Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano Iscrizione all

Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
Iscrizione all’anagrafe della popolazione
residente in Italia e dovere di contribuire
alle spese pubbliche
Roberto Franzè
Professore aggregato di diritto
tributario nell’Università della Valle d’Aosta
Sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 21970 del 28
ottobre 2015
La recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione n.
21970 del 28 ottobre 2015 ben si presta a riaccendere il dibattito – per la verità, mai completamente sopito – sul ruolo che
assume l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente in
Italia quale criterio di collegamento personale nell’imposizione
reddituale sulle persone fisiche. È ben noto che, giusta il disposto dell’articolo 2 del Decreto del Presidente della Repubblica
(di seguito D.P.R.) n. 917/1986 (di seguito TUIR), ai fini delle
imposte sui redditi, le persone fisiche sono considerate essere
fiscalmente residenti in Italia se “per la maggior parte del periodo
di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o
hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del
codice civile” (così il comma 2 del citato articolo 2).
I tre criteri disciplinati dalla disposizione legislativa rivestono
una centrale importanza nel sistema dell’imposta sul reddito
delle persone fisiche non solo perché alla residenza/non
residenza è ricollegata, nell’ambito del TUIR, un’obbligazione
tributaria basata (per i residenti) sul reddito ovunque realizzato
ovvero (per i non residenti) sul solo reddito realizzato in Italia
ma anche perché dalla residenza/non residenza discendono
importanti conseguenze anche sulla struttura dello stesso
presupposto impositivo: basti pensare che, nei confronti dei
soggetti non residenti, l’imposizione reddituale perde gran
parte del suo carattere di personalità (per via dell’utilizzo,
da parte del legislatore, di meccanismi di imposizione basati
sulla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o sull’ imposizione
sostitutiva), che, viceversa, preserva, sia pure con deroghe, per
l’imposizione dei soggetti residenti nel territorio dello Stato.
Quanto sopra spiega l’importanza di un’indagine vertente
sulla coerenza intrinseca dei criteri di collegamento personali
prescelti dal legislatore rispetto al principio di capacità contributiva stabilito dall’articolo 53 della Costituzione italiana.
L’articolo 53 della Costituzione impone che a fondamento
dell’imposizione (anche di quella reddituale) si ponga un dovere
inderogabile di solidarietà e che questo dovere deve gravare
su tutti i consociati in quanto membri di una collettività
organizzata e, in quanto tali, chiamati a partecipare alla vita
ed allo sviluppo di essa, da un lato fruendo dei conseguenti
benefici, dall’altro destinando parte delle proprie risorse al
sostegno dei relativi oneri. Scritto in altri termini, nessuna
chiamata al concorso delle spese pubbliche di una collettività
organizzata può essere predicata, in ragione dell’articolo 53
della Costituzione, in capo ad un soggetto se essa non trova il
suo fondamento in un criterio di collegamento personale che
sia idoneo ad evidenziare l’appartenenza economico-sociale
del soggetto medesimo a quella collettività. In questo senso,
quindi, occorre interrogarsi se i tre criteri normativi individuati
dal legislatore del TUIR siano idonei a legittimamente fondare
quella appartenenza economico-sociale della persona fisica
nei cui confronti anche uno solo di quei tre criteri normativi
si realizza.
E l’importanza di una siffatta indagine è esaltata dalla stessa
sentenza di Cassazione n. 21970 del 28 ottobre 2015 nella
quale si legge che “ai fini delle imposte dirette, le persone iscritte
nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’articolo 2 TUIR, in ogni caso
residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di
ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero
non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di
un Comune italiano” (cfr. Cassazione n. 677/2015, Cassazione
n. 14434/2010, Cassazione n. 9319/2006, Cassazione n.
13803/2001, Cassazione n. 1225/1998).
Passando in rassegna i primi due criteri di collegamento personale individuati dal legislatore del TUIR, e cioè il domicilio
e la residenza del codice civile, si rileva una loro tendenziale
idoneità a fondare un’appartenenza economica e sociale del
soggetto che li integra.
Nella disciplina codicistica – espressamente richiamata dal
legislatore del TUIR – il domicilio individua il luogo in cui la
persona ha stabilito il centro principale dei propri affari ed
interessi, sicché esso riguarda la generalità dei rapporti del
soggetto – non solo economici ma anche morali, sociali e
familiari – e va desunto alla stregua di tutti quegli elementi
di fatto che, direttamente od indirettamente, denuncino la
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presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti e il
carattere principale che esso ha nella vita della persona (cfr.
Cassazione 5 maggio 1980, n. 2936).
La residenza è, invece, determinata dall’abituale e volontaria
dimora della persona fisica in un determinato luogo, cioè
dall’elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente,
rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (cfr. Cassazione 14 marzo 1986, n. 1738).
Così definite – la residenza ed il domicilio ai sensi del codice
civile – non può dubitarsi della loro astratta idoneità a fondare
la presunzione di appartenenza economico e sociale della
persona alla collettività organizzata nella quale la residenza
o il domicilio sono, per l’appunto, stabiliti. Entrambi i criteri,
in effetti, postulano l’istituzione di relazioni con la collettività
nonché l’assunzione di un ruolo da parte della medesima
collettività come ambito di svolgimento dei rapporti giuridici,
economici e sociali dei soggetti che vi appartengono.
In dottrina sono state, invece, avanzate circostanziate critiche
all’idoneità dell'iscrizione alla anagrafe della popolazione
residente a rappresentare un idoneo criterio di appartenenza economico e sociale ad una collettività organizzata:
si è, infatti, obiettato che si tratta di un criterio irrazionale
in quanto opererebbe indipendentemente dalla volontà del
soggetto, con la conseguenza che potrebbe portare ad un
assoggettamento ad imposta anche persone che siano prive
di un qualsiasi collegamento con la comunità organizzata le
cui spese sarebbero chiamate a sostenere.
Deve essere, all’uopo, evidenziato che, giusta il disposto
dell’articolo 1 della Legge del 24 dicembre 1954, n. 1228
“nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni
relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che
hanno fissato nel comune la residenza, nonché le posizioni relative
alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il
proprio domicilio, in conformità del regolamento per l’esecuzione
della presente legge” e che, giusta il disposto dell’articolo 2 della
medesima legge, “è fatto obbligo ad ognuno di chiedere per sé e
per le persone sulle quali esercita la patria podestà o la tutela, la
iscrizione nell’anagrafe del comune di dimora abituale e di dichiarare
alla stessa i fatti determinanti mutazione di posizioni anagrafiche”.
In estrema sintesi, quindi, i presupposti per l’iscrizione anagrafica sono rappresentati da quei medesimi criteri – la residenza
ed il domicilio previsti dal codice civile – che assumono
un’autonoma rilevanza ai fini dell’attribuzione della residenza
fiscale, sicché se ne deve dedurre che, secondo le intenzioni del
legislatore del TUIR, l’iscrizione anagrafica dovrebbe assurgere a criterio di collegamento anche in assenza dei requisiti
sostanziali che la giustificano. Scritto in altri termini, se il
legislatore del TUIR ha inteso dare rilevanza all’iscrizione anagrafica in modo autonomo rispetto ai criteri della residenza e
del domicilio del codice civile, se ne deve dedurre che, secondo
le intenzioni del legislatore medesimo, essa dovrebbe essere
idonea ad attribuire la residenza fiscale anche in assenza di un
domicilio o di una residenza della persona fisica in Italia.
Occorre, quindi, interrogarsi se il criterio dell’iscrizione anagrafica – in assenza del domicilio o della residenza della persona
in Italia – possa essere espressivo di quella appartenenza
alla comunità economico e sociale della quale la persona
dovrebbe sostenere le spese. In dottrina, anche evocando il
disposto dell’articolo 44 del codice civile (secondo cui “il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona
fede, se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge”), si è
ritenuto che tutte le volte in cui le risultanze anagrafiche siano
corrispondenti a quanto voluto dal contribuente – e cioè non
sia possibile dimostrare che il contribuente non avesse voluto
iscriversi o avesse voluto cancellarsi – lo stesso non possa
opporre ai terzi la divergenza dalla realtà di quanto egli stesso
ha inteso far apparire.
Resta, secondo chi scrive, comunque la riflessione che i criteri
di collegamento, nella prospettiva del rispetto del principio
di capacità contributiva, dovrebbero essere espressivi di
un’appartenenza non solo formale ma anche sostanziale alla
collettività della quale si sostengono le spese; diversamente
argomentando, oltre che fondare il prelievo tributario su
situazioni apparenti (piuttosto che reali), si finirebbe per
rimettere alla discrezionalità del contribuente il dovere di
pagare le imposte.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.retelenford.it/images/cassazione.JPG [30.10.2016]