell’Urss” , i quattro studiosi furono
allora espulsi all’unanimità29. Qualche gior­
no dopo la decisione dell’AN SSSR, venne
emanata dalla trojka dell’OGPU presso il di­
stretto militare di Leningrado, dunque in una
sede extragiudiziale (vnesudebnyj porjakok),
una prima serie di sentenze (10 febbraio
1931), mentre la seconda serie seguì di lì a po­
co il 10 maggio. La condanna definitiva di
Platonov a cinque anni di confino fu pronun­
ciata l’8 di agosto.
Si sono fatte diverse ipotesi sulla mancata
celebrazione di un processo pubblico: la più
fragile parla di un effetto di rivalità tra Le­
ningrado e Mosca (i processi dimostrativi,
proprio a partire da questo periodo, divenne­
ro una prerogativa della capitale). La più
fondata fa riferimento alla decisione, presa
a livello del vertice politico dello stato, di so­
741
spendere la repressione deWintelligencija per
concentrare tutte le forze nella lotta contro
i contadini. Tra le due si potrebbe collocare
quella che insiste su considerazioni di oppor­
tunità legate soprattutto ai nuovi orienta­
menti nella politica estera30. Solo l’estensione
della ricerca a nuovi fondi d’archivio (in par­
ticolare ai documenti conservati nell’ex-archivio centrale del partito) potrà dare una ri­
sposta a questo interrogativo. Resta comun­
que necessario non dimenticare che, nella po­
litica del governo sovietico, vi è sempre la
profonda consapevolezza che la storia occu­
pa un ruolo determinante nella fondazione
dello Stato, nel rapporto tra i poteri pubblici
e i cittadini, nella realizzazione del consenso.
Ed è proprio per il fatto che la Storia è un af­
fare dello Stato (essa sembra infatti fare parte
del “diritto pubblico”), e non di un’accade­
mia d’intellettuali di professione o dell’uni­
versità in quanto organo di trasmissione dei
saperi, che si può accettare o rifiutare il con­
tributo degli specialisti. Potrebbe dunque es­
sere estremamente utile tenere conto del fatto
che, quando verso la metà degli anni trenta,
come preparazione alla guerra “mondiale”
(che i sovietici — ma non solo loro — consi­
deravano imminente), diventerà necessario
recuperare l’elemento “patriottico” , allora
verrà reintrodotta la storia nazionale russa
nella storia dello stato sovietico, con il rien­
tro degli espulsi e dei deportati nell’accade­
mia e nelle facoltà; allora verrà ripristinato
l’insegnamento del passato nelle scuole e nel­
le università, con il recupero di una manuali­
stica della continuità a scapito di quella della
rottura radicale31.
Resta infine da sviluppare la questione a
mio avviso più importante e sulla quale ha
2'J Organizacionno-administrativnaja chronika [Cronaca amministrativa e organizzativa], “Vestnik AN SSSR”, 1931, n.
3, p. 49. Cfr. F. F. Pere enok, Akademija nauk na “velikom perelome", cit., pp. 226-230, che pubblica integralmente lo
stenogramma della riunione.
30 F.F. Pere enok, Akademija nauk na "velikom perelome", cit., pp. 233-234.
31 È in questa mutata congiuntura che vennero editi due volumi di Platonov: i Malerialy iz ucebnica po russkoj istorii
[Materiali dal manuale di storia russa], 2 voli., Moskva, 1937 (un’edizione ad uso interno per gli allievi della scuola su-
742
Antonella Salomoni
già attirato l’attenzione Viktor S. Bracev. I
curatori de\YAkademiceskoe deio 1929-1931
gg. — grazie alla disponibilità di alcuni docu­
menti conservati presso il fondo speciale del­
l’Archivio del presidente della Federazione
russa (AP RF) e del Centro russo per la con­
servazione e lo studio dei documenti di storia
contemporanea (RCChIDNI) — mettono in
rilievo l'importanza che gli organi dirigenti
del partito attribuivano, mentre procedeva
la purga degli storici, alla questione archivi­
stica32. Si potrebbe dire, da un certo punto
di vista, che l’archivio è la posta in gioco nel­
lo scontro tra il partito e l’accademia33.
Nella Russia sovietica l’intero sistema ar­
chivistico era stato messo a disposizione del
presente e ogni documento storico veniva
considerato come un potenziale strumento
di lotta contro i nemici di classe interni ed
esterni: “ Le fonti originarie — avvertiva la
Grande enciclopedia sovietica nel 1926 —
non solo offrono materiale per [conoscere]
le strutture storiche e [realizzare] gli scopi
della scienza [storica], ma appaiono anche
come testimonianze dei rapporti economici,
sociali, politici e ideologici di una determina­
ta epoca [...]. Gli archivi hanno dunque un
ruolo non solo scientifico, ma anche politico,
dato che servono — nelle mani della classe
dominante — come una potente arma di lot­
ta. Ogni spostamento dei rapporti di produ­
zione e l’arrivo al potere di una nuova classe,
provocano la necessità, da un lato, d’impos­
sessarsi dell’eredità documentale del prece­
dente regime e, dall’altra, di utilizzare la pre­
cedente esperienza così come essa si è riflessa
in questa eredità. Gli archivi, per tale ragio­
ne, diventano uno strumento da cui non pos­
sono prescindere le pratiche'di potere”34.
Abbiamo detto che l’elemento scatenante
della repressione accademica sta nel fatto
che, ad un certo momento, vengono rinvenuti
— nella biblioteca dell’AN SSSR — dei do­
cumenti che, secondo il governo, non vi do­
vevano in alcun modo essere conservati. Si
potrebbe legittimamente parlare di un prete­
sto, tanto più che i poteri pubblici sapevano
da tempo della presenza di questi materiali
d’archivio. Ma il conflitto tra l’Archivio cen­
trale della Repubblica federativa socialista
russa (RSFSR), che rivendicava la proprietà
dei documenti che riguardavano lo stato, e
l’Accademia delle scienze, che intendeva sot­
trarsi alle richieste di cessione dei fondi d’in­
teresse politico, rivela un antagonismo che
non può essere ridotto a un problema di com­
petenze. La pretesa dell’Archivio centrale
della RSFSR è una conseguenza logica del­
l’impostazione faticosamente, ma ormai defi­
nitivamente, prevalsa quando il partito aveva
assegnato allo Stato il compito di fare la sto­
ria leggendo tutta la massa documentaria di­
sponibile dal punto di vista della “ lotta di
classe” . Avrebbe potuto uno stato in forma­
zione accettare un dualismo di poteri storici,
vale a dire una dualità di miti di fondazione?
In altri termini: la Rivoluzione d’ottobre co­
stituiva una rottura epocale della storia russa
periore di partito), e la quarta edizione degli 0 cerki po istorii smuty v Moskovskom gosudarstve XVI-XVII vv. [Saggi di
storia della smuta nello stato moscovita del XVI-XVII secolo], Moskva, 1937 (la prima edizione è del 1899). Su questo
aspetto particolare della “riscoperta” della storia patria, cfr. N. P. Sokolov, S. F. Platonov i ego ucebnik russkoj istorii
[S. F. Platonov e il suo manuale di storia russa], in S. F. Platonov, U cebnik russkoj istorii dlja srednej skoly, cit., p. 9.
32 Gli editori sono infatti riusciti ad accertare la diretta e immediata responsabilità del Politbjuro nell’avvio dell’“affare”: dapprima attraverso un esplicito invito a eseguire i primi arresti, poi attraverso la richiesta di approfondimento
dell’inchiesta, che venne portata avanti da una commissione governativa composta da un funzionario di partito, un pro­
curatore della repubblica e due dirigenti dell’OGPU (cfr. Akademiceskoe deio, cit., pp. XXVI1-XXXI1).
33 V. S. Bracev, “Delo" akademika Platonova, cit., pp. 120-126.
34 I. Majakovskij, Archiv [Archivio], in Bol'saja sovetskaja enciklopedija [Grande enciclopedia sovietica], voi. Ili, Mosk­
va. Bol’saja sovetskaja enciklopedija, 1926, col. 543. Sul ruolo “politico” dell’archivio e il significato strategico dei com­
piti di conservazione e raccolta dei materiali storici nell’epoca postrivoluzionaria, cfr. Antonella Salomoni, Un savoir
historique d'Etat: les archives soviétiques, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, 1995, n. 1, pp. 3-27.
La “lotta di classe nella scienza storica”
o il tentativo di salvare lo stato russo di fron­
te alla decomposizione dell’ancien regime?
Solo chi aveva il controllo degli archivi per
mezzo della loro centralizzazione e sapeva at­
traversarli guidato da un rigido principio eu­
ristico poteva inserire la Repubblica dei so­
viet nella continuità o nella discontinuità sta­
tale russa.
Da questo punto di vista l’accusa mossa
all’AN SSSR di essersi trasformata in un de­
posito di tutto ciò ch’era ostile al potere so­
vietico è comprensibile. Fa parte integrante
della logica inflessibile con cui si conserva il
potere. Inutile farsi fuorviare dalle forme
743
che prendono le accuse. Il problema è un al­
tro. E lo storico che conosca il processo di
produzione della storia, ovvero la storiogra­
fia che ha accompagnato la costituzione dello
stato moderno, dovrebbe formularlo in que­
sto modo: poteva la classe che aveva vinto
la lotta per la conquista dello Stato lasciare
scrivere la storia di questa conquista alla
classe che aveva perso? Di lì a poco, sarebbe
stata pubblicata la famosa lettera di Stalin, O
nekotorych voprosach istorìi bol’sevizma [Su
alcune questioni di storia del bolscevismo]3
3*35.
Antonella Salomoni
33 Cfr. J. Barber, Soviet Historians in Crisis, cit., pp. 126-136; L. G. Babic enko, Pis'mo Staiina v "Proletarskuju Revoljuciju" i ego posledstvija [La lettera di Stalin a “Proletarskaja Revoljucija” e le sue conseguenze], “Voprosy Istorii
KPSS", 1990, n. 6, pp. 94-108; Vladimir A. Dunaevskij, 0 pis’me Staiina v redakciju zumala “Proletarskaja Revoljucija"
i ego vozdejstvii na nauku i sud’by Ijudej [La lettera di Stalin alla redazione della rivista “Proletarskaja Revoljucija” e le
sue ripercussioni sulla scienza e il destino delle persone], in Istorija i stalinista [Storia e stalinismo], Moskva, Politizdat,
1991, pp. 284-297.
ISTITUTO NAZIONALE
PER LA STORIA DEL MOVIMENTO
DI LIBERAZIONE IN ITALIA
Collana storica 1985-1992
Storiografia e fascismo. Con appendice bibliografica. Scritti di Guido Quazza, Enzo
Collotti, Massimo Legnani, Marco Palla, Gianpasquale Santomassimo, Milano, Ange­
li,1985
Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti. Settembre 1943/aprile 1945, a cura
di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli, Stefano Vitali, Milano, Angeli, 1985
Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali. Scritti di Gloria Chianese, Guido
Crainz, Marco Da Vela, Gabriella Gribaudi, Milano, Angeli, 1985
Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1945. Politica internazionale e
contesto locale, Milano, Angeli, 19B5
Gianni Oliva, Esercito, paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 al­
l’età giolittiana, Milano, Angeli, 1986
Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di Giorgio Rochat, Enzo
Santarelli, Paolo Sorcinelli, Milano, Angeli,1986
Mauro Cerutti, Tra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Mila­
no, Angeli, 1986
Elite politiche nella Sardegna contemporanea. Scritti di Virgilio Mura, Graziano Tidor, Gian Giacomo Ortu, Luciano Marrocu, Maria Rosa Cardia. A cura di G.G. Ortu, Mi­
lano, Angeli, 1987
L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani, Milano, Angeli, 1988
Giorgio Vaccarino, La Grecia tra Resistenza e guerra civile 1940-1949, Milano, An­
geli, 1988
La “città del silenzio” . Ravenna tra democrazia e fascismo. Scritti di PierPaolo
D’Attorre, Pierluigi Errani, Paola Morigi, Milano, Angeli, 1988
Roberto Ruffilli: un percorso di ricerca. Scritti di Enzo Balboni, Leopoldo Elia, Guido
Melis, Paolo Pombeni, Andrea Riccardi, Raffaele Romanelli, Piero Scoppola, Nicola
Tranfaglia. A cura di Maurizio Ridolfi, Milano, Angeli, 1990
Guerra, guerra di liberazione, guerra civile. Atti del convegno di Belluno, 27-29 otto­
bre 1988. A cura di M. Legnani e Ferruccio Vendramini, Milano, Angeli, 1990
Ruggero Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo Novecento. Ezio Bartalini e “ La Pace” 1903-1915, Milano, Angeli, 1990
La Toscana nel secondo dopoguerra, a cura di Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G.
Rossi, Milano, Angeli, 1991
Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di stu­
dio,a cura di Salvatore Adorno e Carlotta Sorba, Milano, Angeli, 1991
Maria Rosa Cardia, La nascita della Regione autonoma della Sardegna 1943-1948,
Milano, Angeli, 1992
Lucio Ceva, Andrea Curami, Industria bellica anni trenta. Commesse militari, l’Ansaldo ed altri, Milano, Angeli, 1992
Giampaolo Valdevit, Gli Stati Uniti e il Mediterraneo da Truman a Reagan, Milano,
Angeli, 1992
Note a convegni
La guerra partigiana in Italia e in Europa
Silvana Sgarioto
Il convegno promosso dalla Fondazione Mi­
cheletti e dairinsmli aH’interno delle celebra­
zioni del Cinquantesimo (La guerra partigia­
na in Italia e in Europa, Brescia 22-24 marzo
1995) ha scelto, nella selezione dei temi e nelle
domande che ha posto agli studiosi invitati a
confrontarsi, di privilegiare la specificità del­
la questione militare e il rapporto tra parti­
giani e popolazione civile, non rinunciando
tuttavia a un riepilogo generale degli indirizzi
di studio e di ricerca attuali. Sullo sfondo o
almeno non chiaramente esplicitata è rimasta
l’esigenza di fare i conti con alcune chiavi di
lettura generale e ciò ha dato l’impressione,
a lavori ultimati, di uno scollamento tra le re­
lazioni della prima giornata che affrontava­
no alcuni nodi concettuali di grande rilievo
e la successiva passerella di interventi di pre­
sentazione di ricerche fatte e di lavori in cor­
so non sempre in grado di dialogare tra loro e
con i temi proposti in apertura. Il riferimento
europeo contenuto nel titolo non va inteso
come l’avvio di un’ottica comparativa tra le
guerre partigiane, data l’assenza di studiosi
stranieri (ad eccezione di Ferenc e di Schreiber di cui poi diremo), ma come un contesto
da tenere presente ricostruito in un quadro si­
nottico nella relazione di Giorgio Vaccarino,
che, in uno spazio così limitato, non ha potu­
to fornire altro che una serie di tipologie con
un taglio necessariamente più descrittivo che
problematico: come dire, una buona introdu­
zione a un confronto con altre interpretazio­
ni che però non sono seguite. E una carenza
Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
da non attribuire agli organizzatori del con­
vegno ma da ricondurre alla mancanza — ri­
levata da Claudio Pavone nelle conclusioni
— di una storia generale critica della Resi­
stenza che articoli i nessi tra locale e naziona­
le, in mancanza della quale è di fatto impos­
sibile avviare un confronto con le altre guerre
partigiane. Va detto comunque che alle rela­
zioni sono seguiti vivaci momenti di discus­
sione e di confronto, a cui è stato assegnato
uno spazio significativo nel corso dei lavori,
tanto da colmare almeno in parte le lacune
comunicative derivanti dall’impianto genera­
le del convegno.
In apertura la relazione di Domenico Lo­
surdo (Guerra partigiana, guerra civile e revi­
sionismo storico) ha affrontato i concetti di
guerra partigiana, guerra civile internaziona­
le, guerra limitata e guerra totale a partire
dalle teorizzazioni di Cari Schimitt (Theorie
des partisanen, 1963; Teoria del partigiano,
Milano, Il Saggiatore, 1981, trad. italiana di
De Martinis) e di Nolte. Entrambi in un pri­
mo momento fanno risalire al 1917 la risor­
genza della guerra civile internazionale in
Europa dopo una lunga parentesi di regola­
zione e contenimento dei conflitti tra Stati
in base allo jus publicum europaeum. In segui­
to alla cancellazione della guerra-duello, si è
affermata la “ guerra giusta” , erede della
guerra santa, e scompare lo justus hostis, so­
stituito dal nemico criminale, non più solo
da combattere ma da annientare attraverso
la guerra totale, sui fronti come tra la popo-
746
Silvana Sgarioto
lazione civile. Losurdo ha dimostrato con
una ricca esemplificazione che non solo l’i­
deologia ma anche la realtà della guerra civile
internazionale fa la sua apparizione con l’e­
splodere della prima guerra mondiale: la tra­
sformazione della guerra imperialista in
guerra civile è una tendenza che il pensiero
di Lenin non ha prodotto, ma alla quale ha
saputo conferire forma cosciente e organizza­
ta. Lo stesso Schimitt (e la pubblicistica che a
lui si ispira) si rende conto che la guerra civile
internazionale era in atto ancor prima della
Rivoluzione d’ottobre, perciò finisce per da­
tare il tramonto dello jus publicum europaeum
con l’avvento del giacobinismo. Già Edmund
Burke aveva colto lo “ spirito di proselitismo”della Rivoluzione francese, al servizio
di una dottrina empia ed atea, ma poi non
senza contraddizione egli stesso lanciava un
appello ad una guerra generale contro la
Francia, che si configurava esplicitamente
come una guerra di religione. Dunque “guer­
ra civile internazionale” e “guerra di religio­
ne” , le due categorie centrali di cui si serve
Schimitt per mettere sotto accusa la Rivolu­
zione francese, sono state esplicitamente for­
mulate dal primo critico di tale rivoluzione.
Ma questa non è l’unica rimozione della sto­
riografia revisionista: la principale riguarda
la questione coloniale e nazionale. Schimitt
dimentica che l’appello di Lenin era rivolto
anche alle colonie, perché conducessero guer­
re di liberazione nazionale contro il dominio
delle grandi potenze. Il politologo tedesco si
rivela essere allo stesso tempo il teorico della
guerra limitata tra gli stati civili e della guerra
totale e santa contro i barbari ed è proprio al­
le guerre di liberazione nelle colonie che
guardava nel 1963 quando nella Teoria dei
partigiano rimetteva in discussione le ragioni
della guerra partigiana. La categoria di guer­
ra civile internazionale è nella storiografia re­
visionista quanto mai vaga, perché definisce
eventi assai diversi l’uno dall’altro; tale va­
ghezza concettuale spiega a sua volta l’incer­
tezza della delimitazione cronologica. In con­
clusione Losurdo sostiene che le deprecazioni
sulla guerra civile internazionale o sulla guer­
ra civile europea esprimono solo nostalgia
per un ordinamento eurocentrico e per la net­
ta distinzione tra civili e barbari, messa in cri­
si nel Novecento, ma dopo il 1989 ridivenuta
attuale a parere almeno di alcuni storici e po­
litologi, tra gli altri Samuel P.Huntington
(The Clash o f Civilisation?, “ Foreign Af­
fairs” , 1993), secondo cui dopo la fine delle
guerre civili occidentali, lo “scontro di civil­
tà” costituirà il contenuto principale della
storia dei prossimi decenni. Alla sfida della
storiografia revisionista si può rispondere
adeguatamente solo ripensando la storia con­
temporanea nel suo complesso.
Il rapporto necessario tra rivoluzione e
guerra civile, via via più esplicito nel pensiero
di Lenin fino a considerare la seconda stru­
mento di emancipazione dei popoli, è stato
ricostruito da Pier Paolo Poggio, nel suo in­
tervento (Teoria e pratica della lotta armata
nel movimento rivoluzionario russo), attraver­
so l’analisi della cultura politica che si ispira
al movimento rivoluzionario russo, divenuto,
dopo la vittoria dei bolscevichi e attraverso
l’elaborazione terzointernazionalista, il mo­
dello per i movimenti rivoluzionari e di libe­
razione del Novecento. In particolare Poggio
si è soffermato sulla genesi e l’evoluzione dei
concetti di guerra partigiana, guerra civile e
insurrezione negli scritti di Lenin, sottoli­
neando come rimpianto del suo pensiero in
una prima fase derivi dal populismo rivolu­
zionario, che non fu soltanto un movimento
terroristico, come appare dalla rappresenta­
zione di certa storiografia, ma anche un’or­
ganizzazione di massa. Da questa eredità
proviene per esempio il ruolo “sostituzionista” del partito (ossia sostitutivo della libera
dinamica sociale come era stato per i socialri­
voluzionari lo stato zarista), la concezione
della conquista e del mantenimento del pote­
re attraverso l’insurrezione, combinata con la
guerra contadina. Nuova è la concezione del
rivoluzionario di professione e l’accentuazio­
Note a convegni
ne urbanocentrica dell’insurrezione. La guer­
ra civile è definita da Lenin esito ultimo della
lotta di classe, ma dopo la rivoluzione del
1905 la questione della lotta armata, affron­
tata attraverso la lettura di Gustave Paul
Clauseret, capo militare della Comune, viene
rivista. Lenin parla di terrorismo di massa,
ben diverso da quello individuale di matrice
anarchica, ma alfinterno di una concezione
tattica che non mette mai in discussione il
primato della politica, semmai ulteriormente
sottolineato alla vigilia della prima guerra
mondiale nelle elaborazioni sul rapporto
guerra-politica, influenzate dalla conoscenza
di Clausewitz attraverso Mehring prima e
dopo il 1915 attraverso la lettura diretta.
Per Poggio le letture giacobine-volontaristiche dello slogan di Lenin (trasformare la
guerra imperialista in guerra civile) su cui si
basano le teorie schmittiane e la storiografia
revisionista, non rendono conto di un pensie­
ro molto più articolato. Senza contare che le
teorizzazioni di Lenin furono smentite dalla
realtà della Rivoluzione bolscevica, che vide
l'esplodere della guerra civile dopo la presa
del potere (e da tale situazione deriva il facile
parallelismo con il giacobinismo).
Se dai concetti e dalle teorie si passa all’a­
nalisi di un caso emblematico, è interessante
notare come nella guerra civile spagnola il ri­
corso alla guerriglia — a dispetto dell’icono­
grafia (Per chi suona la campana mette in sce­
na una banda di guerriglieri) e della celebre
frase di Rosselli (che farebbe pensare a una
filiazione della guerra partigiana in Italia dal­
la guerra di Spagna) — fu da parte delle forze
repubblicane durante il conflitto un fatto del
tutto episodico e isolato. Lo ha rilevato nel
suo intervento Gabriele Ranzato (Guerriglia
e operazioni militari dell’esercito repubblicano
durante la guerra civile spagnola ) sottoli­
neando il carattere difensivo che contraddi­
stinse le bande composte da huidos, poco ca­
ratterizzate politicamente, scarsamente colle­
gate con l’esercito repubblicano, invise alle
popolazioni locali, quando erano costrette a
747
spostarsi dai luoghi d’origine. Questo tipo
di guerriglia si mantenne in vita ancora nel
dopoguerra per almeno un decennio con lo
stesso carattere di sopravvivenza in territorio
nemico. Le ragioni dello scarso sviluppo del­
la guerriglia nel paese che, nell’età napoleoni­
ca, l’aveva “inventata” vanno attribuite oltre
che alle insufficienze militari della direzione
repubblicana o a una sua scelta strategica, al­
le condizioni politico-sociali che accompa­
gnarono l’esplodere della guerra civile: nel
momento in cui si presero le armi ciascun
fronte aveva identificato chiaramente il suo
avversario, tanto è vero che al momento della
sua uccisione non era necessario apporre un
cartello al collo delle vittima, al fine di terro­
rizzare un nemico anonimo, come sarebbe in­
vece avvenuto in Italia. L’annientamento del
nemico ebbe un accentuato carattere di bru­
talità e la repressione non si esaurì finché il
mare in cui potevano nuotare i pesci partigia­
ni non venne totalmente prosciugato.
La relazione di Toni Ferenc (/ partigiani
nei Balcani. Il caso jugoslavo) si è soffermata
su una ricostruzione di tipo eventografico,
senza approfondire particolarmente il dibat­
tito che, alla luce della guerra in corso nella
ex-Jugoslavia, si interroga sul carattere pre­
valente della guerra partigiana degli anni
quaranta ossia se fu guerra civile, guerra di li­
berazione o rivoluzione bolscevica.
La questione militare è stata affrontata
nelle due relazioni di Gerhard Schreiber {La
controguerriglia tedesca in Italia) e di Giorgio
Rochat (L ’esercito partigiano in Italia). Il pri­
mo ha ricostruito l’organizzazione della
guerra antipartigiana che si ispirava alla di­
rettiva di Hitler del dicembre 1942, destinata
al fronte orientale e successivamente estesa
anche all’Italia (tra le misure previste vi era­
no la morte per impiccagione dei ribelli, le
rappresaglie nei confronti della popolazione
civile, la fucilazione immediata degli ostaggi,
l’impunità per i tedeschi che avessero com­
piuto crimini di guerra in azioni di antiguer­
riglia). I conflitti di competenza tra la Wehr-
748
Silvana Sgarioto
macht e le SS furono risolti con un compro­
messo che affidava la repressione ad entram­
be, ma con le SS in posizione subordinata in
tutti gli ambiti che riguardavano la controguerriglia. Solo a partire dalla primavera
del 1944, in reazione alla crescente durezza
della lotta partigiana, dalla controguerriglia
si passò alla guerra vera e propria con l’im­
piego di ingenti mezzi, la costituzione di zone
di sicurezza e il conseguente aumento di vitti­
me tra la popolazione. I responsabili dei mas­
sacri in Italia — ha ricordato Schreiber —
nonostante venissero celebrati regolari pro­
cessi non furono puniti perchè tutti i reati
per motivi diversi caddero in proscrizione.
Nel 1960 infine il parlamento tedesco appro­
vò un provvedimento di sanatoria per tutti i
crimini di guerra.
Rochat in risposta a queste ultime conside­
razioni di Schreiber ha fatto notare che le di­
rettive applicate dagli italiani in Etiopia nel
1935-1936 non furono meno dure di quelle
tedesche e anche in questo caso nessun crimi­
ne venne punito e nessun generale si giocò la
carriera. Affrontando il tema del suo inter­
vento, dopo aver rilevato che la lotta armata
è l’elemento caratterizzante della Resistenza,
nonostante la fortuna della nuova categoria
di resistenza civile, a cui si ispirano alcune ri­
cerche recenti, ha cercato di spiegare le ragio­
ni per cui la guerra partigiana in quanto tale
non è stata ancora studiata e la storiografia
resistenziale ha privilegiato gli aspetti politi­
ci. Al veto incrociato dell’esercito, che ha fat­
to di tutto per dimenticarla, e dei partigiani,
che vedono negativamente l’esercito regolare
per il marcato carattere antistituzionale della
loro adesione alla Resistenza, si deve aggiun­
gere che la principale causa di questo vuoto
storiografico è interna allo stesso oggetto di
studio: la settorializzazione della guerra par­
tigiana, il suo radicamento territoriale circoscritto, legato all’armamento leggero, voluto
di fatto dagli stessi alleati che temevano che
la guerriglia si trasformasse in guerra di po­
polo. La settorializzazione è a sua volta deri­
vata dall’origine delle formazioni che nasce­
vano nelle valli e dalla difficoltà, al Nord so­
prattutto, di collegamenti regolari, rispetto
ad una pianura controllata da tedeschi e fa­
scisti. Ciascuna brigata di valle (vera unità
operativa di 100-300 uomini, la divisione
non ha mai funzionato veramente) durava
in media un anno, era gelosa della sua auto­
nomia, esprimeva un vero e proprio spirito
di corpo e su questo si fondava la democrazia
diretta. Ora non solo l’esercito partigiano fu
smobilitato in fretta e furia, ma anche duran­
te la guerra niente si fece per unificarlo. Sulla
sua efficacia va detto che nonostante le gravi
difficoltà in cui operava nessuna formazione
si sciolse, dopo ogni disfatta si ricostituiva
magari unendosi ad un’altra. Rispetto ai ne­
mici si può ascrivere a merito dei partigiani
l’aver neutralizzato militarmente le milizie
della Rsi. Dell’impatto della guerra partigia­
na sui tedeschi non si può dare un giudizio
definitivo e non ha fondamento né minimiz­
zare né enfatizzare il suo ruolo, prima che
siano fatte ricerche approfondite negli archi­
vi militari tedeschi.
Agli aspetti politici del partigianato si so­
no richiamate le due relazioni di Adriano
Ballone {Il partito comunista e le Garibaldi)
e di Mario Giovana {La guerriglia urbana
Gap e gappismo nei venti mesi partigiani). Il
primo ha rilevato che esistono ricerche ormai
numerose sul rapporto non sempre armonico
tra gruppi dirigenti del Pei e dirigenti delle
Garibaldi; si può procedere dunque verso ap­
profondimenti tematici sull’insediamento
territoriale delle formazioni garibaldine, su
alcuni problemi relativi al processo di educa­
zione politica delle nuove reclute, sull’in­
fluenza del partigianato non politicizzato
nella strategia comunista. Giovana ha invece
rilevato la mancanza di una storia organica
dei Gap, la cui origine risale a una decisione
del Pei, ispirata all’organizzazione dei franctireurs et partisans e motivata dalla necessità
di avviare la lotta di liberazione attraverso un
elemento dinamico. Tale decisione sollevò
Note a convegni
anche all’interno del partito obiezioni di ca­
rattere ideologico e morale nei confronti del­
l’aspetto terroristico delle azioni gappiste. I
gruppi erano costituiti da militanti fortemen­
te motivati idealmente e politicamente e do­
tati di capacità fisiche e di qualità morali di
tutto rilievo. Il giudizio sul ruolo e sulle azio­
ni dei Gap ha risentito delle frizioni genera­
zionali e del pregiudizio classista, che emer­
gono sia nei resoconti organizzativi che nelle
rievocazioni della memorialistica; partendo
da essi va analizzata la funzione che a questa
forma di organizzazione della lotta attribui­
vano parecchi dei suoi promotori e protago­
nisti, quasi tutti provenienti dalla cospirazio­
ne comunista e dalla partecipazione alla
guerra civile spagnola e al maquis francese.
Un aggiornamento su ricerche appena ulti­
mate o ancora in corso è venuto dalle relazio­
ni di Gaetano Grassi (/ centri della Resistenza
e leformazioni autonome ) e di Claudio Dellavalle (Insediamento e composizione sociale del
partigianato). Sulle formazioni autonome,
definite a seconda dei casi badogliane o apo­
litiche, è di prossima pubblicazione nella col­
lana dell’Insmli un volume prodotto da un
gruppo coordinato da Gianni Perona e for­
mato da ricercatori appartenenti a diversi
Isr. Grassi ha ricostruito le fasi della ricerca,
soffermandosi sui più rilevanti nodi proble­
matici e anticipando alcune conclusioni: il
rapporto centro/ periferia che visto dall’angolatura degli autonomi mostra tutta la sua
complessità e problematicità; la stessa defini­
zione di autonomi che non compare in tutta
la fase di incubazione del Comando generale
del Cvl; i diversi momenti di avvio dei pro­
cessi di politicizzazione delle forze partigiane; i dibattiti sull’atteggiamento da tenere
nei confronti degli sbandati del regio eserci­
to; la costituzione del Comando generale di
Milano, nato dall’alleanza tra azionisti e co­
munisti, in seguito al nuovo equilibrio di for­
ze che si realizzò dopo l’entrata di Longo nei
vertici del movimento; il conflitto che si aprì
con il Comando supremo del Sud in seguito
749
all’emanazione della circolare 333 sulla con­
dotta e sull’organizzazione della guerriglia.
Grassi ha infine individuato nello scarso so­
stegno a Cadorna da parte delle strutture po­
litiche e militari la causa del sostanziale falli­
mento del progetto di unificare e ricondurre
sotto un unico comando le forze a carattere
militare e quelle organizzate dai partiti. Il
fallimento della militarizzazione istituzionale
della Resistenza fu la premessa della liquida­
zione dell’esperienza partigiana dopo la libe­
razione.
Claudio Dellavalle nel suo intervento ha
dato conto dei primi risultati di una ricerca
avviata nel 1992 dagli Istituti piemontesi di
storia della Resistenza sul rapporto tra parti­
gianato piemontese e società civile, mettendo
in evidenza la novità rappresentata dalla sca­
la regionale. La ricerca si è avvalsa di una
fonte non ancora studiata: le carte raccolte
dal ministero della Difesa per il riconosci­
mento delle qualifiche partigiane (Ricompart). Si tratta di 110.000 schede personali
contenenti i dati biografici, l’eventuale espe­
rienza militare precedente, la carriera parti­
giana e alcuni passaggi della storia personale
dei richiedenti. Comprendendo tutte le do­
mande presentate e non solo quelle accolte,
il fondo documentario ci restituisce non solo
l’universo partigiano, ma anche uno spaccato
di quel settore della società del tempo solo
marginalmente coinvolta nel movimento ar­
mato. Nel passaggio dal primo (d.lgt. 5 aprile
1945, n.158) al secondo decreto (d.lgt. 21
agosto 1945, n. 518), che stabiliva i criteri de­
finitivi per il riconoscimento, si valorizzaro­
no maggiormente gli aspetti militari esclu­
dendo di fatto le donne e quanti avevano
svolto prevalentemente ruoli politici e di sup­
porto. Dallo spoglio delle schede è possibile
dedurre dati sull’età, da cui risulta una signi­
ficativa presenza di adolescenti di 13-14 anni,
e sulla provenienza geografica dei partigiani.
Una buona metà ha dichiarato una qualche
esperienza militare e un numero non esiguo
(7,3 per cento) proveniva delle fila della
750
Silvana Sgarioto
Rsi. Le schede costituiscono una sorta di
istantanea scattata alla fine dell’esperienza
che non deve rimanere muta rispetto a
quanto la precede e al contesto spaziale
che la contiene. Va evitata ogni esasperazio­
ne quantitativa, che questo tipo di fonte po­
trebbe incoraggiare, con il rischio di far pre­
valere un’immagine appiattita e rigida di un
fenomeno che è stato complesso e dinamico.
Usare il rapporto con il territorio come
chiave interpretativa può contribuire ad
uscire dalla polarizzazione schimittiana tra
partigiano tellurico e partigiano rivoluzio­
nario: nella realtà è esistita, e le schede lo
documentano, una pluralità di figure tra
questi due estremi.
La strategia adottata nella conduzione del­
la guerra partigiana dalle formazioni garibal­
dine della Valsesia è stata ricostruita da Ce­
sare Bermani (Guerra partigiana in pianura),
individuando il successo della pianurizzazione a partire dall’estate del 1944 in una serie di
fattori favorevoli tra cui la radicata tradizio­
ne antifascista, l’efficiente servizio di infor­
mazioni, l’ottimo funzionamento del sistema
sanitario, dell’intendenza e della giustizia, la
sviluppata rete di comunicazione e la natura
del terreno che ben si prestava alla guerriglia.
Partendo dalla ribellione organizzata a
Massa Carrara nel luglio 1944 dai Gruppi
di difesa della donna contro il bando tedesco
di evacuazione della città e dalla memoria
femminile di quell’evento, Graziella Bonansea ha individuato alcuni nodi cruciali attra­
verso cui rileggere il rapporto tre le donne e la
Resistenza. La modalità della mobilitazione
femminile contro l’occupazione tedesca nel
caso in esame deborda dal “maternage di
massa” di cui ha parlato Anna Bravo, e pone
il problema di indagare in modo più appro­
fondito la scelta, le appartenenze e il rappor­
to con la violenza e la lotta armata nelle don­
ne impegnate nel movimento, su cui è possi­
bile proporre appena delle ipotesi, perché so­
lo da poco ha cominciato ad essere studiato.
La memoria segnala insistentemente il tema
del mascheramento, ossia dell’uso spregiudi­
cato degli attributi che più si identificano con
la femminilità per risolvere situazioni di
emergenza, sfruttando le funzioni simboliche
del corpo femminile. Infine Bonansea ha sot­
tolineato che con l’uscita dall’eccezionaiità di
quei venti mesi di guerra le partigiane, per
aver incarnato il ruolo della donna ribelle,
fuori dai confini di genere loro assegnati, vis­
sero il paradosso del reduce che deve giustifi­
carsi per aver vissuto in un mondo “altro” .
Una intera sezione del convegno è stata
dedicata alle diverse storie locali a partire
dal tema del rapporto tra partigianato e po­
polazione civile, sia durante la guerra che nel­
l’immediato dopoguerra. Ogni storia locale
della Resistenza non è pensabile se non come
risultato del confronto fra situazione periferi­
ca e progetto generale, così come anche gli
aspetti più particolari e contingenti dipendo­
no dall’evoluzione del quadro generale della
guerra. Prendendo le mosse da queste consi­
derazioni e dalla diffusa esigenza di uscire
dai localismi, peraltro ostacolata dalla man­
canza di categorie generali, Sandro Peli ( Vio­
lenza e comunità locali nella guerra partigia­
na) ha affrontato il problema dal punto di vi­
sta metodologico e, partendo dal caso con­
creto dei rapporti tra comunità locali di mon­
tagna e brigate partigiane, ha proposto alcu­
ni parametri da utilizzare per costruire caute
generalizzazioni. Nelle formazioni più diret­
tamente espresse dalle comunità locali la vo­
cazione militare era meno spiccata, talvolta
assente, e si affermava più decisamente una
forma di resistenza alla guerra e una caratte­
rizzazione apolitica, rafforzata dall’allentarsi
delle forme di dipendenza dai centri di dire­
zione politico militare. E possibile in tale
contesto stabilire e verificare nessi tra genesi
delle formazioni e contrapposizioni tra atten­
disti e interventisti.
Il rapporto tra nazionalismi e Resistenza
al confine orientale è stato affrontato da
Otello Bosari (Nazionalismi e Resistenza al
confine orientale) nell’area dell’Alto Adriati­
Note a convegni
co, vero e proprio incrocio di confini, di cul­
ture, di lingue e di storia. In un contesto geo­
politico tanto complesso non sorprende l’in­
stabilità estrema della situazione e il rilancio,
come reazione agli attacchi partigiani, dello
squadrismo fascista, di efficacia piuttosto di­
scutibile dal punto di vista militare. I tedeschi
invece attuarono una linea politica ragionata
spingendo per un verso all’arruolamento con
compiti di vigilanza, di presidio, di affiancamento; per un altro dando spazio alle singole
nazionalità e riuscendo a creare formazioni
collaborazioniste di una certa consistenza.
Roberto Botta (Partigiani e popolazioni
nell’alessandrino), dopo aver richiamato la
disomogeneità dell’area geografica che si ri­
verbera sulle vicende resistenziali, ha rico­
struito un caso che consente di riflettere sul
rapporto tra partigiani e popolazioni civili:
la costituzione della zona libera dell’alta Val­
le Curone nell’agosto del 1944, dopo uno
scontro vittorioso contro i nazifascisti, esem­
pio significativo di come sia stato possibile
passare dalla diffidenza, se non proprio dal­
l’aperta ostilità, alla cooperazione tra partigianato e popolazione, pur rimanendo questi
due mondi distinti e separati.
Il tema affrontato da Mimmo Franzinelli
(Popolazione, partigiani, tedeschi e accordi
di zona franca), ad eccezione che nello studio
di Claudio Pavone, è stato ignorato o travisa­
to dalla storiografia. Va chiarito preliminar­
mente che il termine“zona franca” non signi­
fica necessariamente collaborazionismo. La
sua realizzazione rispondeva a logiche di so­
pravvivenza, particolarmente avvertite nel
breve arco temporale che va dall’autunno
del 1944 all’inizio della primavera del 1945.
Pur essendo un fenomeno spiccatamente lo­
cale presenta tratti generalizzabili: le zone
franche avevano una durata varia, si stipula­
vano sempre in situazioni di forte conflittua­
lità e in zone strategiche per i tedeschi, che
spesso ne erano i promotori insieme alle for­
mazioni autonome o agli ecclesiastici; rac­
cordo verbale era limitato a pochi punti, pre­
751
vedeva la reciproca non aggressione, la resti­
tuzione dei prigionieri, la libertà d’azione
contro i fascisti. Il patteggiamento si esauriva
in un incontro, massimo due, in un luogo
neutro o presso i comandi tedeschi. Aree in­
teressate furono le località impervie, parti di
valli alpine a forte radicamento partigiano,
nelle quali i tedeschi miravano a ridurre o eli­
minare la microconflittualità, garantendo, in
cambio, la sicurezza dei gruppi partigiani, la
facilità dei rifornimenti, l’esclusione di rap­
presaglie contro i civili. I comandi partigiani
erano a conoscenza delle trattative e consa­
pevoli che la pratica delle zone franche com­
portava il rischio di smarrire la dimensione
ideale della lotta e pubblicamente rifiutavano
di farvi ricorso. Nella realtà tuttavia questa
prassi veniva tacitamente consentita.
Il processo di formazione e di sviluppo del­
le bande partigiane nella Marche nel breve
arco temporale che va dall’autunno 1943 al­
l’estate 1944 è stato ricostruito da Ercole Ro­
magna (Guerriglia nell’Appennino. Il caso del­
le Marche), tentando di individuarne i carat­
teri, e soffermandosi in particolare sui con­
flitti che attraversarono sia la banda macera­
tese che quella anconetana, impedendo alla
formazioni partigiane di avere al momento
della liberazione un ruolo pari alle potenzia­
lità di una massa che contava 4.000 uomini
armati. Dati interessanti emergono dall’ana­
lisi della composizione sociale e generaziona­
le del partigianato marchigiano: Romagna
ha presentato nel dettaglio quelli che si riferi­
scono alla brigata Garibaldi “Pesaro” , da cui
risulta l’età particolarmente giovane dei suoi
componenti (51 per cento nati tra il 1920 e il
1925, un dato superiore alla media nazionale
pari al 46 per cento), mentre sotto il profilo
professionale a fronte di un 40 per cento di
addetti ai lavori agricoli oltre la metà erano
salariati, in un contesto agrario caratterizza­
to dalla mezzadria, in cui solo il 5 per cento
apparteneva al bracciantato.
Il tema della pianurizzazione è ritornato
nell’intervento di Claudio Silingardi {La
752
Silvana Sgarioto
guerriglia in pianura. Partigiani, popolazione zionali, la teoria insurrezionale delle diverse
e territorio nella bassa modenese) che ha ana­ componenti della Resistenza e i loro prece­
lizzato le differenze tra Carpi e Mirandola, ri­ denti storici non è di facile soluzione e non
conducendole alle peculiarità socio-economi- è stato oggetto di studi adeguati alla sua im­
che delle due zone: nella prima, caratterizzata portanza. L’azione insurrezionale, voluta sodalla mezzadria e da una diffusa industria del prattuuto dai comunisti in conflitto con il
truciolo con ampio impiego di lavoro femmi­ tecnicismo attendista dei militari, prevedeva
nile a domicilio, si sviluppò un movimento un’operazione militare generale e richiedeva
resistenziale molto forte, mentre nella secon­ una mediazione politica molto puntuale, in
da area, zona di terre umide, di valli nude e di particolare rivolta alla componente contadi­
piccoli agglomerati bracciantili la Resistenza na del movimento partigiano, e il ricorso a
diversi mezzi: scioperi, azioni dei Gap e delle
faticò a radicarsi.
Le relazioni della giornata conclusiva si Sap, guerriglia nelle valli. La centralità del­
sono ispirate a temi e problemi legati all’ulti­ l’insurrezione finisce per condizionare, alme­
mo inverno di guerra e ai mesi successivi alla no dal gennaio del 1944, l’azione militare e
liberazione. Massimo Legnani (La terra di quella politica di tutte le componenti della
nessuno. Civili, partigiani, fascisti e tedeschi Resistenza che si organizzavano in modo an­
nell’ultimo inverno di guerra) ha delineato il tagonista, per essere presenti e determinanti
quadro composito delle forze in campo, de­ nelle città dove essa avrebbe dovuto scoppia­
scrivendo la crisi politica e militare che le re. Ma l’insurrezione continuamente prepa­
ha investite: i partigiani indeboliti dall’offen­ rata fu sempre rinviata e di fatto mai attuata.
Con la relazione di Carlo Gentile (La fine
siva contro le zone libere e in difficoltà per il
dell’occupazione,
le forze armate tedesche e
rallentamento imposto alla campagna d’Ita­
lia; i tedeschi impegnati nello sforzo di tenere l’insurrezione) si è aggiunto un tassello alla
aperte le vie di comunicazione e di garantirsi questione militare già trattata negli interventi
il controllo delle disponibilità industriali e di Rochat e Scheiber. In particolare è stata ri­
alimentari; i fascisti rinserrati nelle città e di­ costruita, nonostante la frammentarietà delle
visi da faide interne e dalla contrapposizione fonti, la crisi morale e materiale che aveva
tra il radicalismo del Pfr e delle Brigate nere e colpito l’esercito tedesco negli ultimi mesi di
i gruppi conciliatoristi. Nessuno dei conten­ guerra. Considerando il controllo della pia­
denti era in grado di esercitare il pieno con­ nura padana strategicamente essenziale non
trollo sul territorio in cui operava. Legnani solo per ragioni militari ma anche per l’eco­
ha sottolineato inoltre il mutato e ravvicinato nomia bellica, i piani di ritirata del Comando
rapporto tra il movimento partigiano, che ri­ supremo tedesco di sgombero almeno parzia­
piegava su forme di pianurizzazione forzata, le furono bocciati da Hitler, che ordinò di re­
e la popolazione civile, richiamando la neces­ sistere. Tale scelta causò la distruzione di
sità di indagare meglio questo rapporto con molte formazioni tedesche e decine di migliaia
una particolare attenzione alla cosidetta zona di prigionieri. Incalzato dalla ripresa dell’of­
grigia, che designa, a prescindere da ogni fensiva alleata e dal declino delle risorse mate­
connotazione ideologica, quella parte della riali l’esercito era minato dalla crisi morale
società italiana che non si schierò, oscillando della truppa, a cui i vertici della Wehrmacht
spesso tra diverse posizioni senza compro­ risposero con un maggior sforzo di indottri­
namento e di propaganda ideologica, ma dal­
mettersi.
Gianni Perona (La Resistenza italiana co­ le lettere dei militari alla famiglie emergono
me movimento insurrezionale) ha osservato espressioni di totale sfiducia nella vittoria fi­
che il problema dei nessi tra i piani insurre­ nale che nessuna censura e neanche il confor­
Note a convegni
mismo della vita militare riescono ad attenua­
re. Altro indicatore non marginale della crisi è
il fenomeno delle diserzioni, che dall’estate
del 1944 registrò un notevole incremento, so­
prattutto fra austriaci, Sudtiroler, Volksdeut­
sche e “volontari” dell’Est, fenomeno che nel­
l’esercito di Salò fu di massa.
Degli episodi di violenza armata verificati­
si nelfimmediato dopoguerra si è occupato in
chiusura del convegno Guido Crainz (La vio­
lenza armata dopo la liberazione: problemi
storici e storiografici) che ha riproposto il
“caso Emilia” , giudicandolo un esito dei con­
flitti aperti dallo squadrismo agrario del
biennio 1921-1922 e della reazione alla di­
struzioni della guerra e alle efferatezze com­
piute durante l’occupazione nazifascista. Ta­
le lettura è confermata da fonti coeve e dai ri­
sultati di recenti studi (cfr. Giannetto Magnanini, Dopo la liberazione. Reggio Emilia
aprile 1945-settembre 1946, Bologna, Edizio­
ni Analisi, 1992; Massimo Storchi, Uscire
dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche
a Modena 1945-1946, Milano, Angeli, 1995).
Il discorso si è poi allargato agli atti di violen­
za compiuti anche in altre zone d’Italia con­
tro i fascisti, allo scopo di ricostruire un sorta
di archeologia della violenza. Il quadro è
753
molto complesso, ma è possibile iniziare a
distinguere almeno le diverse forme di vio­
lenza, che si mescolano e si intrecciano in
un arco molto ampio: da un lato proseguo­
no le azioni gappistiche, dall’altro si verifica­
no forme estreme di violenza collettiva, che
hanno nei linciaggi il loro culmine, senza
contare episodi che si collocano al confine
tra criminalità politica e criminalità comune.
La frizione tra la vicinanza temporale di
questi eventi e la loro lontananza culturale
e il frequente verificarsi del fenomeno della
rimozione, fa emergere il problema del rap­
porto tra dovere della memoria e diritto al­
l’oblio. Appare inoltre significativo il perdu­
rare, anche oltre la prima fase del dopoguer­
ra, di episodi di collera popolare, alimentata
dalla delusione crescente per una giustizia
non fatta e spiegabile con il tentativo di so­
stituire alla tardiva o inesistente giustizia dei
tribunali il giudizio inesorabile dei testimoni
e della vittime. L’evento è accompagnato da
un duplice possibile comportamento colletti­
vo: un silenzio unanime sull’uccisione e una
sostanziale rimozione, ma anche una presa
di distanza da atti che apparivano, già allo­
ra, destituiti di legittimità.
Silvana Sgarioto