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Locke voleva sottolineare i limiti della ragione: l’esperienza. La ragione lavorava nei limiti
dell’esperienza. Il ragionamento si attivava a seguito dell’esperienza. Il ragionamento si
attivava a seguito dell’esperienza e non era un criterio assoluto di verità e di certezza.
Mentre Cartesio aveva visto nella ragione uno strumento certo di verità, attraverso il
processo della deduzione e del metodo, per Locke la ragiona non era criterio di
accertamento. Nemmeno l’esperienza, però, era infallibile. Essa semplicemente era alla
base del processo conoscitivo e la ragione faceva il resto (e non è vero che contava solo
l’esperienza). Dire che la ragione non era come la riteneva Cartesio, voleva dire avere un
atteggiamento antimetafisico.
Essa, per definizione, si allontanava dalla e quindi dall’esperienza; Locke, quindi era
antimetafisico.
Il pensiero di Locke influenzò molto quello anglosassone
BIOGRAFIA
Nacque a Wrington nel 1632 ma studiò ed insegnò ad Oxford. Lo studio includeva anche
Cartesio, Hobbes e i suoi erano studi di filosofia naturale (scienza) e di medicina. Locke era
molto interessato, infatti, al corpo umano. Non era un intellettuale di accademia ma
divenne intellettuale della famiglia Shaftesbury. Lord Shaftesbury faceva parte dei Wigs
(rivoluzionari e progressisti)
Locke visse negli anni tra la prima e la seconda Rivoluzione inglese. Dopo Cromwell erano
tornati gli Stuart e Locke andò in esilio in Olanda ed era tra i sostenitori della Gloriosa
Rivoluzione. Locke lavorava proprio per questo e nel 1688 Guglielmo III d’Orange andò a
Londra, chiamato dal Parlamento e così anche Locke poté tornare in Inghilterra.
La famiglia Shaftesbury cadde in disgrazia e Locke andò a Parigi. Qui scrisse le opere più
importanti di varia tematica: epistemologico, politico, ontologico.
Locke era un teorico della monarchia costituzionale, che aveva visto nascere e formarsi.
Oltre ad essere un consigliere politico faceva parte delle compagnie commerciali e
coloniali, ricavando molto dalla tratta degli schiavi.
Le opere di Locke sono datate 1690: “Trattato sul governo civile” (Primo e secondo) e
“Saggio sull’intelletto umano”
SAGGIO SULL’INTELLETTO UMANO
Il preambolo era che se la ragione non faceva i conti con l’esperienza, non raggiungeva e
se essa non veniva considerata si sbagliava. Tuttavia, la ragione, pur fallibile, era una guida
fondamentale e indispensabile per l’uomo. Qui Locke intendeva ideare i limiti della
ragione. Era diviso in 4 libri; la tematica principale era la ή (mente)
I PARTE: Innatismo
C’è una forte polemica all’innatismo: per Locke, non esistevano idee innate, correlate alla
mente nel momento della nascita senza le quali non si poteva fare esperienza (come
suggeriva Platone oppure Cartesio, Leibnitz).
Locke pensava che la mente fosse una tabula rasa al momento della nascita. Locke utilizzò
due argomentazioni
1) Non c’era nulla nella testa delle persone senza esperienza (es. gli sciocchi ed i bambini
non conoscevano)
2) Se ci fossero idee innate ci sarebbero uniformità nelle mentalità e nelle culture; le
differenze di pensiero sono la prova dell’assenza delle idee innate.
PARTE II, III, IV
Nelle altre tre parti Locke cerca di spiegare il meccanismo della mente umana e il suo
funzionamento. Le idee derivavano dall’esperienza che aveva due forme:
-fatta con i sensi, primo veicolo
-mediante introspezione: avere consapevolezza di star facendo esperienza. Infatti, non
tutte le esperienze penetravano la coscienza ma alcune scorrevano venendo
inconsapevolmente percepite.
Nel momento in cui si faceva esperienza si formavano nella mente delle corrispondenti
idee semplici. Un’idea semplice era una traccia mnemonica della esperienza fatta
precedentemente. Essa era già più impallidita rispetto all’esperienza vera. Questa idea
semplice si formava a seguito della percezione e introspezione dell’esperienza.
La mente, poi, combinava le idee semplici in maniera consapevole o meno, ottenendo idee
composte o complesse (le prime erano composte da due idee semplici, le altre da idee
semplici intrecciate).
Le idee non si distruggevano, una volta formatesi nella mente.
Locke, fece l’esempio dell’idea dell’oro: essa si formava a seguito di esperienze di
lucentezza, peso, composizione; tutte qualità percepite dai cinque sensi. Queste qualità
andavano a costruire un’idea complessa: l’oro.
Come si legavano le qualità esperite? Come avveniva la composizione? In tre modi, con tre
procedimenti categoriali: modo, sostanza e relazione. La mente combinava le esperienze
ma questo modo di combinarle non lo esperiva, era innato. L’uomo metteva insieme le
qualità a seconda del modo, della sostanza di cui erano fatte. Si mettevano insieme le
qualità e si definivano il modo e la sostanza di una cosa e la relazione con le altre realtà.
Caratteri come identità, diversità, non si esperivano ma si ricavavano dal confronto. La
mente, ad esempio, esperiva il duro e il morbido, il fuoco e il fumo, e stabiliva la loro
sostanza, il modo in cui si manifestavano e la relazione tra le due realtà. Modo, sostanza e
relazione erano frutto delle combinazioni delle qualità. Esistevano qualità poiché la mente
non esperiva cause, modi, relazioni. Queste erano le categorie date alla mente, che
prescindevano dalla esperienza ed appartenevano all’intelletto umano.
ONTOLOGIA
Nel II libro dei “Saggi sull’intelletto umano”, Locke formulò la sua “ontologia di pure
qualità”. Essa era contrapposta all’ontologia essenzialista propria della tradizione
metafisica. Essa era quella di Platone, di Aristotele e della tradizione occidentale. Questa
aveva connotato la metafisica classica, ovvero, quella che aveva distinto, nelle cose della
realtà, caratteri essenziali e caratteri accidentali. Nella tradizione metafisica Socrate, ad
esempio, si era sempre domandato il τι εστί delle cose, la sostanza. Socrate, a detta di
Aristotele, era quello che aveva inventato il concetto, ovvero la definizione minima ed
essenziale che aveva i caratteri fondamentali (ad esempio, avere il concetto di uomo voleva
dire essere in grado di definirlo). Oltre a distinguere tra caratteri essenziali ed accidentali,
l’ontologia classica riteneva che esistessero delle strutture temporali e spaziali nella realtà,
che supportassero quelle qualità accidentali o essenziali. L’ontologia classica riteneva che
nella realtà ci fossero qualità e supporti di qualità, che ci fossero essenze.
Locke era contrario e presentò una realtà caratterizzata solo da qualità, senza strutture di
supporto, senza contenitori di qualità in cui si distinguevano i caratteri accidentali da quelli
essenziali; non esistevano le sostanze giacché esse erano i modi di vedere la realtà
Locke portò avanti una rivoluzione sulla base di quella cartesiana. Non c’era solo il
discrimine tra Locke e Cartesio ma entrambi si concentrarono su un’analisi del soggetto
conoscente. Locke portò avanti un’enorme rivoluzione filosofica che gli fece scardinare la
vecchia metafisica, che voleva dire “cosa esisteva”. Per Locke, bisognava domandarsi come
la mente percepisse ciò che esisteva. Se proprio doveva rispondere diceva che esistevano
le qualità, percepite dall’esperienze.
La metafisica tradizionale non aveva analizzato adeguatamente il processo conoscitivo,
l’essenza reale e quella nominale.
Per Locke, le idee formatesi erano nomi a cui corrispondevano elenchi di qualità, che
rimanevano tali; non era la realtà ad essere categoriale ma la mente era categoriale.
Esistevano essenze nominali, non reali.
ANTROPOLOGIA
Locke rispose alla domanda “Chi siamo?”.
La prima ipotesi era che qualcuno sia sé stesso perché nel proprio corpo. Il corpo, quindi,
distingueva le persone ma questa era una spiegazione apparente, un po’ troppo
semplicistica in realtà. Allora poteva contraddistinguere la mente (i ricordi, le emozioni, le
esperienze); anche questa risposta era inadeguata. Alla fine, ci contraddistinguevano tutti i
legami con i nostri pensieri. La nostra natura era data dal flusso dei ricordi. Locke mise in
discussione anche l’essenza spirituale.
Quindi, se per Locke i metodi epistemici erano l’intuizione, la deduzione e la
dimostrazione, con la prima si percepiva sé stessi, con i sensi il mondo e con la deduzione i
concetti.
Da questa concezione antropologica Locke mise in discussione l’esistenza, in quanto
l’esperienza che ci riferiva risultati di essa, poteva non essere certa. Conclusioni scettiche.
PENSIERO POLITICO
Nel 1663 scrisse “Saggi sul diritto naturale”. Locke si pose la questione di dove venisse il
potere. Esso proveniva da Dio e l’uomo, con la ragione, era chiamato ad interpretare la
legge divina posta.
Per Locke esisteva la legge naturale, il diritto naturale. La natura aveva un ordine
indagabile, tant’è che lo scienziato scopriva le leggi che altro non sono se non un ordine
della natura. Quindi, anche la vita umana aveva leggi. C’erano leggi di natura a cui si
doveva adeguare il diritto positivo e, inoltre, non c’era alcun diritto positivo se esso non si
fondava su quello naturale.
Nel primo “Trattato sul governo civile” Locke risponde a Filmer. Questi aveva scritto “Il
Patriarca” in cui era presentata una concezione teocratica del potere. Secondo Filmer,
infatti, il potere derivava da Dio ed Egli lo aveva affidato ad alcuni eletti, i cosiddetti
“patriarchi”. Questi pochi avevano in Dio il loro referente e nei monarchi i loro discendenti.
Anche la posizione di Locke era teocratica ma, benché pensasse che Dio aveva il potere,
riteneva che Egli lo avesse dato ad ogni uomo. Tale potere apparteneva a tutti gli uomini in
egual misura. Quindi, se gli uomini erano uguali, i governatori erano tali per un proprio
mandato, per un contratto e non per un m andato divino (contrattualismo). Dire che
qualcuno era prescelto era un errore. Gli uomini, infatti, avevano individuato in alcuni le
capacità di governare e li avevano posti al governo mediante un contratto. Se quelli che
governavano negavano le leggi di natura, divine, erano usurpatori. Il contratto era un patto
per affidare ai governanti il compito di governare la società nel rispetto delle leggi di
natura, altrimenti essi andavano spodestati, in quanto tiranni e usurpatori. Non era
possibile neanche stipulare un contratto in cui si rinunciava ai diritti naturali (come, invece,
suggeriva Hobbes) ma, anzi, esso doveva agevolare e garantire i diritti naturali, preservarli,
istituirli, tutelarli. La legge positiva alla fine era ciò che meglio tutelava questo diritto
naturale.
I diritti principali erano tre: libertà, vita e proprietà privata. Essi erano nella natura stessa
delle cose e la ragione lo scopriva. Gli uomini erano tutti uguali, tuti liberi, con diritto di
vita, proprietà private. In realtà, la libertà e la vita si riassumevano nella proprietà privata
perché esse facevano parte delle proprietà umane. [Questo determinerà un’economia
liberista e possessivista]
Per Locke lo stato di natura diventava di guerra se venivano violate le leggi naturali e lo
Stato doveva tutelare questa pace, nel rispetto dei diritti naturali.
Alcuni poteri erano delegabili (come l’esecutivo) e altri no (come il legislativo)
La mappa della divisione dei poteri era:
-Potere legislativo: non era delegabili, consisteva nel fare le leggi; esse erano sempre
uguali per tutti e mai contro natura.
-Potere esecutivo: consisteva nel far rispettare le leggi e nel giudicare (infatti inglobava
anche il giudiziario). Era il diritto a governare tramite un contratto
-Potere federativo: era di gran parte di controllo degli altri poteri e si occupava anche di
relazioni estere.
Il Buon governo era realizzabile? Si, se si rispettavano le leggi di natura. Il cattivo governo
era la degenerazione del contratto sociale.
“SAGGIO SULLA TOLLERANZA” (1667)
Locke distinse le azioni come pertinenti a tre diverse sfere della vita:
-azioni che riguardavano la sfera privata (credenze personali, scelte, convinzioni) che non
avevano ricadute dal punto di vista sociale. Lo Stato non doveva regolare o regolamentare
le convinzioni delle persone.
-azioni che riguardavano sfere private ma avevano conseguenze nel sociale; ad esempio,
facendo parte di un’associazione, si portavano avanti manifestazioni, processioni ecc…
Queste azioni avevano ricadute sociali. Lo Stato doveva mantenersi lontano a meno che
non venissero minacciate la vita, la libertà e la proprietà privata dei cittadini,
-azioni buone o malvagie in loro stesse: lo Stato doveva intervenire a prescindere in
quanto venivano sempre violati i diritti.
“EPISTOLA SULLA TOLLERANZA” (1689)
Discriminava il potere religioso da quello civile, che definiva come un’associazione di
uomini liberi per la tutela del bene pubblico (definizione generale di stato). Locke
considerava questo bene come frutto del proprio lavoro, con una connotazione positiva
del lavoro. Le chiese, invece, erano associazioni di uomini liberi per la tutela dei loro beni
religiosi (anima, salvezza…). Lo Stato garantiva i beni terreni, la Chiesa quelli spirituali.
Queste due istituzioni andavano separate e tenute negli ambiti che pertenevano loro.
Questa fu la base del liberismo laico.
“RAGIONEVOLEZZA DEL CRISTIANESIMO” (1685)
Qui sostenne che il cristianesimo era una religione secondo ragione, che rispondeva
maggiormente ai principi razionali. Toland aveva già parlato in “Religione senza misteri” di
questo aspetto. Locke presentò una posizione deista (religione come istinto naturale). La
religione non era un pensiero artificiale ma un moto spontaneo all’interno dell’uomo. Il
cristianesimo era la religione più ragionevole. Nella “Epistola sulla tolleranza” aveva
sostenuto la separazione tra Stato e Chiesa ma qui disse che non ci doveva essere
tolleranza per gli atei. Come conciliare le due tesi? Non ci doveva essere tolleranza verso
gli atei perché erano privi di una morale. L’opposizione, però, era rivolta anche contro i
cattolici e i musulmani, perché queste due categorie erano definite “intolleranti” loro stesse
in quanto impedivano la separazione tra Stato e Chiesa.
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