JFK: 50 anni dopo La misura del tempo trascorso è data dalla nostra prima reazione di fronte a quelle 3 lettere. No, non si tratta del più importante aeroporto di New York; ma del Presidente degli Stati Uniti caduto sotto i colpi di un’arma da fuoco il 22 novembre del 1963. Il pubblico americano agli inizi non sembrò reagire particolarmente alla notizia; ma dopo il pianto di Walter Cronkite in diretta televisiva una commozione profonda si impadronì del Paese e del resto del mondo. Cosa si può dire oggi, dopo mezzo secolo e all’alba di un differente millennio? Mi sembra che si possano fare almeno due considerazioni che restituiscono attualità alla tragedia. La prima. JFK era quello che gli antichi Greci avrebbero definito un uomo “caro agli Dei”: giovane, bello, ricco, membro di una élite esclusiva non solo per via dei beni di fortuna; ma anche sotto l’aspetto sociale e culturale: Boston significa New England, la cellula primigenia e “aristocratica” degli Stati Uniti … Inoltre il padre – seppure figura assai discussa in città per essersi arricchito come distributore del whisky scozzese – era stato nominato addirittura ambasciatore degli USA in Inghilterra da Roosevelt. Fu bruscamente richiamato nel 1940 per aver sostenuto che la democrazia era cessata nel regno Unito, e presto lo stesso sarebbe accaduto negli USA … JFK, anche grazie a queste “virtù” e ad una straordinaria capacità di fascinazione, fu capace di suscitare attorno a sé un consenso enorme, o meglio: una attesa collettiva, una speranza per un mondo migliore che nessuna delle grigie figure politiche contemporanee – Eisenhower, Nixon ecc. – sarebbe mai stata capace di evocare. Oggi possiamo fare un bilancio. JFK si lanciò nella sciagurata avventura della Baia dei Porci, portò il mondo alla soglia di un conflitto nucleare, dal quale seppe fortunatamente ritrarsi all’ultimo momento; in Vietnam non seppe cogliere il significato - politico prima ancora che militare - della battaglia di Ap Bac, e neppure quello del sacrificio dei monaci buddisti che si diedero fuoco per protestare contro l’impresentabile regime di Diem. Un bilancio politico non esaltante. Paradossalmente, di gran lunga inferiore a quello del suo controverso successore LBJ che JFK detestava, per altro ricambiato. A Lyndon Johnson si debbono il fondamentale Civil Rights Act del 1964, Medicare e Medicaid per un sistema sanitario pubblico e soprattutto la concezione generosa e audace di una Great Society. Si può perciò affermare che JFK fu in definitiva un evocatore di speranze dall’enorme capacità di comunicare: il suo grido “Ich bin ein Berliner!” resterà sempre come uno dei messaggi più suggestivi e “forti” mai pronunciati da uomo politico. Un messaggio nobile; ma gli uomini politici che dagli Dei hanno il dono di sapere suscitare emozioni hanno anche il dovere – o meglio: la responsabilità politica – di sapere dare seguito concreto e puntuale alle promesse, e di venire incontro con fatti ed opere sostanziali e coerenti alle grandi attese evocate. La seconda considerazione. L’assassinio di JFK resta circondato da una nuvola di ipotesi, sospetti, speculazioni che ancora oggi non è stata dissipata. Vi è di tutto: Johnson, Castro, la CIA, la mafia tra i mandanti; la singolarità dell’arma impiegata; la presenza di uno o più complici accanto al misterioso Oswald; la morte di quest’ultimo – nonostante fosse circondato e “protetto” da un nugolo di poliziotti – per mano di un altrettanto equivoco e misterioso Ruby … Vi sono momenti nella storia delle società civili in cui queste sembrano avere smarrito la ragione; le macerie della verità scompaiono schiacciate dal peso di illazioni, sospetti e denunce che possono addirittura mettere a rischio i meccanismi essenziali sui quali quelle stesse società si fondano. Ne seppe qualcosa lo stesso Johnson, il quale – nonostante tutto – non riuscì mai a liberarsi dal sospetto e dalla pubblica diffidenza. Queste nuvole di ipotesi e speculazioni sono altamente tossiche. Soffocano un Paese, generando sfiducia nelle istituzioni e disistima nei confronti delle classi dirigenti. Nessun sacrificio – anche personale – sarà mai eccessivo se contribuirà a diradarle per sempre.