JFK, LA LEGGENDA E LA REALTA' Un campione della sinistra e dell'unilateralismo Il 22 novembre 1963 John F. Kennedy veniva assassinato a Dallas, Texas. Il 35° presidente degli Stati Uniti era restato alla Casa Bianca per “mille giorni”, dopo essere stato eletto a 43 anni, il più giovane nella storia, il primo cattolico e il primo nato nel Ventesimo secolo. In questi giorni se ne celebra la memoria in Italia con convegni e iniziative giornalistiche cui prendono parte personaggi in qualche modo riconducibili al kennedismo: familiari, antichi collaboratori, studiosi e cultori del “mito”. Quel mito che specialmente nel nostro Paese ha un folta schiera di officianti che tendono ad occupare l’immaginario pubblico rimuovendo ogni più seria riflessione storica e critica sull’importante ruolo che JFK nella vicenda contemporanea, americana e mondiale. Al mito kennediano contribuiscono due ingredienti: l’immagine della persona e le modalità della sua fine. Non c’è pubblicazione, trasmissione, rievocazione e intervista che non sottolinei la straordinarietà e singolarità dello stile di vita che John portò alla Casa Bianca, e non mitizzi la giovinezza, la vitalità, il fascino e l’attrazione che la sua persona irresistibilmente emanava. A questa impostazione concorre la sempreverde leggenda costruita intorno alla moglie Jacqueline e alle donne di cui il Presidente era noto estimatore e brusco consumatore, nonché le oleografie sulla dinastia familiare perpetuate fino a Schwartznegger. Non è perciò difficile comprendere come mai la realtà della Presidenza Kennedy sia stata offuscata o comunque distorta presso l’opinione pubblica dal mito. L’altro pilastro della mitologia è l’assassinio di Dallas: il modo in cui JFK è morto è divenuto più importante del modo in cui è vissuto. Del resto, quando la vita giovane di un uomo potentissimo viene stroncata, è ovvio che ci si interroghi non su quello che l’uomo ha fatto bensì su quello che avrebbe potuto fare se fosse rimasto in vita. Inoltre le modalità dell’assassinio e la catena delle morti violente che ne sono seguite hanno offerto il terreno ideale per la fioritura di dietrologie che, di per sé, sono divenute simboliche non solo della tragedia kennediana ma degli stessi valori che si ritiene che il presidente Kennedy impersonasse. Il Presidente è stato ucciso, si è seguito a ripetere con sempre maggiore insistenza e minore argomentazione, perché era uomo di pace, di giustizia e di libertà. 1 Dunque la morte di JFK ha alimentato ciò che la sua vita non è stata o, forse, è stata solo in parte ma che molti speravano che potesse essere. * * * Parte importante delle celebrazioni romane avrà Arthur M.Schlesinger Jr, storico di prestigio ed autore nel 1967 di A Thousand Days: John Kennedy in the White House, capostipite della letteratura di glorificazione kennediana: “Ha riportato questo Paese indietro alle sue migliori tradizioni, ripulendo nel mondo l’impressione di una vecchia nazione e di un vecchio uomo [Eisenhower], stanco, antiquato, timoroso delle idee, del cambiamento e del futuro… Ha trasformato lo spirito americano… Le energie che ha messo in moto, gli standard che ha affermato, i propositi che ha ispirato e gli obiettivi che ha stabilito guideranno negli anni che verranno la terra che amava”. E’ fuor di dubbio che l’elezione del giovane Presidente dopo gli “anni del conformismo” di Eisenhower, abbia rappresentato una svolta psicologica nella massima istituzione americana, la Presidenza, tanto più in quanto avvenne contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo di quei movimenti sociali nuovi che avrebbero dominato la scena americana negli anni Sessanta ben oltre lo stesso Kennedy. Ma quel che in Italia viene spesso mistificato, è proprio il senso dell’opinione di Schlesinger Jr. che lo stesso storico avverte essere “non una storia comprensiva della presidenza Kennedy, ma una memoria personale di una persona che ha servito alla Casa Bianca durante gli anni di Kennedy”. Alimentare il mito kennediano sulla base di queste opere, è un cattivo servizio che si rende anche all’onestà di chi propone una memoria così appassionatamente personale, consegnata al pubblico a poca distanza da un assassinio così impressionante. Per fare un paragone comprensibile è come se in Italia si scambiassero le memorie di Tonino Tatò per una storia di Enrico Berlinguer. Un’altra opera che ha avuto grande influenza nella percezione popolare è il Kennedy di Theodore C.Sorensen, il collaboratore del Presidente addetto a scrivere i discorsi e quindi all’origine diretta della retorica cresciuta sul verbo kennediano: “Sarebbe difficile misurare John Kennedy con un metro storico ordinario. E’ stato un uomo straordinario, un politico straordinario e 2 uno straordinario Presidente. Come nessun grafico nella storia delle armi può riflettere accuratamente l’avvento dell’atomo, così credo che nessuna misurazione del bene e del male è adeguata per JFK. Una mente così libera dalla paura, dal mito e dal pregiudizio, così opposta alle cantonate e ai cliché, così riluttante alla finzione e ad essere ingannato, ad accettare o riflettere la mediocrità, è rara nel nostro mondo, e ancor più rara nella politica americana. Senza diminuire alcuno dei grandi uomini che hanno fatto i Presidenti in questo secolo, non vedo come John Kennedy possa essere secondo a nessuno”. Se però ci si vuole sottrarre alla “Leggenda Camelot” che seguita a riproporre stancamente quel che all’indomani della scomparsa del Presidente scrissero da memorialisti i suoi più stretti collaboratori (anche Sorensen avverte “un appassionato partecipante non può essere un osservatore obiettivo), e si vuole tentare un’analisi più circostanziata, è opportuno fare una ricognizione della storiografia che per quarant’anni ha seguitato ad interrogarsi sulla Presidenza Kennedy ed a proporre nuove interpretazioni. * * * Non pochi storici che potremmo definire “revisionisti”, hanno esplorato i diversi aspetti della Presidenza Kennedy, specialmente quando sono state rese consultabili fonti in precedenza indisponibili. E’ così che è stata messa in dubbio con sempre maggiore consistenza la linea Schlesinger/Sorensen considerata come una ricostruzione tendenziosa volta a gonfiare i successi e a minimizzare i fallimenti della Presidenza. Non mi riferisco qui a tutti quegli aspetti “personali” riguardanti il suo stile di vita che hanno portato JFK a sfiorare alcuni boss del crimine organizzato, e neppure alle sistematiche menzogne circa il suo stato di salute, le sue medicine e droghe che potevano influire sulla sua condotta politica. Non è questo il metro per valutare il senso politico della Presidenza, se non per quel tanto che poteva influire sulle scelte e sui comportamenti politici. Interessa piuttosto la scoperta e la conoscenza che si sono andate allargando di vicende e atti della sua Amministrazione tenuti nascosti, nonché i solidi approfondimenti che sono stati messi in ombre dall’eccessiva enfasi sull’immagine dell’uomo. 3 Con la pubblicazione dei “Pentagon Papers” nel 1971, si è avanzato il sospetto che Kennedy sarebbe entrato ancor più pesantemente di quel che fece in Vietnam, sulla stessa linea poi seguita dal successore Lyndon Johnson, con un’interpretazione che ribalta quella accreditata dai kennediani. Nel 1975 una commissione del Senato rendeva pubblica un’inchiesta sui presunti tentativi di assassinio di leader esteri incluso Fidel Castro da parte della CIA, i cui piani furono in gran parte preparati durante l’Amministrazione Kennedy. Lo storico Garry Wills, nel suo The Kennedy Imprisonnment: A Meditation on Power del 1982, sottolinea come il tentativo di invasione di Cuba preparato dalla Cia non fu praticamente sottoposto ad alcuna analisi da parte del nuovo Presidente con l’effetto sia di mandare allo sbaraglio gli esuli cubani sia di provocare un danno di immagine per gli Stati Uniti. Anche la cosiddetta operazione “Mangusta”, preparata successivamente per ribaltare Castro, fu rovinosamente abbandonata, così come risultarono dei fallimenti i laboratori di tattica controinsurrezionali sperimentati in Vietnam. Un altro storico, Thomas Reeve, in A Question of Character sostiene che la ragione della debolezza della leadership di Kennedy stava nella completa mancanza del senso di moralità che fu alla base dell’autorizzazione della spedizione della Baia dei porci, dell’escalation in Vietnam e della tardiva conversione alla politica dei diritti civili. Thomas Paterson, da parte sua, contesta un altro luogo comune della leggenda kennediana secondo cui negli ultimi mesi di vita il Presidente stava sviluppando un più maturo e moderato approccio alla politica estera. Herbert S.Parmet in JFK del 1983 ritiene che l’inclinazione di Kennedy per le guerre segrete all’estero abbia favorito le crisi internazionali degli anni successivi, un fallimento pari alla mancanza di determinazione nel far votare dal Congresso programmi di riforma all’interno. Più recentemente, nel 1991, James N. Giglio in The Presidency of J.Kennedy dà un giudizio più equilibrato sull’intera Presidenza: “Gli Stati Uniti stavano meglio nel novembre 1963 alla morte del Presidente di quanto lo fossero all’inizio nel gennaio 1961…In conclusione JFK è stato superiore alla media dei Presidenti americani, buono ma non grande”. Infine tra i tanti altri che si sono occupati della questione, Michael R. Beschloss in The Crisis Years: Kennedy and Khrushev 1960-1963 apparso nel 1991 distingue nella politica estera di Kennedy tra la mancanza di abilità nelle questioni di 4 lungo termine e la buona capacità di risolvere le crisi di breve termine. * * * Le molte ricerche apparse negli ultimi trent’anni modificano notevolmente le interpretazioni agiografiche più diffuse che hanno tenuto e seguitano a tenere banco presso i cultori del mito kennediano . Ma per fare un bilancio complessivo occorre superare sia la linea cosiddetta “Camelot” (il mito), sia quella antiCamelot, tentando di concettualizzare i principali snodi che hanno caratterizzato la Presidenza Kennedy in politica estera e in politica interna. Quando JFK fu eletto alla Presidenza come Democratico con un esiguo margine di voti sull’avversario Repubblicano Richard Nixon (vice di Eisenhower), gli Stati Uniti si trovavano in piena Guerra fredda. La linea portante della politica estera era il “contenimento” del blocco sovietico con l’uso, se necessario della “rappresaglia massiccia” anche atomica. Il confronto/scontro tra i due blocchi era ideologico, politico, militare e anche, per così dire, morale. Durante la seconda Presidenza Eisenhower (1955-61), si era diffusa l’impressione che gli Stati Uniti fossero in posizione di ripiegamento, quasi per un complesso di inferiorità rispetto all’URSS guidata dal nuovo aggressivo leader post-staliniano Chruscev che puntava sull’espansione economica e sulla gara tecnologica. Si aggiunga che il movimento comunista internazionale non era più limitato all’Unione Sovietica ma fioriva in ogni angolo del mondo, in Asia, Africa e America latina, sia direttamente (Cina) che attraverso le forze della decolonizzazione al massimo del vigore. A questo clima, che fu definito di “apatia” occidentale, contribuirono negli Stati Uniti anche l’immagine pubblica di un Eisenhower che apparve logorata, la malattia e poi la morte (1959) dell’artefice della politica estera John Foster Dulles, e il lancio dello Sputnik (ottobre 1957), il primo ordigno spaziale che apparentemente indicava la preminenza tecnologica, quindi militare, dei sovietici. E’ su questo sfondo che l’elezione di Kennedy nel novembre 1960 assunse il significato di una svolta radicale il cui banco di prova non poteva che essere il ruolo internazionale dell’America in un mondo diviso con un’accentuata competizione tra i due blocchi. Il giovane Presidente si connotò subito e continuò ad agire fino 5 alla fine come un energetico e fervente anticomunista che fece della contrapposizione dura all’Unione Sovietica di Chruscev e più in generale a tutte le forme in cui si manifestava il comunismo internazionale, la sua missione centrale. Ricorrendo alle categorie usate nel mondo bipolare, John Kennedy deve essere senz’altro definito un “Cold Warrior”, sottospecie “falco” , ben più dei suoi predecessori Truman ed Eisenhower e di molti dei suoi successori. Questo aspetto è stato talvolta occultato da quei cultori del mito che hanno voluto vedere in JFK un campione della distensione (perseguita nell’ultimissima parte della Presidenza dopo una vita passata a mostrare muscoli), se non addirittura il rappresentanti di una sinistra corriva e accomodante con il mondo comunista. Tutte le sue brevi ma intense iniziative in politica estera e militare e le sue scelte tattiche e strategiche non possono che essere lette in questo quadro, anche se alcune furono coronate da successo e altre da fallimenti, alcune ebbero vero e proprio carattere di scontro ideologico altre invece aprirono la strada alla trattativa tra i due blocchi come nel caso del Limited Test Ban Treaty tra Urss, Usa e Gran Bretagna dell’aprile 1963. * * * La filosofia di JFK più volte enunciata faceva perno sulla convinzione che l’avversario sovietico e comunista andasse affrontato con ogni mezzo ricorrendo alla totale mobilitazione delle energie americane. E’ vero che sostituì alla strategia della “massive retaliation” di Foster Dulles, quella della “risposta flessibile” elaborata dal Segretario alla difesa Robert McNamara, ma questo nuovo indirizzo faceva perno sul pesante riarmo sia di natura convenzionale, sia atomico tattico e atomico strategico. Senza volere entrare nei dettagli, è un fatto che Kennedy sviluppò straordinariamente gli armamenti di ogni tipo, per esempio la costruzione di una quarantina di sottomarini nucleari e i missili a testata multipla. Del resto le più importanti vicende della sua breve ma travagliata Presidenza parlano chiaro. Appena insediato alla Casa Bianca, nel gennaio del 1961, ruppe le relazioni con la Cuba di Castro e diede il via libera al tentativo di invasione della Baia dei Porci (aprile 1961), senza peraltro assumersi la responsabilità dell’iniziativa preparata dalla CIA né correre in soccorso degli esuli cubani mandati allo sbando sull’isola. Nel primo incontro con 6 Chruscev a Vienna (giugno 1961) si mostrò molto più duro del suo predecessore, tanto da meravigliare l’interlocutore sovietico. In uno storico discorso del luglio 1961 enunciò i principi della sua politica muscolare: rafforzamento dell’armamento nucleare e convenzionale, orgoglio della potenza americana che doveva essere incontrastata nel mondo e proclamazione della sua superiorità atomica che sarebbe stata usata in caso di necessità. Quando nell’estate del 1961 fu costruito il Muro a Berlino, Kennedy reagì con estrema durezza raffermando per la prima volta che gli americani sarebbero restati in Europa, in particolare in Germania, a tempo indeterminato assicurando la difesa del vecchio continente dall’espansione sovietica: “Credo che i comunisti comprendano che Berlino Ovest è per noi di interesse vitale e che abbiamo intenzione di rimanerci”. Nella crisi dei missili a Cuba (autunno 1962) costrinse Chruscev a fare marcia indietro arrivando sull’orlo dell’abisso nucleare anche se portava qualche responsabilità per avere fornito l’alibi all’intervento sovietico a protezione dell’isola centroamericana a cui erano stati diretti diversi progetti di invasione. L’Alleanza per il progresso disegnata per l’America latina sul modello del Piano Marshall non andò molto avanti perché non faceva affidamento su classi dirigenti locali in grado di gestire sviluppo economico e democratizzazione. Dove tuttavia furono maggiori le responsabilità nel fallimento della sua politica anticomunista fu nel Vietnam. Si deve a Kennedy e a nessun altro che alla sua decisione l’intervento militare americano in quella regione asiatica condotto con il criterio dell’escalation fin dal 1961 per combattere il comunismo, una strategia che portò alle ben note disastrose conseguenze che affondarono il suo successore Johnson. Anche per quel che riguarda i rapporti con l’Europa nell’ambito dell’Alleanza atlantica, si tende ad ammorbidire quel che fu il reale atteggiamento di Kennedy. Il giovane Presidente era sì per cultura “più europeo” di altri Presidenti, ma nei rapporti atlantici agì da deciso “unilateralista “ e “interventista”. Nella gravissima crisi di Cuba, gli alleati europei furono tenuti completamente all’oscuro; a Berlino fu chiaro che gli Stati Uniti intendevano dirigere senza interferenze l’intera politica occidentale e, più in generale nella strategia del riamo nucleare, fu proprio durante il periodo kennediano che i poteri di comando furono concentrati nelle mani americane sì da provocare la reazione di De Gaulle: “Nei prossimi mesi” dichiarò nella sede qualificata del 7 National Security Council nel gennaio 1963, “sarà necessario concentrarsi sugli interessi degli Stati Uniti. La nostra politica [europea] è stata molto generosa, ma noi abbiamo perso la nostra potenza economica e la nostra influenza su quei Paesi. Non crediate che gli Europei facciano qualcosa per noi checché gli Stati Uniti abbiano fatto per loro. Sarà necessario che i nostri rappresentanti difendano con molta forza gli interessi americani”. * * * Il Presidente è stato descritto come il sostenitore all’interno dei diritti civili. La realtà storica è alquanto diversa. Il movimento per i diritti civili incentrato in un primo tempo (1956-1963) sulla desegregazione degli Stati meridionali nasceva dalle popolazione locali guidate dai pastori delle chiese nere (Martin Luther King) e poi sostenuto dai giovani attivisti bianchi e neri che venivano dai movimenti militanti nonviolenti sorti nelle università del Nord. Quello dei diritti civile era dunque un movimento autonomo dalla politica tradizionale, specialmente da quella del partito Democratico che nazionalmente si reggeva ancora sulla coalizione rooseveltiana composta dai sindacati, i gruppi etnici, i liberal progressisti e i conservatori segregazionisti del Sud. John Kennedy, per essere eletto nel 1960, ebbe bisogno anche del sostegno determinante dei Democratici del sud (Dixiecrat) attestati su posizioni fortemente anti-diritti civili. Proprio per questo l’intera politica interna kennediana fu assai prudente nell’intervenire sui diritti civili, almeno fin quando, nella primavera 1963 a Birmingham in Alabama, vi fu una durissima repressione del manifestanti neri da parte della polizia locale. E’ solo allora, a soli tre mesi dalla sua morte, che si colgono nel discorso all’Università dell’Alabama dei segni concreti ed espliciti di attenzione alla situazione dei neri del Sud. Per la prima volta la desegregazione viene definita da Kennedy “una questione morale” più che “una questione politica” e viene preannunciata un’iniziativa legislativa federale per i diritti civili che sarebbe stata portata a compimento nel 1964 da Lyndon Johnson. Ma la campagna per i diritti civili era iniziata da ben dieci anni con la storica sentenza della Corte suprema (Brown vs. Board of Education) che aveva dichiarato di per se portatrice di disuguaglianza la separatezza (segregazione) tra neri e bianchi. In definitiva i risultati della politica interna di Kennedy furono poveri, poverissimi. E’ invece L.B. Johnson il Presidente 8 Democratico che riuscì a realizzare su grande scala il più vasto programma sociale riformatore mai messo in atto dopo F.D.Roosevelt con una serie di provvedimenti sui diritti civili, il welfare e il sostegno ai poveri e marginali. John F. Kennedy non aveva la forza per fare approvare in Congresso proposte riformatrice, anche ne avesse voluto la voglia, ne avesse avvertito la priorità e l’urgenza, cosa di cui c’è da dubitare, almeno stando ai documenti. Il Foglio 18 novembre 2003 | Torna agli articoli | Scrivete a [email protected] | 9