“JURIDICHESKY CENTER” ASSOCIATION I.M. Ragimov FILOSOFIA DEI DELITTI E DELLE PENE Saint Petersburg 0 “Juridichesky Center”, Publishing House of R. Aslanov 2013 INDICE Introduzione Capitolo I. IL CRIMINE Concetto ed essenza. Cause e origini. La personalità criminale. Il futuro della criminalità 1. Concetto ed essenza del crimine 2. Cause e origini del comportamento criminale 3. La personalità criminale 4. Il futuro della criminalità Capitolo II. LA PENA Concetto ed essenza. Sostanza e attributi. Il diritto di punire. Il futuro della pena. 1. Concetto ed essenza della pena 2. Sostanza e attributi della pena 3. Il diritto di punire 4. Il futuro della pena Conclusioni Appendice Aforismi sul diritto Aforismi sul crimine Aforismi sulla pena 1 UDC 343.2; 343.97 LBC 67.408 R14 Redazione Yu.V. Golik (redattore esecutivo), M.T. Agammedov, N.A. Vinnichenko, I.H. Damenia, I.E. Zvecharovskiy, A.V. Zemskova, A.V. Konovalov, S.F. Milyukov, A.V. Salnikov, A.V. Fedorov, A.A. Eksarkhopulo Revisori: S.Ya. Guseynov, Dottore in Filosofia, Membro corrispondente dell’Accademia di Scienze Amministrative Della Federazione Russa F.M. Javadov, Dottore in legge, professore A.V. Salnikov, candidato in scienze giuridiche , Distinto lavoratore della Procura della Repubblica della Federazione Russa I.M. Ragimov R14 Philosophy of Crime and Punishment. – Saint Petersburg: “Juridichesky Center”, Publishing House of R. Aslanov, 2013. – 288 p. ISBN 978-5-94201-668-5 In questa monografia sono discussi i problemi fondamentali del diritto penale, in relazione al crimine e alla pena. Partendo da posizioni filosofiche, l’autore riflette sulle cause e sulle origini del crimine, sull’essenza della pena e sul futuro della criminalità e della sanzione penale. Questo testo è pensato per studenti, laureati e docenti di diritto, funzionari di polizia, teorici e professionisti specializzati in diritto penale, così come per filosofi, sociologi, psicologi e tutti coloro che siamo interessati alle questioni relative alla lotta contro la criminalità . LBC 67.408 2 © I.M. Ragimov, 2013© Juridichesky Center, Publishing House of R. Aslanov LLC, 2013 ISBN 978-5-94201-668-5 INTRODUZIONE O gente! Discutete sulla natura delle cose e conoscerete la verità! Corano, Sura 2 Dopo essermi occupato a lungo dello studio della pena, sono infine arrivato alla conclusione che non si può arrivare ad avere una conoscenza complete e definitiva di nessun argomento. Non c’è concetto naturale, sociale o spirituale che possa essere compreso, a fondo e nella sua totalità, dal genere umano. Ciò nonostante, l’uomo lotta per la verità – o quantomeno spera di trovarla attraverso la profonda e continua ricerca su un determinato argomento. Scavando ancora più a fondo nel cuore della questione “pena”, mi sono potuto rendere conto che il solo approccio giuridico sarebbe troppo limitato e ristretto, per acquisire la conoscenza di questa materia complessa, e che devo necessariamente oltrepassare i confini degli studi giuridici e penali. Ho inoltre capito che, senza alcuna conoscenza filosofica del concetto di criminalità e delle sue cause, è impossibile comprendere il significato filosofico del concetto e dell’essenza della pena, perché solo conoscendo cos’è il crimine si può considerare l’atto di un dato essere umano come criminale, e quindi definire la reazione a esso, con il termine pena. Partendo da questi presupposti fondamentali, ho deciso di considerare la pena nell’ambito del concetto di criminalità e delle sue cause - da una prospettiva non solo giuridica, ma anche filosofica. In conseguenza di ciò, ho dovuto rivedere la posizione da me espressa in alcune precedenti affermazioni sull’argomento in questione. 3 Ho però trovato conforto nelle parole del filosofo, poeta e pubblicista americano James Russell Lowell, secondo cui “solo gli sciocchi e i morti non cambiano mai opinione”. Non sono per nulla certo che troverò la verità, anche perché le questioni di mio interesse rientrano nel campo della conoscenza scientifica, dove il dibattito infuria ancora. Tento solamente di mettere alla prova le mie convinzioni, in contrapposizione con le tesi emergenti. Riuscirò nell’impresa? Hegel ha scritto “La sfida nella ricerca della verità e la fiducia nel potere della ragione sono le precondizioni fondamentali per lo studio filosofico”. “L’uomo deve rispettare se stesso e proclamarsi degno dei migliori. Non importa quanto sia grande la nostra considerazione per la magnificenza e la potenza dello spirito, non sarà mai sufficiente. L’essenza nascosta dell’Universo non è portatrice in sé di una forza in grado di resistere all’audacia della conoscenza; essa si deve rivelare all’uomo, mostrare ai suoi occhi i tesori e le profondità della propria natura e dargli la possibilità di goderne1.” In un primo momento, la filosofia dei delitti e delle pene, come oggetto di ricerca, appariva irrimediabilmente confusa e sembrava richiedere l’introduzione preliminare di un così ingente numero di definizioni e concetti che per poco non mi è mancato il coraggio di andare avanti. Poi mi sono ricordato che l’apprendimento è quello sforzo mentale che permette il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, dalla mancanza di comprensione alla comprensione, dal mistero alla verità. Come dice giustamente D.A. Kerimov, “la conoscenza è infinita come il mondo; la vita, l’esistenza – compresa l’esistenza della legge – sono infinite2”. Allo stesso tempo, ho capito con chiarezza che questo percorso di conoscenza presuppone il superamento di numerosi ostacoli e difficoltà. Era evidente che non saremmo stati in grado di andare oltre senza il glorioso lavoro dei nostri predecessori; questa è la legge universale dell’evoluzione, secondo la quale il presente è figlio del passato e padre del futuro (G. Leibniz). 1. Hegel, G.W.F Enciclopedia delle scienze filosofiche (Энциклопедия философских наук. М., 1974. Т. 1. С. 83). 2. Kerimov, D. A. I metodi della legge. Soggetto, funzioni, problemi della filosofia del diritto 4 (Методология права. Предмет, функции, проблемы фило)софии права. М., 2011. С. 7. Non c’è nulla nel nostro mondo, nella nostra vita che non sia stato discusso prima, o come si dice in questi casi: ogni cosa nuova è una vecchia ben dimenticata. Nessuna considerazione, nessuna rivisitazione – anche la più coscienziosa e qualificata – può dare luogo al genere di impressioni che si possono ottenere attraverso la conoscenza diretta delle eccezionali opere degli studiosi del passato – né potrà mai esprimere la vera essenza delle idee presentate tempo addietro. Mi sono profondamente convinto di questo, studiando la storia della filosofia, la religione, il diritto e le altre scienze che si occupano del crimine e della sua punizione. Nella scienza del diritto penale è più volte stato sollevato il seguente problema: possiamo limitarci ai soli confini giuridici nello studio di crimine e pena? Potremo in questo modo raggiungere gli obiettivi prefissati? Rispondendo al Professor M.V. Dukhovskiy, che è stato uno dei primi a sentire l’esigenza di un ampliamento dei confini scientifici del diritto penale, A.F. Kistyakovskiy ha replicato: “Se l’autore rifiuta l’idea del diritto penale come scienza prendendo, in esame solo il crimine... come un fenomeno separato, senza studiare le sue motivazioni... allora gli si potrebbe chiedere: cosa suggerisce di fare alla nostra scienza, quando le norme della vita pubblica, sulla quale non ha competenza, siano tali da necessitare prima solamente lo studio del reato e della pena inflitta per esso3?” Indubbiamente, gli studi giuridici sul crimine e sulla pena non solo sono importanti, ma anche necessari. Come M.P. Chubinskiy sottolinea, “questo deve essere riconosciuto e ricordato una volta per tutte, al di là delle proposte di riforma4.” Ma quello di cui abbiamo bisogno sono i fatti della vita psicologica e fisica che sono alla base del concetto di crimine e pena, così come della conoscenza della natura, delle abitudini, e delle inclinazioni del criminale, i metodi e gli strumenti degli atti criminali. È inoltre necessario conoscere il presupposto filosofico alla base del comportamento di un uomo, incluso quello criminale, nonché del diritto di imporre una pena per il crimine, ecc. 3. Vedi Sergievsky, Metodi filosofici e scienza del diritto criminale in Sergievsky, Opere Scelte. 5 (Философские приемы и наука уголовного права // Сергиевский Н.Д. Избр. труды. М., 2008. С. 208.) 4. Chubinskiy M. P. Saggi sulla politica criminale (Очерки уголовной политики. М., 2010. С. 24.) Tuttavia, la scienza del diritto penale non fornisce tali essenziali ed estremamente importanti conoscenza e informazione. Per questo motivo, se vogliamo spiegare le ragioni del comportamento criminale dell’uomo e di conseguenza capire l’essenza del crimine e della pena, dobbiamo servirci dei risultati conseguiti da altre scienze. In questo caso, stiamo parlando di utilizzare i metodi scientifici e gli strumenti delle scienze che non hanno a che fare con la legge, con lo scopo di studiare e di spiegare le questioni del diritto penale – crimine e pena, e non per la loro integrazione nella tematica di una data scienza. Ciò sembrerebbe minare le affermazioni di E. Ferri secondo cui “il sistema giudiziario del futuro si concentrerà sul criminale come individuo biochimico, che agisce in questo o quel particolare ambiente sociale”, in tal modo non c’è spazio per tentativi di conciliazione, non ci sono vie di mezzo; i nuovi metodi richiesti per il progresso della scienza “non sono compatibili con lo studio del crimine come entità giuridica astratta.5” Frattanto, il moderno sistema di giustizia penale si concentra oggi proprio sul crimine come entità giuridica e filosofica, utilizzando i risultati della psicologia, della psichiatria, della genetica e della medicina nello studio della personalità criminale. In altre parole, al momento, le questioni relative al crimine e alla pena sono ampiamente riconosciute tra quelle studiate e discuss,e non solo dalla criminologia e dalla scienza giuridica criminale, ma anche dalla filosofia, dalla sociologia, dalla psicologia, dalla teologia, ecc. A volte è molto difficile, e in alcuni casi addirittura impossibile, definire questo o quel concetto, seppur ampiamente usato nella vita quotidiana e apparentemente ovvio. Ed è proprio per questo che la gente comune, quando incontra e discute di termini quali, crimine, criminali e pene, non dirige i propri sforzi nel tentativo di penetrare l’essenza e la sostanza di tali concetti. Tali parole risultano semplici e banali e, cosa più importante – chiari, il che gli permette di capirsi l’un l’altro molto bene. S. Agostino Aurelio ha scritto: “Se non mi viene chiesto di spiegare il significato di particolari concetti, so di cosa si sta discutendo. Se mi si chiede di spiegare la loro essenza ad altri – non sono in grado di farlo”. 6 5. Ferri, E. Sociologia criminale. 1983. P. 14, 580, 584 La complessità e la difficoltà di spiegare i concetti di crimine e di pena deriva dalla loro natura filosofica. Per questo è in primo luogo necessario un integrato e meticoloso approccio filosofico a questi fenomeni, allo scopo di svelare la loro essenza filosofica, anche se si tratta chiaramente di un compito piuttosto difficile. Yu.V. Golik avverte che “Chi decide di immergersi nell’abisso delle questioni filosofiche del diritto si troverà a imboccare un sentiero interessante ed emozionante, ma allo stesso tempo molto ‘pericoloso’. Il problema è che la filosofia è una di quelle scienze in cui non c’è mai unanimità di opinione su nessuna delle tematiche affrontate nella ricerca. Molto spesso queste opinioni differiscono a tal punto che tra esse non c’è nessun punto di contatto. Le discussioni sono infinite e vanno avanti, non da decenni o secoli, ma da millenni6. Questa affermazione è del tutto legittima, ma io consiglio ai ricercatori di rifarsi piuttosto alle parole dello scienziato russo V.I. Vernadskiy: “Capisco perfettamente che io possa essere tentato dall’errato, dall’ingannevole, che io possa seguire il sentiero che mi porta in luoghi oscuri; ma non posso fare a meno di seguirlo, disprezzo qualsiasi cosa che possa incatenare i miei pensieri, non posso permettere, e non lo farò, che questi seguano un percorso che, pur essendo importante nella pratica, non mi permette di capire in qualche modo in maniera più soddisfacente i problemi che mi tormentano... Ed è questa ricerca, questo sforzo a essere alla base di qualsiasi studio scientifico”. Sono molte le domande che gli esseri pensanti si fanno, a un certo punto, su uno specifico tema e per cui questa o quella data scienza o pratica non riescono a proporre una risposta semplice e univoca. Il compito della filosofia è proprio quello di studiare queste tematiche e, ove possibile, dar loro una spiegazione. Come è organizzato il mondo? È in fase di sviluppo? Chi o cosa determina le leggi dello sviluppo? L’uomo è mortale o immortale? Come può l’uomo comprendere il proprio destino? Quali sono le possibilità cognitive dell’uomo? In sintesi, si può giustamente affermare che la filosofia ha contribuito notevolmente, seppur indirettamente, a tutti i progressi compiuti dal genere umano. 7 6. Golik, Y.V. Filosofia del diritto penale, (Философия уголовного права San Pietroburgo, 2004, P.7) La filosofia è unitaria e diversificata allo stesso tempo – l’uomo non può farne a meno in nessuna sfera della vita. Come ha detto B. Russell, “Tutti... i campi del sapere confinano l’ignoto all’interno mondo che ci circonda. Quando un uomo entra nelle zone di confine o le attraversa, compie il passaggio dalla scienza al campo della speculazione. Le sue speculazioni sono anche una tipologia di studio, e questo, sopra ogni cosa, è la filosofia”. È ben noto che la filosofia abbracci numerosi campi del sapere, fra cui la filosofia del diritto, che studia, in senso ampio, le conseguenze di questi o quei principi legislativi. Non bisogna dimenticare che i problemi di bene e di male, come il concetto di giustizia, fanno riferimento a una disciplina filosofica – l’etica, nel senso cioè che sono categorie etiche, non giuridiche. Quindi, i concetti di crimine' e 'pena' devono essere collegati alle categorie filosofiche, poiché la legge, le scienze giuridiche, il diritto penale e la criminologia in particolare, non sono in grado di rispondere alle domande che ci intessano. La filosofia serve come base scientifica, come fondamento di ricerca per eventuali problematiche relative ad altre scienze, tra cui quella giuridica. Ad esempio, i concetti di punizione, pena, afflizione, ecc possono essere esaminati solo attraverso la filosofia. Il giurista e noto filosofo sociale Ye.V. Spektorskiy ha spiegato questo concetto in maniera esemplare: “Tutti e tre i campi della filosofia – etica, metafisica e gnoseologia – sono i più strettamente connessi alla giurisprudenza. Come disse il diavolo di Dante, “Tu non pensavi ch’io loico fossi!” – “Non immaginavi che io fossi un logico!”, proprio come potrebbe proclamare la giurisprudenza, “Non immaginavi che io fossi un filosofo!” Arrivare a comprendere questo concetto dovrebbe elevare e nobilitare la figura del filosofo, mettendolo definitivamente al riparo dai rimproveri che gli sono stati rivolti troppo spesso; come ad esempio quello di occuparsi solo di pedissequa pedanteria o di sterili e nocivi cavilli da avvocatucolo. Ma noblesse oblige. Tale comprensione ha anche un effetto di collegamento, fa cioè sì che la giurisprudenza tratti la filosofia e i suoi problemi con grande attenzione. Anche se in generale, come diceva Platone ai suoi tempi, la mancanza di interesse per la filosofia si trasforma più in una forma di ignoranza compiaciuta che nella superiorità della vera conoscenza, la mancanza di tale 8 interesse da parte di un avvocato equivale al disprezzo per la propria professione – un disprezzo che è ancora più imperdonabile poiché da ciò può verificarsi la morte stessa della giurisprudenza per l’attacco di una scienza estranea7”. Sembra che sia questa la risposta più esauriente e convincente per i sostenitori del positivismo, che pensano che la scienza giuridica sia autosufficiente e che la filosofia, l’etica e le altre scienze non debbano essere chiamate a svelare e comprendere l’essenza dei fenomeni giuridici. Non c’è modo migliore per spiegare questa tesi se non riportando quanto affermato da Hegel per cui “la giurisprudenza è parte della filosofia8 ”. Ma davvero la giurisprudenza può, senza la filosofia, riuscire a rivelare l’essenza dei concetti e raggiungere la comprensione di numerose questioni giuridiche? Se si parte dal presupposto che la filosofia cerca di trovare risposte a domande teoriche che determinate scienze non possono sperare di risolvere, la risposta non può che essere negativa. In linea di principio, tutte le scienze hanno una base comune e lo stesso obiettivo – studiare la natura e svelare le sue leggi per il bene dell’umanità. Tuttavia, non bisogna dimenticare le parole di “Arthashastra” (India antica, IV secolo a.C.), “La filosofia è sempre stata considerata la lampada di tutte le scienze, lo strumento per compiere ogni azione, il fondamento di tutte le norme.” La storia attesta che sono i filosofi, prima ancora degli avvocati, che in ogni tempo hanno posto domande e cercato di trovare le risposte. Ed è una cosa naturale poiché l’essenza della filosofia è proprio la speculazione sulle questioni generali “del mondo - uomo”. Di conseguenza, se l’uomo è l’oggetto della pena, e allo stesso tempo funge da oggetto di reato, dobbiamo ammettere che è impossibile spiegare l’essenza del sistema “crimine - uomo - pena” senza ricorrere alla filosofia. In questo caso, le scienze giuridiche, diritto penale e criminologia in particolar modo, sono impotenti. 7. Filosofia e giurisprudenza, Bolletino giuridico. (Философия и юриспруденция // Юридический вестник. V. II. Mosca, 1913. .) 8. Hegel, G.W.F. Filosofia del diritto. (Философия права Mosca, 1990. PP. 17–18.) 9 Kant ha scritto che “la filosofia è in realtà altro non è che la scienza pratica dell’uomo9”. La filosofia si occupa del crimine e della pena e della loro essenza dal punto di vista del posto e ruolo che occupano nel meccanismo sociale comune, giustificando o biasimando la loro natura giuridica in termini di standard etici, di valori spirituali e morali10. Per questo motivo, per fare in modo che le scienze del crimine e della pena siano correttamente costruite dal punto di vista metodologico e siano efficaci per la società, queste dovrebbero essere orientate non solo verso le discipline giuridiche, ma, in primo luogo, verso la filosofia e solo attraverso il suo studio rivolto a tutte le scienze umanitarie, unito all’aiuto della filosofia al vasto sistema delle conoscenze scientifiche. A volte filosofi e avvocati competono accusandosi a vicenda, senza comprendersi. I filosofi pensano che gli avvocati non siano in grado di esprimere un parere autonomo in maniera libera e che obbediscano ai dettami delle leggi formali. Gli avvocati ritengono che i filosofi dicono molte cose meravigliose, che sono però piuttosto lontane da un utilizzo concreto. Ad essere onesti, dobbiamo sottolineare che la filosofia a volte cerca di spiegare molti fenomeni attraverso concetti troppo complessi e categorie non facilmente comprensibili per i fini della giurisprudenza. E questo crea diversi problemi per il loro uso pratico. In realtà, la filosofia in sé non è così difficile come la lingua che parla. Il paradosso è che quanto più l’idea filosofica è difficile da comprendere, complessa o confusa, tanto più grande è considerato il genio del filosofo. Sono certo che chiunque abbia il coraggio di sobbarcarsi l’onere della ricerca su un tema così difficile e ingrato, come quello di crimine e pena, debba studiare con cura e attenzione le opere non solo di eminenti avvocati, ma anche quelle di noti filosofi, psicologi, sociologi e scrittori la cui ricerca è correlata a questi istituti del diritto penale. 9. Kant, I. L’eredità dei manoscritti. (Из рукописного наследия Mosca, Progress, 2000. P. 78.) 10. Vedi: Sych, K.A. Le sanzioni e le loro classificazioni: esperienza di modello teorico. (Уголовное наказание и его классификации: опыт теорети- ческого моделирования San Pietroburgo, 2002. P. 75.) 10 Tuttavia, non si deve mai dimenticare che la filosofia del diritto è una scienza fondamentale all’interno del sistema delle scienze giuridiche, e che le scienze settoriali assumono un valore applicato in misura maggiore nel confronto con essa. L’avanzamento di entrambe dipende dalla loro unità e compenetrazione . A. Weber ha sottolineato che “la filosofia è nata proprio il giorno in cui il pensiero si è rifiutato di spiegare la natura per mezzo di creature fantastiche, che sono state relegate al campo del favoloso, e ha cominciato a unire tutte le essenze attraverso una potenza eterna e appartenente a una mente eterna, o, servendosi del suo linguaggio, attraverso leggi e cause.”11 Ne consegue che qualsiasi filosofia di qualsiasi fenomeno è la ricerca dei motivi all’origine di questo fenomeno, delle condizioni della sua esistenza e dei relativi cambiamenti. È per questo motivo che sembra che la filosofia dei delitti e delle pene sia nata quando l’uomo ha iniziato a pensare a un comportamento che possa causare un certo danno ad altre persone e alla comunità in generale - e a come prevenire tale fenomeno. Come hanno sottolineato gli antichi filosofi, possiamo conoscere la verità riguardo il concetto e l’essenza del crimine e della pena solo attraverso categorie filosofiche, e sono proprio queste categorie a essere mezzi metodologicamente-universali, strumenti e metodi per conoscere la natura della società. Sulla base di queste disposizioni, cercherò di rispondere alle domande che hanno una essenza filosofica: cos’è il crimine al di là del diritto penale? Dove risiedono le ragioni e le origini del comportamento umano, in particolare quello criminale? Qual è l’essenza della pena? Da cosa deriva? Cosa punire e perché? Chi punire e come? Chi ha il diritto di punire e chi gli ha dato questo diritto? Lo richiede la società in ogni caso, e qual è il suo futuro? 11 11. Weber, A. Storia della filosofia, (История европейской философии. Кiev, 1882. P. 10.) Concetto ed essenza. Cause e origini. La personalità criminale. Il futuro della criminalità 1. CONCETTO ED ESSENZA DEL CRIMINE Il primo passo per riuscire a comprendere in maniera scientifica il concetto di “crimine” è necessariamente quello di stabilire con esatta precisione il significato del termine “crimine”. È in altre parole necessario, innanzitutto, comprendere a cosa siamo soliti riferirci quando usiamo la parola “crimine”, dal momento che l’analisi e la descrizione del crimine solo come categoria di legge non è affatto sufficiente; bisognerebbe piuttosto cercare di spiegare il crimine in quanto fenomeno e in quanto concetto filosofico. Il vecchio, formale e consueto significato legale di "crimine" non ci aiuta a comprendere la sua reale natura ed essenza, e quindi il chiaro significato di pena, suo fine sociale. Il principale difetto di un significativo numero di definizioni, a nostro avviso, sta nel fatto che invece di analizzare l’effettivo nesso causale, la dottrina del diritto penale era ed è strenuamente impegnata nell’analisi delle sue violazioni, elencate nel Codice penale, e finisce così con l’ignorare fenomeni simili che vanno al di là del codice stesso. Come ha correttamente scritto E. B. Kurguzkina, “la comprensione del puro concetto di crimine non si può ottenere a pieno all’interno della scienza giuridica, ma deve cogliersi andando necessariamente oltre questa 1 ”. Tale affermazione fa diretto riferimento alle parole di Hegel, secondo cui la scienza giuridica come scienza del diritto positivo non ha a che fare con il significato di legge e, di conseguenza, con il significato di crimine, ma con quello che in un dato luogo e in un dato momento è corrispondentemente stabilito d’autorità come legge (reso positivo). Di conseguenza, il diritto penale come scienza giuridica nel suo approccio alla comprensione degli atti criminali non è diretta conseguenza di un atto di ragione, quanto piuttosto di un atto d’autorità, e cioè di una forte istituzione2. Da un punto di vista strettamente pratico ci si potrebbe chiedere: cosa può essere considerato un crimine? La risposta è semplice: il crimine è una violazione passibile di pena. Questo è il modo in cui la scienza del diritto penale concepisce il crimine. Più precisamente, la dogmatica del diritto penale dà tradizionalmente la seguente definizione di crimine: “Un atto criminale è un atto che viola le regole della legge e dell’ordine.” 1 2 Kurguzkina, E. B. Comprendere gli atti criminali in Scienze filosofiche. 2008. No. 5. P. 84. Vedi: Hegel, G.W.F. The Philosophy of right. Moscow, 2007. P. 283. 12 L’apostolo Paolo disse, “Là dove non esiste legge non esiste neanche trasgressione” (Paolo, Lettera ai romani, 4:15). Nel 20° secolo, L. Hulsman ha ripreso questa stessa affermazione, formulandola però con parole diverse: "È la legge che dice dove c’è un reato; è la legge che crea "il crimine" 3 . Tuttavia, la definizione giuridica formale di "crimine" non risponde alle seguenti domande teoriche. Quali sono le caratteristiche generali degli atti che in diversi momenti e in diverse nazioni sono stati considerati "criminali", e di conseguenza puniti? Quali atti sono criminali per la loro stessa natura? È possibile trovare almeno un atto che sarebbe considerato criminale in tutti i codici? È possibile individuare quelle caratteristiche che sono comuni a tutti i tipi di reato in diversi contesti sociali? È corretta l’affermazione di E. A. Podnyakov secondo cui l’approccio legale al crimine e la sua definizione sono troppo formali e non soddisfano neanche in minima parte le esigenze di quanti vogliano avere del fenomeno "crimine" una visione più approfondita e svelarne le fondamenta teoriche e le motivazioni 4 . La natura meramente formale del concetto di "crimine" permette alle autorità dominanti, sulla base di diverse considerazioni, compresa quella politica, di creare sistemi che rendano necessario questo concetto. Nonostante lo scopo primario sia il raggiungimento di una maggiore obiettività, nel diritto penale, la criminalizzazione e la depenalizzazione degli atti non possono ancora essere svincolate dall’approccio volontaristico di coloro che sono direttamente coinvolti nel processo legislativo. Inoltre, ci possono essere casi di criminalizzazione intenzionale di atti che, pur non essendo socialmente pericolosi, sono considerati tali solo per una ristretta cerchia di autorità, in difesa della loro violazione degli interessi pubblici 5 . In particolare, questo è tipico dei paesi con un regime di controllo autoritario e antidemocratico. In poche parole, dovremmo concordare con Yu V. Golik, secondo cui i lunghi e incalcolabili tentativi degli avvocati di fornire un concetto completo ed esauriente di crimine non hanno ancora dato alcun risultato. Insoddisfatti della definizione che la legge dava di crimine, alcuni studiosi hanno deciso di sviluppare questo concetto a prescindere dal diritto penale. Così, E. Durkheim, sulle tracce del suo predecessore R. Garofalo, ha tentato di dare una sorta di definizione sociologica del crimine, diversa da quella legale, nonostante persino gli antichi filosofi fossero a conoscenza del significato sociale del temine crimine. G. Tarde, rappresentante della scuola sociologica francese, riteneva che il crimine dovesse essere spiegato principalmente come fenomeno sociale e le sue origini – come storiche6. 3 Hulsman, L. Picnes. Perdue. Paris, 1982. P.68 Vedi: Pozdnyakov, E. Philosophy of Crime. Moscow, 2001. P. 58 5 Kurguzkina, E. B. Op. cit. P. 84. 6 Tarde, G. D. Criminal and crime. Comparative crime. Crowd criminality / Comp. and foreword, by V.S. Ovchinskiy. Moscow, 2004. P.7 4 13 Secondo Hegel, l’essenza del reato è la sua insignificanza, in termini di inviolabilità del diritto come valore assoluto. Questa conclusione deriva dalla seguente affermazione del filosofo: “Qualcosa cambia attraverso il crimine e l’oggetto esiste in questo cambiamento, ma questa esistenza è il contrario di se stessa, e quindi è priva di significato; come diritto, il diritto viene rimosso e da ciò la sua mancanza di significato. Quello che non può essere rimosso è il diritto di essere assoluto, quindi, la manifestazione del crimine è insignificante in sé e per sé, ed è proprio questa insignificanza a essere l’essenza dell’atto criminale7.” P.A. Sorokin ritiene il crimine un fenomeno puramente mentale e non un fenomeno esterno. Così scrive: “Un dato atto può essere criminale o meno in sé e per sé, ma solo nel caso in cui ve ne sia l’esperienza fisica di un terzo soggetto può essere definito criminale 8 ”. Affermando ciò, Sorokin intende il crimine come il conflitto fra comportamenti eterogenei vigenti in una determinata società9. Alcuni scrittori considerano il crimine unicamente dal punto di vista biologico: “Il crimine è un’espressione dell’incapacità dell’individuo di rifiutare “l’omeofagia” (cannibalismo, attacchi diretti o indiretti alla vita): si tratta di soddisfare i nostri istinti e le tensioni relative a quelli che ci sono vicini, invece di cercare di soddisfare le nostre esigenze nel mondo esterno”10. I rappresentanti dell’utilitarismo si basavano sull’affermazione secondo cui “il crimine è un atto commesso da un membro di un dato gruppo sociale, e che viene considerato dagli altri membri di quel gruppo come un atto così dannoso per il gruppo o percepito come avente un tale grado di antisocialità da parte del suo esecutore, che alla fine, nello sforzo di proteggere il proprio benessere, questi reagiscono pubblicamente, apertamente e collettivamente.” 7 Hegel, G. W. F. The Philosophy of right. Moscow, 1990. P 145 Sorokin, P. A. Crime and punishment. Feat and reward. Saint Peterburg 1914. P. 45 9 Ibid. P. 128-130 8 Bahar. Une nouvelle definition du crime basse sur la science biologique // Revue pénitentiare. 1895. Р. 739 10 14 Su queste basi, essi concludono che il crimine non è solo un fenomeno relativo all’autorità, ma anche un fenomeno sociale. E. Ferri, in disaccordo con L. P. Manouvrier, che indicava unicamente la natura sociale del crimine come fenomeno, definì il crimine “un fenomeno naturale e sociale”, dal momento che il crimine è un fenomeno sociale e, allo stesso tempo, una manifestazione della sfera biologica di un individuo. L’imprecisione di quanto appena detto, come di altre correlate definizioni, come possiamo vedere, è collegata al fatto che la definizione legale di crimine non è la risposta alla seguente domanda: “un atto proibito dalla legge” è una definizione adatta a definire il concetto di crimine? È il caso di notare che negli ultimi tempi, insieme alla definizione giuridica di crimine, l’uso scientifico ha adottato il termine “crimine” in senso criminologico, in base al quale si suggerisce di considerarlo come un atto di colpevolezza che costituisca un significativo pericolo per la società, a prescindere dal suo riconoscimento legale come crimine. Nello stesso periodo, D. A. Shestakov ha suggerito di analizzare nello specifico un immaginario crimine come un atto irragionevolmente proibito dalla legge, soggetto alle sanzioni del diritto penale. Quale atto dovrebbe essere considerato criminale e quale no, questa è la domanda a cui ancora non c’è una risposta decisiva. In conformità con la legge ateniese Socrate era un criminale, ma oggi crediamo che il suo “atto criminale” sia stato utile, non solo per il suo paese, ma per tutta l’umanità. A Sparta, i bambini nati con malformazioni venivano eliminati in quanto inservibili e inabili per lo stato. 15 Prima del Corano, gli arabi non consideravano un crimine seppellire vive le figlie femmine appena nate e tale atto non era neanche condannato, perché per una famiglia le donne erano considerate come un fardello o un peso morto, dal momento che non erano in grado di lavorare. Questo comportamento era anche associato alla penuria di uomini da mandare in guerra. Ribelle e onesto, Aristide fu espulso da Atene solo per il fatto che la sua rivalità con Temistocle sarebbe stata dannosa in un’eventuale lotta contro i Persiani, poiché avrebbe incrinato l’unità e l’accordo tra le parti. E per Zoroastro, suo seguace, il crimine più grave era la sepoltura dei morti nel terreno. Invece, i cadaveri venivano lasciati ai cani o uccelli rapaci. I greci ritenevano che il crimine più grande fosse non avvolgere i morti in un sudario. Ci sono molti esempi simili nella storia di ogni paese. Ha ragione G.V. Maltsev nell’affermare che “una cosa è e rimane invariata: ogni comunità, antica o moderna, inscrive nella categoria di atti criminali, quegli atti che sono vissuti e appaiono ai suoi membri come pericolosi per la causa comune, che provocano danno alla società e ai suoi singoli membri, minacciando il crollo dell’organizzazione sociale. Tutto ciò è oggi riassunto nel concetto di pericolosità sociale del reato.” 1 Da ciò ne consegue che “crimine” è solo un termine usato in determinate situazioni sociali. Lo stesso atto, in termini di sostanza in diverse epoche storiche, in diverse società e in diversi contesti sociali può essere considerato come anti-sociale, socialmente neutro o socialmente approvato. Così, durante il Califfato arabo, il Califfo Umar, guidato da un comandamento secondo cui il dubbio attenuerebbe la pena, annullò la condanna per furto in un anno di carestia. T. Tarde dice: “Il sistema dei valori, così come il sistema del crimine e del vizio, cambia con il corso della storia2”. C’erano nazioni dove rubare e saccheggiare non solo non erano considerati crimini, ma, anzi, erano ritenute virtù. 16 Ogni società crea un dato numero di tipologie di crimine a seconda della sua struttura e condizione generale. Il concetto di crimine è associato alle idee che regolano una particolare comunità, alle idee di cosa è criminale e dovrebbe comportare sanzioni penali, e cosa non lo è. Le reali motivazioni per classificare alcuni atti come criminali e altri come amministrativi o civili si possono ritrovare solo alla base della conoscenza del corso dello sviluppo storico di una particolare nazione. Lo stesso comportamento che non viene visto di buon occhio dalla società in questo momento e in questo luogo può essere approvato in un altro momento e in un altro luogo. Ed è molto difficile determinare quale comportamento viene approvato, e quale disapprovato. È impossibile studiare il crimine di fuori del tempo e dello spazio, estraniandolo dal contesto sociale in cui esso si esplica. Quindi, chi dovrebbe essere considerato un criminale, e quando, è anche una questione che riguarda il momento e il periodo storico. A questo proposito, P.A. Sorokin ha sottolineato: “Quando si confrontano determinati atti, indicati come criminali da vari codici, si scopre che non è possibile individuare un atto che potrebbe essere considerato tale da tutti i codici. Anche crimini come l’omicidio non sono considerati sempre e ovunque come crimini.”1 Ci sono situazioni in cui lo stato sociale, le norme e i valori comuni perdono per qualche motivo il loro carattere vincolante, e la stragrande maggioranza della popolazione inizia a mettere in discussione la loro ragionevolezza ed equità. Ad esempio, lo sciacallaggio e la truffa ai clienti nel periodo sovietico erano considerati reati, anche se la popolazione del paese aveva ben chiara l’insensatezza e l’ingiustizia della criminalizzazione di suddetti atti. 17 È noto che l’assunzione di bevande alcoliche ha una lunga tradizione in molti paesi, e che per alcune nazioni può anche essere considerata una caratteristica distintiva. Si è anche scoperto che alcuni reati violenti vengono commessi in stato di ebbrezza. Va tenuto presente che ogni anno, decine, anzi centinaia di migliaia di persone muoiono per l’abuso di alcool. In questo caso, questo fenomeno non è forse dannoso per una persona e per tutta la società? Perché il consumo di farmaci pericolosi è considerato un crimine dalla società, e l’abuso di alcol non lo è? Scorrendo indietro nel tempo, la legislazione penale sovietica considerava l’aver commesso crimini in stato di ebbrezza come una circostanza attenuante in fase di condanna. Poi hanno dovuto rivedere questa formula. Pertanto, in futuro, è possibile che il bere, o meglio il bere alcolici possa essere considerato un crimine. In realtà, il numero di atti che possono essere definiti come crimini è in aumento. Ad esempio, la legge può imporre la responsabilità per la prostituzione femminile, sulla base del fatto che il numero di donne nel lavoro è in costante aumento, anche se questo fenomeno (l’atto in sé) esisteva già in tempi antichi, quando queste donne venivano lapidate, e perseguite con indignazione dall’opinione pubblica. Una volta nelle nazioni del Caucaso (e molte altre nazioni) c’era il costume di rapire le donne. Non era un crimine, perché non non veniva fatto con l’obiettivo di danneggiare la ragazza o la sua famiglia, al contrario la giovane otteneva così la possibilità di sposarsi e creare una propria famiglia. Dal punto di vista morale, si può supporre che questa usanza fosse violenta, perché la ragazza probabilmente si sarebbe opposta a un matrimonio senza amore. Tuttavia, a quei tempi era del tutto comune tra i caucasici che la stragrande maggioranza delle donne si sposasse senza nemmeno conoscere il proprio marito. In altre parole, i costumi e le tradizioni non consideravano tali atti come criminali, erano del tutto normali. Più tardi, durante il periodo sovietico, questo atto è stato considerato alla stregua di un rapimento e quindi un crimine – una reliquia dei tempi passati. Se ne ricava che non vi è alcun atto che possa essere considerato come criminale in ogni momento e da tutte le nazioni. 18 Il diritto, compreso quello penale, stabilisce quali sono le buone consuetudini e proibisce quelle cattive. Tuttavia, ci sono stati molti casi in cui il legislatore e l’opinione pubblica hanno riconosciuto come socialmente pericolose e nocive, consuetudini che di fatto erano di pubblica utilità, e viceversa. Ad esempio, in Persia, la legge non ha ritenuto criminale una relazione sessuale tra madre e figlio, mentre socializzare con una gentile è stato classificato come un reato incomparabilmente più pericoloso. Le consuetudini sono le fonti e i principi da cui derivano le leggi. Secondo l’etimologia di questa parola, una consuetudine è una forma di ordinario, o abituale e ripetitivo comportamento1. D.A. Dril ritiene che “la consuetudine non è una regola generale per azioni future, stabilita come obbligatoria a priori, ma solo una soluzione, per quanto generalizzata a causa della frequenza della reiterazione, che tuttavia è passibile di modifica in relazione a eventuali nuove caratteristiche e circostanze.”2 È sbagliato pensare che una consuetudine giuridica sia qualcosa di arcaico, un residuo del tempo della società pre-industriale. Una consuetudine, inclusa una di tipo legale, è un elemento vitale e in continua evoluzione della regolamentazione sociale della vita nella società contemporanea.3 Anche se la vendetta di sangue è stata a lungo vietata, questa in realtà in alcune nazioni è ancora praticata. E ciò non deve sorprendere. Un non-caucasico vede la vendetta di sangue come una reliquia dei tempi passati – una spietata e brutale legge del taglione. Forse è così. Tuttavia, la legge della vendetta di sangue è molto più complessa e più versatile della maggior parte delle leggi europee, non appare e scompare all’istante. Sin dalla nascita, ogni caucasico conosce tutte le regole della vendetta di sangue e le tiene sempre ben presenti nel corso della propria vita. 19 In realtà, la vendetta di sangue è fondamentalmente l’unico ostacolo all’omicidio di massa. Solo grazie alla vendetta di sangue è stato possibile mantenere un ordine tale da garantire la sopravvivenza nel Caucaso. La paura e le regole (condizioni) della vendetta hanno contribuito, e ancor meglio sono serviti come base per i rapporti tra le tribù e la gente. Perseguire il nemico fino alla morte era considerato un dovere sacro per un caucasico. Che cosa è la vendetta di sangue? Possiamo supporre che si tratti di un dovere sacro che porta in teoria a una catena senza fine, perché genera una nuova vendetta, e così via. “Tutte le forme di pena – dalle più primitive alle più avanzate – sono un’espressione della vendetta, non solo la vendetta di sangue.”1 In realtà, l’uccisione per vendetta è la risposta di un individuo a un ingiusto, improprio comportamento che abbia causato la morte o qualsiasi danno a lui o a un membro della sua famiglia, clan, tribù o gruppo. Non ci si sta difendendo da un attacco, perché la vendetta si verifica dopo che il danno è stato causato, e anche perché è tardi per parlare di protezione dal pericolo imminente. La vendetta di sangue può essere diretta non solo contro la persona che ha causato il danno, ma anche nei confronti di altri membri del gruppo. Secondo E. Fromm, l’uomo inizia ad amministrare la giustizia quando perde la fede. “Nella sua sete di vendetta non ha più bisogno delle autorità, si erige a ‘giudice supremo’ e, nell’atto di vendicarsi si sente sia un angelo sia Dio… e questo è il suo momento più alto.”2 Vi è un fatto degno di nota che si è verificato nel distretto di Lankaran, in Azerbaigian nei primi anni ‘90, quando R., un giovane ancora minorenne, sparò all’assassino di suo padre di fronte al pubblico in aula. È successo ai giorni nostri, non nel passato, in tempi antichi. Perchè la vendetta è una passione così radicata e intensa? Forse l’uomo ha innato un senso primario di giustizia? Nell’esempio appena citato, il minore che ha commesso l’omicidio era certo che il giudice avrebbe emesso una sentenza ingiusta e così ha deciso di farsi giustizia da solo. 20 Gli psicologi sostengono che il desiderio di vendetta come profondo sentimento d’identità è insito in ogni essere umano, a prescindere da nazionalità e religione. Pertanto, difficilmente si può concordare con l’affermazione di E. Fromm, secondo cui colui che abbia raggiunto nel suo processo di crescita un livello corrispondente all’ideale di uomo cristiano e buddista è privo ogni sentimento di vendetta. In primo luogo perché nella Bibbia la vendetta è considerata ammissibile, secondo poi in questo caso possiamo anche parlare di un musulmano rispettoso di tutti i principi dell’Islam . In conformità con quanto detto da E. Fromm, ne risulta che l’omicidio per vendetta sarebbe dovuto scomparire con lo sviluppo religioso dell’essere umano. Attualmente, è quasi impossibile trovare una persona che abbia raggiunto tale livello. Al contrario, oggi, gli omicidi hanno raggiunto il loro vertice massimo. Va notato che in realtà, a suo tempo, la vendetta di sangue ha svolto un ruolo sociale nel garantire la stabilità della società, dal momento che è stata un forte deterrente contro i crimini violenti. Alla Mecca, prima dell’Islam, non c’erano processi, non c’erano carceri e non c’era nessuna pena. La tribù ha tenuto i suoi membri più meritevoli collegati alle norme di consuetudine. Si ricorda il caso di un beduino che trovò un modo semplice di sbarazzarsi delle figlie femmine che gli erano nate. Infatti, secondo uno spietato costume vigente nel deserto, era permesso seppellire vive sotto terra le figlie indesiderate, in modo che esse non fossero un peso per la tribù e non riducessero la percentuale di latte materno destinata ai figli maschi. Si racconta che una volta, a Kaaba, una bambina si recò dal Profeta Maometto. Egli chiamò la creatura, le accarezzò dolcemente la testa e cominciò a cantare le canzoni dei suoi figli. I Quraysh erano seduti intorno a lui; scossero la testa in segno di disapprovazione quando videro la ragazza insieme al Profeta, poiché le femmine erano considerate creature senza valore. Un anziano Quraysh, non riuscendo a sopportare questa impudenza, si avvicinò a Maometto e disse: “Perché stai accarezzando questa bambina? Non sai che è perfino ammesso uccidere le femmine senza incorrere in alcuna pena?” Allora il Profeta si alzò ed enunciò con enfasi un nuovo versetto del Corano: “Trattate i vostri genitori con profonda gentilezza; se uno o entrambi raggiungono la vecchiaia; non uccidete i vostri figli a causa della povertà; provvederemo a voi e a loro” (Corano, Sura 6, versetto 152). È in questo che è nata quell’importante legge dell’Islam che ha messo fine a una consuetudine che esisteva nel deserto da secoli. 21 A volte gli usi e i costumi sono così profondamente radicati nell’impostazione mentale e nella vita delle persone che la loro abolizione o il loro divieto si verificano in maniera graduale, anziché immediata. Ad esempio, il divieto di bere alcol, secondo il Corano, è stato imposto in un preciso momento, quando cioè alcuni fedeli si recarono a pregare ubriachi, provocando con i loro movimenti un’attenzione malsana. In seguito a questo episodio nel Corano apparve il seguente versetto: “Se ti chiedono del vino e del gioco d’azzardo, rispondi, “In entrambi c’è un grande peccato e [tuttavia, un po’] grande beneficio per le persone. Ma il peccato è più grande del beneficio”(Corano, Sura 2 , versetto 219). A questo proposito, va sottolineato che G. Oppenheimer, probabilmente a causa della sua poca conoscenza del Corano, indica motivazioni sbagliate in merito alla proibizione dell’alcol nell’Islam. Egli scrive: “Possiamo, ad esempio, essere sicuri che il motivo della pena per l’ubriachezza nelle leggi di Maometto, in quella cinese e messicana rientri nella sfera delle credenze magiche, e che l’alcool, come altri veleni, è stato considerato come avente proprietà soprannaturali a causa del suo specifico effetto sull’uomo.” 1 Come si può vedere, in questo versetto, il Corano non proibisce rigorosamente l’uso di alcol e il gioco d’azzardo, nel senso che, non vi è alcuna responsabilità per esso. Al contrario, parla addirittura dei benefici di queste attività. Il fatto è che gli arabi, in epoca pre-islamica per migliaia di anni, avevano i propri costumi e le proprie qualità morali. In particolare, si vantavano di bere vino, ma non perché fosse di per sé motivo di orgoglio, ma perché era vissuto come una manifestazione di generosità (Karam), più precisamente, come un modo per incoraggiare l’anima alla prodigalità. Leggendo le raccolte di poesie pre-islamiche, si trovano molti poemi elogiativi dedicati al vino. 22 Lo stesso si può dire del gioco d’azzardo (maysir), poiché questa attività è considerata una manifestazione di generosità, in quanto tutto quello che era vinto, o tutto ciò che rimaneva ai vincitori al netto delle loro tariffe, veniva speso in cibo per i poveri. Questo versetto del Corano si rivolge alle persone attraverso la persuasione piuttosto che la coercizione. Più tardi, nel versetto 43 della Sura 4 del Corano, Allah manda alla gente il seguente messaggio: “O voi che credete, non vi avvicinate alla preghiera, mentre siete intossicati al punto da non sapere più cosa stiate dicendo…” Come si può notare, in questo versetto del Corano, l’atteggiamento nei confronti dell’alcol è più severo, ma questo non è ancora considerato un peccato, o in linguaggio giuridico – un reato. Gli ultimi versetti del Corano dedicati ad alcol e gioco d’azzardo in sostanza vietano tali attività e le condannano: “O voi che credete, in verità il vino, il gioco d’azzardo, sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare”(Corano, Sura 5, versetto 90); “In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah e dalla preghiera. Ve ne asterrete?”(Corano, Sura 5, versetto 91). Sulla base di questi statuti del Corano, oggi alcuni paesi musulmani considerano tali atti criminali, e passibili di pene severe. In merito a tale argomento, è necessario notare che nel Corano e in altre fonti della legge islamica, le questioni relative alle varie istituzioni del diritto penale, tra cui l’istituzione del reato, sono esaminate nel dettaglio. Secondo la legge islamica, le regole di condotta sono governate da norme religiose, giuridiche, morali, da costumi, da regole di cortesia e di etichetta. Secondo il Corano, la vita dell’uomo è sotto il costante controllo di Allah, che valuta ogni azione in base alla sua conformità ai requisiti religiosi (standard). In esso si sottolinea ripetutamente che Allah vede tutto ciò che viene fatto dagli uomini e che “niente sulla terra e nel cielo Gli è nascosto”. 23 Pertanto, qualsiasi comportamento criminale non è solo una deviazione, una violazione della legge seguita da sanzioni in questa vita, ma allo stesso tempo anche un peccato religioso e comporta una punizione nell’altro mondo. Ciò significa che secondo il Corano, il crimine può essere considerato come una deviazione dai requisiti delle norme di legge, ancorché come un peccato religioso. La questione crimine-pena è definita nelle norme di legge della Sura 4 (versetti 33, 34, 94, 95) del Corano. Tuttavia, nonostante la natura religiosa e giuridica di questi versetti, il Corano non può essere considerato un codice giuridico in senso moderno. Studiando il concetto di crimine, i giuristi musulmani hanno tenuto conto delle due fondamentali origini, filosofica e teologica. Innanzitutto hanno supposto che ogni azione e persino pensiero degli uomini sia in qualche modo predeterminato dalla volontà di Allah. Tuttavia, la struttura ideata dal Corano è abbastanza flessibile da permettere a un individio di scegliere come comportarsi in molte situazioni della vita reale. Pertanto, il Corano dà la direzione generale, i principi e le norme per la tutela dei cinque valori fondamentali: la religione, la vita, l’intelletto, la progenie e la proprietà. Dal punto di vista dei principali rappresentanti della teoria musulmana e legale della criminalità, avere un comportamento criminale (commetere un reato) in senso giuridico formale significa commettere un atto vietato e punibile da Allah. Ad oggi, il Corano non è quasi mai utilizzato come strumento legale, in molti paesi musulmani, ma continua a operare in senso spirituale, al fine di prevenire la criminalità. Proprio per questo, ci sono alcune incongruenze tra il diritto penale e i dogmi religiosi, cosa del tutto naturale, perché, per quanto profondo e raffinato, certo, universale e multidimensionale fosse il Corano, alcune delle sue disposizioni e regole non possono essere letteralmente e direttamente riportate, o attuate nel moderno diritto penale degli Stati musulmani. 24 L’essenza del crimine non può quindi essere rivelata attraverso un’indagine giuridica e criminologica meramente teorica e applicata senza coinvolgere gli strumenti di conoscenza sociologici, psicologici, statistici e filosofici. La criminologia non fornisce alcuna esauriente indicazione giuridica, economica, sociologica e psicologica sul crimine; informa solo la società sullo stato della criminalità e suggerisce i mezzi adeguati per combattere questo fenomeno. C'è sempre qualcosa di misterioso e mistico nell’atto criminale, e si trova nei profondi e impenetrabili piani dell’analisi criminologica. Per questo motivo si pone il problema della mancanza di strumenti analitici a disposizione dela criminologia e di altre distinte discipline. A giudicare dalle proprietà oggettive, la criminalità è l’attacco di uno specifico individuo all’ordine delle relazioni instaurate nella società, che siano umane, di gruppo o individuali. Questo rende il crimine sociale, poiché l’interazione di varie unità è l’essenza del fenomeno sociale. Nel commettere un reato, la persona si impegna in un’interazione con gli altri membri della comunità, del gruppo sociale e della società in generale. Tuttavia, non tutti i tipi di interazione devono essere intesi in senso sociale, ma solo quelli presenti non ovunque, ma all’interno della comunità umana, cioè, tra le persone o le organizzazioni. Va inoltre sottolineato che il crimine è un fenomeno sociale in considerazione del fatto che i diversi metodi di comportamento sono sempre accompagnati da esperienze mentali. Di conseguenza, nella tipologia di interazione tra le persone, quelli che non hanno alcuna relazione con strutture mentali non sono inclusi nei fenomeni sociali. E sappiamo che il comportamento criminale è sempre accompagnato da esperienze mentali. P. Sorokin ha detto: “Ogni interazione tra qualsiasi soggetto, qualora abbia una natura mentale, è un fenomeno sociale.” 1 25 Si definisce gruppo sociale o unità sociale quella comunità di individui che si trovino a interagire mentalmente l’uno con l’altro. Pertanto, il crimine è il risultato della mancanza delle condizioni necessarie perché sia possibile una corretta interazione mentale tra gli individui, che si esplica in manifestazioni non unitarie delle stesse esperienze mentali in diversi membri della società. In altri termini, le condizioni sociali all’interno della società danno vita a opportunità ineguali per le persone, e questo le porta a interazioni mentali non appropriate e, di conseguenza, al conflitto. Ma il problema non risiede solo nelle condizioni sociali esterne. A causa dell’ individualità della natura umana, i membri della società o del gruppo comprendono e accettano in modo diverso date condizioni della società in cui vivono. Questo conduce infine a un conflitto tra gli interessi dell’individuo e gli interessi della società, che a volte sfocia nel crimine. Come risultato, ci si trova di fronte a un particolare gruppo sociale separato dalla società, che è caratterizzata dalla ripetizione, dal carattere di massa, dalla tipicità, pericolo pubblico, e diventa quindi il punto di partenza dell’analisi sociologica. Così, la materia d’indagine della sociologia del crimine alla fine si concentra sul comportamento umano in generale e sul comportamento criminale in particolare. Pertanto, in generale, il crimine può essere considerato come un fenomeno sociopsicologico. Tuttavia, questo non basta a comprendere l’essenza del crimine. La comprensione filosofica e la conoscenza di questo fenomeno sono assolutamente necessarie Va notato che negli ultimi anni la letteratura filosofica ha prestato grande attenzione alle questioni di crimine e criminalità. È stata pubblicata una monografia di E.A. Pozdnyakov con il titolo “La filosofia del crimine”. D.S. Babichev, nella sua lotta per il titolo di Candidato di Scienze Giuridiche, ha pubblicato una tesi dal titolo “ Studi politici e giuridici della filosofia del crimine”. A.P. Dubnov e V.A. Dubovtsev hanno pubblicato il libro “La filosofia del crimine. Criminalizzazione della società russa.”(1999). E, infine, di recente pubblicazione “Filosofia del male e filosofia della criminalità” (2013), una solida monografia redatta da A.I. Alexandrov. 26 Come si può notare, gli autori non fanno alcuna distinzione tra il concetto di “filosofia del crimine” e “filosofia della criminalità”. D.S. Babichev, in particolare, scrive: “Lo studio della filosofia della criminalità comporta che il fenomeno del crimine sia considerato come una realtà inevitabile della vita, capace di esistenza continua e di sviluppo1. L’autore suggerisce anche, quando ci si approcci allo studio della filosofia della criminalità, di basarsi sulle conoscenze acquisite nel campo della filosofia, della filosofia del diritto, della sociologia, e delle altre scienze liberali. Dobbiamo subito notare che l’autore, insieme al concetto di “filosofia della criminalità”, nella sua opera utilizza anche ripetutamente il concetto di “filosofia del crimine”. A suo avviso, lo studio della filosofia della criminalità presuppone la comprensione filosofica della natura del fenomeno “reato” e la considerazione della sua essenza in quanto manifestazione assoluta di “male” ad opera di un uomo. Secondo l’autore, quel “male”, in quanto fenomeno insito nell’uomo e che ne costituisce l’essenza e ne guida azioni, provoca in lui esordi criminali. Ciò non può essere confutato, poiché D.S. Babichev ritiene, a ragione, che è nell’uomo stesso che si devono trovare le cause del comportamento criminale. Così, l’autore dà una risposta all’interrogazione filosofica sulle motivazioni che spingono una persona a commettere un reato e, quindi, che lo voglia o no, conferma la validità dell’utilizzo del concetto di “filosofia del crimine” e non “filosofia della criminalità”. Non possiamo essere d’accordo con le argomentazioni di A.I. Alexandrov sull’uso del concetto di "filosofia della criminalità”.3 Quando si serve di questo concetto, l’autore fa in realtà riferimento al concetto di “filosofia del crimine”. Così, a p.65 della sua monografia, egli scrive: “La filosofia della criminalità dovrebbe adeguatamente comprendere il significato filosofico e teorico e l’essenza del fenomeno del reato, i confini e il suo grado 27 di relazione con il comportamento lecito, dovrebbe poi individuare le principali cause e le condizioni dell’occorrenza e del mantenimento della fattibilità del comportamento criminale, e sviluppare i presupposti metodologici se non per la sua eliminazione, almeno, per la sua riduzione. Sono questi i suoi obiettivi di studio in un ambito di ricerca del tutto indipendente e promettente”. Le materie oggetto di studio della filosofia del crimine sono, in primo luogo, il significato e l’essenza del fenomeno illecito, incluso ovviamente il crimine, poi le cause e le origini del comportamento criminale, nel tentativo di comprendere cioè cosa costuisca reato e dove risiedano le origini, le radici di tale fenomeno. Quella deputata a rispondere a tali domande non è la filosofia della criminalità, quanto la filosofia del crimine. A pagina 69, l’autore, tornando su questo problema, ripete: “Al momento di effettuare lo studio filosofico del crimine, si ha la necessità di rispondere a una serie di domande: perché l’uomo commette il crimine; quali proprietà intrinseche in lui lo spingono ad azioni qualificate come crimine…” Se queste indagini sono affidate alla filosofia della criminalità, allora ci si potrebbe chiedere, quali domande dovrebbero essere risolte dalla filosofia del crimine? Se supponiamo che non sia questo il problema, alla fine ne risulta che non c’è differenza tra “criminalità” e “crimine”, sebbene più tardi A.I. Alexandrov consideri questi fenomeni solo come comunicazioni tra il pubblico e l’individuo, tra la quantità e la qualità (p. 85). In secondo luogo, l’autore, a nostro avviso, sbaglia nel sostenere che la “filosofia della criminalità” dovrebbe sviluppare presupposti metodologici se non per la sua eliminazione, almeno per la sua riduzione. In realtà, stiamo parlando di norme sul crimine per combattere la criminalità e queste non sono materia di indagine filosofica, ma per la criminologia e il diritto penale. Tuttavia, al fine di garantire la corretta applicazione dei concetti di “filosofia del crimine” e “filosofia di criminalità”, a nostro avviso, si dovrebbero tenere in considerazione la relazione, l’autonomia e la correlazione tra i concetti di “crimine” e “criminalità”. 28 L’importanza e la necessità di distinguere tra questi concetti risiedono nel fatto che l’approccio metodologico allo studio delle cause della criminalità, e del crimine in generale, dipende dal modo in cui viene intesa la loro relazione. In altre parole, se la criminalità è qualitativamente diversa dal crimine, se tali fenomeni non sono univoci, allora la sfiducia nella possibilità di studiare la criminalità attraverso la conoscenza di specifici atti criminali è abbastanza ovvia e naturale. II. Il rapporto tra i concetti di “criminalità” e “crimine” può essere considerato come il rapporto di una parte con l’intero. Pertanto, è necessario, nello specifico, utilizzare le categorie filosofiche dell’intero e della parte per chiarire correttamente questo punto. Anche i pensatori del passato, a partire da Aristotele, affrontarono difficoltà insormontabili nel definire questi concetti. Uno studio abbastanza approfondito in questa direzione è stato effettuato da Hegel, che ha tentato di superare tali difficoltà. Noi, gli avvocati, possiamo solo utilizzare ciò che è ampiamente accettato nella nostra ricerca. Hegel scrive: “... una cosa, questa cosa è, il loro rapporto puramente quantitativo, si tratta di una semplice aggregazione dei loro “anche”. Si tratta di una o di un’altra specifica quantità di una sostanza e anche di una certa quantità di un altra sostanza, e anche di qualcosa di diverso: la cosa è una connessione che implica l’assenza di qualsiasi collegamento”1. La comprensione della criminalità come un oggetto porta A. Leps alla seguente conclusione: “La criminalità in quanto oggetto ci compone di vari reati che hanno solo un rapporto quantitativo fra i diversi reati, o i loro gruppi, o “il loro mero accumulo”, o il loro “anche”. Parimenti, si può dire che la criminalità in quanto somma di diversi crimini non ha alcun legame con i diversi crimini.” 2 29 Inoltre, l’autore procede dalla teoria alla pratica e sostiene che “al giorno d’oggi, la criminologia moderna riassume i crimini commessi all’interno di uno specifico territorio, nel corso di un dato periodo di tempo, e li trasforma in un fenomeno completamente nuovo chiamato criminalità, un fenomeno dell’essenza considerata in senso dinamico, la cui struttura è studiata, e che è confrontato con il numero della popolazione, ecc. Naturalmente, queste “note” sono di una certa importanza operativa nel lavoro quotidiano delle agenzie legate alle forze dell’ordine. Ma spesso si cerca di dare a tali “note”, un valore scientifico, anche quando la questione è tutt’altro che scientifica”.1 Così, A. Leps ritiene che la criminalità come nuovo fenomeno sia il risultato della somma di distinti crimini all’interno di un determinato territorio. L’autore sottolinea la natura quantitativa e statistica del concetto di “criminalità”. Niente da eccepire. Contemporaneamente però A. Leps rileva che il nuovo concetto di “criminalità” è un fenomeno dell’essenza ma con una struttura, una dinamica, un orientamento, una natura, ecc. Allora si pone la domanda: può la criminalità in quanto fenomeno dell’essenza, caratterizzato dalle proprietà esposte, avere solo caratteristiche quantitative, senza alcuna proprietà qualitativa? In tale contesto, ci sono molte altre questioni fondamentali di importanza non solo teorica, ma anche pratica. Possono taluni reati esistere indipendentemente dalla criminalità nel suo complesso, o sono inseparabili da essa? In che rapporto stanno i distinti crimini con la criminalità in generale, o meglio tale rapporto è naturale o artificiale? Ci sono caratteristiche qualitative o quantitative? La relazione tra i diversi crimini, all’interno del fenomeno criminalità può portare alla comparsa di nuove qualità che fanno parte dell’intero, ma non sono specifiche dei crimini nella loro individualità? Cosa si presenta prima: uno specifico crimine come parte di un fenomeno totale o la criminalità come complesso? 30 Al giorno d’oggi, la criminalità è contraddistinta come un fenomeno legale e socialmente negativo e anche come fenomeno sociale, o nello stesso tempo come fenomeno sociale, filosofico e giuridico, come uno dei parametri della società, che descrive la condizione del meccanismo sociale e la mancata corrispondenza tra le sue parti costitutive.1 A.I. Alexandrov dà una definizione molto interessante di criminalità. Rispondendo alla domanda: che cosa è criminalità? l’autore afferma che: “la criminalità è la soluzione collettiva dei problemi umani attuata attraverso la violazione del divieto penale.”2 Quale conclusione deriva da questa definizione? Parlare di soluzione collettiva ai problemi umani sottolinea la natura consapevole, organizzata, mirata e non ancora spontanea della criminalità. In altre parole, al fine di risolvere i propri problemi, un certo gruppo di persone, vale a dire una certa massa si riunisce, si accorda anticipatamente e arriva ad una decisione collettiva unitaria relativa alla violazione del divieto penale contro i crimini che vengano comessi in un dato periodo di tempo ed entro un determinato territorio. Non importa quale sia la natura di questi crimini. È possibile tale soluzione collettiva? Un’altra posizione non meno prevalente nell’ex Unione Sovietica e in criminologia estera era che la criminalità fosse l’insieme di tutti i singoli reati commessi in un preciso periodo di tempo in una data società o regione.3 Alcuni autori ritengono che questa definizione sia formale e utile solo a definire l’aspetto normativo della criminalità, non riuscendo però a fare luce sulla natura di questo fenomeno sociale. 31 Sappiamo che qualsiasi fenomeno sociale si manifesta come un elemento di quel sistema sociale che è la società. Nella struttura di questo sistema vengono presi in esame tutti i fenomeni sociali e i processi della loro interazione. La criminalità è uno di questi fenomeni. Utilizzando il metodo statistico, la sociologia fornisce materiale pubblico sui cambiamenti qualitativi e quantitativi nella criminalità. Sulla base di questi materiali, la criminologia esamina la condizione, la dinamica e la struttura della criminalità, vale a dire tutto ciò che è associato alle statistiche criminali, compresi gli atti commessi da persone all’interno e contro gli interessi della società. Una caratteristica unica della criminalità è il fatto che ogni singolo crimine è conseguenza di un’azione umana consapevole e che le cifre sulla criminalità si formano spontaneamente, e ciò indica che le statistiche sulla criminalità potrebbero non riflettere la realtà. Naturalmente, non possiamo limitarci alla mera analisi statistica della criminalità, senza affrontare i temi relativi alle sue origini sociali e storiche. La criminalità è al tempo stesso un fenomeno sociale relativamente imponente, storicamente effimero e di natura penale e giuridica. Tuttavia, la natura sociale della criminalità è direttamente derivante dall’essenza sociale di un determinato crimine e non dal fatto che la criminalità ha radici e cause sociali. Cosa significa? Il fatto è che il comportamento umano è un fenomeno che appartiene a una categoria sociale ed è noto che la criminalità sia proprio un tipo di comportamento. Pertanto, prima di studiare il comportamento criminale come un fenomeno di tipo sociale, è necessario definire cosa si intende per comportamento sociale. L. Gumplowicz ha detto: “Dietro i fenomeni sociali ci è possibile comprendere le relazioni derivanti dall’interazione tra gruppi di persone e mezzi di comunicazione”.1 Secondo G. Simmel, un fenomeno sociale o la società “vengono a esistere là dove più persone si trovino a interagire fra loro.” 32 Come si può notare, la differenza di visione tra G. Simmel e L. Gumplowicz consiste nel fatto che quest’ultimo considera il gruppo come elemento di interazione piuttosto che individuale, anche se non vi è alcuna differenza essenziale dal momento che “alcuni individui” possono ugualmente essere considerati un gruppo. Dal punto di vista sociologico, il fenomeno sociale in quanto oggetto della sociologia è, innanzitutto, l’interazione dei vari centri o l’interazione con specifiche caratteristiche. Tuttavia, ogni interazione umana è sempre accompagnata da determinati processi interni tra le persone che si relazionano. In altre parole, nell’analizzare i fenomeni sociali, in particolare – il comportamento delle persone nel gruppo, e nel cercare di separare da certe categorie le loro infinitamente diverse azioni, si dovrebbe sempre partire dall’analisi delle esperienze mentali che accompagnano ogni azione del comportamento umano. Pertanto, sembra che sarà l’analisi delle esperienze mentali a fornire la chiave per spiegare tutte le azioni umane, comprese quelle criminali. Ciò è possibile, ovviamente, quando nell’analisi dei fenomeni sociali vengono utilizzati categorie e concetti psicologici. Di conseguenza, non tutti i tipi di interazione possono essere considerati fenomeni sociali, ma solo quelli di natura intellettuale, indipendentemente da tra chi o tra che cosa si svolgano. Che cosa è un’interazione mentale? Dal punto di vista psicologico (quello interiore), questa interazione si riduce allo scambio, alla volontà e in generale a tutto ciò che è riassunto sotto la dicitura ‘esperienze mentali’. Non è necessario che l’interazione sia di lunga durata. Anche un’interazione breve o casuale è sufficiente per essere definita un’esperienza mentale, come ad esempio nel caso in cui si commetta un crimine senza alcun tipo di premeditazione, in maniera istintiva. La criminalità sociale risiede precisamente all’interno delle relazioni degli individui attraverso il concetto di crimine; è il risultato cioè della commissione di specifici reati criminali. Se mai il crimine cessasse di essere, allora, di certo, non ci sarebbe più bisogno di usare il concetto di “criminalità come fenomeno sociale”. 33 Quindi, se si considera la criminalità come un valore numerico statistico (per esempio, in Azerbaigian nel 2011 sono stati commessi 24.000 crimini), è quasi impossibile parlare di natura sociale della criminalità, perché questo fenomeno non è il risultato dell’interazione umana, poiché i fenomeni sociali sono privi di caratteristiche di genere, età, altezza, peso, colore dei capelli, ecc… La situazione cambia nel caso in cui la criminalità sia considerata come un insieme di singoli, specifici reati, qualora siano stabilite la sua ripetibilità, la sua natura colletiva, tipicità e l’importanza della sua pericolosità pubblica, cioè siano fissate quelle che sono le sue caratteristiche e proprietà. In questo caso, la criminalità come fenomeno sociale diventa il punto di partenza della ricerca sociologica e criminologica. Citando ancora una volta Hegel: “L’intero è costituito dalle parti, senza di esse non è niente. Così l’intero e le parti dipendono l’uno dall’altro… sono entrambi indipendenti in sé e per sé, si tratta di due esistenze indipendenti, l’una indifferente all’altra… l’intero è uguale alle parti e le parti sono uguali all’intero.”1 Sulla base della logica della relazione che c’è tra una parte e l’intero, ci indirizziamo direttamente sull’analisi della sua manifestazione nei fenomeni di crimine e criminalità. Con il termine parte si intende un singolo fenomeno, cioè uno specifico crimine, una serie di proprietà, qualità, caratteristiche che ne determinano la sua specificità e particolarità, e quindi che lo rendono differente da tutte le altre parti, cioè da tutti gli altri crimini. Ad esempio, l’omicidio è diverso dallo stupro, sebbene entrambi siano intesi come parti dello stesso intero. Anche nell’intera gamma delle singole manifestazioni criminali, è esclusa l’assoluta identità anche solo di due di queste, perché non ci sono due crimini esattamente identici o soggetti dello stesso tipo che li commettano. Tuttavia, non esiste specifico crimine che possa verificarsi in una situazione di totale isolamento, di per sé, senza alcuna relazione con gli altri fenomeni criminali. Non si può comprendere il furto in quanto crimine senza conoscere l’essenza del fenomeno rapina, non si potrebbe in alcun modo attribuire loro i giusti requisiti. 34 È accertato che nessun crimine può nascere né esistere o scomparire senza alcuna comunicazione o interazione con gli altri fenomeni della vita sociale, politica, legale, spirituale e morale. Ma se i singoli crimini (parti) sono interconnessi e interagiscono fra di loro, finiscono con l’avere qualcosa in comune, che li rimanda tutti allo stesso intero (criminalità). E questa comunanza, essendo inerente a tutti i reati, senza eccezioni, è l’essenza di un atto criminale. Sembra che l’essenza del crimine sia il male in quanto categoria filosofica. È attraverso questa categoria che possiamo condurre un’indagine comparativa di determinati crimini. Ad esempio, l’omicidio si differenzia dallo stupro per molti aspetti, ma questi due reati sono uniti dal concetto di male che è comune in entrambi questi fenomeni. Di conseguenza, dal momento che non ci sono crimini del tutto simili o identici, allo stesso modo non ci può essere un’assoluta distinzione fra di essi. Le differenze possono riguardare solo il grado e la natura della malvagità. Pertanto, al di là di tutto, quando si parla di criminalità, deve intendersi l’unità delle proprietà e delle qualità che sono insite in tutti i crimini, senza eccezione. D.A. Kerimov scrive: “L’emergere dell’intero può avvenire solo se esistono realmente le sue parti, l’unione di una data gamma delle quali crea una sorta di organizzazione complessiva.”1 Tutto questo ci permette di affermare che la criminalità (in quanto intero) non può esistere senza i singoli reati (in quanto parti), e viceversa; sono organicamente collegati, dipendenti e condizionati. Va sottolineato che la criminalità in quanto formazione dell’intero non include soltanto alcune delle proprietà essenziali di un crimine, ma la totalità delle caratteristiche, delle funzionalità, la criminalità comprende cioè il crimine nella sua interezza. Di conseguenza, questa nuova formazione, cioè la criminalità, acquisisce le proprietà che costituiscono l’essenza stessa del crimine – il male. 35 Il crimine e la criminalità hanno quindi un’essenza comune – il male. La criminalità come formazione complessiva non è solo un semplice insieme di crimini. La criminalità nel suo complesso rispetto ai singoli crimini, cioè alle parti, ha carattere oggettivo, regolare, la sua formazione è una necessità. L.O. Volt osserva che “Qualsiasi intero differisce dalle singole unità meccaniche che fanno parte della sua struttura e che in essa sono organizzate.”1 Ne consegue che la criminalità dovrebbe essere considerata come un sistema, poiché, come osservato da V.G. Afanasyev, “non si discute, ogni insieme è un sistema”2 perché la totalità dei crimini, l’interazione dei quali determina la disponibilità di nuove qualità integrative, non peculiari di quelli che le hanno generate, è un sistema. La criminalità ha anche una struttura ben specifica. Una caratteristica della criminalità come formazione dell’intero è la presenza obbligatoria di una struttura comune che integri i crimini individuali come parti e li classifichi. All’interno di questa struttura V.I. Sviderskiy identifica “il principio, il modo, la legge di collegamento degli elementi dell’intero, il sistema di relazioni degli elementi all’interno di questo intero.”3 La struttura della criminalità descrive la forma interiore della sua organizzazione. All’interno di questa struttura, i singoli crimini sono inclusi in un altro intero, in base alle varie caratteristiche. Così, per esempio, vengono a formarsi gruppi come quello della criminalità giovanile, quello dei crimini fondamentali, o di quelli connessi al blocco economico, ecc. La criminalità è mutevole e instabile. Il livello di stabilità penale dipende dalla natura, dalle proprietà e dalle dinamiche dei singoli crimini. 36 Pertanto, si può affermare che determinati crimini, cioè le parti, hanno un ruolo primario in relazione alla criminalità (come intero), ma secondario rispetto ai vecchi reati. Questo vale per quegli atti che solo in seguito hanno ricevuto lo status di criminali. D.A. Kerimov sostiene che “l’intero è la base per l’esistenza, il funzionamento e lo sviluppo delle parti. Pertanto, qualsiasi valore le parti possano avere nell’intero, sono comunque subordinate rispetto ad esso. "1 Tuttavia è proprio ad opera delle parti, cioè dei singoli crimini, che la criminalità in quanto intero esiste e si modifica. Dopo tutto, solo attraverso la considerazione e l’attenta analisi degli specifici reati si può approfondire la conoscenza dell’essenza del crimine, scoprire e identificare più precisamente le leggi del suo sviluppo. Ciò non toglie valore all’intero, che è l’oggetto di studio delle cause generali della criminalità. Pertanto, si può affermare che i singoli crimini (come le parti) e la criminalità in generale (come l’intero) sono un oggetto indipendente degli studi scientifici. K. Fisher ha detto: “Il tutto è indipendente, e le parti sono solo un momento di questa unità; tuttavia, hanno la loro indipendenza nella stessa misura, e l’unità che riflettono è soltanto un momento.”2 Il riconoscimento della criminalità come fenomeno sociale conduce inevitabilmente al riconoscimento del suo essere condizionata da specifiche cause sociali. In altre parole, se la criminalità, al contrario del singolo crimine, non è un atto di “libero arbitrio”, allora la sua esistenza è dovuta anche a una sorta di stabili forze agenti o cause indipendenti dalla volontà umana. La criminalità consiste di atti commessi da individui facenti parte della comunità e contro gli interessi della società. Qualsiasi cambiamento sociale, per quanto insignificante possa sembrare, influenza, direttamente o indirettamente, il livello e la dinamica della criminalità. 37 Tuttavia, questo non può essere associato alle cause del crimine, perché questi cambiamenti, così come tutte le condizioni sociali esistenti hanno un impatto sulla criminalità da parte di individui e agiscono negativamente sul loro comportamento. La sociologia e la criminologia sono ripetutamente tornate a ricercare i fattori che influenzano lo stato, il livello, la struttura e la dinamica delle varie manifestazioni della criminalità e delle definizioni negative in generale. Una miriade di fattori sono stati rivelati nei settori dell’economia, della politica, della demografia e persino dello spazio. La domanda è: chi influenzano? Influenzano la personalità, l’individuo o la criminalità in quanto aggregato statistico di crimini individuali? Cosa dobbiamo indagare in questo caso: l’influenza di questi fattori sulle persone o sulla criminalità, che non è pensabile senza i singoli crimini? Quando si cerca di rispondere alla domanda su quali siano le cause della criminalità, si comincia a cercare la risposta partendo dalla persona che ha commesso il crimine come soggetto dell’atto, e la domanda su quali siano le cause della criminalità passa in secondo piano. Pertanto, dobbiamo essere d’accordo con G. Manhein, che credeva che fosse “arrivato il momento di accantonare la ricerca delle cause della criminalità”1 e di studiare seriamente il meccanismo all’origine del comportamento umano, in particolare del comportamento criminale. È impossibile studiare il fenomeno criminalità solo a livello filosofico, avulso dalla realtà giuridica, poiché la criminalità è un insieme sfaccettato e, soprattutto, un fenomeno sociale e giuridico con proprie caratteristiche intrinseche e propri modelli di sviluppo. Sembra che criminalità e crimine siano concetti diversi, quindi non ci può essere alcun segno di uguaglianza tra di loro. Utilizzando il metodo di conoscenza statistico, la sociologia fornisce materiale oggettivo in merito ai cambiamenti qualitativi e quantitativi all’interno della criminalità. Sulla base di questi materiali, la criminologia dovrebbe studiare lo stato, la dinamica e la struttura della criminalità, e cioè ogni qualsivoglia cosa che abbia una connessione con le statistiche criminali. 38 Per quanto riguarda le cause del comportamento criminale, questo problema non interessa il campo d’indagine della criminologia, ma quello di altre scienze, come la filosofia, la psicologia, la biologia, la genetica, in poche parole, di tutte quelle scienze che studiano la natura umana in senso più ampio. A questo proposito, sembra che dovremmo studiare le cause del comportamento criminale e le condizioni e le circostanze che portano l’uomo a commettere un crimine, piuttosto che le cause della criminalità. La criminalità è ciò che risulta dalla sintesi del materiale, vale a dire dall’elaborazione di dati statistici, al fine non di accertare le cause del comportamento criminale, ma di un uso pratico e teorico nella lotta contro questo fenomeno. Ecco perché non si può parlare di “filosofia della criminalità”. Si deve usare il termine “sociologia della criminalità”, poiché la criminalità è allo stesso tempo un fenomeno sociale e legale. L’oggetto d’indagine della sociologia e della filosofia della criminalità alla fine si concentra sul comportamento umano in generale e sui comportamenti criminali in particolare. Parlando della filosofia del crimine, si dovrebbe anche riconoscere che ci sono anche la sociologia e la psicologia del crimine. Crimine è un concetto socio-psicologico, ma anche filosofico e legale. Pertanto, non possiamo essere d’accordo con E.A. Pozdnyakov secondo cui il crimine “come definizione dovrebbe essere di natura giuridica e, semplicemente, non può essere qualcosa di diverso.”1 Solo una volta compresa la libertà della volontà umana è possibile comprendere l’essenza della filosofia del crimine, compito affidato alla filosofia come scienza. La filosofia del crimine è più specifica in termini di materia di ricerca e, ovviamente, dipende dall’approccio alla soluzione dei problemi nella filosofia in generale. Quel che tenta di fare è rispondere alla domanda: perché un individuo in una data situazione commette un atto criminale? N.A. Neklyudov ritiene che la filosofia del crimine sia quella scienza che si occupa di indagare la criminalità, sulla base di dati statistici criminali. 39 Neklyudov scrive: “…La filosofia del crimine come atto non è che una deviazione delle statistiche di qualità e quantità.”1 L’autore sostiene che la filosofia del crimine come atto non deve esaminare il rapporto tra un atto criminale e il nostro stato d’animo – se si tratta di un prodotto dell’arbitrarietà incondizionata o della relativa libertà dell’individuo, un prodotto della sua cattiva volontà o semplicemente una conseguenza di un destino inevitabile, il giudice – questo compito spetta alla filosofia in generale e alla filosofia del diritto penale, in particolare, in breve, alla filosofia soggettiva. Quindi, per N.A. Neklyudov, c’è la filosofia del crimine oggettiva, il cui punto di partenza sono le condizioni esterne, e la filosofia soggettiva, cioè, la volontà di agire nel male come causa del crimine. In altre parole, il soggetto della filosofia oggettiva sono esclusivamente quelle circostanze esterne di cui la cattiva volontà come oggetto della filosofia soggettiva può beneficiarsi al massimo. Così, secondo l’autore, dal punto di vista della filosofia oggettiva del crimine, il commettere reato dipende non solo dalla cattiva intenzione, poiché è immateriale, ma anche dalle condizioni esterne. In primo luogo, difficilmente si può essere d’accordo con l’affermazione secondo cui una scienza che studi il crimine sulla base di dati statistici debba chiamarsi filosofia del crimine. È piuttosto la scienza criminologica ad essere impegnata nell’analisi dei dati statistici al fine di fornire informazioni utili a combattere la criminalità. In secondo luogo, è impossibile e non ha alcun senso studiare un criminale e un crimine di là del tempo e dello spazio, estraendoli artificialmente dall’ambiente e dalle condizioni di vità della comunità cui appartengono e alla quale sono vincolati per mezzo di connessioni sociali naturali e inscindibili. In terzo luogo, quando si parla di filosofia del crimine, si parla di un atto, che è direttamente collegato a una persona senza alcun legame con il mondo esterno, si parla cioè, di un “atto puro”. 40 Qui stiamo cercando di capire se un soggetto è o meno libero di decidere il proprio comportamento quando commette un crimine. Non ci interessano le condizioni o le circostanze in cui questo dato soggetto è inserito e che, di fatto, potrebbero contribuire alla scelta criminale. Per questo crediamo che non abbia alcun senso dividere la filosofia del crimine in soggettiva e oggettiva. La filosofia del crimine è un’eterna ricerca in cui si vuole arrivare a poter rispondere a domande come: l’uomo è libero di decidere il proprio comportamento? Da cosa ha origine l’atto criminale? § 2. CAUSE E ORIGINI DEL COMPORTAMENTO CRIMINALE Cenni storici. La storia dello sviluppo dello studio delle cause della criminalità è molto lunga e impregnata di vari tipi di teorie consolidate, vedute originali e idee interessanti da parte di filosofi, avvocati, psicologi, sociologi, pensatori religiosi, medici e anche scrittori. Alcuni di questi studi, a una più accurata analisi, appaiono troppo arretrati e talvolta anche assurdi e incomprensibili, tuttavia, essi sono di grande interesse per lo studio delle cause della criminalità. Il risultato è che oggi gli approcci generalmente accettati per determinare le cause del crimine sono: quello regolamentare e giuridico, filosofico, etico, religioso, antropologico (il risultato delle qualità biologiche e naturali di una persona), sociologico, ecc. È anche possibile dividere la storia di questi studi nei seguenti periodi storici. Nei tempi antichi, tale questione è stata oggetto dell’attenzione dei filosofi, i quali, in 41 alcune brevi osservazioni hanno accennato al concetto e alle cause della criminalità, per così dire, in maniera supereficiale, all’interno di considerazioni generali sulle questioni scientifiche della filosofia. Il valore sociale del crimine e le sue cause sono stati colti dagli antichi filosofi fin dal tempo di Solone, Pitagora, Protagora, cioè, prima dei grandi filosofi greci Platone e Aristotele. Nel dialogo “Gorgia”, Platone esamina le cause del crimine, non come malattia dell’anima di un criminale, ma come malattia di uno stato, la cui cura rientra nei compiti del governo. In altre parole, il filosofo fa risalire le cause del crimine nelle radici sociali della società e non in quelle dell’individuo. A differenza di Platone, la visione di Aristotele aveva un carattere piu solido, poiché questi aveva quasi sempre parlato delle cause del crimine, non da un punto di vista astratto e filosofico, come aveva invece fatto Platone, ma da un punto di vista penale e politico. Inoltre Aristotele riteneva che le cause del crimine fossero un male sociale che doveva essere combattuto e, se possibile, evitato. Lo stoicismo, filosofia di carattere cosmopolita, al contrario, riteneva che il crimine fosse una perversione della natura umana. Comunque, gli antichi filosofi non sono stati in grado di creare alcun tipo di teoria consolidata sul crimine e le sue cause, anche se le loro opinioni su questo tema hanno svolto un ruolo prezioso nello sviluppo della scienza del diritto penale. Il secondo periodo inizia con la nascita della scuola classica di diritto penale ed è associato a due grandi eventi – l’Umanesimo e la Riforma. M.P. Chubinskiy osserva giustamente che senza l’Umanesimo e la Riforma, la dottrina naturale e legale che ha portato al fiorire di nuovi studi penali e legali non si sarebbe mai sviluppata.1 Politici, filosofi e avvocati hanno iniziato a pensare a nuovi approcci allo studio delle cause della criminalità. Tra questi ricordiamo: Hugo Grozio, Hobbes, Spinoza, Locke, Fichte, Gomel, Feuerbach e altri. Senza alcun dubbio, queste importanti personalità hanno dato un enorme contributo alla lotta contro visioni obsolete e superate del concetto di criminalità e sulle sue cause, e, di conseguenza, hanno fornito gli strumenti per combattere tali fenomeni. Sfortunatamente però, nessuno di loro è stato in grado di fare quanto C. Beccaria. 42 E. Ferri ha scritto: “Né i romani, che hanno grandemente sviluppato il diritto civile, né gli avvocati medievali potrebbero elevare il diritto penale al livello di un sistema filosofico. Guidato più da sentimenti che da ambizioni strettamente scientifiche, Beccaria fu il primo a dare impulso all’insegnamento dei delitti e delle pene”.1 Infatti, la formazione della scuola classica di diritto penale è strettamente connessa al nome di C. Beccaria, sui cui principi è stato successivamente costruito il sistema del diritto penale nel mondo civilizzato. Il metodo scientifico di questa scuola era lo studio aprioristico del crimine come entità giuridica astratta. Uno dei più brillanti esponenti di questa scuola, F. Carrara, ha detto: “Il crimine è un fenomeno giuridico, la violazione, non l’azione.”2 I migliori rappresentanti della scuola classica russa hanno definito il crimine come un fenomeno che abbraccia una sfera dei “rapporti giuridici”3 e l’oggetto della ricerca giuridica pura, come espresso da S.N. Tagantsev, “lo studio della costruzione giuridica di atti criminali.”4 Così, la scuola classica ha affermato che l’atto criminale in quanto relazione reale al di fuori del concetto giuridico non dovrebbe diventare l’oggetto di studio di un criminologo, perché in base al diritto penale, secondo V.D. Nabokov, “Crimine e pena sono concetti.”5 Il concetto di crimine così strutturato ha inevitabilmente portato a trascurare l’identità del criminale come soggetto dell’atto criminale. Ciò ha reso attaccabili le posizioni classiche attraverso l’interrogativo: è possibile indagare il crimine, senza considerare in questa analisi l’individuo che lo ha commesso? E. Ferri in proposito ha scritto: “Per il criminologo classico, l’identità del criminale ha un’importanza piuttosto secondaria, al pari di quella che una volta aveva il paziente per il medico”. 43 Il criminale è visto dal criminologo come una creatura a cui si applicano le formule teoriche, a loro volta prodotto di speculazioni teoriche, un manichino animato sul retro del quale il giudice applica il numero dell’articolo del codice penale e che si trasforma in quello stesso numero dopo l’esecuzione della sentenza.”1 Inoltre, la scuola classica è stata accusata di logorare la sostanza della scienza del diritto penale definendo il crimine come fenomeno giuridico, restringendo in tal modo i limiti del suo studio del crimine come fenomeno2 esclusivamente giuridico. Tuttavia, l’accusa più forte e costante contro la scuola classica era quella di aver preso come postulato implicito il fatto che fosse il libero arbitrio personale a portare a commettere il reato, e cioè che è proprio la libera espressione della volontà umana a decidere se commettere o no crimini, se commetterli in una maniera o in un’altra, se commetterli in misura maggiore o minore3. In realtà, la scuola classica non ha negato la possibilità di studiare i criminali. L’ha semplicemente disattesa. Sebbene abbia riconosciuto l’impossibilità di studiare il crimine senza studiare anche il soggetto che lo abbia commesso, la scuola classica ha affrontato la questione dei criminali praticamente solo da una prospettiva, prendendo cioè in considerazione il reato commesso. Non è pertanto corretto affermare che la scuola classica abbia guardato al crimine solo come entità giuridica, come un atto senza forma, ignorando l’importanza dei fattori umani e sociologici sulla criminalità. Principale conferma di ciò si trova nel lavoro di C. Beccaria “Dei delitti e delle pene”. 44 Come giustamente sottolineato da P.F. Chubinskiy, “dopo Beccaria, ebbe ampio sviluppo un potente flusso riformista che alla fine riuscì a spazzare via il vecchio ordine della giustizia penale, dando così vita a un nuovo ordine, in netto contrasto con il precedente in considerazione dei principi e delle istituzioni che lo componevano."1 Va inoltre sottolineato che C. Montesquieu, le cui opere hanno avuto una forte influenza sulla formazione delle opinioni di C. Beccaria, era più positivista di tutti i suoi predecessori, ad eccezione forse solo di Bacone, nel senso che non si limitò a esprimere fruttose idee di politica criminale, ma cercò anche di dar loro una giustificazione. È chiaro che né Beccaria, né Montesquieu ebbero a disposizione il ricco materiale sociologico, antropologico e statistico dei positivisti. Si avvalsero in gran parte del solo materiale storico. Riteniamo che la posizione dei classici fosse che lo studio dell’organizzazione psicofisica del soggetto del crimine non dovesse e non potesse essere oggetto di materia legale, criminologica in particolare, la ricerca come studio dell’essenza, biologica, psicologica e fisica di una persona è un campo indipendente della ricerca antropologica e sociologica. In caso contrario, insieme al concetto di reato prestabilito dalla legislazione penale e indicato come “definizione legale”, dovrebbe essere utilizzato un termine usato in criminologia, cioè il “materiale”, o la definizione criminologica. All’inizio del 19° secolo, la statistica era impegnata in prima linea nello studio del crimine. Sembra corretto considerare questo come l’inizio di un nuovo, terzo periodo relativo allo studio del concetto e della natura del crimine in relazione all’identità del soggetto criminale. È noto che a differenza dei fenomeni fisici e biologici, i fenomeni sociali, di cui fa parte il crimine, non possono essere studiati in maniera sperimentale. Pertanto il metodo di osservazione deve bastare quando ci si approcci alla ricerca in campo sociologico. 45 Uno degli strumenti più utili ed efficaci per queste osservazioni è la statistica. G.D. Tarde ha scritto: “La statistica è una sorta di sentimento pubblico in continua evoluzione: nel caso della società, è come la vista animale e attraverso la determinazione, la gradualità, la crescente ricchezza dei suoi grafici, curve e mappe colorate è ciò che rende questa analogia sempre più sorprendente giorno dopo giorno. In realtà, l’occhio non è altro che una meravigliosa macchina per il veloce, immediato e autentico calcolo delle vibrazioni ottiche, che ci viene trasmesso sotto forma di una serie continua di immagini visive, come fosse un atlante in costante aggiornamento.”1 Le statistiche sulla criminalità sorsero in Belgio e in Francia come un capitolo delle statistiche morali. Sono nate da un gruppo di scienziati che, non avendo alcuna intenzione di studiare il crimine o di concentrare la propria attenzione sulle statistiche morali come oggetto di ricerca, ha indicato la criminalità come un atto immorale. Questi studiosi si sono confrontati con la tematica criminale, basandosi non su prove aprioristiche, ma su conclusioni derivate dall’analisi della vita reale della società. La statistica criminale scientifica è nata tra il 1825 e il 1830. Il capostipite della statistica criminale è considerato A. Quételet, professore all’Università di Bruxelles. Una volta Krone ha detto che la statistica criminale “è un requisito primario per il successo nella lotta contro la criminalità e in questa lotta si trova a giocare lo stesso ruolo che ricopre l’intelligence in tempo di guerra.”2 Utilizzando i dati numerici, Quetelet ha cercato di capire se le azioni di un soggetto morale nel senso e nelle intenzioni si verificassero con una certa regolarità ed è arrivato alla seguenti nette conclusioni: “La società porta in sé i germi dei crimini commessi al suo interno.” 46 La società stessa in un modo o nell’altro dà inevitabilmente vita ai crimini e un soggetto criminale è un arma nelle sue mani; ogni forma sociale genera un certo numero e un certo tipo di reati commessi necessariamente al suo interno.”1 Quetelet credeva che i reati sarebbero rimasti costanti e invariati fino a quando le loro cause fossero state esplorate e affrontate così da determinare dei cambiamenti, anche se questo era già noto in precedenza a molti di coloro che avevano studiato il problema in maniera approfondita. Nuovo e importante è stato il fatto che, sulla base di un’analisi dei dati statistici sullo stato della criminalità, questi abbia cercato di sferrare un potente attacco contro quanti credevano possibile combattere la criminalità attraverso sanzioni penali. In particolare, ha sostenuto che le sanzioni penali non possono bloccare la crescita della criminalità senza alterarne i fattori sociali. Ciò dovrebbe essere accettato senza condizioni, anche se sappiamo che la pena non può provocare alcuna azione diretta ed efficace sui fattori sociali. Allo stesso tempo, attraverso la stima del valore di fattori criminali, quali il sesso, l’età, il clima, le condizioni economiche, lo status sociale, ecc, l’autore ha cercato di indagare i fattori biologici della criminalità. A. Quételet era talmente affascinato dalle sue statistiche che cominciò a dibattere su chi avesse una nota propensione al crimine. Il merito di Quételet sta nel fatto che prima di lui, le cause del crimine erano studiate in maniera teorica, in seguito fu possibile con l’ausilio dei numeri indicare più o meno esattamente le cause del crimine, cosa che prometteva di dare buoni risultati se solo si fosse seguito il sentiero indicato dalla scienza. Un altro e non meno importante merito della statistica è lo studio della base dei dati statistici e delle motivazioni dell’atto illecito, così come quelle del crimine, anche se i criminologi non hanno quasi mai utilizzato questi dati, mentre è qui che possono essere apprese molte cose utili per la corretta applicazione della sanzione penale non solo come prevenzione, ma anche come repressione. 47 Come possiamo vedere, il compito principale degli statistici è stato quello di aiutare a individuare le cause del crimine e le origini del comportamento criminale specifico attraverso indicatori numerici. Allo stesso tempo, dobbiamo tenere a mente che la statistica non si riferisce ancora alla totalità delle condizioni e ai singoli fattori che determinano la criminalità. Pertanto, B.M. Bekhterev osserva: “La statistica in generale opera sui grandi numeri; quindi non ci fornisce indicazioni precise sulle condizioni particolari che definiscono più da vicino la natura del crimine. Solo la totalità dei fattori che influenzano una persona e non solo i fattori comuni, ma anche quelli più intimi e privati, descrivono il crimine e la sua natura.”1 Quetelet ha condotto molti studi sulle cause che influenzano il verificarsi dei reati e ha tracciato uno splendido grafico che mostra che le stagioni hanno un preciso effetto sulla propensione al crimine. Lo scienziato ha sostenuto che le statistiche hanno permesso di prevedere i crimini all'interno di un determinato territorio. In particolare, ha concluso che il numero di crimini commessi ogni anno rimane pressoché invariato, e che la curva di movimento del crimine è così uniforme che si può fare un grafico della criminalità quasi con la stessa precisione di una tabella della morte. Così scrive: “Quanto è triste la situazione del genere umano. Quasi con la stessa precisione con cui si determina il numero di nascite e di morti, possiamo prevedere quante persone potrebbero macchiarsi le mani con il sangue dei propri vicini, come molti potrebbero diventari falsari e avvelenatori.”2 Certo, difficilmente si può essere d’accordo con questa dichiarazione di Quetelet, perché, in effetti, è impossibile prevedere con precisione le condizioni, la dinamica e il tasso di criminalità, dal momento che questo è un fenomeno spontaneo, anche se ora sono si sono potute fare previsioni per quanto riguarda lo sviluppo della criminalità. 48 Possiamo perdonare a Quetelet l’inesattezza di questa dichiarazione dal momento che i dati statistici a sua disposizione erano relativi solo a un breve periodo di tempo. Occorre inoltre ricordare che, in quanto matematico, Quetelet trasse le sue conclusioni sulla base di dati numerici, studiando cioè il numero dei crimini e delle violazioni al di fuori del loro rapporto con le condizioni della società. Esplorando le leggi fisiche che governano l’ordine morale, Quetelet ha stabilito che l’ “uomo medio” ha una certa propensione al crimine, cioè che un individuo è esposto in una data misura alla possibilità di commettere un crimine. Le conclusioni raggiunte da Quetelet per quanto riguarda l’impatto dell’ambiente, del sesso e dell’età sul comportamento criminale erano grezze e successivamente si sono dimostrate discutibili. Tuttavia, i meriti della statistica non possono essere sottovalutati. Come è stato ben notato al Congresso di statistica tenutosi a Londra nel 1860, “le statistiche penali sono per il legislatore quello che una mappa, una bussola e un sacco sono per un marinaio.” Così, molto prima che la scuola positiva del diritto penale iniziasse a occuparsi del crimine e delle sue cause, la statistica aveva già trattato i problemi relativi alla criminalità. Tuttavia, lo studio statistico si era espresso con cifre, geroglifici che dovevano ancora essere tradotti ed esaminati attraverso i dati forniti dalle altre scienze. Questo è il percorso seguito dagli antropologi e dai sociologi, nonché da tutti coloro che si sono dedicati allo studio delle cause del crimine, ponendosi la domanda se i cambiamenti delle combinazioni numeriche potessero essere compatibili con il concetto di libero arbitrio, che è alla base della scuola classica del diritto penale. Proprio partendo dal rifiuto di porre il libero arbitrio alla base delle cause del crimine, la scuola positiva ha cominciato a cercare queste cause altrove. Gli antropologi hanno cominciato ad affermare e dimostrare che il crimine non è un prodotto del libero arbitrio, ma il necessario prodotto dell’individualità fisica e spirituale del crimine. Raggruppando le severe critiche sulla scuola classica e il suo libero arbitrio, H.M. Charykhov ha scritto: “Sia i teorici sia i pratici hanno avuto di fronte a loro solo i concetti di omicidio, violenza, furto, frode”. 49 E grazie alla triste teoria del “libero arbitrio”, il soggetto portato al crimine è diventato il vero colpevole del delitto, del furto, della frode. Ma queste erronee conclusioni, come accade per ogni sbaglio, dovevano essere inevitabilmente eliminate. La decadenza della dottrina del “libero arbitrio” segnò il momento in cui i positivisti presero il posto della scuola classica nell’insegnamento sulla criminalità.”1 Gli antropologi hanno inizialmente ricercato le cause del crimine nella natura fisica dell’ambiente: l’impatto del tempo, del clima, quello termometrico, geologico e altri fattori. Hanno poi presto focalizzato la loro attenzione sull’uomo, iniziando a cercare le cause della criminalità nella sua organizzazione antropologica, fisiologica e mentale. Sono arrivati a sostenere che, nel momento in cui commette un reato, l’individuo è coinvolto in esso, non solo per la sua natura animale (fisiologica, biologica), ma anche per la sua mentalità, il cui contenuto non si esaurisce con le esperienze generate dallo stato del suo corpo. La formazione del comportamento criminale, secondo gli antropologi, comprende “tutto ciò che abbiamo visto, sentito, e così via. In breve, tutti i nostri rapporti con il mondo esterno.”2 C. Lombroso credeva che lo studio delle modalità criminali degli animali avrebbe inoltre favorito una migliore comprensione delle modalità criminali umane, nello stesso modo il cui l’anatomia e la fisiologia animali sono servite a capire meglio la natura umana. Ma è davvero possibile studiare la criminalità animale al fine di meglio definire quella umana? Lombroso, ad esempio, aveva ritenuto possibile applicare questa stessa teoria anche alle piante. Il soggetto dell’antropologia, o dottrina dell’uomo, è la conoscenza della sua natura. L’antropologia ha permesso di stabilire un rapporto diretto tra l’ereditarietà e il comportamento criminale di una persona, ma è possibile che oggi qualcuno ritenga che il comportamento criminale in quanto tale sia ereditario? 50 Sono convinto che non lo credesse neanche lo stesso Lombroso. Egli sosteneva che ogni crimine fosse un ritorno alle abitudini dell’uomo primitivo, e che ogni criminale fosse contraddistinto dalle caratteristiche fisiche e mentali di un selvaggio. Anche se la scuola antropologica ha mancato l’obiettivo di costruire un concetto di crimine, e quindi il suo insegnamento come sistema teorico, rispetto alla scuola classica, è rimasto incompleto dal punto di vista logico, gli antropologi hanno compiuto la transizione dallo studio dogmatico e logico dei classici, alla conoscenza positiva del crimine e del criminale. In altre parole, è stato preso in considerazione il fenomeno reale nella sua specifica manifestazione invece delle strutture teoriche e delle astrazioni del concetto di reato. In ultima analisi C. Lombroso ha concluso che “il crimine è un fenomeno naturale e necessario, come la nascita, la morte, il concepimento, e la malattia mentale, che è spesso la sua versione iniziale.”1 Il suo discepolo, R. Garofalo, ha tentato di colmare la lacuna nel suo sistema teorico; ha cercato di formulare un concetto scientifico naturale del crimine e quindi di elevare la dottrina antropologica al livello di una teoria scientifica naturale del crimine. Il tentativo è stato però fallimentare. In seguito, Bahar, un altro rappresentante di questa teoria, ha deciso di formulare una “nuova definizione di crimine sulla base della scienza biologica.” 2 Secondo lui, il desiderio di prendere la vita di un proprio simile è una manifestazione di quell’istinto ereditario al cannibalismo comune a tutti gli esseri umani e animali. Questo istinto spinge una persona sacrificare il più debole, al fine di garantire la propria sopravvivenza. Dopo che la teoria antropologica per cui l’istinto criminale era innato nell’uomo fu rifiutata dalla società, in particolare da coloro che amministravano la giustizia, E. Ferri, nel 1882, annunciò la creazione di una nuova scuola di pensiero che chiamò sociologia criminale, e in cui introdusse i dati sperimentali dell’antropologia, della fisiopsicologia, della psicopatologia e delle statistiche criminali, e le misure per combattere la criminalità indicate dalla scienza (attraverso la prevenzione e la repressione). 51 Lo scopo della nuova scuola, come spiegato da E. Ferri, era “esplorare la genesi naturale della criminalità, sia nel criminale sia nell’ambiente in cui vive, in modo da trattare le diverse cause con diversi strumenti.” 1 Alla fine, è arrivato alla conclusion che: “Quando si parla di tipo criminale e di criminalità innata, si intende la predisposizione fisiopsicologica al crimine, che in dati individui può portare o meno a compiere atti criminali (allo stesso modo in cui una predisposizione alla malattia mentale può o meno condurre alla pazzia) se il soggetto è inibito da condizioni ambientali favorevoli, ma non appena le condizioni diventano sfavorevoli, sono l’unica spiegazione positiva all’attività criminale disumana e antisociale.”2 Così, Ferri indica che il crimine, qualunque forma possa assumere e qualunque sia la categoria in cui possa rientrare, ha origini complesse e una natura sia biologica, sia fisica sia sociale. Pertanto, determinate azioni possono essere imputate a un individuo, e di conseguenza questi ne è responsabile perché vive all’interno di una società. Alla fine siamo riusciti a ottenere una scuola sociologica che ha fatto della questione del crimine e della pena l’oggetto di studio di tre discipline, indipendenti fra loro, ma allo stesso tempo strettamente correlate nel formare il sistema della scienza del diritto penale: la sociologia criminale (criminologia), la politica criminale e la dogmatica penale. In sostanza, si tratta di una scuola apologetica, in quanto, prestando grande attenzione all’aspetto sociale della criminalità, non nega in nome della maggior parte dei suoi rappresentanti né i molti dati antropologici né gli studi giuridici che costituiscono il nucleo della scuola classica. 52 G.D. Tarde, rappresentante della scuola sociologica, ha scritto: “Il crimine è un fenomeno sociale, come qualsiasi altro, ma allo stesso tempo è antisociale come il cancro, dal momento che fa parte della vita dell’organismo, ma ne promuove la mortificazione.”1 In linea di principio, tutti i rappresentanti di questa scuola hanno creduto che il crimine non fosse altro che una risposta all’ingiustizia sociale, il risultato di un’organizzazione imperfetta e insoddisfacente della società, una cui riforma radicale ridurrebbe al minimo l’incidenza della criminalità e forse la eliminerebbe del tutto. La scuola sociologica ipotizza che la criminalità sia un risultato inevitabile del contesto sociale in cui il criminale è cresciuto e vive. Uno dei rappresentanti di questa scuola, H.M. Charykhov, ha scritto: “È l’ambiente sociale a determinare e incentivare le forme di sviluppo sociale. Il crimine come forma di azione umana sociale e individuale, come forma di sviluppo sociale, non può essere preso in considerazione e studiato a prescindere dall’influenza dei fattori che determinano e guidano le forme di sviluppo sociale in generale. E così il crimine inteso come uno specifico caso del processo generale di sviluppo è determinato dai fattori dell’ambiente sociale, piuttosto che da quello spaziale.”2 Ritenendo il crimine un’entità sociologica piuttosto che un’entità fisiologica, L.P. Manouvrier ritiene che “u soggetto agisce sempre in conformità con la propria organizzazione fisiologica, ma la natura delle sue azioni è interamente determinata dall’ambiente esterno. Solo la capacità umana di agire dipende dall’anatomia e dalla fisiologia. E il modo in cui questa azione si svolge dipende dall’ambiente.”3 Possiamo quindi trarre le seguenti conclusioni. In primo luogo, se il contesto sociale è tutto, se è così danneggiato da favorire lo sviluppo di nature perverse e criminali, ne consegue che gli sforzi riformatori dovrebbero essere indirizzati proprio verso questo ambiente e verso i suoi meccanismi di funzionamento. 53 “Ogni società ha i criminali che merita.”1 Di conseguenza la crescita e il declino della criminalità dipendono principalmente da fattori sociali, cioè da fattori che possono essere modificati e corretti dalla società più facilmente di altri. In secondo luogo, si può concludere che quanto più in basso l’uomo si trova nella scala sociale, tanto maggiore è la possibilità che questi commetta un crimine. In terzo luogo, avendo diviso i fattori di criminalità in due gruppi, sociali e individuali, la scuola sociologica assegna la precedenza nel determinare le cause del crimine ai fattori sociali, in quanto categoria principale. Pertanto, l’assenza di fattori sociali, cioè primari, ceteris paribus, non avrebbe condotto all’originarsi e alla nascita di motivazioni personali (derivate), vale a dire proprietà psicofisiche. Quindi si dovrebbero ricercare le cause personali come cause del crimine. Queste cause, prima di tutto, devono essere cercate nell’ambiente sociale circostante, poiché le motivazioni del crimine si trovano nell’uomo stesso, mentre le sue motivazioni sono nell’ambiente circostante. Un criminale, cioè, “un microbo”, è un elemento che acquista significato solo quando trova terreno fertile. In quarto luogo, i fattori sociali del crimine fanno riferimento alla totalità degli effetti dell’ambiente sociale, e quelli relativi all’individuo – all’impatto della singola condizione ambientale umana. (List, Charykhov). Qual è il difetto di questa scuola? Afferma che il crimine è un fenomeno sociale determinato da fattori sociali. È questo. La natura di tale fenomeno è conservativa o evolutiva? Non c’è risposta a questa domanda. Cogliendo un nesso causale diretto tra i fattori sociali e il fenomeno criminale, i rappresentanti della scuola sociologica che utilizzano il metodo positivo non vanno però oltre, cioè, non cercano di scoprire in base a quale logica l’ambiente sociale dà vita a un fenomeno sociale quale quello criminale. 54 Infine, la scuola sociologica non fa una chiara distinzione tra fattori sociali e individuali, o tra motivazioni e condizioni economiche in merito a tale questione. Così, finisce per non formare un sistema molto completo e coerente, e pur essendo disaccordo su una serie di problemi significativi con la scuola antropologica, tuttavia la scuola sociologica è vicina ad essa in molti aspetti; questo è il motivo per cui queste due vie non possono essere rappresentate come due campi ostili e rigorosamente separati. I sostenitori dell’orientamento economico nello studio della criminalità e delle sue cause, che hanno una ricca base teorica e pratica, sono molto popolari. È innegabile che la criminalità funga da barometro insolitamente sensibile della condizione economica della società. Questo è chiaramente evidenziato dall’analisi comparativa dello stato della criminalità in differenti paesi e con un differente sviluppo economico. T. Moore in “Utopia” ha suggerito una che sia una motivazione economica a causare di povertà e miseria a molte migliaia di persone, e a costringerle a condurre una vita criminale. D. Romagnosi rileva che la miseria economica conduce al crimine: “Possiamo trovare esempi di poveri che, costretti dalla povertà e dalla schiavitù, arrivano a compiere rapine. Successivamente, quando è stato chiesto ai detenuti il perché di una scelta così disperata, questi hanno risposto che erano consapevoli del pericolo, ma che hanno preferito correre questo rischio piuttosto che condurre l’esistenza miserabile che vivevano.”1 F. Engels ha condotto uno studio particolare sul crimine, servendosi della statistica. Il risultato a cui è giunto è che la straordinaria crescita della criminalità in Inghilterra era legata alla difficile situazione economica. Voltaire si è espresso a favore di una più ampia prevenzione dei crimini che avrebbe richiesto in primo luogo al legislatore di studiare quali fossero i crimini maggiormente attinenti alla debolezza della natura umana. 55 Partendo, ad esempio, dal fatto che i reati di proprietà sono commessi soprattutto dai poveri e che le leggi sono fatte dai ricchi, Voltaire manifestò il suo dissenso alla decisione di trascurare le cause di questi crimini. Secondo lui, nella lotta contro la miseria e il vagabondaggio, l’esecuzione dimostrativa non era necessaria quanto invece quel che concerne lo sradicamento attraverso valide misure di quel fenomeno chiamato miseria. J. Bentham ha giustamente osservato che se una persona è privata dei mezzi di sussistenza, non può essere fermata dalla paura della punizione poiché una motivazione più forte la attira verso il crimine, una volta compreso che la soddisfazione dei propri bisogni è impossibile da ottenere in maniera legale. Secondo l’autore, la modalità più sicura non è tanto quella di prevedere la povertà, quanto di prevenirla. Il sistema di Bentham si distingue per le sue notevoli completezza e originalità. Nessuno dei suoi predecessori era penetrato così in profondità nei recessi delle origini del crimine o aveva trovato alcun mezzo altrettanto efficace per la prevenzione del crimine.1 Va notato che anche Omero nell’ “Odissea” (XVII, 286) disse: “Ma un ventre rapace non può nascondere l’uomo, una peste maledetta che porta molti mali sugli uomini.” I filosofi del “secolo d’oro” non hanno ignorato l’impatto delle condizioni materiali sulla criminalità. Senofonte ha visto nella povertà un potente incentivo per il comportamento criminale. Nel “Simposio”, fa dire a Callia: “gli uomini a cui non manca il denaro per le proprie necessità sono meno inclini al crimine.” Così chiunque può difficilmente dubitare che la povertà e la miseria abbiano un impatto significativo sullo stato della criminalità. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la ricchezza e il lusso svolgono un ruolo importante anche nella commissione dei crimini. Tutto dipende dal tipo e dalla natura del reato. Platone nel suo “La Repubblica”, osserva che gli estremi materiali – lusso e povertà – sono ugualmente pericolosi. Pertanto, il filosofo consiglia ai governatori di assicurarsi che il lusso e la povertà non siano parte dello stato: il primo genera la corruzione morale, l'ozio e la dedizione al nuovo, la seconda – sentimenti di base e desiderio di fare il male, indipendentemente dalla passione per le innovazioni. 56 Aristotele ha espresso un’opinione molto interessante su questo tema nel primo libro della “Retorica”. Egli osserva che la ricchezza e la povertà in sé e per sé non spingono nessuno a commettere un crimine. Tuttavia, i poveri vanno alla ricerca di soldi in quanto ne hanno bisogno, e i ricchi ricercano il piacere di cui non possono fare a meno mentre sguazzano nel lusso. E ancora, entrambi sono spinti a commettere crimini, non a causa di ricchezza o povertà, ma semplicemente per passione. Così, secondo Aristotele, le fonti di reato sono la passione, il desiderio causato dalla ricchezza e dalla povertà. Di conseguenza, l’assenza di povertà e ricchezza elimina le passioni e, quindi, la criminalità. Nella stessa opera, il filosofo sottolinea un concetto molto importante: è più facile che un reato venga commesso in condizioni di povertà, quando non c’è nulla da perdere. In effetti, i fattori esterni, tra cui quello socioeconomico, hanno un certo impatto sull’individuo e lo conducono a uno stato psicofisico tale che per una certa parte della popolazione il risultato è il crimine. Tuttavia, non tutti gli individui che si trovano in questa situazione scelgono il percorso criminale. Nel mondo, i criminali sono solo il 6% della popolazione totale. È per questo che una delle questioni più controverse e difficili è quella di stabilire il legame tra il crimine e le condizioni economiche. Va tenuto presente che queste condizioni sono sia di natura individuale, cioè si applicano solo a un individuo particolare, sia generale, cioè, sono applicati alla situazione economica, allo stato della società, alle persone in generale. Pertanto, appare opportuno fare riferimento al concetto di “condizioni economiche”, sia in relazione alla vita della società sia alla vita di ogni individuo. Quando si parla di cause economiche all’origine della criminalità, non dovremmo concentrarci sulla causa attiva, ma sulle cause che hanno influenzato la volontà umana, cioè, sul quel quid che forza l’individuo a prendere questa decisione e non l’altra. E questo quid è nelle mani dei singoli individui e può essere influenzato non soltanto dalla situazione economica, ma anche da altri fattori di diversa natura, tra cui quello psicofisico, perché l’individuo è allo stesso tempo un essere biologico. 57 La risposta alla domanda se la causa principale o una delle principali cause del crimine sia la disuguaglianza economica che divide i cittadini in poveri e ricchi è che sono la condizione economica della società, nonché l’ambiente sociale ad essere le condizioni per la nascita delle cause della criminalità. In altre parole, miseria e la povertà possono influenzare il comportamento criminale, senza essere le principali cause del crimine. La causa risiede nell’uomo stesso. Anche in situazione di collettivismo, l’egualitarismo dei crimini, soprattutto quelli economici, ha continuato ad esistere, anche se tali atti sono stati puniti più duramente, anche con la pena di morte. Pertanto, il miglioramento della situazione economica delle masse in ogni caso, non comporta la scomparsa delle manifestazioni criminali. Possiamo parlare solo di una loro diminuzione. Se la maggior parte sta sperimentando l’influenza delle condizioni economiche sul comportamento criminale, non vi è motivo di ritenere che queste condizioni si applicano a loro più che alla minoranza economicamente più agiata. Ma allora come si spiega che, dopo tutto, i poveri costituiscano il contingente principale dell’esercito di criminali? Questo significa che sono la stragrande maggioranza? Un’analisi delle statistiche criminali condotta in Azerbaigian in un determinato periodo di tempo ha dimostrato la presenza di un collegamento innegabile tra la criminalità e le condizioni economiche del paese. Ma allo stesso tempo, questa analisi ha rivelato che il crimine porta ugualmente in sé chiare tracce di fenomeni molto diversi: relazioni etniche e politiche, cambiamenti nella struttura sociale e politica dello Stato, forme di governo, ecc. Ad esempio, il conflitto del Karabakh, che dura da più di 25 anni, ha avuto un grave impatto sullo stato, la natura e il tasso di criminalità in Azerbaigian – non solo per la terribile situazione economica e sociale dei profughi provenienti da Armenia e Karabakh, ma in misura maggiore a causa delle condizioni psicologiche di tutta la popolazione della repubblica. 58 Un approccio particolare al tema si è avuto dopo la Rivoluzione d’Ottobre. I bolscevichi, nelle parole di M.V. Kozlovskiy, consideravano indiscutibile la posizione secondo cui un criminale era un prodotto del contesto sociale, e che tutte le sue azioni, tutte le sue motivazioni, non dipendessero né da lui né dalla nostra “volontà”. Anche se gli scienziati forensi della giovane Terra dei Soviet degli anni Venti sono stati unanimi nel ritenere che “nessun crimine può essere spiegato solo da cause esterne, ignorando le caratteristiche della persona che lo commette.”1 Naturalmente, l’approccio usato dagli scienziati e dalla scienza del diritto penale per spiegare il concetto di criminalità e le sue cause non era coerente con la filosofia marxista, per cui: “La teoria che considera la punizione il risultato della volontà del criminale è solo un’espressione speculativa dell’antico ‘ius talionis’ (la legge del taglione) – occhio per occhio, dente per dente, sangue per sangue”2. I bolscevichi erano convinti che le fonti del crimine fossero la resistenza del rovesciamento delle classi sfruttatrici, sostenuto da tutta la borghesia internazionale, l’elemento piccolo-borghese anarchico, le abitudini borghesi e le abilità cui era vincolato un sufficientemente largo strato del popolo lavorator e credevano quindi che, eliminando queste cause, sarebbe stata automaticamente eliminata anche la criminalità. La spiegazione scientifica del concetto di crimine e delle sue cause era dunque in contrasto con la politica e la dottrina dello stato socialista, relativa alla lotta contro la criminalità. Pertanto, a partire dall’inizio del 1930, la criminologia sovietica fu costretta a cambiare la propria disposizione rispetto alla comprensione del concetto di criminalità, e, quindi, verso la spiegazione delle radici del comportamento criminale. 59 A.N. Traynin osservò in quegli anni che “una cattiva eredità, anomalie fisiche o mentali non sono decisive nel passaggio alla criminalità poiché i fenomeni sociali sono determinati da leve sociali e questi stessi fattori sono ottenuti unicamente dalle fondamenta sociali della vita umana”1. Tale approccio è durato fino all’inizio degli anni Sessanta, fino a quando gli scienziati sovietici non iniziarono a prestare attenzione alla personalità criminale, e poi nacque una discussione, che prosegue ancora oggi, sul rapporto tra il fattore sociale e quello biologico nel comportamento criminale umano. In realtà, la storia degli insegnamenti sulla natura criminale può essere rappresentata come la storia della lotta tra due orientamenti – quello sociologico e quello biologico. Tutto si riduce alla risoluzione dei seguenti problemi: se vi sia una relazione tra le proprietà ereditarie di un organismo e il comportamento umano, compreso quello criminale, e se c’è, quanto è importante il contributo del fattore biologico per le varie funzioni del corpo umano, per i processi psicologici e il comportamento. Se, prima del 19° secolo, questo problema non era così grave, in seguito i progressi della medicina e della genetica hanno iniziato a generare negli uomini la speranza che queste scienze avrebbero aiutato a rispondere alle domande di nostro interesse: perché un individuo commette un crimine? Quali sono le origini di questo comportamento? Come possono essere sradicate? La posizione fondamentale del marxismo-leninismo è che i fenomeni sociali, tra i quali è compreso il crimine, non possono essere spiegati dal punto di vista biologico. Ma, allo stesso tempo sorgeva un altro problema relativo al fatto che l’essere umano era comunque un essere biologico. Per questo, l’uomo e i suoi comportamenti avrebbero essere esaminati dal punto di vista socio-biologico. In caso contrario, cioè se tutto dovesse essere ricondotto al solo ambiente sociale e si arrivasse a presumere che la natura e la biologia non hanno alcun ruolo nel comportamento criminale umano, non ci resterebbe che attendere fino a quando la società non avrà risolto tutte le problematiche sociali umane, momento in cui non ci sarebbe più bisogno di sanzioni penali poiché le persone non sarebbero incolpate per i difetti nelle condizioni della società. Nel romanzo “Les Miserables”, Victor Hugo chiede attraverso il personaggio di Jean Valjean “…se la società umana avesse il diritto di far ugualmente subire ai suoi membri sia per la propria e irragionevole mancanza di lungimiranza, sia per la sua spietata lungimiranza; e di imprigionare per sempre un pover uomo tra un difetto e un eccesso, un’inadempienza di lavoro e di un eccesso di punizione”. 60 A nostro parere, non si dovrebbe cercare di paragonare in maniera globale l’aspetto sociale e ciò che di biologico viene acquisito e ereditato dall’uomo, quanto più cercare di scoprire l’interazione specifica, l’analisi del meccanismo d’azione dei fattori nello spiegare le cause del comportamento. È comprensibile che un uomo possa cambiare, ma non ch sia in grado di eliminare o distruggere ciò che c’è di naturale e biologico in lui. La diversità genetica crea l’unica, irripetibile individualità biologica di ogni individuo. Tuttavia, la scienza ha dimostrato che le differenze biologiche tra le persone, e persino tra le razze e i gruppi etnici, sono trascurabili rispetto alla loro unità. In effetti, molte proprietà psicologiche sono ereditarie, ma questo non significa che ci sia una relazione tra la struttura fisica umana, la formazione mentale e il comportamento criminale (questo è stato asserito dagli psichiatri E. Kregmer e R. Funes). G. Kaiser ha giustamente sottolineato: “Lo studio del crimine come un prodotto dell’eredità è stato molto mediocre… Dobbiamo di certo riconoscere che il tentativo di spiegare il comportamento criminale attraverso i fattori ereditari è definitivamente fallito.”1 Si potrebbe concordare sull’esistenza di fattori ereditari all’origine della criminalità, se fosse possibile stabilire che i modelli genetici di sviluppo di individui che vivono in un dato tempo in un determinato territorio siano stati uguali a quelli degli schemi di movimento della criminalità. Pertanto, i fondamenti della discussione sul ruolo biologico possono essere eliminati, a condizione che il fattore genetico non sia la causa determinante del comportamento, compreso quello criminale, e svolga un ruolo minore rispetto alle cause sociali. 61 Dopo tutto, i metodi e le forme di prevenzione delle manifestazioni criminali dipendono dalla soluzione di questo problema. Se si considera che le cause del comportamento criminale siano associate a fattori biologici, allora bisogna ideare dei metodi di impatto terapeutico, delle forme di controllo genetico. In realtà, la stragrande maggioranza degli scienziati sovietici e gli uomini di legge moderni hanno creduto e credono ancora che la criminalità non sia una categoria biologica. La stessa opinione è condivisa dai filosofi. Ad esempio, P.N. Fedoseev ha scritto: “Sarebbe assurdo cercare le radici della criminalità nelle caratteristiche biologiche di un individuo, ma, allo stesso tempo, è necessario prendere in considerazione alcune delle differenze individuali tra le persone.”1 Di fatto, un uomo irragionevole potrebbe riuscire a comportarsi in maniera ragionevole, come una creatura attiva, capace di progresso illimitato, se i suoi pensieri e azioni fossero innati e geneticamente programmati? La scienza dimostra che “l’immensa malleabilità del cervello, e l’umana capacità di apprendere ed essere formato, escludono che il programma genetico abbia un valore tanto inesorabile.”2 Ciò significa che le persone con un’impostazione genetica nella norma possono controllare se stessi, al contrario un’impostazione genetica disturbata influenza in una certa misura il cervello e cioè, interessando il corredo genetico, provoca un’acuta incongruenza tra i bisogni sociali e possibilità biologiche. Un acceso dibattito sul rapporto tra i fattori sociali e quelli biologici del comportamento criminale, come noto, era iniziato in URSS negli anni Venti, quando era stata riservata profonda attenzione allo studio della personalità criminale. Pur senza addentrarci nella vicenda dello scontro tra questi opposti punti vista, possiamo notare che tale dibattito infuria ancora. 62 Nel 1969, I.I. Karpets affermò in maniera categorica: “Non può esserci pacifica coesistenza tra il fattore sociale e quello biologico sulla questione della natura della criminalità.”1 Divenne chiaro quindi che la scienza giuridica e, soprattutto, la criminologia non erano state in grado di risolvere questo problema, perché riguardava la natura dell’uomo, la sua essenza, le cause del suo comportamento in generale e del comportamento criminale in particolare. Molto probabilmente, la risposta alla domanda su quali siano le cause del comportamento criminale deve essere fornita da genetisti, biologi, psichiatri e psicologi, cioè dai rappresentanti delle scienze che studiano direttamente la natura dell’uomo in quanto essere biologico. E. Fromm, il fondatore della teoria della distruttività umana, riteneva che la deviazione del comportamento umano dovesse essere spiegata non solo con l’influenza di motivi psicologici, mettendo i disturbi mentali in stretta correlazione i fenomeni legati all’ambiente sociale.2 Nella criminologia sovietica, nessuno ha mai sostenuto che le persone nascessero criminali, che esistesse la tipologia criminale o che il crimine fosse un concetto biologico. Non c’erano, e non c’erano mai stati sostenitori più o meno ufficiali di Cesare Lombroso. Attualmente, tuttavia, è generalmente accettato che l’uomo sia soggetto non solo alle leggi dello sviluppo sociale, ma anche alle leggi della natura, leggi biologiche, e che sia lui il punto di unione fra queste due determinanti – quella biologica e quella sociale. Pertanto, la ricerca biologica deve andare di pari passo con lo studio sociologico del crimine, cioè, lo studio scientifico del crimine come una sorta di fenomeno sociale e la presentazione delle condizioni sociali del crimine che sono alla base come risultato. I..I. Karpets ha detto: “Un uomo non può essere separato dalle condizioni della propria esistenza, in quanto è impossibile spiegare le ragioni del suo comportamento, tra cui quello criminale, e le cause del crimine attraverso generici fattori biologici”,3 perché l’uomo è un essere sociale, ma è anche un essere biologico in quanto parte della natura. 63 P.N. Fedoseev afferma che sono molti gli aspetti poco chiari in merito al meccanismo di interazione tra il fattore biologico e quello sociale, in particolare nel campo della psicologia.1 Ha assolutamente ragione. Ma la domanda è posta in maniera diretta: è il fattore sociale o quello biologico ad avere maggior rilevanza nel comportamento umano, ossia quello criminale? B.S. Volkov ritiene che “le caratteristiche biologiche hanno una grande influenza sulla formazione del comportamento sociale dell’uomo.”2 Secondo I.S. Noy, “è innegabile per l’odierna scienza moderna che un neonato faccia il suo ingresso nella vita essendo in parte “programmato”. Siamo convinti che nell’approccio allo studio delle cause del crimine non si possano avere ingiustificati pregiudizi nei riguardi dei fattori psicologici e sociali, senza che ci siano i necessari chiarimenti in merito all’influenza delle condizioni sociali oggettive su tali fattori. Il crimine è un fenomeno complesso, quindi la questione se il fattore biologico o quello sociale nel comportamento criminale sia primario o secondario non ha prospettiva. La chiave è che l’atto criminale è possibile in presenza di questi fattori. Dovremmo parlare non della priorità di uno o dell’altro fattore, ma dell’interazione fra il biologico e il sociale, cioè tra l’individuo e l’ambiente. II. Una spiegazione religiosa alle cause del crimine. In un antico tempio c’era una scritta: “Io sono ciò che è, era, sarà, e nessuno ha imparato il mio essere.” Secondo noi è impossibile conoscere l’essenza filosofica della criminalità senza specificarne le cause. Allo stesso tempo, è evidente che la risposta alla domanda eterna del perché una persona commetta un crimine è direttamente proporzionale alla conoscenza del significato del comportamento umano in generale. 64 Ma è chiaro che è necessario capire l’essenza e la natura umana, ovviamente, nella misura che ci interessa, e poi procedere allo studio del comportamento umano, compreso quello criminale. Questo è l’ordine con cui abbiamo deciso di trattare l’argomento in questione. Il famoso aforisma: “Conosci te stesso”, scritto davanti al tempio di Apollo a Delfi, è stato una sorta di punto di riferimento per i filosofi fin dai tempi antichi. Per secoli è stata oggetto di studio l’abilità umana di riflettere profondamente e acutamente sulla cosa più importante: loro stessi, il proprio posto nel mondo, il senso della propria esistenza, la giustizia, le origini del bene e del male. Lentamente e in maniera graduale l’uomo si è avvicinato alla conoscenza della verità. M. de Montaigne ha scritto: “La condizione peggiore per l’uomo è quando egli cessa di essere consapevole e di avere il controllo su se stesso.” 1 Ne consegue che la condizione migliore si ha quando l’uomo è in grado di conoscere e di capire se stesso, come pure di controllarsi. Ma è possibile? Platone diceva: “Fai le tue cose e conosci te stesso”. Forse quello che vuole dirci il filosofo è che se un uomo vuole e cerca, ottiene sempre il suo, cioè che sarebbe in grado di svelare i misteri della natura umana? Tuttavia, fino ad oggi, l’uomo rimane un mistero non pienamente riconducibile alla conoscenza, come hanno cercato di far notare allora molti filosofi. Così, M. de Montaigne ha scritto: “L’uomo è un’incredibile creatura terrena, realmente incostante e sempre sconcertante. Non è facile avere di lui un’idea costante ed uniforme”2 In particolare questo è stato espresso da B. Pascal: “…Non c’è problema più irrisolvibile per un uomo di se stesso”3. L’uomo è la creatura naturale più incomprensibile a se stessa, perché è difficile per lui comprendere cos’è un corpo fisico, ancora più difficile comprendere cos’è lo spirito, completamente incomprensibile il collegamento tra queste due sue parti. 65 Inoltre, da dove discende l’uomo? La storia della creazione di Adamo, il primo uomo, è presente nelle Sacre Scritture degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. La descrizione della Creazione è all’incirca la stessa sia nelle fonti ebraiche sia in quelle cristiane. Secondo la Genesi, Adamo fu creato dalla “polvere della terra”. Il Talmud afferma anche che il Signore impastò il corpo di Adamo con il fango. La versione islamica della creazione di Adamo è diversa da quella cristiana ed ebraica. In essa possiamo trovare molti dettagli sorprendenti. “Egli è Colui che conosce il palese e l’invisibile; è l’Eccelso, il Misericordioso; è Colui che ha perfezionato ogni cosa creata e dall'argilla ha dato inizio alla creazione dell’uomo (Corano, Sura 32, versetti 6-7). La Sura 2, Al-Baqara (La giovenca), rivela più pienamente la missione di Adamo: E quando il tuo Signore disse agli Angeli: “Porrò un vicario sulla terra”, essi dissero: “Metterai su di essa qualcuno che vi spargerà la corruzione e vi verserà il sangue, mentre noi Ti glorifichiamo lodandoTi e Ti santifichiamo?”. Egli disse: “In verità Io conosco quello che voi non conoscete…”(Corano, Sura 2, versetto 30). Inizia così la storia di Adamo, il primo uomo sulla Terra. Agli ordini del Signore, gli angeli scesero sulla Terra per raccogliere tutti i tipi di terreno ivi contenuti: rosso, bianco, marrone, nero; morbido e flessibile, solido e sabbioso… Poi il Signore creò Adamo con le manciate di terreno raccolte. I suoi discendenti erano destinati a diventare così diversi come le manciate di terra provenienti da tutto il mondo, da cui loro antenato era stato creato, con aspetto e caratteristiche differenti. Nel Corano, il terreno da cui Adamo fu creato ha molti nomi. Questo in qualche modo ci aiuta a immaginare il processo della sua creazione. Per ogni fase della creazione è stato usato un nome di terreno diverso. Quello che gli angeli hanno raccolto intorno alla Terra è stato chiamato suolo. A volte il Signore la chiama argilla. Dopo essere mescolata con l’acqua, l’argilla, o suolo, si trasforma in fango. Poi, la materia lasciata asciugare è chiamata argilla “densa”. Dopo qualche tempo, diventa scura ed emette un odore, diventa nera, l’argilla liscia. È da questa sostanza che il Signore creò il corpo di Adamo. Il suo corpo senza anima lasciato un po’ asciugare si trasformò in quello che viene definito nel Corano “argilla risonante”. 66 Adamo fu creato da un materiale simile all’argilla del vasaio, che emette come un suono quando viene lievemente picchiettata. La cosa sorprendente è che questa idea ha ottenuto un’immediata conferma. Si è scoperto che l’argilla semplice contiene gli elementi di base della vita biologica. A quanto pare, è per una buona ragione, che dai tempi antichi fino ad oggi, le persone hanno utilizzato l’argilla per il trattamento di una varietà di malattie. Sin dai tempi antichi in molte nazioni sono circolati miti e leggende secondo cui l’uomo era stato creato dall’argilla. Ad esempio, nella leggenda macedone, il Signore scolpì gli uomini dall’argilla con le sue stesse mani, facendolo “in modo che le parti del corpo non fossero posizionate male così l’uomo non si sarebbe offeso”. Ma poi decise di accelerare il processo di creazione e costruì un apposito stampo di uomo, che riempì di argilla, ma la qualità risentì di questa “produzione di massa”. Alcune persone ottennero una mano o un piede storto, altri erano ciechi o calvi, e altri – orgogliosi o testardi. È così che furono create le persone buone (opera delle mani di Dio) e quelle cattive (frutto dello stampo). È interessante notare che, nei miti sumeri, anche gli dei Enki e Ninmah modellarono gli esseri umani dall’argilla, e all’inizio crearono brave persone, poi si ubriacarono e crearono diversi mostri. La creazione degli uomini dall’argilla è descritta nei miti degli antichi greci e degli egiziani, di un certo numero di tribù indiane del Nord America e dei popoli africani. Ma la storia biblica della creazione dell’uomo dall’argilla, senza dubbio, è nota a molti. Secondo gli scienziati, anche la parola ebraica per “uomo” ha un collegamento con la parola “terra, terreno rosso.” All’inizio del 20° secolo, il famoso scienziato russo V.I. Vernadskiy, studiando l’argilla, scoprì un certo numero di interessanti proprietà a supporto degli antichi miti della creazione dell’uomo. Nella composizione dell’argilla, trovò tutti i macro e microelementi presenti nel nostro corpo. La cosa più interessante è che erano contenuti nell’argilla quasi nelle stesse proporzioni. Recentemente, gli scienziati americani hanno fatto una scoperta sensazionale, confermando a un più alto grado le conclusioni formulate da V.I. Vernadskiy. Questi hanno scoperto che l’argilla ordinaria contiene gli elementi di base della vita biologica, quelli di cui sono costituite le membrane delle cellule umane e di altri organismi biologici. 67 Va rilevato che le membrane cellulari non solo sono coinvolte nella formazione delle cellule, ma inoltre contengono il codice genetico di un organismo – l’acido ribonucleico (RNA), che è la base della vita. I geologi e i geofisici distinguono tra un massimo di 40 tipi di argilla, diversi per composizione, struttura e colore. C’è argilla blu, bianca, rossa, gialla, verde, grigia e anche nera. Il colore e tonalità di argilla, come anche le sue proprietà, sono determinate dalla sua composizione chimica, che stabilisce anche le sue proprietà terapeutiche. Le proprietà curative dell’argilla sono determinate dalle sue proprietà uniche di scambio ionico. L’argilla può fornire alle cellule gli elementi mancanti e assorbire quel che è in eccesso, può così normalizzare la composizione minerale del corpo e regolare i processi metabolici. Dunque, una delle versioni è che l’uomo è stato creato da Dio. Ma possiamo mai veramente conoscere quello che non siamo stati noi a creare? Dopo tutto, senza conoscere noi stessi, non possiamo spiegare il nostro comportamento e, di conseguenza, capire le cause del crimine. Nei fatti, perché gli individui, conoscendo il bene e il male, a volte scelgono quest’ultimo? Come sottolinea correttamente E.A. Pozdnyakov, questa è “la prova dell’eccezionale assurdità della natura umana, il motivo per cui l’uomo soffre, viene penalizzato e punito nel corso della sua storia – sebbene a ragione”1 Che sia stato lo stesso Dio a darci una sorta di istinto di disumanità? T. Hobbes a questo proposito ha scritto: “Un uomo è per natura un male e una creatura distruttiva; somiglia un killer che può essere tenuto lontano dal suo passatempo solo dalla paura di un killer più spietato.”2 Gli angeli avvertirono Dio che l’uomo avrebbe peccato e versato sangue. Tuttavia, il colpevole della natura criminale e peccatrice dell’uomo si è rivelato essere il serpente, che “è stato più astuto di tutti gli animali del terreno fatto dal Signore Dio”, con l’inganno e l’astuzia convinse Eva ad assaggiare il frutto proibito dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male. 68 La donna rifiutò, dicendo che Dio aveva proibito loro di mangiare da questo albero, poiché chi avesse ne mangiato il frutto sarebbe morto. Il serpente le disse che non sarebbe morta, “sarete come Dio, conoscerete il bene e il male”. Infine, la donna, persuasa dal serpente, disobbedì alla volontà di Dio, e poi diede il frutto a Adamo. Adamo ed Eva conobbero il bene e il male, presero coscienza della loro nudità e si nascosero da Dio. L’Albero della conoscenza del bene e del male simboleggiava la priorità divina di decidere al posto degli uomini e per gli uomini, cosa fosse bene e cosa male. Prima della caduta dalla grazia, il male esisteva già nel mondo nella figura degli angeli caduti, e Adamo, che diede i nomi agli animali, sapeva cosa fosse il bene e cosa il male. Secondo Giovanni Crisostomo, Dio originariamente creò un uomo autocratico, altrimenti non lo avrebbe punito per aver violato i comandamenti o ricompensato per la loro osservanza. La caduta ha rappresentato il desiderio dell’uomo di usurpare il diritto di Dio di decidere ciò che era bene e ciò che era male. La cattiva condotta fu seguita da una punizione: il serpente fu maledetto e condannato a strisciare sul ventre e mangiare la polvere; la donna fu condannata “partorire i figli nella sofferenza” e ad essere sottomessa al marito; l’uomo fu condannato a lavorare la terra nel dolore e con il sudore della sua fronte tutti i giorni della propria vita come “maledetta è la terra per causa tua.” Le persone non erano più immortali e dopo la morte avrebbero dovuto tornare alla terra nella forma di quella polvere da cui fu creato Adamo. In seguito, Dio vestì gli uomini e li bandì dal Giardino dell’Eden “perché lavorassero la terra da cui [essi] erano stati tratti.” Per far sì che gli uomini non fossero stati in grado di godere dei frutti dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, venne posto all’entrata un cherubino con una “spada fiammeggiante che volteggiava in ogni direzione”. Ciò vuol significare che il male è insito nelle profondità della natura umana, che ha un’origine interna nella sua libertà irrazionale, nella sua apostasia dalla natura divina.1 Perché, pur mancando del senso di crudeltà degli animali, l’uomo è incline alla sua manifestazione? E. Fromm scrive: “L’uomo è l’unico essere vivente che può distruggere la sua stessa specie, senza alcun beneficio per se stesso.”2 69 Non è possibile che Dio ci abbia creati con tendenze sanguinarie. In cosa risiedono allora le origini del male? J.B. Russell citando J.J. Rousseau ha dichiarato: “Uomo, non guardare lontano alla ricerca del creatore del male, sei tu stesso”.1 Secondo la teoria di Freud, le azioni umane sono guidate da istinti animali. Egli sostiene che l’uomo è dominato da tali istinti, in quanto questi hanno fondamento nella sua stessa natura.2 Secondo le credenze religiose, il comportamento malvagio dell’uomo, la violenza, la criminalità sono il risultato dell’impatto delle forze “del male” sugli esseri umani. Così, Sant’Agostino afferma: “Un uomo è libero di scegliere le proprie azioni, e commette crimini solo sotto l’influenza di una volontà maligna, risultato dell’ingresso in lui delle forze del male.”3 Perché Dio permette a un uomo di diventare un criminale, cioè, di fare del male? Y.V. Romanets scrive che “Dio nega il male come fine ultimo, ma ammette che possa esistere come un mezzo per ottenere l’amore del bene.”4 Troviamo tale ragionamento nelle osservazioni dell’archimandrita Platone (Igumnov): “La propensione alla virtù ha un valore spirituale reale nel caso in cui essa è una conseguenza della sconfitta della propensione al peccato."5 Secondo Sant’Agostino, “il piacere della salute si apprezza di più quando si abbia avuto esperienza del fardello della malattia.” Dal momento che tutti sono nati da un processo di corruzione, in primo luogo, per necessità, diventano come Adamo – malvagi e carnali, e poi, quando rinascono, crescono in Cristo, diventano gentili e spirituali… sebbene non tutti gli uomini malvagi diverranno buoni, nessuno che non sia stato malvagio potrà diventare buono. 70 Questo significa che Dio ci ha permesso di fare il male, cioè di commettere crimini, a condizione che ce ne pentiamo? “Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.” (Lettera ai romani 7: 19). Dopo averci creato, Dio emanò allo stesso tempo le regole di comportamento e determinò in modo dettagliato cosa avrebbe dovuto fare un uomo pio, cosa ne sarebbe stato di lui se non si fosse comportato giustamente, e come avrebbe potuto espiare il proprio passato per tornare a essere un uomo pio. Avendo dotato l’uomo delle qualità di bene e di male, Dio, allo stesso tempo ci impone di non agire nel male, ma, al contrario, di sforzarci costantemente ad essere buoni. Prima di tutto, nel determinare il comportamento delle persone, la religione si basa sui concetti di bene e male, che nel linguaggio giuridico si traducono con: giusto, umano, legale o illegale, nocivo e comportamento criminale. Il Corano afferma quanto segue: Chi avrà fatto [anche solo] il peso di un atomo di bene lo vedrà, e chi avrà fatto [anche solo] il peso di un atomo di male lo vedrà. (Sura 99 AzZalzalah (Il terremoto), versetti 7-8). Oppure: “In quel Giorno (nel Giorno del Giudizio) la pesatura sarà conforme al vero, e coloro le cui bilance saranno pesanti prospereranno, mentre coloro le cui bilance saranno leggere sono coloro che perderanno le anime, poiché hanno prevaricato sui Nostri segni. (Sura 7 Al-A’raf , La pesatura, versetto 8). Lo stesso sollecito di Dio si può trovare nel Nuovo Testamento: “…e ne usciranno; quelli che hanno fatto il bene in risurrezione di vita, e quelli che hanno fatto il male in risurrezione di condanna. ”(Giovanni. 05:29). Particolare attenzione deve essere rivolta al fatto che, nei passaggi divini, la commissione del bene e del male dipende interamente dall’uomo ed è fatto bene per il suo bene. In altre parole, il comportamento di ogni uomo dipende dal proprio libero arbitrio. E questo significa che l’uomo è pienamente responsabile di fronte a Dio per le sue azioni. “Se fate il bene, lo fate a voi stessi; se fate il male, è a voi stessi che lo fate”(Corano, Sura 17 Al-Isra’(Il Viaggio Notturno), versetto 7). 71 Oppure: “Chi fa il bene lo fa a suo vantaggio, e chi fa il male lo fa a suo danno. Il tuo Signore non è mai ingiusto con i [suoi] servi (Corano, Sura 41 Fussilat (Spiegato in dettaglio), versetto 46). Senza dubbio, l'ultima espressione: “Il Signore non è mai ingiusto [suoi] servi”, sottolinea che l’azione umana è volontaria, dipende dall’uomo stesso, e che nessuno lo obbliga. Pertanto, è necessario precisare che Dio ha dato all’uomo la libertà di scegliere come comportarsi. Secondo il Corano, Allah ha affermato la supremazia della ragione, ha elogiato le persone ragionevoli. È la ragione che trattiene l’uomo da ciò che lo potrebbe danneggiare. Quindi, l’elemento principale dei passaggi divini è il comandamento, che può agire come un requisito specifico – divieto, obbligo o permesso, o come un principio generale. Va notato che in molti versetti del Corano viene evidenziato il premio per le buone azioni. Il Sacro Corano rafforza la fede convinta degli uomini, senza la quale questi non possono seguire un percorso giusto, e quindi l’Onnipotente gli ha dato il nome di guida per i teopatici. Ecco perché il Corano è chiamato Le Grande Scritture, e perché gli altri passi divini, che sono giustamente chiamati Sacri, contengono una verità evidente e una vasta conoscenza. “In verità questo Corano conduce a ciò che è più giusto e annuncia la lieta novella ai credenti, a coloro che compiono il bene: in verità avranno una grande ricompensa”(Sura 17 Al-Isra ' (Il viaggio notturno), versetto 9). Da tutto questo possiamo capire che Dio, dopo averci creato, avrebbe voluto vedere l’uomo solamente come essere virtuoso. E infatti, egli è naturalmente davvero così dalla nascita. L’azione delle forze “del male” inizia dove inizia l’uomo, e cioè la sua anima e il suo mondo spirituale. Ciò significa che nella mentre esistiamo, in noi ci sono due anime o due forze viventi, che sono una e la stessa, ognuna con l’obiettivo di condurci dalla sua parte: l’una al bene, l’altra al male. E da questo punto di vista, si può concludere che, se prevarranno le forze del male, l’uomo commetterà il crimine. 72 M. de Montaigne ha osservato che “la difficoltà più grande per coloro che sono impegnati nello studio delle azioni umane è di conciliarle con le altre e dare loro un’unica spiegazione, poiché le nostre azioni sono di solito così nettamente in contraddizione tra loro, che sembra improbabile che abbiano origine dalla stessa fonte.”1 Quindi, l’assunto centrale della religione è che l’uomo non è perfetto, perché la sua natura è impressa in modo indelebile insieme al peccato originale dei suoi antenati – Adamo ed Eva, e lui è incline a soccombere alle tentazioni del demonio. Stretto nella morsa di questa tentazione, l’uomo imbocca il sentiero che conduce al crimine, cioè, alla negazione. A questo proposito, sorge spontanea la domanda: può un uomo scegliere il suo comportamento in termini di religione? Se riconosciamo che l’uomo sia la creazione di un Essere Supremo, solo Lui era destinato ad apprezzare a pieno l’essenza del essere da Lui creato, e quindi le origini del suo comportamento, incluso quello criminale. Ma Dio ha dato davvero all’uomo la possibilità di disporre liberamente del proprio agire? Questa domanda è stata posta da Sant’Agostino in una lettera all’apostolo Paolo: “Potrebbe essere che a causa dell’ignoranza l’uomo non abbia la libertà di scegliere ciò che in realtà deve fare, o potrebbe essere a causa di istinti carnali, che per loro natura sono ancora più amplificati dalla forza distruttiva del peccato originale. Lui, pur vedendo come fare la cosa giusta e volendola fare, non può, tuttavia, farla.” Lo stesso Sant’Agostino stava cercando di dimostrare che non c’è il libero arbitrio, e che la vita dell’uomo è predeterminata da Dio, che può benedirla o maledirla. Quindi, un uomo commette un reato sottoposto alla volontà di Dio e quindi la causa principale del crimine è la volontà di Dio. Se è così, si evince che le persone non possono o non sono in grado di rispondere delle proprie azioni, comprese quelle criminali. Questo porta alla questione della responsabilità degli atti compiuti. Perché Dio elargisce beatitudine ad alcuni, e perché sono altri maledetti? Perché alcuni diventano criminali per la sua volontà, e altri – nobili? E, infine, perché Dio vuole che l’uomo da lui creato diventi un criminale e commetta atrocità? 73 Il cristianesimo antico collegava in maniera diretta il libero arbitrio con la decisione preliminare, intenzionale, e consapevole e con la discussione di un’azione imminente. Ciò sta a indicare che se un uomo ha deciso di commettere un omicidio volontario, si è preparato in anticipo per questo crimine, il che significa che ha valutato tutto, meditato sulle conseguenze e sulla possibilità realizzativa del suo piano. Quindi, le azioni avventate, cioè, impulsive, emotive, accidentali, involontarie, spontanee non sono libere. Ad esempio, un ufficiale militare torna a casa, trova la moglie con l’amante e d’impulso li uccide. Il tutto avviene in pochi secondi. Conclusione: le azioni dell’ufficiale non sono libere. In particolare, Nemesio di Emesa ha scritto: “Per azione volontaria (o spontanea) si intende quella consapevole attività razionale il cui inizio risiede in colui che agisce, cioè, nell’uomo. Di conseguenza, per azione involontaria (o non spontanea) si intende l’azione il cui inizio risiede oltre la volontà umana; è poi da fare un’ulteriore distinzione tra azione involontaria che si commette per violenza e azione involontaria che si commette per ignoranza.”1 Se tutte le nostre azioni sono note a Dio e da questi regolate, perché Egli permette che l’uomo commetta crimini contro i propri fratelli? Giovanni di Damasco nella sua opera “Un’esatta esposizione della fede ortodossa” riconosce che, dal momento che Dio è il principio e la causa di ogni bene, ogni buona azione viene commessa con la sua approvazione, cooperazione e assistenza; sebbene Dio non voglia che vengano commesse azioni malvagie, Egli “le consente al libero arbitrio.” 2 Secondo Sant’Agostino, la volontà umana si può esprimere solo in relazione al peccato, l’uomo può aspirare al bene solo attraverso la benevolenza divina3. D. Dorofeev, relativamente a questa tesi, ha suggerito che “tale approccio ha portato alla necessità di distinguere dal punto di vista terminologico tra la scelta volontaria dell’uomo, fatta in alienazione da Dio, e la scelta veramente libera che potrebbe essere fatta solo in accordo con Dio. 74 Per quanto riguarda il primo aspetto negativo della “scelta volontaria” si è cominciato ad applicare a una persona il termine “spontaneità”, come prova della sua volontà a conferma dell’affermazione, valutata negativamente, della sua indipendenza e autonomia personale.”1 Se Dio conosce e anticipa le azioni dell’uomo, perché Egli non lo mette in guardia dal commettere un omicidio? Giovanni damasceno dice: “È necessario sapere che Dio sa tutto anzitempo, ma Egli non predetermina tutto. Perché Egli sa in anticipo ciò che è in nostro potere, ma Egli non lo predetermina. Perché Egli non vuole che il comportamento sbagliato si verifichi, eppure non costringe alla virtù.”2 Sant’Agostino, criticando la posizione di Cicerone, distingue nel mondo tre tipi di ragioni: accidentale, naturale e spontanea, e riconosce che il libero arbitrio umano è la causa spontanea delle sue ipotetiche azioni ed è posizionato nell’universale e temporale serie di causa ed effetto, che è originariamente noto a Dio in quanto essere trascendente ed eterno.3 Ma è davvero libero di agire quell’uomo che in maniera spontanea, compia crimini inaspettati, come l’omicidio? Nemesio di Emesa credeva che l’uomo fosse sempre riconosciuto come il principio “delle proprie azioni” e che avesse capacità di autodeterminazione.4 Di conseguenza, anche commettere un crimine accidentalmente, impulsivamente, cioè spontaneamente, comporta una responsabilità, dal momento che si commette con il libero arbitrio dell’uomo. Anselmo di Canterbury credeva che la spontaneità fosse una caratteristica degli esseri intelligenti. In particolare, egli ha osservato che l’uomo agisce spontaneamente, a differenza, per esempio, di una pietra, che “agisce per necessità”. Un’azione necessaria è un’azione che è completamente qualificata dalla “natura”. 5 75 Da ciò ne consegue che tutte le azioni opera della volontà umana sono spontanee, a differenza degli “istinti” animali e organici. La parola “spontaneità” è di solito usata per descrivere i fenomeni naturali e le azioni umane. Si riferisce alla particolare natura della causa di un’azione commessa o alla speciale posizione del processo di attuazione. Per quanto riguarda il modo in cui l’Islam si rapporta con questo problema, il Corano afferma in modo chiaro e inequivocabile il potere di Allah su tutto ciò che accade nel mondo, incluso quello che succede alle persone al di là delle loro azioni e comportamenti. Così, gli scienziati dell’Islam spiegano in maniera diversa questa stessa affermazione. Alcuni credono nella predestinazione assoluta di tutto ciò che accade all’uomo, cioè, che tutte le sue azioni siano il desiderio di Allah, che l’Onnipotente sia il regista degli atti e delle azioni degli uomini. Pertanto, un uomo che compia il male o il bene, lo fa non per scelta, ma per volontà di Allah. Poi c’è la questione della responsabilità dell’uomo per il proprio crimine. Dopo tutto, se l’uomo non è colui che dà inizio alle proprie azioni, comprese quelle criminali, e se eventuali azioni commesse sono opera di Allah, come possiamo essere ritenuti responsabili per queste azioni e meritare la punizione? Non sarebbe ingiusto da parte di Allah, se dopo aver creato un uomo impotente e aver scelto di dirigere le sue azioni, privandolo della libertà di scelta, Egli lo chiamasse ad essere responsabile del crimine, e poi lo condannasse all’inferno? I sostenitori della negazione del libero arbitrio risponderanno a questa domanda nel modo seguente: l’azione umana è solo l’epitome della volontà demiurgica di Allah. Egli è l’unico autentico responsabile, l’uomo è responsabile solo in senso figurato (ash’ariti). Ciò significa che, a differenza dele altre creazioni di Allah, l’uomo si differenzia solo in termini di responsabilità per le sue azioni, buone o cattive, gentili o criminali, anche se sono tutti dettate da Allah. In altre parole, Allah genera una sorta di azione e contemporaneamente dà agli individui la possibilità di metterla in atto, così che è l’uomo che deve essere ritenuto responsabile. 76 Ne consegue che prima di un omicidio, Allah genera nella persona la capacità di commettere il reato. Ma prima di questo, Egli deve generare un’azione, perché senza questa azione non è possibile commettere l’omicidio, anche se Allah ha investito l’uomo della capacità di portare a termine il crimine. In questo caso, sorge spontanea una ragionevole domanda: se Allah è davvero giusto, e non c’è dubbio di questo perché si evince in tutto il Corano, come può permettere che un uomo venga punito per un crimine, in particolare, per un omicidio commesso sotto la sua autorità? Allah non può fare nulla che sia contrario ai dettami di giustizia ed equità. Il saggio Allah può fare solo ciò che è buono e giusto. Allah l’Onnipotente e il Giusto non può essere cattivo con i suoi servitori, cioè, le persone, non può commettere cattive azioni, per giunta, crimini, non può chiedere ai suoi servi l’impossibile. E comunque, perché mai Allah incolperebbe gli uomini per il crimine che commettono contro la loro volontà, ma su ordine dell’Onnipotente? Inoltre, se riconosciamo che Allah regola le azioni umane, questo significa che vuole, raggiunge e ha bisogno di qualcosa. Allah, il Signore e Creatore dell’universo e di tutte le cose viventi e non viventi, ha bisogno di qualcosa? Pertanto, il desiderio e l’intenzione criminale non possono essere attribuiti ad Allah. Perché esistono il male, la violenza, la criminalità e l’omicidio? Forse Allah è impotente di fronte a questi eventi, a questi atti negativi e dannosi? Se l’Onnipotente non ha potere divino sul male, in particolare sul crimine, si evince quindi che Egli è debole contro il male. Significa però anche che Allah non ha alcun potere divino sul male. D’altra parte, se Lui ha potere sul male, sul crimine, allora ne consegue che Allah non è a conoscenza delle atrocità e dei crimini commessi sulla Terra; altrimenti non li avrebbe permessi. Ma se l’Onnipotente è a conoscenza di questi fenomeni, significa che Egli vuole che si verifichino e ne ha bisogno, altrimenti perché avrebbe creato il male, la violenza e la criminalità? Tuttavia, l’analisi e la profonda comprensione dei contenuti, in particolare, di molti dei versetti del Corano, ci permettono di affermare che Allah ha dato all’uomo il libero arbitrio. Ma in quale momento – alla nascita o prima di ogni sua azione? 77 La giustizia di Allah significa che l’uomo deve essere l’artefice delle proprie azioni. Solo in questo caso può essere libero e, quindi, responsabile delle proprie azioni. In altre parole, se Allah ha creato l’uomo come l’artefice delle proprie azioni, vuol dire che dipende dalla sua volontà se fare buone azioni o commettere crimini. Tuttavia, Allah chiede agli uomini di non fare il male e di non commettere reati. Pertanto, l’uomo è inteso come un essere vivente indipendente e volitivo, le cui azioni possono corrispondere o meno alla volontà divina. Tutto ciò di cui Allah aveva bisogno era di elargire all’uomo il libero arbitrio e la scelta, poi è bastato concedergli la ragione perché guidasse le sue azioni. Come ha detto Cleante, “colui che ha volontà di andare è guidato dal destino, quello che non ha volontà viene trascinato.” Le parole che più spesso ho sentito dire a persone che avevano commesso un crimine sono: “Questo è il mio destino.” Numerose storie di vita vissuta, raccontate da persone diverse, portano molti a concludere che esista una predestinazione, un destino inesorabile, a cui tutti e tutto sono soggetti. Ma è tutto predeterminato o possiamo in qualche modo cambiare il corso degli eventi con la forza della nostra volontà, dei nostri desideri? La questione è di fondamentale importanza quando si affronta il problema del comportamento criminale, perché se è destino che sia predeterminato sin dalla nascita, l’uso di misure punitive contro i criminali non ha senso. La filosofia indiana parla del Dharman, la legge che regola l’universo e tutti i suoi abitanti. Ci insegna anche che c’è il Sadhana, il senso della vita e un percorso predeterminato su cui viene mostrato il significato. Questo sostiene che esiste il Karma, la legge di azione e reazione. Gli antichi greci veneravano anche una divinità in piedi sopra Zeus, il signore dell’Olimpo; fu chiamato Zeus-Zen. Eschilo ha parlato di lui come la divinità del Fato. Nella Cabala ebraica, gli è stato dato il nome di “Niente”. È colui che si trova sulla sommità della corona e comanda tutti gli esseri invisibili. Il suo impulso arriva dalle alture per raggiungere il nostro mondo. 78 In breve, tutti i popoli antichi hanno intuitivamente percepito l’esistenza di un principio misterioso del destino ben oltre ciò che è manifesto, persino superiore a una divinità. Cos’è il destino? Possiamo cambiarlo? Quale può essere la libertà di scelta data all’uomo? Come possiamo capire chi fra coloro che percorrono il sentiero della vita sarà buono, e chi diventerà un criminale? Gli antichi pagani pensavano che il destino fosse una catena predefinita e insondabile di eventi e azioni umane. Il destino di un pagano era un destino tragico. L’uomo è un giocattolo del destino, uno schiavo delle circostanze. Non si può sfuggire il destino, questo non può essere modificato, può solo essere rispettato, come proclamarono gli stoici. Questo concetto di destino sottolinea solo un aspetto – la mancanza di libertà umana. Lo stesso approccio possiamo osservarlo nelle tesi dei metafisici, i quali sostengono che le persone sono guidate da forze esterne superiori, che hanno su di essi un potere senza limiti. Ciò che agli uomini appare come una libera espressione della propria volontà o scelta è una mera illusione. C’è una misteriosa linea di destino sconosciuta all’uomo, e una disposizione della Provvidenza o un destino tragico lo conduce lungo di essa, permettendogli di ricoprire il ruolo di un giocattolo imprigionato nell’immensamente potente volontà di qualcun altro. Nella coscienza religiosa vi è il concetto di destino come una determinazione teologica, cioè, della Provvidenza. Non sono né il fato, né anonime leggi fisiche ma l’Onniscente e Buon Creatore a governare la vita umana. Come possiamo vedere, la religione, a differenza delle credenze pagane o della scienza naturale della determinazione mortale, offre l’idea della libertà e della buona Provvidenza divina. A mio avviso, l’uomo è libero di scegliere tra il bene e il male. Quindi il proprio destino dipende solo da lui: egli diventerà un benefattore, o un criminale. È l’uomo a compiere il proprio destino. Il destino dell’uomo nell’Islam è un po’ diverso: i musulmani sono completamente dipendenti dalla volontà di Allah. Se Allah vuole, un uomo è virtuoso, o, al contrario, un criminale. È impossibile prevedere esattamente ciò che deve essere fatto in modo da non diventare un criminale e poi andare in paradiso. Resta solo una cosa da fare – obbedire ad Allah. 79 Procederemo dall’affermazione che ognuno di noi ha il proprio destino, anche se nessuno sa di cosa si tratta. Tuttavia, siamo responsabili di ciò che ci accade ogni momento, per non rinunciare e degradare noi stessi. Coloro che credono nell’assoluta inevitabilità del destino si lasciano trasportare tutta la vita. E la vita conferma attraverso i fatti il modo in cui può essere terminata. A ogni individuo è data la possibilità, l’opportunità di andare per la propria strada, alla propria andatura e secondo le proprie capacità e forza di volontà; ma a prescindere dalla loro andatura e capacità, dovrebbero andare avanti costantemente, migliorando ed elevandosi. Platone ha detto che gli uomini tendono a incolpare il destino, gli dei e qualunque altra cosa, ma non se stessi. La gente è abituata a dare la colpa al destino come una dea onnipotente per la loro impotenza, debolezza, malattia, I difetti genetici e varie altre stupidaggini. La criminalità non è il destino, ma il risultato dell’assenza o della debolezza della volontà. L’uomo è volitivo in ogni situazione, in ogni circostanza, tranne che nel fuoco della passione e in condizioni particolari; in realtà, non è mai in grado di commettere un atto contrario ai propri interessi. III. La psicologia e le origini del comportamento criminale. Contrariamente alle Sacre Scritture che rivendicano l’origine divina dell’uomo, il darwinismo, scoprendo che l’uomo discende da una delle specie animali, ha dimostrato il legame genetico indissolubile tra l’uomo e il mondo animale. Questo significa che i nostri antenati animali avevano un’essenza biologica. Il processo della loro armonica evoluzione era una manifestazione dell’unione tra il biologico e il sociale. Al momento della comparsa dell’ “homo sapiens”, c’era un programma genetico speciale unico per questa specie, che può essere chiamata “socializzata”. Così, dopo la nascita, nel processo di formazione della coscienza sulla base di precondizioni biologiche, il programma genetico umano non perde il suo valore; acquisisce quelle proprietà che garantiscono al neonate ciò che gli serve per il successivo sviluppo in condizioni sociali adeguate. In altre parole, le proprietà biologiche umane acquisiscono una natura socializzata. Tuttavia, l’uomo in quanto essere vivente continua a obbedire alle leggi biologiche fondamentali e di base. 80 Pertanto, egli ha le caratteristiche e le proprietà intrinseche in tutti gli esseri viventi sulla terra, e in particolare negli animali. Quindi, lo sviluppo umano, come dimostrato dalla scienza, si basa proprio sull’interazione dialettica tra il biologico e il sociale, piuttosto che sul loro assorbimento. Questo è il motive per cui è naturale domandarsi: cos’è prevalente in questo caso in un essere umano – il fattore biologico o quello sociale? È noto che nel comportamento degli animali altamente sviluppati e nell’uomo c’è una significativa componente di aggressività che si manifesta nella tendenza a rispondere agli attacchi o ostilità, a certi tipi di stimoli. Tuttavia, come giustamente sottolinea D. Crook, “non vi è alcuna prova attendibile a favore di una (ereditaria) necessità genetica per il comportamento aggressivo,”1, anche se l’aggressività è considerata il principale indicatore della natura genetica della criminalità. Allo stesso tempo, la medicina sostiene che il comportamento aggressivo non è chiuso fatalmente all’interno dei meccanismi innati della mente, e, quindi, che l’aggressione e l’emozione possono essere indebolite o rafforzate attraverso la medicina. Parlando di fattori biologici del comportamento criminale, alcuni pensano alla fisiologia umana, altri alla genetica, altri ancora alle caratteristiche fisiche e psicologiche della personalità. In questo caso, alcune proprietà umane sono descritte in vari collegamenti con il comportamento criminale. In definitiva, si può concludere che nemmeno la scienza è oggi in grado di rispondere alla domanda che si pone da diverse migliaia di anni: cosa spinge una persona a commettere un reato, quali proprietà biologiche sono all’origine del suo comportamento, incluso quello criminale? Può l’uomo opporsi a queste proprietà? Sarà all’altezza del compito, se gli sarà data la libertà di scegliere, e anche la libertà di commettere un atto illecito, o meglio, l’uomo per sua natura è in grado di scegliere tra il comportamento criminale e quello legittimo? 81 Tuttavia, vi è un parere opposto. Ad esempio, A. Schopenhauer ha concordato con quanto affermato da J.J. Rousseau, secondo cui l’uomo è naturalmente buono, e che la civiltà è la causa di tutte le sue imperfezioni morali. Schopenhauer stesso ha sostenuto che l’uomo è terribilmente simile a un animale selvatico, non ancora domato da civiltà e cultura. In effetti il male, che insieme al bene costituisce l’essenza dell’uomo, ha una forte capacità di tentare e attirare l’uomo nelle sue reti. E se finisce per cadere vittima di desideri oscuri, la sua capacità di esercitare il libero arbitrio lo abbandona. Egli diventa ostaggio alla propria passione, schiavo delle circostanze, e giocattolo delle forze del fato. Chi è quest’uomo buono-cattivo? Tutto dipende dal nostro approccio. L’uomo naturale è un insieme di proprietà innate e abilità che salvaguardano la sua vita in natura. Lui non conosce la differenza tra il bene e il male, tra il crimine e il normale comportamento lecito, poiché esiste a livello inconscio. L’uomo sociale è un insieme di qualità acquisite, proprietà mentali, competenze, consapevolezza, comportamento, ecc. E, infine, l’uomo spirituale è la personalità, consapevole del valore intrinseco del suo mondo interiore, della sua unicità. In altre parole, un uomo è un essere complesso, caratterizzato da proprietà innate (uomo naturale) con le appropriate qualità morali, politiche, giuridiche (uomo sociale) ed è in grado di farsi strada nel mondo dei segni, dei significati e dei simboli e ragioni dal più semplice al più complesso. Qual è il ruolo di ciascuna di queste proprietà nel comportamento umano? La psicologia, la genetica, la psichiatria, la biologia, la sociologia, la medicina e le altre scienze hanno cercato a lungo di fornire una risposta a questa domanda. Un enorme contributo allo sviluppo di tale questione è stato dato dalla psichiatria, che ha sempre a che fare con i fenomeni, non solo della malattia mentale, ma anche della depravazione umana – così come della criminalità. 82 Dopo che C. Darwin ebbe tratto la sua conclusione in merito all’origine “evolutiva” dell’uomo, l’idea che una speciale e continua “sostanza” costituisse “la natura umana” si rivelò insostenibile. A questo proposito, E. Fromm osservò che "se ci si possono attendere nuove scoperte in relazione alla natura umana, queste non possono che essere basate sulla teoria evolutiva”.1 La teoria dell’evoluzione ha consentito alla psicologia di affermare che la scienza fosse in grado di dare una risposta alla storica domanda sulle origini del comportamento umano in generale e di quello criminale in particolare. Questa conclusione si basa sul fatto che la psicologia deve studiare i meccanismi di stimolazione del comportamento umano e il modo questi in cui possono essere utilizzati al fine ottenere il massimo risultato. E, come è noto, in questo proposito la psicologia ha fatto grandi scoperte; ci sono diverse teorie e tendenze, anche se ancora oggi, la questione delle origini del comportamento umano rimane un mistero. Questo, a nostro avviso, perché, come sottolineato giustamente da E. Fromm, “l’uomo stesso è un essere imperfetto e incompleto – non ancora pronto e pieno di contraddizioni. L’uomo può essere designato come essere impegnato nell’attiva ricerca di condizioni ottimali per il proprio sviluppo, e questa ricerca si blocca spesso a causa della mancanza di condizioni esterne favorevoli.”2 I diversi approcci e punti di vista degli psicologi sul tema del comportamento umano aggressivo hanno portato all’insorgere di diverse opinioni da parte dei criminologi sulle cause del comportamento criminale. Nel 1868 è stato pubblicato “Psicologia Naturale”, un saggio di P. Despine dedicato allo studio dei criminali. La familiarità con lo studio sul campo lo ha portato a credere che i grandi criminali erano sprovvisti di un senso morale che potesse distinguere il bene dal male, che inducesse alla condanna dei desideri criminali e causasse il conseguente rimorso. 83 Nel 19° secolo, il famoso psichiatra francese Marraud giunse alla conclusione che un organismo si sviluppa e progredisce sotto influenze esterne favorevoli e che, attraverso l’ereditarietà genera tipologie psicofisiche sempre più sofisticate, mentre sotto l’influenza di fattori esterni avversi, al contrario, regredisce, si guasta e attraverso la stessa trasmissione ereditaria produce tipologie malate, diverse e in costante deterioramento, che si distinguono per i più cattivi e viziosi gusti, inclinazioni e tendenze. Questi tipi di degenerazione non solo non possono favorire il progresso mentale e morale dell’uomo, ma, al contrario, venendo a contatto con la parte sana della società rappresentano il maggiore ostacolo al progresso. D.A. Dril una volta ha osservato: “In effetti, l’esperienza mostra che in condizioni approssimativamente simili, una persona su due cede al crimine, mentre l’altra si discosta da esso a costo della salute e persino della vita. Da cosa dipende tale distinzione? Dipende dal fatto che nel carattere della prima e, di conseguenza, nella sua sottesa organizzazione psicofisica in quel momento, ci sono alcune caratteristiche che lo predispongono al crimine, mentre nel carattere della seconda, al contrario, sono presenti caratteristiche che lo trattengono dal commettere crimini.”1 Gli psichiatri e i medici delle carceri, che hanno esaminato la natura del crimine, di solito indicano il carattere malato di questo fenomeno. Quasi tutti arrivano alla conclusione della natura malata del crimine e della sua analogia con i fenomeni di degenerazione della tipologia umana da un lato e con i fenomeni delle malattie mentali dall’altro. E quindi sottolineano le molte anomalie mentali presenti nel criminali: la loro limitata sensibilità, l’egoismo e la mancanza di senso morale. Per gli psicoanalisti, la mente è il punto di partenza di molti dei loro studi sul fenomeno della criminalità, poiché si ritiene che sia la mente a distinguere gli uomini dagli altri animali. Pertanto è nella mente che dobbiamo cercare l’origine di questa particolarità dell’uomo, e cioè della propensione al crimine. 84 Assumendo che sia la psicologia a dover studiare quali siano i meccanismi che stimolano il comportamento umano e il modo in cui essi possono essere utilizzati per ottenere il massimo risultato, poi gli psicologi dovranno anche rispondere alla domanda su dove debba essere cercata la fonte del comportamento umano in generale, e di quello criminale in particolare, e su quali meccanismi incoraggino questo comportamento. Secondo la teoria dell’istintivismo (S. Freud, K. Lorenz, E. Fromm, ecc), l’uomo vive il passato della propria specie, e quindi il suo comportamento, compreso quello criminale, quello aggressivo e quello violento, è collegato con quello dei suoi padri, cioè, degli animali. E. Fromm sostiene che l’antenato ominide dell’uomo era un predatore dotato di una reazione aggressiva nei confronti di tutti gli esseri viventi, uomo compreso. Di conseguenza, la distruttività umana ha un’origine genetica (innata), e, quindi, aveva ragione Freud1. A questo proposito, sembra opportuno prendere in considerazione le tesi di noti rappresentanti dell’istintivismo in merito alle origini del comportamento umano, in particolare di quello aggressivo. Cominciamo con S. Freud, uno dei primi psicologi moderni ad aver esaminato la ricchezza delle passioni umane: l’amore, l’odio, la vanità, l’avidità, la gelosia e l’invidia.2 La fonte di tutte queste passioni, a suo parere, si trova nell’attrazione sessuale. Freud inserì artificialmente tutte queste passioni all’interno dei limitati confini di uno schema teorico, dove queste hanno ricevuto una giustificazione o come sublimazione, o come attuazione della sessualità in qualsiasi forma. In breve, il messaggio teorico freudiano di base è: l’uomo è posseduto da una sola passione – la necessità di distruggere se stesso o altre persone, ed è improbabile che questa tragica alternativa possa essere evitata. Da questa conclusione 85 freudiana ne consegue che il crimine come forma di aggressione (inclusi i crimini violenti) è un impulso costantemente presente nell’organismo a causa della costituzione biologica e fisiologica dell’uomo, a causa della natura stessa degli esseri umani. In altre parole, un uomo è una creatura con un’energia criminale ricorrente e aggressiva, che non può essere controllata a lungo. Se questa energia non si utilizza per scopi benefici, si manifesta attraverso la commissione di un crimine violento, come l’omicidio, lo stupro, etc. Di conseguenza, nell’uomo ci sono forze d’azione di cui egli non è a conoscenza e attraverso la razionalizzazione si protegge dall’averne consapevolezza. Ciò significa che il comportamento criminale è deciso da forze psichiche che sono presenti principalmente a livello inconscio. Pertanto, le origini del comportamento, compreso quello criminale, possono essere comprese dall’auto-conoscenza umana, attraverso la rivelazione delle proprie pulsioni inconsce. Freud credeva sinceramente che la mente fosse l’unica forza in grado di salvare l’uomo dalle intenzioni criminali e dal male. Ma che cosa significa conoscenza di sé secondo Freud? Significa che l’uomo è consapevole del suo essere a livello inconscio. Freud ha riconosciuto che questo è un processo estremamente difficile, perché l’uomo incontra allo stesso tempo una grande resistenza che gli impedisce di comprendere il proprio inconscio. Secondo lui, conoscere se stessi significa penetrare intellettualmente ed emotivamente negli angoli più segreti della propria anima. La teoria di Freud presta contemporaneamente seria attenzione al problema del contesto sociale. L’assioma freudiano recita: tutto ciò che c’è di negativo nello sviluppo dei pazienti è il risultato di influenze nocive nella loro prima infanzia. Di conseguenza, le cause dei fattori psicologici negativi di una persona dovrebbero essere ricercate nell’educazione del bambino e nel suo sviluppo. Allo stesso tempo, ciò significa che le le origini di comportamento criminale non hanno correlazione genetica. Il progresso principale nelle tesi di Freud, rispetto a quelle dei suoi predecessori era l’aver ha distillato tutto il “desiderio” in due categorie: l’istinto di 86 autoconservazione e l’istinto sessuale. Pertanto, la teoria freudiana può essere giustamente considerata come l’ultimo passo nella storia dello sviluppo della dottrina degli istinti. Secondo Freud il risultato a coronamento della sua teoria è la scoperta dell’esistenza di processi mentali inconsci rifiutati dalla coscienza. Cos’è l’inconscio freudiano? L’inconscio è una zona di profondi processi mentali che avvengono al di là del controllo della coscienza e si manifestano nell’attività spirituale e nel comportamento sociale dell’uomo attraverso varie manifestazioni di natura positiva e distruttiva. L’inconscio è in grado di affermarsi sotto forma di criminalità. Ma la tesi psicoanalitica di Freud ha davvero un valore per l’analisi criminologica e psicologica dei presupposti motivazionali della criminalità? In qualche modo sembra di sì. È quantomeno innegabile che Freud sia stato in grado di legittimare la tesi che quasi sempre, tranne nel caso in cui ci siano motivazioni razionali e coscienti, alla base di un crimine ci sono anche profondi e inconsci atteggiamenti che possono essere i segreti generatori dei comportamenti criminali. Ciò è confermato da molti crimini commessi d’impulso, e dalla vittimologia, quando cioè la colpa è della vittima. È possibile appianare i conflitti tra i vincoli inconsci e quelli normativi? In altre parole, è possibile fare in modo che l’inconscio non si affermi in forma criminale? Freud indica due strumenti principali. Il primo è la sublimazione in quanto metodo di trasformazione dell’energia istintiva e sessuale nelle attività sociali. Questa conclusione deriva dall’affermazione per cui il più importante motore dell’azione umana nella società è l’energia sessuale – la libido. Se questa energia non trova la sua via di sfogo, cioè, se non viene spesa, allora la persona potrebbe diventare sia un criminale sia un malato di mente. Come ci si dovrebbe comportare con coloro che scontano pene lunghe e non hanno la possibilità di soddisfare i propri bisogni sessuali biologici, naturali. Non resta loro che cedere alla dissolutezza, o soddisfare le loro esigenze in modo innaturale. 87 Tuttavia, sulla base della teoria di Freud, viene proposta un’altra soluzione per scaricare tutta questa energia: il duro lavoro fisico in gravose condizioni. Un’altra via è una tecnica analitica appositamente sviluppata, che è un sistema di agenti psicoterapeutici. Karen Horney, la psico-sociologa tedesco-americana, riteneva che la psicoanalisi classica di S. Freud mostrasse in maniera evidente ristrettezza e limitazione nel ridurre le cause di tutte le nevrosi ad anomalie sessuali. Così, secondo la teoria di Freud e del neo-freudismo, il comportamento aggressivo, tra cui quello criminale, è una deviazione di spinte innate non attuate e nascoste nell’inconscio. A questo proposito, il sociologo americano E. Schur nota: “Secondo alcune opinioni sulla criminalità tra gli psicoanalisti, ognuno di noi è un criminale nel profondo di sé.”1 K. Lorenz nel suo libro “So-called Evil” (1963) cerca di dimostrare che la passione umana per la violenza e il male è causata da fattori biologici non soggetti al controllo umano. L’aggressione e il male sono visti come tensioni interne e personali che lottano per essere scaricate e espresse, a prescindere dal fatto che vi sia o meno uno stimolo esterno adeguato. L’energia specifica richiesta per le azioni istintive si accumula costantemente nei centri nervosi, e quando se ne accumula una quantità sufficiente, potrebbe verificarsi un’esplosione – anche in assenza di stimoli esterni. Quali conclusioni si possono trarre sulla base della concezione di Lorenz in merito alle origini del comportamento criminale? In primo luogo, secondo Lorenz, il comportamento criminale non sembra essere una risposta a stimoli esterni, cioè, per fare un esempio, una persona commette un omicidio apparentemente senza motivi o ragioni, perché prima o poi doveva succedere, anche se la pratica dimostra che un gran numero di crimini violenti viene commesso a seguito dell’impatto causato dagli stimoli esterni sugli individui interessati. 88 In secondo luogo, la criminalità, in base a questa concezione, è una sorta di liberatore della carica energetica. Infatti, la commissione di reato è il risultato di un lungo processo di accumulo di tensione nel rapporto tra il criminale e la vittima. Ciò è molto comune nei crimini domestici, quando le relazioni tra i membri della famiglia o i vicini di casa sono tesi al limite. Il risultato è un’esplosione per cui anche un motivo futile è sufficiente ad attivare l’istinto. Secondo Lorenz, ne risulta che, anche se l’uomo non fosse stato in grado di commettere un omicidio in questo caso, di certo lo avrebbe fatto in un altro momento, in un altro luogo, in relazione ad altre persone. Tuttavia, in molti casi, l’uomo in una tale situazione e per qualsivoglia ragione non manifesta il suo comportamento aggressivo e con il tempo si placa e non commette tali atti. In terzo luogo, l’affermazione che la condotta criminale dell’uomo sia una sua caratteristica innata, mostra quanto sia inutile lottare contro questo tipo di aggressività. Inoltre, la sua teoria interferisce con la comprensione della struttura della personalità, delle condizioni individuali e sociali che portano alla nascita e allo sviluppo della criminalità. Cosa suggerisce Lorenz per ridurre il numero di omicidi, stupri e altri reati violenti? K. Lorenz risponde in questo modo: “A differenza di Faust, io conosco la strada e posso insegnare agli uomini come cambiare se stessi in meglio. E mi sembra che in questo senso io non stia enfatizzando le mie capacità. "1 La prima raccomandazione è “conoscere se stessi”: “l’esigenza di approfondire la nostra conoscenza delle relazioni causali del nostro comportamento”, vale a dire delle leggi dell’evoluzione2. È impossibile non essere d’accordo, poiché tutte le questioni sulla soluzione del mistero che ricopre il comportamento umano, compreso quello criminale, sono direttamente correlate alla mancanza di conoscenza della natura umana. La seconda raccomandazione è lo studio della cosiddetta sublimazione attraverso il metodo psicoanalitico1. Tale metodo è ben noto e abbiamo già detto che S. Freud ha indagato la questione in maniera abbastanza approfondita. 89 La terza raccomandazione è “ …la conoscenza personale tra persone di diverse nazionalità e gruppi.”2 Possono essere fatti innumerevoli esempi di situazioni in cui, dopo una considerevole fase comunicativa e relazionale, le persone, indipendentemente dalla propria nazionalità, hanno commesso atti di violenza contro l’altra. Uzbeki e turchi, che per decenni hanno vissuto insieme in URSS, al momento del crollo dello Stato hanno commesso crimini di una crudeltà senza precedenti. La stessa cosa si è verificata a seguito del conflitto del Karabakh tra azeri e armeni. La quarta raccomandazione. “È necessario aiutare i giovani a trovare i reali scopi per i quali vale la pena vivere nel mondo moderno.”3 Questo rientra nell’ambito della politica sociale dello Stato. Potrà questa raccomandazione essere utile ed efficace quanto le precedenti, sebbene lo stesso Lorenz considerasse il comportamento criminale una caratteristica innata? Così, sia S. Freud, sia K. Lorenz seppur partendo da diversi punti di vista arrivano a concepire l’uomo come una creatura con una ricorrente energia aggressiva e distruttiva che non può esistere a lungo. L’affermazione “la tendenza alla distruzione e la crudeltà non sono pulsioni istintuali, ma passioni radicate nella struttura fondamentale dell’esistenza umana”4 appartiene all’altrettanto famoso psicologo E. Fromm. Si evince così che egli considera le passioni umane in relazione al loro ruolo nella vita di tutto l’organismo. Secondo lui, la loro intensità è radicata non in specifici bisogni fisiologici, ma nelle necessità dell’intero organismo per vivere e svilupparsi in senso spirituale e fisico.1 Lo psicologo ha cercato di dimostrare che l’aggressione e la distruttività, e, quindi, la criminalità, come forma di aggressione, non sono né impulsi biologicamente guidati né che si verificano in maniera spontanea, ma sono il risultato dell’interazione tra le diverse condizioni sociali e i bisogni umani esistenziali. 90 E. Fromm distingue tra l’aggressività biologicamente adattiva che contribuisce al mantenimento della vita – aggressione non-maligna (per esempio, una persona che uccida l’aggressore per proteggersi da un attacco mortale) e aggressione maligna non connessa alla conservazione della vita. L’aggressione biologicamente adattiva è una reazione a una minaccia agli interessi vitali dell’uomo. Si trova nella filogenesi, è una caratteristica sia animale sia umana, ha una natura pericolosa e nasce spontaneamente come reazione alla minaccia; ha come conseguenza o l’eliminazione della minaccia o quella delle sue cause. La base dell’aggressività maligna non è l’istinto, ma l’umana abilità, radicata nelle stesse condizioni della sua esistenza 2. Di conseguenza, sulla base di questa affermazione, la criminalità dovrebbe essere collegata all’aggressività maligna in quanto questa non è innata, e quindi non può essere considerata ineliminabile. A questo riguardo, si presume che il crimine sia una sorta di potenziale umano, di cui ci può facilmente liberare. Ma come? E. Fromm ritiene che sia il carattere a determinare la scelta del comportamento in relazione agli obiettivi primari. Ciò significa che attraverso un dato tratto del carattere, si può “prevedere il comportamento più probabile di un uomo. Più precisamente, si può stabilire il modo in cui si comporterebbe, se ne avesse la possibilità.”3 Pertanto si può ritenere che è questo tratto del carattere che fa sì che l’uomo si comporti in maniera conforme all’immagine del suo carattere, quindi, l’origine del comportamento criminale risiede nel carattere dell’uomo. Ma cos’è il carattere secondo E. Fromm? 91 Egli scrive: “Il carattere è un sistema relativamente permanente di impulsi non istintivi (aspirazioni e interessi) che collegano l’uomo con il mondo sociale e naturale. Questo è la seconda natura dell’uomo”1. Sulla base di questa definizione, Fromm ritiene che l’errore principale di Lorenz e degli altri ricercatori sugli istinti è l’aver fatto confusione fra due tipi di impulsi – quelli che derivano dagli istinti e quelli relativi al carattere2. Degno di nota è il fatto che Fromm riduca tutti i tratti del carattere o a radici sessuali o a passioni non sessuali. Così, E. Fromm consiglia di cercare le cause del crimine, o meglio del comportamento criminale, nell’indole umana, che ospita l’organizzazione dell’energia umana finalizzata al raggiungimento degli obiettivi. È il carattere a determinare la scelta del comportamento. La teoria della frustrazione è riconosciuta anche da molti psicologi, ed è definita come uno stato mentale negativo derivante dall’incapacità di soddisfare bisogni diversi. Questa condizione si manifesta con sensazioni, frustrazione, ansia, irritabilità, e infine disperazione. J. Dollard, uno dei più brillanti rappresentanti di questa teoria, la descrive nel seguente modo: “La comparsa del comportamento aggressivo è sempre dovuta alla presenza di frustrazione e, viceversa, l’esistenza della frustrazione porta sempre a una qualche forma di aggressione.” 3 In effetti, l’incapacità di soddisfare le diverse esigenze può indurre all’aggressività, ma questo non significa affatto che tale aggressione debba comportare il verificarsi di crimini violenti (omicidi, stupri, ecc). Tutto dipende dalla situazione in cui l’uomo si trova e dalle circostanze attinenti. 92 Il concetto che l’inconscio sia l’elemento umano alla base della criminalità si ritrova anche nelle opere di A. Schopenhauer e F. Nietzsche. L’idea dell’originaria depravazione umana ha creato i presupposti per la formazione del concetto di uomo criminale. Il modello antropologico, suggerito in particolare da C. Lombroso, si basa sull’idea di uomo come di un essere “naturale”, essenzialmente biologico e psicologico. Sulla base del suo approfondito studio sui prigionieri, Marro, uno psichiatria e medico del carcere collega di Lombroso, nel suo notevole saggio ("I Caratteri dei delinquenti",1887) si spinge fino a dichiarare il predominio dell’influenza dell’ “ereditarietà morbosa nell’eziologia del crimine”. Degno di nota è il fatto che parlando di eredità delle qualità fisiche e mentali, Marro fa riferimento all’effetto dell’età dei genitori al momento del concepimento del bambino. Egli sostiene che ogni età si caratterizza per le proprie caratteristiche fisiche e mentali. Tutto questo influenza la propensione verso il crimine. Tra l’altro, il determinismo psicologico è caratteristico di un certo numero di teorie sociali e psicologiche sulla criminalità sviluppate dagli psicologi sociali americani E. Sutherland, D. Mats, T. Sykes, E. Gluck, etc. Pertanto, i risultati della psichiatria moderna non riescono a spiegarci con precisione e chiarezza le cause del comportamento criminale, perché la vita dimostra che la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta gestisce facilmente le proprie emozioni aggressivi e le reprime con successo. Certo, non siamo in grado di dare una spiegazione a tutte le azioni umane, né tantomeno a quelle criminali, e a tutti i processi mentali, solo attraverso l’esegesi dell’origine dell’uomo e della sua evoluzione. Eppure, alcuni ancora cercano di spiegare e giustificare atti atroci come l’avidità, la frode, la menzogna, la violenza e perfino l’omicidio dandone la colpa alla “natura umana”. 1 93 Ma un uomo può davvero arrivare a conoscere completamente se stesso? Purtroppo né Freud. né Lorenz, né Fromm conoscevano la risposta a questa domanda. Hanno risposto solo in merito alla questione di cosa significasse “conoscenza di sé”. Per esempio, Lorenz sostiene che si tratta di una conoscenza teorica delle vicende dell’evoluzione e, in particolare, delle radici istintuali dell’aggressività. In realtà, la questione dell’essenza e della natura umana è considerata prerogativa della filosofia e della religione. Ci interessiamo a questo problema nella misura in cui esso aiuta a capire dove cercare le cause reali del comportamento criminale, sia nelle radici biologiche, psicologiche o sociali. Quando la teoria dell’evoluzione di Darwin ha distrutto l’immagine di Dio come Creatore Supremo, la fede in Dio come il Padre Onnipotente ha perso la sua validità, anche se molti sono riusciti a mantenere la fede religiosa pur riconoscendo come valida la teoria di Darwin. Una volta riconosciuta l’origine “evolutiva” dell’uomo, il concetto di una singolare, immutabile “essenza” che comprenda “la natura umana” è diventato insostenibile. Pertanto, l’ulteriore approfondimento della conoscenza dell’uomo, della natura e delle cause del suo comportamento è direttamente correlata alle nuove scoperte sulla natura umana, sulle basi della teoria evolutiva. E. Fromm scrive: “…l’uomo si differenzia dagli animali per il fatto di essere un assassino. È l’unico primate che, senza motivazioni biologiche o economiche, uccide i suoi compagni di tribù e trova soddisfazione nel farlo. Questa è la biologicamente anormale e filogeneticamente non programmata “aggressione maligna”, che è un problema reale e una minaccia per la sopravvivenza della razza umana.”1 È interessante notare che quasi tutti i ricercatori giungono alla stessa conclusione: più alto è il grado di sviluppo di un essere vivente, minore è il ruolo giocato nella sua vita da modelli di comportamento condizionati e filogeneticamente-innati. Tuttavia, siamo testimoni del fatto che una società altamente sviluppata, con un alto grado di sviluppo umano in senso lato non contribuisce a una netta riduzione della gravità del comportamento criminale. 94 Se prendiamo come valida la teoria degli istinti, l’uomo non ha alcuna responsabilità per il proprio comportamento criminale, dal momento che non ha alcuna libertà, che agisce come un burattino, in quanto controllato dai suoi istinti. Ma allora perché la stragrande maggioranza delle persone non commette omicidi, stupri, ecc? Forse l’uomo ha insito un istinto anti-criminale a anti-aggressivo? È vero che l’uomo non ha barriere interne per contrastare il comportamento criminale? K. Lorenz, per esempio, ritiene che l’uomo, a differenza del predatore, non ha barriere istintive contro l’uccisione di un esemplare della sua stessa specie. E. Fromm, al contrario, ritiene che vi siano prove in abbondanza a sostegno della tesi che l’uomo percepisce al suo interno un “non uccidere!”, che l’atto di uccidere provoca rimorso.1 Sembra che la capacità umana di sopprimere le proprie passioni non dipenda solo da fattori interni, ma anche dalle rispettive situazioni di vita e dalle motivazioni dei crimini – incluso l’omicidio. Nello spiegare le origini del comportamento criminale nell’uomo, la posizione diametralmente opposta all’istintivismo è occupata dai rappresentanti della teoria ambientale. Secondo loro, il comportamento criminale si forma esclusivamente sotto l’influenza dell'ambiente sociale, cioè è definito non da fattori “innati”, quanto da fattori esterni, culturali e sociali. I principi filosofici di questa teoria sono i seguenti: un uomo nasce buono e ragionevole, e se sviluppa tendenze criminali, le cause devono essere fatte risalire a circostanze sfavorevoli, cattiva educazione, cattive condizioni ambientali, etc. L’esempio più semplice di influenza ambientale sugli esseri umani è l’impatto diretto dell’ambiente sulla crescita del cervello. Così, B.F. Skinner ritiene che, a prescindere dal background genetico, il comportamento umano sia completamente determinato 95 da una serie di “stimoli” che si creano in due modi: nel normale corso del processo culturale, o secondo un piano preorganizzato1. Di conseguenza, attraverso una corretta applicazione degli “stimoli positivi” il comportamento umano può incredibilmente passare da criminale a benevolo. Il percorso per la scomparsa del crimine, secondo Skinner, risiede nella creazione di un migliore ordine sociale fondato sulla scienza, perché l’uomo è influenzato dalla società e nella “natura umana” non c'è nulla che possa drasticamente ostacolare la creazione di una società giusta e pacifica. In realtà, in determinate circostanze, un uomo può raggiungere qualsiasi stadio, compreso lo stadio criminale, contrariamente a tutte le sue nozioni di moralità, alla decenza personale e a tutti i principi, i valori e le norme sociali. Spesso può sacrificare ogni cosa per odio, avidità, egoismo e sadismo. Pertanto, non si può arrivare a comprendere il comportamento umano se lo si consideri solo come conseguenza della formazione e dell’istruzione, cioè dell’introduzione di “stimoli” positivi, come espresso da Skinner. La teoria ambientale lascia aperte questioni molto importanti: cosa dobbiamo includere nelle condizioni ambientali che è necessario per il completo sviluppo di tutte le possibilità umane? Può una società corretta e giusta garantire la formazione di una persona normale a tal punto che non possa commettere un omicidio, uno stupro o altri crimini? IV. Genetica e comportamento criminale. Un contributo significativo alla spiegazione del comportamento umano è stato senza dubbio dato dalla genetica. Le moderne conquiste di questa scienza ci convincono che molte malattie dell’uomo sono o direttamente ereditate o frutto di una predisposizione. I tratti ereditari si trasmettono dai genitori ai figli attraverso le cellule sessuali. 96 Il famoso genetista N.P. Dubinin scrive: “Anche riconoscendo la natura sociale delle proprietà biologiche umane, non dobbiamo perdere di vista il fatto che, in quanto essere vivente, l’uomo è tuttavia soggetto a leggi biologiche fondamentali e che in questo senso possiede caratteristiche connaturate a tutti gli esseri viventi sulla Terra.”1 La genetica è la scienza delle leggi dell’ereditarietà e della variazione degli organismi. L’elemento biologico è molto importante per la vita umana. Per l’uomo come essere sociale, l’elemento biologico è un presupposto necessario per lo sviluppo di quelle qualità che potrebbero predominare sull’aspetto biologico. La questione principale è se vi sia una qualche generale relazione, anche la più lontana, tra le caratteristiche ereditarie del corpo umano e il comportamento, compreso quello criminale. Possiamo subito notare che ogni uomo è geneticamente unico: egli è unico da punto di vista anatomico, biochimico, fisiologico, per temperamento, carattere e altre qualità. Non vi è alcuna sua copia genetica sulla Terra in questo momento, non ce n’era nessuna in passato e non ce ne sarà nessuna in futuro. Anche i gemelli identici differiscono nei gruppi di mutazioni somatiche. Questa è una cosa da prendere in considerazione quando si vogliano determinare le cause e i meccanismi del comportamento criminale. La conclusione principale della genetica in quanto scienza dell’ereditarietà è riassunta nel seguente modo. Un uomo ragionevole non potrebbe svolgere il ruolo di un essere pensante, attivo e capace di progresso sociale illimitato se i suoi pensieri e le sue azioni fossero innate e geneticamente programmate. Tuttavia, la scienza conosce una serie di fatti che provano l’esistenza di prerequisiti specifici che sono alla base delle manifestazioni di fenomeni umani quali la demenza, la criminalità, etc.2 97 Ciò non significa tuttavia che la spiegazione del comportamento umano debba basarsi esclusivamente sullo studio del comportamento animale, perché il ruolo primario svolto della cultura rende l’uomo una specie biologica unica. F. Engels scrive: “Il fatto che il genere umano discenda dal regno animale ci porta a concludere che l’uomo non si è mai del tutto affrancato dalle caratteristiche intrinseche degli animali e pertanto ci si può solo chiedere se tali caratteristiche siano più o meno presenti, si può solo parlare di diversi gradi di animalità o umanità.”1 Va notato che l’elemento biologico non è necessario e non è solo genetico. La biologia umana è la struttura del suo corpo, le funzioni dei suoi organi interni, la salute e la malattia, ecc. Di conseguenza, il legame tra il comportamento biologico e il comportamento umano, compreso quello criminale, è in realtà molto più ampio del ruolo delle caratteristiche ereditarie umane. In relazione alla questione in oggetto si pone una domanda molto interessante: è possibile spiegare le differenze nel comportamento dei gruppi, delle razze, attraverso le caratteristiche genetiche? Dopo tutto, se la genetica gioca un ruolo davvero importante nel comportamento umano, è ovvio che essa influenzi il comportamento di intere tribù, razze, ecc. In altre parole, se si riconosce che il comportamento umano è influenzato dalle proprietà genetiche, non ci si può non chiedere: le proprietà genetiche di diverse nazioni sono simili o differenti? Fino ad oggi la scienza dà una risposta negativa. Ci si chiede ancora: il corredo genetico umano è soggetto a modifiche nel processo dello sviluppo storico? Se la risposta a questa domanda deve essere data in relazione all’oggetto preso in esame, va osservato che negli ultimi venti anni la criminalità in Azerbaigian è aumentata, anche se solo leggermente. Tuttavia, questo non significa che durante questo tempo il patrimonio genetico della nostra gente sia cambiato o che il quantitativo di “ereditarietà criminale” sia aumentato. Molto probabilmente, tale aumento è dovuto a cambiamenti nelle condizioni economiche, sociali, politiche, psicologiche e sociali, che hanno indubbiamente un forte impatto sul comportamento umano. 98 La genetica moderna ci porta a pensare alla formazione di un uomo nuovo. Infatti, se crediamo all’affermazione secondo cui tutti gli aspetti della vita umana sono determinati dai suoi geni, allora per la formazione dell’uomo nuovo sarà necessario modificare le caratteristiche genetiche umane. Di conseguenza, se è accertato che il comportamento criminale ha una causa genetica, collegata all’ereditarietà, allora questi geni dovranno essere modificati attraverso l’intervento della medicina così l’uomo non commetterà più azioni malvagie o criminali. Così, egli non reitererà i crimini. E i criminali potenziali? F. Crick, ad esempio, ha proposto approvare una persona soltanto dopo una verifica genetica. Un neonato che non possa superare tale prova dovrebbe essere privato del diritto alla vita. In un romanzo, un chirurgo genetista dice: “Forse in futuro, in un’epoca di totale umanità, la gente troverebbe più umano di distruggere non l’intero organismo di un criminale, ma la cosa che rende quella persona un criminale… cioè registrare quel codice della vita, che permette lo sviluppo di tratti anti-umani in un essere umano”. Ha poi continuato, rivolgendosi al criminale, “Voglio cambiare non solo il colore dei tuoi occhi, non solo alcune delle caratteristiche del tuo volto, ma il tuo sistema di pensiero criminale. Io rifarei la tua base nucleica."1 Naturalmente, qualora un neonato mostri tutte le caratteristiche genetiche che potrebbero successivamente diventare la causa di gravi malattie, l’intervento medicogenetico può essere considerato valido. Tuttavia, la determinazione del futuro comportamento criminale umano a partire dal codice genetico basato sull’ereditarietà e l’uso di metodi chirurgici su queste basi non solo è ingiustificato dal punto di vista etico, ma porta anche a gravi conseguenze per la salute. Prima che la genetica possa affrontare questo problema, è necessario trovare, negli esseri umani, quel qualcosa che li induce a commettere atti criminali. 99 Continuiamo tuttavia a chiederci se sia possibile “migliorare” la natura umana con metodi medico-biologici. Secondo alcuni, i successi della genetica sono presumibilmente la base scientifica per la creazione di razze superiori attraverso la selezione degli individui. Così, il premio Nobel G. Möller, a partire dal 1929, ha più volte proposto e sviluppato l’idea di usare i geni di uomini eminenti, i leader della specie umana, da trasmettere ai discendenti attraverso l’inseminazione artificiale. Per questo, ha anche offerto un elenco di persone di spicco, il cui seme avrebbe dovuto essere utilizzato.1 Daciò si evince che i figli di recidivi sarebbero sicuramente diventati criminali. Alcuni addirittura sostengono che non ci sia nessun essere umano sul nostro pianeta e che sarebbe possibile crearne uno solo cambiando la genetica umana (K. Lorenz). Infatti, in tutto il 20° secolo e ancora oggi, il problema della necessità di un miglioramento genetico umano è molto importante, in quanto si presume che la natura umana sia definita dai suoi geni e che non si possa ottenere nulla con la mera trasformazione delle condizioni sociali. La questione di come rendere le persone migliori, in modo che siano buone, non cattive, è sempre esistita. J. Lengéne ha scritto: “Personalmente non credo che un giorno si possa arrivare a creare un superuomo per mezzo dei trucchi dell’ingegneria genetica. Per creare un soggetto che sia più intelligente di noi, dovremmo essere più intelligenti di quello che possiamo essere. La medicina è più modesta, ma molto più efficace”.2 Ecco perché non credo che esistano metodi o strumenti medici per far sì che una persona non diventi un criminale, perché la stessa genetica ancora non è in grado di rispondere alle domande sull’origine del comportamento criminale dell’uomo e sul ruolo dell’ereditarietà in questo soggetto d’indagine. Una cosa è chiara: nell’uomo c'è “qualcosa” che si muove, che lo spinge verso un determinato comportamento. 100 Può un individuo regolare e controllare questo comportamento? In altre parole, può resistere alle forze “male” che lo conducono al crimine? Ne ha le qualità? Il segreto del comportamento criminale umano si nasconde nelle risposte a queste domande. Se l’uomo è per sua natura incapace di combattere le forze del male che agiscono su di lui, allora non possiamo biasimarlo per i suoi atti criminali. E viceversa: se l’uomo collabora o non si oppone a queste forze, poi, senza dubbio, è il solo responsabile delle sue azioni, perché è stata una sua scelta di comportamento, e per di più, una sua libera scelta. V. La filosofia e il libero arbitrio. La questione delle cause del comportamento criminale è in realtà per la filosofia la questione del libero arbitrio. In altre parole, la questione filosofica del libero arbitrio è collegata alla necessità di determinare se il comportamento umano è predestinato da qualcosa di indipendente dalla coscienza umana e dalla volontà, ad esempio il destino, Dio, la natura interna dell’organismo, i geni, l’ambiente, etc. Dalla risposta a tale interrogativo dipende la risoluzione di altri quesiti, più specifici: se gli esseri umani sono responsabili delle loro azioni e in che misura, se sono responsabili delle loro azioni in senso morale, religioso, legale. Appare subito evidente che in nessuna altra questione nella storia della filosofia, ad eccezione forse della questione del concetto di divinità, si possono trovare così tante opinioni e dibattiti, accuse reciproche e recriminazioni, come nello studio della questione del libero arbitrio. E questo è abbastanza naturale: all’interno di questo argomento si incrociano i filamenti di tutte le principali discipline della filosofia. I filosofi tendono ad associare la libertà al desiderio, alla volontà. Se i desideri sono di natura carnale, l’uomo è considerato come un essere dipendente, non libero. Se l’uomo è mosso da principi morali, egli cerca di sopprimere questi desideri e di liberarsi dalle loro richieste, e per questo è già considerato libero. 101 È noto che il desiderio ha una natura carnale. Un uomo ruba il pane per sopravvivere altrimenti morirà, perché non ci sono altre opzioni. In questo caso, l’uomo non è considerato come un essere libero? Dopo tutto, egli commette il furto perché deve. Si tratta di una necessità naturale del corpo, senza la cui soddisfazione sopraggiunge la morte. In questo caso, l'uomo sa di compiere un atto totalmente dipendente dal suo libero arbitrio. Se sceglie di morire piuttosto che rubare, il che è formalmente considerato un crimine, allora la decisione è anche considerata una sua libera scelta. Anche il rapporto sessuale è un’esigenza naturale dell’uomo, e anch’esso ha una natura carnale. Tuttavia, a differenza del furto del pane, l’uomo può sopprimere il proprio desiderio e può concentrare i suoi sforzi per coinvolgere una donna in un rapporto sessuale. Egli è in grado di liberarsi da questa richiesta. Prendere questa decisione dipende dalla sua volontà. Ma cos’è la libertà? C. Montesquieu scriveva: “Non c’è parola da cui si possano trarre tanti e diversi significati o che possa produrre tali differenti impressioni nella mente al pari della parola “libertà”.1 È facile verificarlo leggendo le relative definizioni nella letteratura filosofica. B. Spinoza ha scritto: “Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina da sé sola ad agire: invece si dice necessaria o, meglio, coatta, quella cosa che è condizionata ad esistere e ad agire da qualcos’altro, secondo una precisa e determinata ragione.”2 A. Schopenhauer ha detto: “Io sono libero, se posso fare quello che desidero.”3 102 “Alla fine, la libertà è una sensazione interiore, una sensazione intima, soggettivamente vissuta, e l’uomo, in una stessa situazione, può sentirsi libero o non libero.”1 E.A. Pozdnyakov afferma che la libertà si manifesta proprio nel fenomeno del desiderio.2 Riassumendo le numerose affermazioni e le definizioni del concetto di libertà, si può concludere che la libertà è di solito considerata come un insieme di capacità che permettono all’uomo di soddisfare le proprie aspirazioni e trovare il modo per autorealizzarle. È chiaro che non vi può essere assoluta libertà. Pertanto, ogni volta che si usa questa parola per definire in maniera completa questo concetto, ci si chiede: libertà da cosa? Per quanto riguarda il comportamento umano, la libertà è sempre la possibilità di seguire le necessità della mente. L’uomo ha una libertà relativa a causa della propria coscienza. La questione del libero arbitrio è stata tradizionalmente oggetto di studi teorici, ma anche pratici. Attraverso la riflessione filosofica, le motivazioni pratiche di pensiero affermano i propri diritti con la stessa forza di quelle teoriche – e in gran parte in maniera ancor più vigorosa. La prima spiegazione al problema del libero arbitrio è stata data, molto probabilmente, nel terzo libro dell’Etica nicomachea di Aristotele, che inizia sottolineando il valore della volontarietà delle azioni per la loro applicazione, soprattutto in considerazione della criminalità. Questo punto enfatizza la correlazione tra i concetti di libertà e di responsabilità. Nella domanda che Socrate si pone in merito alla “commissione volontaria dell’ingiusto” compare l’embrione della questione del libero arbitrio. Pertanto, difficilmente si può essere d’accordo con E.A. Pozdnyakov, secondo cui la filosofia antica non era interessata a tale argomento.3 Riteniamo che gli antichi saggi e filosofi consigliarono di cominciare lo studio delle vicende umane, in primo luogo, dalla conoscenza di se stessi. E questo non è certo possibile senza ragionare, senza riflettere sulla libertà della volontà umana. Così, i dibattiti filosofici si sono ridotti a uno scontro tra due concetti: la volontà è libera; la volontà non è libera. 103 Alcuni (gli indeterministi) sostengono la libertà illimitata o quasi della volontà umana. Secondo loro, l’uomo può effettivamente prendere decisioni, è libero di agire secondo la propria volontà, indipendentemente e anche a dispetto delle circostanze esterne. Hegel scrive: “Spesso si sente dire: la mia volontà è stata determinata da specifiche ragioni, circostanze, tentazioni e pulsioni”1. Con queste parole, il grande filosofo vuol sostenere che giustificare gli atti criminali ed imputare tutto il male all’ambiente sociale e alle circostanze esterne, così come alle forze sconosciute che li generano, al fine di eludere la responsabilità, contraddice la natura e l’essenza dell’uomo. Altri (i deterministi) si basano sul fatto che se qualcosa dipendesse dal libero arbitrio dell’uomo, avremmo avuto ampia opportunità di sfuggire problemi, di non commettere il male e il crimine. Le congiunture ereditarie e familiari riversano nell’uomo quell’imprinting che egli porta con sé per tutta la vita. Tutto questo, insieme al carattere, è predeterminato, e con esso sono predeterminate anche molte altre cose da cui dipende la vita umana. Così, M. de Montaigne, una volta ha osservato che i sentimenti non erano generati dalla mente e dalla riflessione, erano provocati dalle circostanze. Pertanto, “sarebbe di certo meglio spiegare le nostre azioni attraverso la condizione ambientale, senza addentrarsi in un’indagine approfondita delle cause e senza trarre altre conclusioni.”2 P. Holbach ha scritto su questo in particolare: “Niente in natura può accadere per caso, ogni cosa segue le sue precise leggi; queste leggi sono solo la necessaria connessione di determinate conseguenze con le proprie cause.”3 104 Ne consegue che l’uomo è del tutto dipendente da due fattori: l’ereditarietà e l’ambiente. Tutto ciò che egli è, tutto ciò che ha, è il prodotto di questi due elementi. E l’uomo non sceglie il modo in cui questi elementi gli vengono forniti, e con essi e in essi vive la sua intera esistenza come all’interno di confini piuttosto rigidi. T. Hobbes afferma: “Nulla ha inizio da sé, ma solo attraverso l’azione di qualsiasi altro fattore che proviene direttamente dall’esterno. Così, quando l’uomo ha desiderio o volontà di qualsiasi cosa riguardo cui non ha alcun desiderio o volontà, allora la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcosa al di là del suo controllo… Ogni evento, non importa quanto casuale o spontaneo possa sembrare, ha origine dalla necessità.”1 In realtà, perché l’uomo, un essere intelligente, è in grado di compiere il male? Forse, in effetti, nella sua natura sono presenti inclinazioni che lo spingono verso comportamenti anti-sociali. Forse sono la società stessa, l’ambiente a creare le condizioni e gli incentivi per la realizzazione delle inclinazioni criminali insite nella natura umana (se sono presenti, ovviamente). Tutte queste domande non sono solo teoriche, quanto piuttosto pratiche, poiché è impossibile imputare all’uomo la responsabilità per il suo crimine, se questo è stato provocato dalle caratteristiche biologiche del proprio organismo, se da questo è stato rigidamente determinato. Né tantomeno un uomo può essere ritenuto responsabile per le sue azioni, se queste sono state provocate solo dalle condizioni ambientali. Pur riconoscendo dunque che la scelta di comportamento sia libera, permettiamo che il criminale venga punito. Potremo comprendere l’essenza del crimine, e quindi il senso e il significato della pena, solo se saremo in grado di svelare il comportamento umano in generale e quello criminale in particolare. L’uomo, dotato di grande vitalità, è in grado di creare e distruggere, di fare il bene e il male. Allo stesso tempo, lui sa cosa evitare e cosa desiderare grazie alla capacità che ha di ragionare e di mettere a confronto cose diverse. 105 Pertanto, quando una persona commette un crimine è consapevole di quello che sta facendo poiché questa scelta è il risultato del suo ragionamento mentale e della comparazione tra i benefici e gli eventuali svantaggi derivanti da tali azioni. Hegel ha scritto: “Se un uomo afferma di aver perso la retta via a causa di circostanze, tentazioni, ecc, poi cerca di svincolarsi dall’atto, ma così facendo finisce per ridurre se stesso a un essere non libero, un essere naturale, quando in realtà ogni sua azione è sempre riconducibile al suo agire, e non a quello di qualcun altro, cioè non è conseguenza di qualcosa a lui estraneo. Le circostanze o le motivazioni prevalgono sull’uomo solo nella misura in cui glielo si permetta.”1 Solitamente tutti cercano l’origine delle proprie debolezze e dei propri vizi non nella propria vita o in se stessi, ma in situazioni indipendenti dalla propria esistenza. F.M. Dostoevskij ha scritto: “La dottrina ambientale, rendendo l’uomo del tutto dipendente per ogni errore all’organizzazione sociale, conduce l’uomo alla totale impersonalità e attraverso la sua completa liberazione da ogni debito morale personale, e dalla totale indipendenza lo porta alla più terribile forma di schiavitù che si possa immaginare.”2 La tipica argomentazione con cui la coscienza pubblica giustifica il fatto che un uomo venga punito per l’atto criminale da lui commesso è la necessità di garantire all’uomo il libero arbitrio, cioè che se sceglie di commettere un crimine è pienamente responsabile della propria scelta e, naturalmente, deve subirne la punizione. Su ciò si interroga anche la filosofia tradizionale, seguita dal classico ramo della scienza del diritto penale. In conformità con il concetto religioso, l’uomo ha una sezione autonoma in cui la sua coscienza rimane il maestro autocratico, perché il bene o il male dipendono in ultima analisi, dal libero arbitrio. 106 Pertanto, a seconda che l’uomo sia libero o meno e a seconda del suo grado di libertà di scelta, si può stabilire la sua responsabilità e il suo grado di colpevolezza. Non c’è creatura razionale a cui manchi libero arbitrio. L’uomo è naturalmente dotato di una mente potente, ha la capacità di ragionare e di distinguere il bene dal male, un comportamento lecito da uno illecito. Quindi sa cosa vuole e cosa evitare. La scelta spetta a lui. A questo proposito, non si può concordare con l’opinione di L. Feuerbach, per cui “spesso il colpevole dell’atto non può spiegarlo attraverso un’auto-analisi, ed esclama con stupore: come è possibile che io abbia voluto agire in questo modo? Come potrei infangare l’onore a me tanto caro? Come potrei sacrificare la mia nobiltà, per esempio, per amore di una ragazza e il mio benessere per amore di qualche sciocchezza?”1 Questo sembra essere corretto. È difficile trovare un uomo che non avrebbe commesso un atto che ha poi deplorato. È abbastanza naturale. Il pentimento per le azioni compiute dimostra che l’uomo è una creatura intelligente, che il suo atto è frutto di una sua decisione volontaria. Il crimine commesso appare ai suoi occhi in tutta la sua infamia quando si allontana dalla sfera di influenza umana, quando l’uomo non può più annullarlo. Ma non è sempre questo il caso. In genere, questo si riferisce a quei crimini che vengono commessi senza premeditazione, cioè, inaspettatamente, spontaneamente, a causa di date circostanze. Tuttavia, in questa situazione, l’uomo è in grado di sopprimere o di trasformare gli istinti aggressivi in forme non violente di scarico dell’energia psichica. Tutto dipende, ancora una volta, dalla forza di volontà umana. Caratteristica dell’ “uomo culturale”, come sottolineato da S. Freud, è la capacità della forza di volontà di sopprimere l’istinto. La scelta di comportamento come conseguenza della volontà spesso si verifica in maniera inconscia, automaticamente, senza concentrarsi su di essa, per abitudine, ma, tuttavia, si verifica sempre. 107 A questo proposito, vorrei prendere le distanze da E.A. Pozdnyakov, il quale crede che la libertà di scelta “non crea nell’uomo nient’altro che un doloroso conflitto di cause e argomenti, confusione mentale, determinazione ed estinzione degli impulsi.”1 Inoltre, l’autore approfondisce e chiarisce il suo pensiero. Egli scrive: “La possibilità di scelta non solo non aumenta la libertà di azione, ma, al contrario, la riduce al minimo. Maggiore è il grado di libertà, meno un essere è libero – questa è la legge, almeno nel caso dell’uomo. Non c’è niente di peggio e di più doloroso per l’uomo che avere la libertà di scegliere tra diverse alternative di comportamento e di azione, tra diverse opportunità, tra diversi percorsi.”2 Scegliere è un processo di osservazione, di confronto, di valutazione di diverse alternative. Pertanto, più scelta ha, più l’uomo può considerare con attenzione e valutare ogni cosa per prendere la decisione più giusta. Un’alternativa limitata è il presupposto per fare la scelta sbagliata. Sempre, in qualsiasi situazione, un’ampia possibilità di scelta è sintomo di libertà di azione. Ero convinto di questo quando mi confrontai con diversi casi di vita criminale nel periodo in cui fui direttore dell’Istituto di Scienze forensi in Azerbaigian. In uno dei distretti, un uomo di 72 anni sparò con un fucile da caccia alla figlia di 30 anni, che, nonostante fosse sposata e avesse una famiglia e due figli, si era trasferita a Baku e lì conduceva una vita immorale. Quando il padre, che nel suo villaggio godeva di grande prestigio, lo venne a sapere, ne rimase molto deluso. Dopo qualche tempo, la figlia tornò inaspettatamente a casa e tra lei e suo padre ebbe luogo una discussione: il padre chiese alla figlia di tornare in città e di non farsi vedere, perché era già stato disonorato a causa del suo comportamento. La conversazione si svolse nella stanza del padre, dove su una parete era appeso un fucile. La figlia rifiutò cinicamente di acconsentire alla richiesta del padre e gli disse che avrebbe vissuto come voleva lei. 108 Il padre afferrò il fucile e la uccise con un colpo solo. Cosa lo ha costretto a un tale gesto? Poteva trattenersi dal farlo? Dopo una lunga conversazione nel corso di una valutazione psicologica, si è potuto appurare che erano state le parole della figlia “io vivo come voglio” a scatenare l’impulso omicida dell’uomo. Cosa è stato decisivo e ha svolto un ruolo determinante nella scelta del comportamento criminale in questo caso? È riconosciuto che l’uomo non agisce sulla base dell’istinto, ma sulla base del suo ragionamento mentale, o del meccanismo che determina principalmente il suo comportamento intenzionale. Ma qual è questo meccanismo? È qualcosa che esiste all’interno dell’uomo o al di fuori di lui? Alcuni scienziati ritengono che il desiderio umano sia una parte della sua vita consapevole e intenzionale.1 E il desiderio umano è sempre manifesto, sia pure impercettibilmente, anche quando è rallentato da altre attività volontarie. L’uomo, dal momento che è consapevole, è sempre in grado di controllare i desideri che vengono neutralizzati da altri desideri. Pertanto, i desideri si controllano reciprocamente. A seguito della regolazione dei desideri si forma la scelta. Tuttavia, nel caso di specie, senza alcun dubbio, il padre non aveva per nulla desiderio di uccidere sua figlia. Quindi, questo meccanismo potrebbe non essere determinante nella scelta volontaria del comportamento. Altri scienziati ritengono che la causa scatenante primaria e principale negli uomini, come negli animali, sia l’egoismo, cioè l’irresistibile attrazione di essere e prosperare2. Il bisogno è il senso di insufficienza in ogni essere organico vivente che interagisce con il mondo esterno e da esso trae i mezzi di sostentamento. Soddisfare le esigenze e i desideri procura all’uomo piacere, la frustrazione gli provoca afflizione. Pertanto, l’uomo è naturalmente impegnato a soddisfare le proprie esigenze e ad evitare la sofferenza. Al fine di soddisfare i propri bisogni e desideri, l’uomo, quando non gli sia possibile farlo in modo lecito, infrange continuamente la legge e commette crimini. 109 E dal momento che questi bisogni e desideri gli vengono dati al momento della nascita, allora possiamo dire che ha un naturale desiderio di peccare. Quindi, c’è una lotta nel male che c’è in lui, cioè, tra il desiderio di commettere un crimine e la coscienza che cerca di opporsi all’infrazione della legge. Possono essere considerati bisogni umani congeniti solo la naturale esigenza di mangiare, bere, e così via. Per quanto riguarda gli impulsi, come ad esempio il drogarsi, il bere, la prostituzione, questi non sono innati, ma acquisiti nel corso della vita. Pertanto, non si può certo concordare con chi sostiene che il padre abbia ucciso la figlia sulla base di un desiderio. Sembra essere più corretto parlare di forze mentali, che svolgono un ruolo fondamentale nel meccanismo di selezione di un dato comportamento in una data situazione. Noi crediamo che l’esempio precedente di comportamento criminale confermi questa tesi. A seguito dell’analisi psicologica dell’anziano padre, l’omicida, si è visto chiaramente che durante la commissione del reato, il suo comportamento costituiva l’attuazione e l’identificazione di pensieri che si erano a lungo radicati in lui e che lo hanno fortemente influenzato. Questi erano legati alla vita immorale condotta dalla figlia. Se anche il padre fosse stato un uomo immorale e indegno, non rispettato dagli abitanti del villaggio, naturalmente, non avrebbe mai avuto quei pensieri che lo hanno portato ad assassinare la figlia. Secondo la teoria di Freud (la teoria della psicoanalisi, dell’inconscio), l’inconscio può riaffiorare in ogni momento e con un basso controllo a livello psicoanalitico può causare atti irrazionali e inconsueti e comportamenti dolorosamente perversi. Va notato che la teoria di Freud era coerente con i tradizionali concetti filosofici, giuridici e psicologici del libero arbitrio, secondo cui le possibilità del controllo mentale e razionale del comportamento umano sembravano essere davvero illimitate. G.V. Maltsev ha scritto: “L’idea centrale del pensiero di Freud è che il comportamento umano sia governato da forze psichiche irrazionali e non dalle leggi dello sviluppo sociale, 110 che l’intelletto è il dispositivo che permette di mascherare queste forze, non un mezzo dell’attiva riflessione della realtà, della sua più profonda comprensione, e che l’individuo e l’ambiente sociale sono in uno stato di lotta continua e segreta.”1 Nel nostro esempio, alla commissione del reato da parte del padre ha contribuito anche la soddisfazione dell’egoismo, poiché l’uomo ha messo la sua dignità personale e l’onore al di sopra della vita della figlia. In questo caso l’egoismo ha interpretato il ruolo dell’innesco nell’uomo come nell’animale. Tuttavia, questo non sarebbe successo senza la presenza di rilevanti fattori esterni indipendenti dal criminale: il padre e la figlia erano soli; il fucile era a portata di mano; dormivano tutti, era tardi. Se una di queste condizioni esterne fosse mancata, il delitto avrebbe potuto verificarsi. Ad esempio, se nella stanza ci fosse stata una terza persona a cercare di sdrammatizzare la situazione, il vecchio non avrebbe forse potuto contenersi e scegliere un comportamento diverso, cioè non ucciderla, ma ad esempio, colpirla o sputarle in faccia e lasciare la stanza? Per rispondere a questa domanda, ci serviamo di un altro esempio realmente accaduto. Un agente di polizia era rientrato a casa e, inaspettatamente per la moglie l’aveva trovata a letto con l’amante. Aveva con sé la sua pistola d’ordinanza e avrebbe potuto usarla liberamente. Invece, dopo aver assistito a quello spettacolo era andato in cucina dopo aver chiesto alla coppia di rivestirsi e aveva guardato l’amante della moglie andare via. Dopo aver discusso la situazione i due decisero di separarsi. Come è riuscito l’uomo a trattenersi sebbene la situazione e le circostanze contribuissero a far sì che l’inconscio potesse dar luogo a un comportamento irrazionale? Perché la sua parte razionale lo ha spinto a scegliere volontariamente di non commettere un crimine? Quindi, in situazioni e circostanze quasi identiche, alcuni scelgono di commettere un reato e altri no. Perciò, il fattore umano, la mentalità, cioè tutto ciò che riguarda la personalità, svolgono un ruolo fondamentale e sono le cause del comportamento criminale nell’omicidio, così come nei crimini violenti, senza scopo di lucro. 111 Non tutti riescono a trattenersi dal commettere un crimine sull’onda dell’umiliazione del proprio onore e della propria dignità. Non si tratta di vendicare l’umiliazione o l’offesa quanto piuttosto dell’incapacità di controllare se stessi, dovuta alle proprie caratteristiche umane e naturali. Diverso è il caso in cui un uomo premediti accuratamente e da tempo di assassinare la propria moglie, in questo caso si parla di vendetta. Quando si tratta di motivazioni di avidità o di crimini violenti e di avidità, emerge in primo piano, naturalmente, il fattore esterno, sociale, sebbene anche nel profitto si possa ritrovare un fattore umano: l’avidità, il desiderio di arricchimento, il profitto, ecc. Abbiamo appreso che la criminalità è un prodotto del libero arbitrio individuale; che è l’attuazione della volontà e non il risultato dell’asservimento di questa a modelli individuali. Ma perché un uomo che può scegliere liberamente come comportarsi, decide comunque di commettere un reato? Cosa lo spinge? In realtà, per sua natura l’uomo è attratto in maniera passionale, non da ciò che ha a portata di mano, quanto più da qualcosa di lontano e proibito. Può essere edonismo, smania di possesso e volontà di potenza, ecc, come risulta sempre dall’analisi di specifici crimini. Rivelando quali sono le cause del crimine, o più precisamente del comportamento criminale, finiamo quindi col rivelare l’essenza della natura dell’individuo e delle sue azioni, la sua psicologia, sociologia, il suo carattere, le inclinazioni e gli interessi, il suo grado di sviluppo e di educazione. Essendo una tipologia di azione, la criminalità tende a mettere l’uomo alla prova, per farlo aprire completamente, per fargli scoprire quelle qualità che altrimenti rimarrebbero nascoste, sconosciute. Ad esempio, l’essenza, la natura e le qualità di un uomo corrotto possono rivelarsi solo dopo che questi abbia acquisito l’appropriata autorità. Lo stupro ci dà l’opportunità di scoprire in uno stupratore qualità di cui non ci saremmo mai accorti se non avesse commesso tale crimine. Dov’è che dovremmo cercare le cause del comportamento criminale? D. Abrahamsen ritiene che non dovrebbero essere cercate da qualche parte “al di là”, presentando varie teorie e 112 identificando l’azione di fattori esterni, ma in noi stessi, nelle caratteristiche umane di base, nella struttura mentale e psichica dell’uomo.1 Per gli psicoanalisti, è la mente il vero punto di partenza dei loro studi sul fenomeno della criminalità, poiché la mente è considerata ciò che fondamentalmente distingue l’uomo dagli animali e quindi è proprio nella mente che bisogna cercare la causa di questa caratteristica dell’uomo, e cioè della propensione al crimine. Il 20° secolo ci ha costretto a dare un nuovo aspetto alla vecchia questione della criinalità. Ad esempio, il filosofo francese A. Camus ha sostenuto che si sarebbe agito meglio passando attraverso il prisma della categoria dell’assurdo. Nella sua concezione, “assurdo” è uno stato in cui il più alto significato non può essere trovato in qualsiasi cosa, dove tutto si confonde e la differenza tra “a favore” e “contro”, tra la virtù e la criminalità svanisce. Come risultato della scomparsa di confini, gerarchie e regole, ogni cosa diventa accettabile e lecita. Sembra che non abbia senso effettuare una ricerca delle cause comuni a tutti i crimini, semplicemente perché queste non esistono. Non ci sono reati simili e non ci possono essere. Inoltre, non ci sono motivazioni per un crimine del tutto simili. Ogni specifico crimine, tenendo conto delle peculiarità individuali, ha la propria causa. L.N. Tolstoj nel suo romanzo breve “La sonata a Kreutzer” (1889) ha rappresentato la passione sessuale come una terribile forza distruttiva che conduce l’uomo sul sentiero del crimine. In questo caso, la passione sessuale può essere la causa di uno stupro. Alcuni possono sopprimere tale passione grazie alla propria forza di volontà, altri non possono. L’omicidio passionale è una cosa diversa. Non si tratta di passione sessuale, quanto piuttosto di un fenomeno biologico. È chiaro che ricercare le cause comuni di crimini come rapina, corruzione o stupro non ha senso. Va notato che nessuna delle scienze è stata fino ad oggi in grado di dimostrare alcun collegamento genetico tra l’uomo e il suo atto criminale, di cui al tempo parlò Lombroso in modo persuasivo. Allo stesso tempo, non vi è alcun motivo di dubitare che le azioni dell’uomo in generale e quelle criminali in particolare, dipendano ampiamente dalle sue caratteristiche psicofisiologiche. 113 L’ambiente sociale dovrebbe essere considerato non tanto come la causa del comportamento criminale, quanto piuttosto come la condizione di base per il manifestarsi delle caratteristiche psicofisiologiche dell’uomo. È noto che la maggior parte delle persone che vivono in condizioni molto difficili non rubano, non violentano, non uccidono. Questo sta a indicare che le cause del comportamento criminale individuale non risiedono nel contesto sociale, ma nel criminale stesso. Come sappiamo, in molti paesi europei, le condizioni di cui stiamo parlando sono quasi assenti. Tuttavia, vengono commessi crimini anche molto gravi, assolutamente estranei alle condizioni della vita sociale. Pertanto, non possiamo essere d’accordo con quanto dichiarato da I.I. Karpets, secondo cui le cause di specifici reati, dal momento che esistono cause comuni, dipendono da una serie di carenze in una qualche fase dello sviluppo sociale, da fenomeni negativi ancora presenti nella vita pubblica, e sono connessi alle condizioni che impediscono il loro superamento.”1 È altrettanto errata l’opinione contraria di E.A. Pozdnyakov, secondo il quale non è la società nelsuo insieme a contenere le cause del comportamento criminale. La società si limita a creare migliori o peggiori, più o meno favorevoli condizioni per lo sviluppo del male insito nell’uomo e per l’inclinazione verso i comportamenti antisociali, che sono il vero seme da cui nasce quel fiore stravagante chiamato “crimine.” 2 Dunque, il filosofo E.A. Pozdnyakov è convinto che le qualità maligne e la propensione verso il crimine siano insite in ogni persona. Dipende dalle situazioni circostanti se l’uomo passerà dallo stato di criminale potenziale a quello di criminale reale. In questo caso non è semplice chiarire il rapporto percentuale tra individui che hanno commesso crimini e cittadini rispettosi della legge. Se riconosciamo, come provato, che il male e gli istinti criminali sono presenti in ogni uomo, è impossibile spiegare le fluttuazioni annuali della crescita della criminalità, la natura del reato, etc. 114 Inoltre l’affermazione di G.A. Avanesov non è comprovata ed è priva di fondamento: “Un uomo… ha determinate caratteristiche innate. Alcune di queste possono, a nostro avviso, in appropriate circostanze, facilitare la commissione di un reato o perfino agire come una delle cause di un determinato atto criminale.”1 Siamo d’accordo che certe caratteristiche psicofisiologiche dell’uomo possano, in date circostanze, essere la causa del comportamento criminale, ma non crediamo che queste caratteristiche siano innate. Inoltre, una persona che sia vittima di questa terribile inclinazione a volte conserva ancora la capacità di sconfiggerla o di indirizzarla altrove. Ma il potere di avere la meglio su tale inclinazione si fa più debole in una persona in proporzione al grado di mancanza d’istruzione e al minore sviluppo degli organi e delle capacità più importanti. Così, anche se le caratteristiche citate da G.A. Avanesov sono innate, sono sempre controllate dall’uomo stesso. Tutto dipende dal potere della volontà umana. È del tutto possibile, naturalmente, che anche l’uomo più decoroso, rispettoso della legge e con un carattere e una volontà forte, sotto la pressione della fame possa raggiungere un grado di amarezza tale da spingerlo a ogni tipo di reato, tra cui il furto di pane. In questo caso, è improbabile che il suo carattere e la sua volontà possano essere considerati definitivamente cambiati. Non dobbiamo neanche dimenticare che ogni nazione ha le proprie peculiarità psicologiche e caratteriali e questo è importante quando si classifica un particolare comportamento come criminale. Nel corso dei secoli, ogni nazione ha sviluppato le proprie idee, cultura, psicologia, e, di conseguenza, tutti i motori del comportamento. Nelle stesse circostanze, un caucasico, in base al suo carattere, alla sua condizione psicologica, emozione, ecc, è in grado di comportarsi in un modo che potrebbe sorprendere un europeo. 115 Allo stesso tempo, quella che per un francese è un’azione ordinaria potrebbe essere percepita da un caucasico non solo come immorale ma come criminale. Pertanto, il destino nazionale e umano è “controllato” dai nostri antenati, dai loro costumi, tradizioni, carattere e morale. A volte ci portiamo dietro il peso dei loro errori. Ad esempio, la vendetta di sangue in quanto crimine è una loro diretta eredità. E noi, purtroppo, ancora non possiamo eliminare del tutto questa reliquia dei tempi antichi, perché le generazioni passate ci tramandano non solo la loro struttura fisica, ma anche le proprie idee. G. Le Bon osserva: “Non mi è stato mai così chiaro che gli uomini di ogni razza possiedono, nonostante le differenze di status sociale, un indistruttibile capitale di idee, tradizioni, sentimenti e modi di pensare che compongono il patrimonio inconscio dei loro antenati, contro il quale è impotente qualsiasi argomentazione”1 Attualmente, molti si chiedono il motivo per cui, a differenza di noi, gli europei tendono ad essere rispettosi della legge, e se riusciremo mai essere come loro. Qualunque cosa faccia, un uomo è sempre il primo e il più importante rappresentante della propria nazione con la sua anima. L’anima è quel capitale di idee, sentimenti e caratteristiche psicologiche posto in essere da tutte le persone di tutte le nazioni sin dalla nascita. L’anima in realtà indirizza il comportamento o quantomeno ha un impatto significativo sulla scelta del comportamento. L’anima di ogni nazione ha una serie di caratteristiche morali e intellettuali. Le caratteristiche anatomiche e le caratteristiche psicologiche di ogni nazione vengono ricreate attraverso meccanismi ereditari. L’unità delle caratteristiche psicologiche generali è quello che viene ragionevolmente chiamato carattere nazionale. Anche gli assassini appartenenti a diverse nazioni differiscono nelle loro caratteristiche psicologiche prima del crimine, e nel corso della sua commissione. Va notato che l’idea di legittimità comincia a esercitare il suo effetto solo quando, dopo un processo molto lento, 116 viene convertita in percezioni e penetra nell’inconscio, dove vengono generati i nostri pensieri. Purtroppo, a differenza degli europei, non siamo ancora riusciti ad attuare questa conversione. Ecco perché dobbiamo ancora ricorrere a severe misure di sanzione penale, ed è quindi ancora molto presto per adeguare la nostra legislazione penale a quella europea. Naturalmente, va rilevato che la storia di ogni nazione è determinata da diversi fattori. È piena di eventi particolari, casi che si sono verificati, ma che avrebbero anche potuto non verificarsi. Affinché una nazione, un popolo, possano trasformare il proprio atteggiamento nei confronti del diritto e diventare rispettosi della legge, è necessario che prima “riformino” la loro anima. Di conseguenza, questo problema non può essere risolto solamente attraverso l’educazione giuridica, perché sotto l’influenza dell’educazione giuridica può essere innalzato solo il livello dello sviluppo intellettuale in questo ambito. La qualità del carattere sfugge quasi completamente alle sue azioni. Oggi, come tutti sappiamo, l’Europa, al di là degli intenti filantropici, sta cercando di far sì che altre nazioni meno civili accettino le sue condizioni nell’applicazione delle sanzioni penali nei confronti dei criminali, cioè che riconsiderino il ruolo e l’importanza della punizione nella lotta contro la criminalità. È possibile? Noi crediamo che in questo momento sarebbe un errore. Non siamo pronti. Non si può dimenticare il divario che c’è tra la struttura psicologica dei popoli europei e quelli dell’ex Unione Sovietica. Nazioni in apparenza molto simili possono essere molto diverse nel modo di sentire e di agire, nelle loro credenze, nella loro cultura e nell’arte. Sono questi gli elementi che influenzano il comportamento degli uomini, criminali inclusi, e non il clima, la razza, il colore della pelle, cioè, i fattori anatomici indicati da Lombroso. Il carattere di una nazione è composto dalla combinazione di diversi elementi, a cui gli psicologi si riferiscono con il termine sentimenti (la perseveranza, l’energia, la capacità di autocontrollo, la moralità). G. Le Bon scrive: “La grandezza delle nazioni dipende principalmente dal loro grado di moralità.”1 117 In relazione all’osservanza della legge, la moralità è quel rispetto ereditario delle norme di legge che è alla base dello stato di diritto, e quindi della società. Per una nazione avere moralità significa possedere rigide e stabilite regole di condotta e non commettere crimini, anche perché questi diminuirebbero di numero quando le nazioni si conformassero alla legge per convinzione e non per coercizione, poiché onorano i loro buoni costumi e le tradizioni. Allora, le cause del comportamento criminale dovrebbero essere ricercate nelle caratteristiche psicofisiologiche che non sono parte del patrimonio genetico e che si manifestano in determinate condizioni ambientali e circostanze, con il risultato che un individuo accetta liberamente di subire questa o quella decisione. Pertanto, né le condizioni sociali o i fattori economici (miseria, povertà, ricchezza, lusso), né, del resto, l’ereditarietà, possono essere le cause del crimine. Riassumendo le nostre considerazioni possiamo concludere che: l’essenza filosofica del crimine è una forma volontaria e libera del comportamento umano, le cui origini sono da ricercare nelle caratteristiche psicofisiologiche di un individuo, derivanti dall’impatto su di lui delle condizioni e circostanze socio-economiche negative esterne. § 3. LA PERSONALITA’ CRIMINALE Il colpevole di un crimine, non importa quale importanza sia attribuita ai fattori esterni, è sempre l’individuo. Pertanto, è impossibile ignorare il ruolo della personalità nella criminalità. Gli avvocati classici partivano e partono ancora dal presupposto che un criminale, eccetto per evidenti e anomale caratteristiche (età, intossicazione, malattia, ecc), è una persona come tante. Tuttavia, è evidente che un tale approccio non permette di condurre il diritto penale a un studio veramente scientifico delle cause del comportamento criminale. 118 Ai suoi tempi, S.K. Gogel ha osservato: “Scienziati di un nuovo corso sono arrivati da questo castello giuridico del dogma del diritto penale, con le sue leggende e tradizioni medievali, al mondo chiuso a qualsiasi contatto con la vita reale… hanno detto ai dogmatici che si sono dimenticati che c’è un essere vivente, e rompendo la formula algebrica generale del concetto di criminale hanno innanzitutto dimostrato che non c’è un solo criminale, ma molti: innati e occasionali, assassini e ladri, e che questi non hanno nulla in comune, e che è inammissibile raggrupparli nel concetto generale di trasgressori.” La base dello studio della personalità criminale è stata posta principalmente dalla ricerca di alcuni medici delle prigioni inglesi e di altri professionisti. La questione era se il criminale dovesse essere considerato come nell’antica Grecia e a Roma – come uno schiavo, come una creatura di una particolare razza diversa, non come gli altri. È forse pazzo o selvaggio chiunque commetta un crimine? Forse è un degenerato, come ritenuto da Ferri? O è epilettico, come nelle parole di Lombroso? Forse il criminale ha una psicologia particolare? Si deve notare che, a seguito dello sviluppo degli studi sulla psiche, che hanno influenzato in particolar modo la correttezza dello sviluppo del comportamento umano, è stato possibile studiare l’individuo che ha commesso il reato e le sue caratteristiche. Così, ad esempio, B. Moritz, basandosi sull’osservazione di 22 casi, ha suggerito che il cervello del criminale sia un tipo di cervello particolare, che differisce da un cervello normale.1 Un anno più tardi, ha annunciato che “l’avaria organica o l’elemento fondamentale nella psicologia del soggetto criminale è la “nevrastenia” o esaurimento nervoso, una debolezza nervosa in senso fisico, morale e mentale, e, inoltre, una debolezza innata o 119 acquisita nella prima infanzia.”1 Alla fine è giunto alla conclusione che un incorreggibile criminale di professione è in realtà una distorsione del concetto generale di “uomo”. Come già osservato, l’essere venuto a contatto con situazioni della vita reale ha portato P. Despine a credere che i criminali più feroci mancassero di quel senso morale che avrebbe permesso loro di distinguere il bene dal male, spingendoli a condannare le intenzioni criminali e causando il conseguente rimorso. Gli antropologi, dopo aver condotto studi nelle prigioni e negli istituti psichiatrici su un campione di circa 2.000 persone, hanno affermato che è possibile distinguere gli assassini nati dagli altri criminali attraverso dei segni fisici, specialmente nei casi più gravi. Uno dei più brillanti rappresentanti di questa linea di pensiero, Cesare Lombroso, ha in realtà sviluppato l’idea di F.I. Gall secondo cui i criminali o, almeno, la maggior parte di essi, hanno delle caratteristiche estetiche specifiche e che il compito della ricerca è proprio quello di individuare questi specifici segni esteriori tipici dei criminali. L’idea che il criminale, in particolare nel caso della tipologia criminale più importante, non sia altro che un selvaggio imprigionato nella nostra civiltà è stata espressa prima di Lombroso, soprattutto da Despine. Tuttavia, Lombroso ha usato per primo il termine “criminale nato”, che è, a suo parere, il risultato di dolorose deviazioni e dell’atavismo. Un criminale nato è “un uomo selvaggio e un malato allo stesso tempo”. Lombroso ha visto la possibilità di conciliare queste due visioni del criminale nella teoria del ritardo nello sviluppo di alcuni organi e, soprattutto, nello sviluppo centri psichici malnutriti che da un lato rende tali organi “luoghi di minor resistenza”, cioè, li predispone a una varietà di disturbi, e dall’altro, li relega a una tipologia di sviluppo inferiore. 120 Egli ha inoltre affermato che i fluidi corporei del criminale nato differiscono da quelli dei criminali accidentali e delle persone comuni rispettose della legge, come se un criminale nato espellesse meno urea di loro e più fosfati del normale.1 Lombroso ha trovato una miriade di caratteristiche, soprattutto nei crani dei criminali nati e in quasi tutte le ossa del cranio, nonché nella sua struttura e forma generali. Ad esempio, i delinquenti, in particolare i ladri, hanno spesso il cranio piccolo; raramente hanno crani di grandi dimensioni. Nel laboratorio di Lombroso, ad essere oggetto di un approfondito studio tecnico non erano solo i crani, ma anche le orecchie, i nasi, etc. Prendendo in considerazione i dati raccolti da Lombroso, al fine di istituire una speciale “tipologia”, L.P. Manouvrier ha insistito sul fatto che sulla base di questi studi si può affermare solo che: i criminali, in media, hanno più anomalie rispetto alle cosiddette persone oneste. Ha anche sottolineato l’inesattezza del metodo di Lombroso, dovuta al fatto che per la formazione del “tipo criminale”, ha combinato in una sola unità le caratteristiche riscontrate in diversi criminali. In realtà, non c’è alcuna tipologia generale di persona brutta o “patologica”. Ci sono solo diversi tipi di malformazioni. Queste sono solo le osservazioni fatte dal professor Manouvrier sulla questione dell’esistenza di uno specifico “tipo criminale” dal punto di vista anatomico e fisiologico. Al IV Congresso di Antropologia criminale, il professor Ferri, allievo e collega di Lombroso, ha parlato di “temperamento criminale”, cercando di sostituire il concetto di “uomo criminale” prima utilizzato dai seguaci di Lombroso, e il suo specifico “tipo criminale” con i fenomeni di criminalità ridotti alla loro fonte – i fenomeni di degenerazione mentale. Anche S.V. Poznyshev fa riferimento ai criminali come a una specifica “tipologia.” Ha scritto: “Il tipo criminale non è una semplice somma delle ben note proprietà psichiche della personalità 121 ma un preciso modello di personalità, una nota combinazione di proprietà mentali, che creano nell’individuo, per così dire, un’inclinazione verso la criminalità, spingendolo sia a cogliere l’occasione di commettere un crimine, sia a non perdere una tale opportunità, qualora si presenti, o almeno a non resistere a sufficienza alle tentazioni in questo caso dettate da noti impulsi sensuali”.1 I giuristi moderni “si permettono di parlare della personalità criminale come di una tipologia sociale e psicologica separata e indipendente,”2 sebbene chiariscano che il concetto di “personalità criminale” è una denominazione terminologica convenzionale. “Sarebbe più corretto parlare di identità della persona (dell’individuo) che ha commesso il reato”. 3 Cosa distingue le personalità criminali da quelle della gente comune, a parere di questi autori? Yu.M. Antonyan e V.E. Eminov rispondono: “Lo studio psicologico comparativo dell'identità di vasti gruppi di criminali e di cittadini rispettosi della legge ha dimostrato che i primi si differenziano da questi ultimi per un livello significativamente più alto di impulsività, vale a dire la tendenza ad agire d’impulso, e di aggressività, combinata a un’alta sensibilità e vulnerabilità nelle relazioni interpersonali.”4 Perfino gli autori vedono nel criminale delle “predisposizioni e inclinazioni geneticamente determinate.”5 In psicologia, c’è un capitolo intitolato “La personalità”. Cosa significa? Significa che il termine “personalità” è così difficile da definire ed ha una gamma di utilizzi così vasta che se ne può scrivere liberamente, senza assumersi alcuna responsabilità per la definizione. 122 Ad oggi si possono elencare alcune decine di definizioni di questo termine, forse di più: La teoria dei tipi (teoria ippocratica dei quattro temperamenti di base: collerico, melanconico, sanguigno e flemmatico); La teoria delle funzioni (la personalità umana è un insieme di caratteristiche o modi caratteristici di comportarsi, pensare, sentire, rispondere, ecc). Ci sono anche la teorie psicodinamica e psicoanalitica (Freud, Jung, Fromm, Horn). In queste la personalità è caratterizzata dal concetto di integrazione. A quale definizione sarebbe corretto collegare l’identità del criminale? Come abbiamo già notato, gli antropologi hanno spesso parlato di “tipo criminale” come una nota tipologia “esterna”, cioè come la combinazione di alcuni elementi esterni che distinguono i criminali dalle altre persone e possono essere utilizzati per la loro classificazione e per il loro riconoscimento, come tipologia anatomica e fisiologica o antropologica. Così, nel “tipo”, il ruolo più cruciale è importante appartiene alle caratteristiche esterne. Pertanto, coloro che sostengono il punto di vista della “tipo criminale” si concentrano principalmente sull’aspetto umano. Quasi nessuno crede ad oggi che un criminale si possa distinguere da un uomo rispettoso della legge per il proprio aspetto. Un criminale non è un tipo specifico con particolari caratteristiche esterne. È un essere umano perfettamente normale dal punto di vista fisico. Forse i criminali hanno una psicologia particolare? Ma la scienza della psicologia non è giunta a questa conclusione. La psicologia di un killer è, infatti, la psicologia di un qualsiasi essere umano, che in particolari condizioni di vita può anche diventare un assassino. Il criminale, come ogni persona, è la somma delle sue caratteristiche individuali. Ognuno possiede note e costanti caratteristiche fisiche e mentali che compongono la propria costituzione fisica e mentale, e ognuno è costituito da caratteristiche in parte innate e in parte acquisite. Pertanto, non ha molto senso relegare i criminali in una categoria speciale, in un particolare “tipo” e di considerare le loro personalità come speciali in senso negativo. 123 Il concetto di “personalità criminale” genera anche un atteggiamento negativo tra la popolazione. Inoltre, possiamo riferire il concetto di “personalità criminale” a un individuo che ha commesso un reato per negligenza? Dunque, la personalità è lo stabile complesso di tratti ideologici, psicologici e comportamentali che caratterizzano una persona. È possibile identificare nei criminali un complesso specifico di questi tratti? Al giorno d’oggi, la scienza non dà una risposta affermativa a questa domanda. La personalità tipo è un modello astratto di caratteristiche personali relative a un particolare gruppo di persone. Ci sono persone con spiccate qualità che divergono dalle caratteristiche, dalle strutture e dai livelli di sviluppo dell’individuo tipico di questo particolare sistema socio-culturale. Tuttavia, questo non significa che essi costituiscano un tipo particolare. Sottolinea solamente il basso livello di sviluppo di questi soggetti, non importa per quale ragione. Ad esempio, un uomo che ha vissuto tutta la sua vita in montagna e poi si ritrova in un paese civile in Europa. Inutile dire che un uomo del genere si distingue nettamente dagli altri nel suo comportamento, modo di comunicare, ecc, tuttavia, questo non significa che possa commettere un crimine e diventare un criminale. Ogni uomo è una personalità che possiede un insieme unico di qualità caratteriali e strutture psicologiche che distinguono un individuo dall’altro. Ciò vale anche per il criminale. Tuttavia, non ci sono qualità tali da poter unire tutti i criminali in un gruppo e creare uno “tipo” specifico di personalità. Pertanto, riteniamo che si debba abbandonare il concetto di “personalità criminale” a favore del concetto di “autore del crimine.” 124 § 4. IL FUTURO DELLA CRIMINALITÀ È noto che i classici del marxismo-leninismo consideravano del tutto risolvibile il compito di eliminare la criminalità e lo collegavano alla distruzione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Seguendo tale dottrina, gli autori dei libri di testo sulla criminologia, in particolare, hanno scritto: “Nel processo di sviluppo della società socialista le radici sociali di base della criminalità sono incerte, ma si conservano alcune delle sue cause. Queste non sono associate alla natura del socialismo e sono dovute al particolare contesto storico in cui questo si è strutturato, superando una serie di contraddizioni e difficoltà all’interno del paese e conducendo a un’acuta lotta di classe sul piano internazionale. Nella società comunista, la criminalità come fenomeno sociale deperirà completamente”.1 Questa era la posizione di quasi tutti gli scienziati del periodo sovietico. Su questa base, i criminologi impostarono i compiti di “liquidazione”, “eliminazione”, persino “distruzione” della criminalità, mentre gli studiosi occidentali credevano che “il socialismo non aveva fatto fronte alla criminalità.” Della natura temporanea della criminalità si è molto parlato prima degli scienziati sovietici. Ad esempio, R. Owen, l’utopista, ha detto: “Cercate di aumentare il livello generale di benessere, in maniera durevole e sistematica, di ricorrere a misure di minore severità per tutelare l’ordine pubblico dalla criminalità, e gradualmente la criminalità scomparirà, poiché anche le inclinazioni più violente e fondate non possono combattere a lungo una benevolenza costante.”2 Come giustamente considerato da Yu. M. Antonyan, “nessuno oggi sta facendo piani utopistici, perché è chiaro che (la criminalità ) è un inevitabile 125 e naturale compagno dell’umanità in ogni tempo, come la malattia e la morte.”1 A questo proposito, vorrei esporre la spontanea confessione di I.I. Karpets: “Uno sguardo storico e retrospettivo all’intero processo di conoscenza della criminalità rivela lentamente ma inesorabilmente i nostri errori, delusioni e illusioni.”2 Al giorno d’oggi, molti scienziati famosi parlano di eternità della criminalità. Ad esempio, Yu.M. Antonyan scrive: “Dovrebbe essere quasi certo che la criminalità è sempre esistita. Questa scoperta è di grande importanza, in quanto contiene al suo interno l’affermazione che non potrà mai scomparire poiché è l’ineluttabile compagna dell’umanità, non importa cosa pensino i creatori della “Città del Sole” ”3 Il filosofo E. Pozdnyakov afferma anche che la criminalità è “un elemento essenziale della grande e multilaterale natura umana, e, di conseguenza, dell’intera essenza della razza umana.” 4 Di conseguenza, il crimine continuerà a esistere finché sulla terra ci sarà anche solo un essere umano. A.I. Alexandrov scrive diversamente: “la vittoria completa sulla criminalità e la sua eliminazione sono praticamente inconcepibili, almeno all’interno dei modelli socioeconomici che conosciamo – sono solo un ideale a cui aspirare.” 5 La teoria dell’eternità della criminalità è nata in Occidente. E. Durkheim, W. Landen, C. Breytel e molti altri hanno scritto in merito. Ad esempio, E. Durkheim credeva che “la criminalità è normale perché una società è del tutto impossibile senza criminalità. La criminalità è necessaria: è saldamente collegata alle condizioni fondamentali della vita sociale, e proprio per questo è utile perché le condizioni, di cui essa stessa è una parte, sono inseparabili dalla vera evoluzione della morale e della legge”6. 126 Dal suo punto di vista, se la criminalità era un elemento di una società in salute, ciò voleva significare che non poteva essere considerato un fenomeno negativo e nocivo. In altre parole, era utile. Anche E. Schur sostiene che è “totalmente inutile pensare all’eliminazione di tutti i crimini.”1 Quindi, la realtà è che nemmeno il sistema socio-politico ha ancora risolto il problema della criminalità. Come ha detto N.S. Tagantsev, “la vita di tutte le nazioni ci mostra che ogni volta e ovunque sono e sono stati commessi atti per vari motivi non riconosciuti come illeciti, ma che hanno anche provocato i noti provvedimenti da parte della società o dello Stato nei confronti delle persone che li hanno commessi – quegli atti sono riconosciuti come criminali; che ogni volta e ovunque c’erano persone che in parte non avevano ostinatamente rispettato gli obblighi dell’ordinamento giuridico e dei dettami delle autorità adibite alla loro protezione.”2 La medicina ci insegna quanto segue: per trovare il rimedio a ogni malattia, è innanzitutto necessario scoprire e analizzare le cause di questa malattia. Sembra che la questione dell’eternità o della temporalità della criminalità non possa essere risolta al di fuori del contesto delle cause del comportamento criminale umano. Assumendo che le cause della criminalità siano solo di natura sociale, allora si mette in discussione il carattere eterno della criminalità, poiché potrebbe di certo esistere una società che non abbia queste condizioni sociali. Se le cause del comportamento criminale sono direttamente correlate alla natura umana senza alcuna connessione con le condizioni sociali esterne, allora la criminalità esisterà fino a quando non saranno trovate le fonti di questo male e lo strumento per loro eliminazione. E, infine, le cause del crimine possono essere sia le condizioni sociali sia le caratteristiche fisiologiche di una persona. In questo caso, la criminalità scompare a condizione di eliminare sia le condizioni sociali, sia i “difetti” dell’essere umano. Al giorno d’oggi, purtroppo, non conosciamo da cosa si generi il comportamento criminale. Di conseguenza per noi la criminalità è un male eterno. 127 Che cosa dobbiamo fare? Forse non vale la pena di lottare contro la criminalità? Yu. M. Antonyan risponde a queste domande nel seguente modo: “Combattere la criminalità rientra perfettamente nelle capacità umane, basta non dar loro l’assurdo compito di sradicarla.” 1 V.N. Kudryavtsev denuncia la difficile natura di questa lotta: “La lotta alla criminalità ha una natura lunga e senza fine; apparentemente sconfitte e distrutte, le forze criminali sono “rinate dalle ceneri”, “spuntano come funghi”, emergono nuove forme criminali e nuovi metodi di comportamento criminale e sono coinvolte nella criminalità nuove tipologie di persone, soprattutto con un’educazione più elevata”2 Recentemente, il termine “controllo” in relazione alla criminalità è stato usato più spesso rispetto alle parole “guerra”, “lotta”, “eliminazione” e “superamento”. È stato fatto anche il tentativo di congiungere tutte le forme di trattamento dei criminali in un unico termine “la risposta alla criminalità”. V.N. Kudryavtsev ritiene che la sostituzione della parola “lotta” può essere intesa solo come l’incapacità di sconfiggere la criminalità: si può presumibilmente solo “controllare”, vale a dire solo stare a guardare.3 Ha ragione V.N. Kudryavtsev quando afferma che l’espressione “controllare” mostra l’impotenza, la passività, l’inefficacia della società nella lotta contro la criminalità. A nostro parere, è più corretto usare l’espressione “prevenzione della criminalità”, perché è più democratica e progressista di “lotta”. Se non siamo in grado di debellare la criminalità, allora quale compito dovrebbe essere assegnato alla società? Secondo Yu. M. Antonyan, “il compito urgente resta il suo mantenimento a un livello cosiddetto civile.”4 128 La questione del futuro della criminalità ci interessa particolarmente. E non stiamo parlando solo dell’eternità o della temporalità di questo fenomeno, ma anche del suo immediato futuro. Questo interesse, naturalmente, è connesso alla necessità di essere preparati alla sua prevenzione. Tuttavia, anche solo per immaginare lo stato della criminalità nel futuro, fra 3-5 anni, necessitiamo di informazioni relative alle condizioni e alle sue caratteristiche quantitative, alle dinamiche di un più o meno prolungato periodo di tempo, cioè di informazioni sullo stato passato e presente della criminalità. E questo compito spetta alla previsione criminologica, che ci impone di imparare ad anticipare i cambiamenti nella criminalità.1 G.A. Avanesov sottolinea: “La previsione diventa uno strumento che permette di conoscere le tendenze e i modelli di cambiamento nella criminalità nel futuro, e ha acquisito la funzione di metodo di studio della criminalità.”2 È possibile una tale previsione? I matematici sono riusciti a dimostrare che è impossibile stabilire con prestabilita accuratezza lo stato futuro di un sistema non uniforme e non lineare, ossia un sistema in cui anche piccole deviazioni possono causare cambiamenti significativi, e che è lontano dalla condizione di stabilizzazione. Qualsiasi andamento che sia divenuto evidente all’interno un tale sistema può immediatamente cambiare e il processo successivo diventa sostanzialmente casuale. Si può sostenere che la criminalità appartenga a quella che consideriamo la classe dei sistemi. Pertanto, è impossibile prevedere il futuro della criminalità, cioè, determinare precisamente la condizione della criminalità anche solo fra 2-3 anni, perché in quanto fenomeno antisociale di massa è una formazione caotica, senza forma e spontanea, 129 “come un agglomerato di vari microrganismi corrosivi per un essere vivente altamente organizzato.” 1 In altre parole, l’inafferrabilità, l’imprevedibilità della criminalità nel range della casualità, che in questo settore è prevalente, hanno un carattere spontaneo, inaspettato e di difficile previsione. Non sappiamo quando, perché, né chi stia per commettere un crimine né quale crimine stia per essere consumato, così come non si può spiegare il perchè la criminalità sia sempre esistita. Pertanto, non saremo pronti a fare previsioni sul futuro della criminalità fino a quando non avremo capito perché la criminalità sia una compagna inevitabile e inestirpabile dell’umanità. È anche necessario tener conto del fatto che la criminalità è un sistema statistico, che obbedisce alle leggi della probabilità, all’azione di fattori sia oggettivi sia soggettivi. Quindi, lo scopo della previsione criminologica è quello di stabilire quali sono gli indicatori più comuni che caratterizzano lo sviluppo (modifica) della criminalità, nel futuro, di individuare su questa base gli andamenti e i modelli indesiderati e trovare il modo di cambiarli, indirizzandoli nella giusta direzione. Si cercherà poi di determinare la probabile situazione della criminalità in Azerbaigian nel corso dei prossimi 5 anni. Iniziamo con lo stato della criminalità in passato e tracciamo le sue dinamiche nel corso degli ultimi 50 anni. L’intero periodo dovrebbe essere diviso in due parti: le condizioni e le dinamiche del crimine nell’Azerbaigian sovietico e quelle nell’Azerbaigian come stato indipendente sovrano. In realtà, si può affermare che, indipendentemente dal sistema politico, il tasso di criminalità in Azerbaigian nel corso degli ultimi 50 anni è cresciuto. Ad esempio, se il tasso medio di criminalità negli anni 1961-1970 era di 13.600 crimini, quello negli anni 1971-1980 era di 14.650, e quello negli anni 1981-1990 di 15.850. Va sottolineato che in un paese con un’esigua popolazione, questa tendenza all’aumento del crimine è abbastanza evidente. 130 Dal 1981, vi è stata una crescita nei reati ordinari: il 42% nel 1981, il 45% nel 1985, il 58% nel 1990 eanche il livello dei crimini efferati e degli altri crimini violenti è in graduale aumento. Se nel 1981, sul numero totale di reati, 390 erano omicidi, poi dopo 10 anni, nel 1991, questa cifra è salita a 489. Nel 1981, sono stati commesse 222 lesioni corporali gravi, 397 nel 1991; 169 attacchi armati e 186 rapine (1981), e nel 1991, di conseguenza, 295, 213. Allo stesso tempo, il numero di stupri è diminuito: nel 1981 sono stati 119, e nel 1991 invece 48. Dal 1986, vi è stata la tendenza a una rapida crescita del furto della proprietà statale e pubblica. Così, nonostante la tenace e severa politica nell’applicazione delle sanzioni penali nel periodo dell’Azerbaigian sovietico, si è registrato un aumento dei reati, compresi quelli gravi e molto gravi. Nel 1970, la condanna media a anno di reclusione è stata applicata al 28-32% dei criminali, e dal 1970, tale percentuale non è scesa sotto il 52%. Molto spesso la pena di morte era stata imposta per una serie di reati gravi, tra cui quelli economici. Così, tra il 1971 e il 1991, vale a dire in 20 anni, in Azerbaigian sono state condannate a morte 400 persone – 20 persone all’anno. Queste, in termini generali, sono le condizioni e le dinamiche della criminalità nell’Azerbaigian sovietico. La statistica criminale nel moderno Azerbaigian negli ultimi 12 anni indica, inoltre, che la criminalità ha una tendenza in crescita. Il quadro è il seguente: 2000 - 13.958 reati; 2001 14607; 2002 - 15520; 2003 - 15206; 2004 - 16810; 2005 - 18049; 2006 - 18667; 2007 19045; 2008 - 20185; 2009 - 21.250; 2010 - 23.000; 2011 - 24.000; 2012 - 24.320 reati. È noto che reati come l’omicidio, il furto, lo stupro, la rapina e la tossicodipendenza, costituiscono il nucleo della criminalità. Pertanto, la criminalità e la sua condizione dovrebbero essere valutate non solo sulla base di dati statistici, ma anche in base alla natura e alla percentuale di crimini efferati e pericolosi. Va tenuto presente che i crimini di cui sopra rimangono invariati per decenni. Questo è un punto che deve essere preso in considerazione per determinare e prevedere i futuri tassi di criminalità. 131 Quali conclusioni si possono trarre dall’analisi dello stato, delle dinamiche e della natura del crimine in Azerbaigian? In primo luogo, dal punto di vista oggettivo, la criminalità varia da formazione a formazione, al suo interno, a seconda delle trasformazioni e dei conflitti socio-politici ed economici. Prima del crollo del regime comunista, in Azerbaigian ogni anno dal 6 al 10% del numero totale dei detenuti erano stati condannati al carcere per speculazione agricola e la stessa percentuale – per aver frodato i clienti. Naturalmente, questo riguarda il quadro complessivo della criminalità nel paese. Intanto oggi, la nostra legislazione prevede la responsabilità per crimini che non esistevano nel periodo dell’Azerbaigian sovietico. Pertanto, dobbiamo tenere a mente che, oltre ai cambiamenti oggettivi della criminalità, ci sono anche fattori soggettivi, che dipendono da cambiamenti nella legislazione e nell’applicazione pratica della legge. In secondo luogo, poiché la criminalità è un fenomeno a sviluppo dinamico, dovrebbe essere considerato all’interno del contesto dei processi che avvengono nella comunità. La criminalità emerge con particolare forza quando una società è in preda a problemi e contraddizioni di tipo economico, sociale e politico. E nessun sistema socio-politico è esente da questo modello. È giusto dire che il conflitto del Karabakh, che ha provocato circa un milione di rifugiati, ha avuto un grave impatto sulla situazione della criminalità nel periodo che va dal 1989 al 1992. In seguito, tale crescita è stata, naturalmente, facilitata dal crollo dell’Unione Sovietica, che ha provocato una crisi politica, economica e legale in tutte le repubbliche dell’URSS. C’è stato un forte aumento degli omicidi e dei reati gravi. Ad esempio, se nel 1988, in Azerbaigian erano stati commessi 285 omicidi, nel 1990 ne sono stati commessi 482, nel 1991 489. In generale, il livello medio di omicidi nel periodo 1992-1998 è stato di 450. Dal 1999, questo tipo di reato è andato diminuendo fino a raggiungere una media di 200. Non c’è dubbio che questo sia direttamente associato al raggiungimento della stabilità nel paese, soprattutto politica. 132 Pertanto, il futuro della criminalità, vale a dire dei suoi componenti fondamentali, che sono gli omicidi, i crimini particolarmente gravi e violenti, le rapine e i furti, dipendono senza dubbio dalla vita economica, sociale, politica e spirituale della società. Molto dipende anche dall’attività degli organismi coinvolti nella prevenzione della criminalità. Purtroppo, dobbiamo notare che non siamo in grado di mostrare alcun progresso in questo campo, anche se abbiamo potenti mezzi pratici. Ad esempio, sappiamo tutti che la corruzione è una delle forme più pericolose di criminalità in Azerbaigian. Porta inevitabilmente al degrado della società. La nostra legislazione prevede pene severe per la corruzione e le tangenti. Tuttavia, a causa del fatto che questo tipo di sanzione esiste solo nel Codice penale e non viene effettivamente applicata in maniera corretta, diventa oggetto di derisione. E questo fa sì che l’atteggiamento della gente nei confronti di reati quali la corruzione, o altri reati economici come il riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale, la privatizzazione illegale, ecc, attesti oggi la caduta della moralità pubblica, per l’assenza di una considerazione negativa della popolazione nei confronti di tali atti o eventi. Nella mente delle persone, questi crimini non sono più nocivi, pericolosi, immorali, e sono considerati come fenomeni perfettamente normali. Dal 1992, vi è stata una tendenza alla diminuzione costante del numero di denunce per corruzione; sembta che le tangenti nel paese siano quasi inesistenti. Inutile dire che questo non corrisponde alla realtà. Nel 1997, ci sono stati 68 casi di corruzione, del 1998 66, nel 1999 68, nel 2001 54, nel 2004 5 e nel 2007 8. Sulla base di quanto sopra e tenuto conto dello stato della criminalità in passato e oggi, possiamo concludere che nei prossimi 5 anni sarà impossibile fermare l’aumento della criminalità nel paese, a meno che, naturalmente, non siano prese le adeguate misure di natura sociale e giuridica. 133 L’ingiustizia sociale esistente che la gente non può ancora psicologicamente percepire, il divario tra ricchi e poveri, l’ineguale distribuzione della ricchezza materiale, l’impossibilità in molti casi di risolvere vari problemi nella vita con mezzi legali, avranno una forte influenza sulla psiche della persone, e in alcuni casi porteranno alla commissione di reati violenti. Pertanto, reati come l’omicidio, lesioni personali gravi, cattiva condotta, nella migliore delle ipotesi, rimarranno allo stesso livello. Il conflitto irrisolto del Karabakh avrà anche un impatto negativo su questa categoria di criminali. La condizione economica di una certa parte della popolazione contribuirà alla crescita di categorie di reati come furto, rapina, truffa, evasione fiscale. Ad esempio, il furto rappresenta ormai più del 16% di tutti i crimini. Va inoltre rilevato che oltre il 90% dei ladri, rapinatori, truffatori sono disoccupati normodotati. Ci aspettiamo che la percentuale di reati legati alla droga aumenti. In media, ogni anno nel paese si verificano circa 2.500 reati di questa natura, che rappresentano il 15% del numero totale di reati registrati. La mancanza di un’adeguata efficienza da parte degli organi competenti ci permette di giungere a questa conclusione. Pertanto, le previsioni circa il futuro delle condizioni e delle dinamiche del crimine, sia in suddivisioni territoriali e temporali, sono molto imprecise e approssimative, perché nessuno può prevedere dove, quando e chi sarà a commettere un altro crimine. Allo stesso tempo, nell’applicazione delle previsioni statistiche, è ragionevole supporre che ogni anno un determinato tipo di reati si ripeterà con alcune variazioni negli indicatori. 134 Capitolo II LA PENA Concetto e essenza. Sostanza e attributi. Diritto della pena. Futuro della pena § 1. CONCETTO E ESSENZA DELLA PENA Fondamenti filosofici e religiosi della pena. Per secoli, il concetto e l’essenza della pena sono stati oggetto di dibattiti e discussioni, che hanno dato a loro volta origine a numerosi modelli, teorie e dottrine. Anche sul significato della parola “pena” non è mai esistito un parere inequivocabile. Molti secoli fa, questa parola significava espiazione, risarcimento. Prima di allora, la pena era equiparata all’idea di vendetta. La Scuola classica la considera come la punizione e l’afflizione indirizzate su una persona. I positivisti vedono la pena come una misura di difesa preventiva e repressiva, mentre i dogmi religiosi ci dicono che la pena è una forma di castigo divino. Sembra che avesse ragione F. Nietzsche nel dire “Per quanto rigurda l’altro – oscillante – elemento della pena, il suo “significato”, in quest’ultima fase culturale (ad esempio l’Europa moderna), tale concetto in effetti non ha avuto un significato vero e proprio, ma piuttosto una sintesi di tutti i precedenti “significati” di pena nel corso della storia, la storia della sua applicazione per i più diversi scopi, infine cristallizzati in una sorta di unità, non scomponibile, difficilmente analizzabile, e, voglio sottolineare questo, completamente insormontabile.”1 135 CAPITOLO II A volte gli autori, soprattutto quelli con un’impostazione filosofica, non fanno alcuna differenza tra il concetto, l’essenza e la sostanza della pena. Questo vale anche per Platone, Aristotele e Hugo Grotius. Quando si voglia dare una definizione di pena, ci si deve chiedere cosa sia realmente. Possiamo quindi concludere che la pena è un particolare strumento di governo che mira al raggiungimento di un determinato obiettivo. Un’altra cosa è quando si voglia trovare l’essenza di tale strumento. Allora dobbiamo affermare che l’essenza della pena è l’espiazione. E infine, nel tentativo di capire da cosa sia composta la pena, potremmo rispondere: da differenti elementi di pentimento e giudizio. Si può comprendere e definire la pena solo attraverso la comprensione della sua essenza e della sua sostanza, ed ecco perché inizialmente dovremmo prendere in considerazione proprio queste ultime. Si deve tuttavia tener conto del fatto che “essenza” e “sostanza” sono concetti filosofici, non giuridici. Democrito ha scritto: “Parlerò dell’essenza delle cose.” Quindi “essenza” è una risposta alla domanda “Qual è il soggetto dell’essere?” Ciò significa che l’essenza è l’entità fondamentale di ogni cosa o fatto, in tutta la loro possibile varietà di differenze e forme. Nella logica, l’essenza è una qualità inscindibile senza la quale l’oggetto è impensabile e pertanto inesistente. D.A. Kerimov ha osservato che “L’essenza è un qualcosa di interno in contrapposizione con la sua espressione esterna, generalmente detta “fenomeno”. Si tratta di un approccio coerente, un’unità nella diversità dei fatti e delle cose.” 1 V.V. Sorokina chiarisce bene il concetto di essenza, in questo modo: “La categoria filosofica dell’essenza, è la fonte di conoscenza di tutte le cose esistenti. L’essenza è il significato interno di un oggetto, che si esprime nell’unità di tutte le diverse e contraddittorie forme dell’esistenza.”2 Di conseguenza, per comprendere l’essenza del soggetto della pena, è necessario trovare il suo nucleo, individuandone significato e comprendendo il suo obiettivo. In altre parole, l’essenza dell’infliggere la pena implica la . 136 la formulazione (definizione) di quelle caratteristiche, proprietà e qualità, interne e vincolanti, generali e elementari, principali e fondamentali, la cui unità e interdipendenza definiscono la loro specificità, la loro genesi e la loro influenza sul comportamento umano. L’essenza della pena è oggettiva; non è un fenomeno oggettivo-soggettivo, ma piuttosto una verità che rimane il significato centrale della pena fin dalla sua prima comparsa nella storia dell’uomo. Questa verità è la retribuzione. L’analisi della genesi storica delle misure punitive sembra essere la chiave per comprendere l’essenza della pena. Dobbiamo analizzare la risposta sociale ai comportamenti pericolosi o spiacevoli che a un certo punto hanno dovuto essere terminati o soppressi. Detto questo, dobbiamo anche tenere presente che l’essenza della pena, così come la stessa dottrina della pena, non possono mai fornirci risultati positivi solo sulla base di concetti giuridici e dati concreti relativi all’efficacia della sanzione penale. Si tratta di una questione più complessa, il cui studio va ben oltre l’ambito del diritto penale. Lo studio della questione della pena non potrà che restare superficiale qualora non vengano prese in considerazione, tra le altre cose, anche la filosofia, la psicologia e la sociologia. Ad oggi, siamo debitori a brillanti filosofi e altri scienziati per la conoscenza scientifica della pena, non ai criminologi. L’uomo ha sempre pensato e pensa ancora alla pena come a un castigo. Il pensiero della pena come punizione è radicato così in profondità all’interno della mente umana che egli non vede in essa altro che castigo. In ogni caso, la pena mira alla soddisfazione e al recupero della vittima, in altre parole – a infliggere una punizione al colpevole per il danno compiuto. Quindi lo scopo principale della pena è in effetti la retribuzione per il crimine commesso. Ma cos’è davvero la retribuzione? Non è certo una retribuzione in termini di vendetta, ma piuttosto una giustizia assoluta, una richiesta di pena che diventi espressione del giudizio morale e sociale per aver commesso il crimine. 137 S.P. Mokrinskiy osserva: “La moderna sanzione, che ha origine nell’antichissima faida e nella vendetta collettiva, ha poco a che fare con i suoi prototipi storici. Vendicare se stessi o vendicarsi per il bene altrui implica una forte risposta emotiva, un’esasperazione contro il soggetto della vendetta. Al contrario, la retribuzione è assolutamente compatibile con la compassione per i colpevoli, non essendo basata sul danno provocato, ma su un momento astratto del torto, di violazione colposa delle regole morali.”1 Il nostro atteggiamento verso la persona colpevole di un crimine – verso il criminale – è basata sul nostro concetto di punizione. La pena è una giusta retribuzione non in quanto manifestazione di potere o forma di coercizione amministrativa atta a provocare l’afflizione di una persona per aver commesso un reato, ma piuttosto per il fatto che questa reazione è attesa e approvata dalla società, perché soddisfa il loro senso civico della giustizia, essendo prevista come sanzione per quello che loro considerano un atto socialmente dannoso. Ai suoi tempi, B.N. Chicherin ha espresso un pensiero molto ragionevole: “La vera teoria della pena è quella che costituisce l’essenza stessa del diritto – la verità secondo cui la legge dà a ciascuno il suo.” 2 Gli antichi filosofi sono inoltre convenuti sul fatto che la pena è fondamentalmente una retribuzione. Aristotele, ammettendo che la pena è una retribuzione, ha scritto che la gente ha cercato di rendere male per male, e se tale forma di retribuzione era impossibile, allora questo stato di eventi era considerato al pari di una schiavitù. Tali idee si ritrovano anche nelle opere di Platone, Cicerone e Seneca. Questa filosofia della pena è stata una delle prime formule legislative del mondo antico e la più in linea con le opinioni prevalenti in merito al diritto di infliggere la pena come una manifestazione dell’istinto di vendetta. 138 Non sembra possibile trovare alcuna dottrina sull’essenza vendicativa della pena negli scritti dei filosofi greci e romani, nonostante alcuni abbiano lasciato in eredità aforismi e asserzioni su questioni di diritto penale. La dottrina della “pena come vendetta” non aveva avuto una più o meno chiara interpretazione fino a Hugo Grotius che identificò la pena con la legge del taglione, con una reciprocità, avvalorando le proprie idee con gli esempi forniti dalla storia. Tuttavia, questa teoria è finalmente maturata ed è diventata popolare solo nella successiva filosofia tedesca. Kant è stato il primo filosofo a riconoscere il concetto di vendetta come unica essenza della punizione, postulando “Il male richiede un ritorno del male, poiché solo una punizione basata sull’uguaglianza può definire la misura e la portata della pena, o meglio un’azione altrettanto efficiente condotta sul colpevole in quanto tale.”2 La teoria della pena retributiva di Hegel ha avuto un significato particolare per lo sviluppo delle idee filosofiche e per la dottrina del diritto penale. Secondo la sua teoria, la legge deve essere salvaguardata dalla punizione per la sua violazione, attraverso la sottomissione della volontà privata al sapiente e auto-esistente libero arbitrio, vale a dire alla legge. Hegel afferma che, “La pena è una retribuzione, ma non dello stesso valore del danno fatto in combinazione con il danno a lui provocato dalla sanzione penale.”3 Quindi, la teoria assoluta della pena di Kant e di Hegel comprende una pena retributiva per l’azione commessa e un rimborso per essa: il crimine è un peccato, e la punizione diventa un atto di espiazione. L’unica differenza è che Kant ha sviluppato una teoria della retribuzione materiale, mentre Hegel pensava a una retribuzione dialettica. La prospettiva kantiana della retribuzione richiedeva un’uguaglianza aritmetica, mentre quella hegeliana una commensurabilità geometrica, un’equivalenza. 139 La dottrina della pena retributiva ha origini religiose, quindi non c’è da stupirsi che i testi religiosi contengano i primi tentativi di interpretazione della pena. Iniziando l’analisi dai testi sacri, si può vedere che lì la punizione era uno strumento dell’influenza divina originariamente stabilito da Dio per controllare l’essere umano da Lui creato. Si pensa che le prime teorie teologiche sulla pena si siano basate sui dogmi del Vecchio Testamento: la punizione era una vendetta per il male commesso, un’intimidazione attraverso le regole della legge del taglione – “occhio per occhio” (Deuteronomio 19-21). Stringendo il suo primo patto con Adamo, il Signore lo ha avvertito di non mangiare i frutti dell’ “Albero della conoscenza del bene e del male,” altrimenti “ne moriresti” (Genesi 2:17). Quindi è possibile che la legislazione penale abbia avuto origine dallo jus divinum, e che il primo essere umano – Adamo – sia stato il primo criminale, e può anche essere considerato il primo uomo a essere incorso nella somma punizione – la pena di morte. È anche importante capire l’essenza della pena così come è stata definita da Dio. La pena è una retribuzione: “farò vendetta dei miei avversari, ripagherò i miei nemici” (Deuteronomio 32, 41). Il problema relativo all’espressione “ne moriresti”, cioè sulla pena di morte, è ambiguo. Ma in qualsiasi modo la si interpreti, non si può ignorare che l’argomento in questione sia una punizione per la disobbedienza, per la violazione di un divieto, della prima legge di sempre, e che questa sanzione sia capitale, e che venga dallo stesso Dio. È stata disposta per impedire che il peccato commesso da Adamo (un “crimine” dal punto di vista giuridico) si perpetuasse, dal principio a “vita eterna” (Genesi 3: 22). Anche l’Islam, come religione mondiale, associa la pena al concetto di retribuzione (vendetta). Il Corano ammonisce le persone dall’infrangere la legge, “In verità Allah non ama coloro che eccedono”(Corano, Sura 5 Al-Ma'ida, Ayah 87). Questo è un importante principio di base per la comprensione dei concetti di criminalità e pena. L’Onnipotente ammonisce gli uomini dall’infrangere le leggi da Lui stabilite, perché Lui non ama coloro che non sono soggetti alla Sua volontà. Questo messaggio, o meglio questo avvertimento da parte di Allah, può anche servire come garanzia di retribuzione (vendetta) per coloro che disobbediscono. In ciò che segue, il Corano diventa più specifico e spiega questo principio agli uomini. 140 “Lasciate la forma e la sostanza del peccato. Coloro che si caricano del peccato saranno compensati per quello che avranno guadagnato”.(Corano, Sura 6, Al-’An’am, versetto 120). In questo caso, il Corano intende il “peccato” in senso generale, quello che comprende i diversi atti criminali possibili. L’essenza della pena, secondo il Corano, non è solo la retribizione, ma anche un’ammonizione che comporta gentilezza, compassione e cura, creando così le condizioni per prevenire la commissione di nuovi reati. “Chi verrà con un bene, ne avrà dieci volte tanto e chi verrà con un male ne pagherà solo l’equivalente. Non verrà fatto loro alcun torto. Corano, Sura 6 Al-'An'am, versetto 160). Secondo il Corano, la retribuzione come essenza della pena si caratterizza per le seguenti peculiarità. In primo luogo, la retribuzione dovrebbe essere giusta, cioè equivalente. “La sanzione di un torto è un male corrispondente, ma chi perdona e si riconcilia, avrà in Allah il suo compenso. (Corano, Sura 42 Ash-Shuraa, versetto 40). Il versetto 45 della Sura 5 specifica il principio della sanzione: “Per loro prescrivemmo vita per vita, occhio per occhio, naso per naso, orecchio per orecchio, dente per dente e il la sanzione legale per le ferite.” In secondo luogo, l’Onnipotente ha deliberato il grande vantaggio che hanno ricavato gli uomini attraverso la prescrizione del Corano di praticare la vendetta, salvando così la vita di molte persone trattenendole dal commettere crimini. Nel contrappasso c’è una possibilità di vita, per voi che avete intelletto. Forse diventerete timorati [di Allah]. (Corano, Sura 2 Al-Baqara, versetto 179). In terzo luogo, il Corano incoraggia e sostiene le azioni di coloro che sono in grado di perdonare e risolvere i problemi, così come di portare la pace, poiché Allah non vuole la vendetta, egli favorisce la soluzione pacifica, se è possibile. “La sanzione di un torto è un male corrispondente, ma chi perdona e si riconcilia, avrà in Allah il suo compenso. In verità Egli non ama gli ingiusti.” (Corano, Sura 42 Ash-Shuraa, versetto 40). In quarto luogo, il Corano, così come gli altri testi sacri, avverte le persone circa la retribuzione (la vendetta), non solo in questa vita, ma anche nell’aldilà. 141 Il Corano dà una risposta chiara alla domanda fondamentale: cosa accade a coloro che non ricevono un’adeguta ricompensa nel corso della loro vita mortale sia per le azioni buone sia per quelle cattive che hanno commesso? La vita terrena è fugace, e nell’aldilà saremo giudicati in base al modo in cui abbiamo superato le sfide del nostro cammino terreno. A coloro che non credono che ogni retribuzione nell’aldilà sia meritata, il Corano chiede: “Dovremmo trattare coloro che hanno commesso la violenza, omicidio, frode e tortura ad altri, nello stesso modo con cui trattiamo coloro che hanno avuto cura dei malati, sostenuto le vedove e gli orfani, speso le proprie ricchezze per aiutare i poveri e fatto del loro meglio per seguire la guida di Allah?” Le descrizioni delle torture dei dannati che si possono trovare nel Corano sono così orribili e persuasive che sono per i credenti una motivazione davvero forte. “La punizione di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che gli toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno un castigo immenso”(Sura 5 Al-Ma'ida, Ayah 33). Ma che cosa sono questo “castigo immenso” e questa “tortura” così spesso citati nel Corano? “...questi sono i compagni del Fuoco; in cui rimarranno in eterno”(Corano, Sura 7 Al-'A'raf, versetto 36). Il Vangelo rivendica quasi la stessa cosa: “Ma se voi non perdonate, neppure il Padre vostro che è nei cieli perdonerà i vostri peccati” (Marco 11: 24-26). “Il Fuoco è la vostra dimora e vi resterete in perpetuo, a meno che Allah voglia altrimenti” (Corano, Sura 6 Al-'An'am, versetto 128). Ancora più terribile è la punizione di cui si fa menzione nella Sura 10 Giuno, versetto 4: “Quanto a coloro che sono stati miscredenti, saranno abbeverati con acqua bollente e avranno un castigo doloroso a causa di ciò che hanno negato”. Allah creò anche Gehenna, una delle punizioni menzionate nel Corano come retribuzione nell’aldilà. Vale la pena ricordare che il Corano mette in guardia le persone non solo dalle severe pene nell’aldilà per i crimini commessi nella loro 142 vita mortale, ma ricorda loro anche delle ricompense che possono essere guadagnate dai fedeli e dalla gente in generale, per le buone azioni. “Annuncia loro un doloroso castigo, eccetto che per coloro che credono e compiono il bene: essi avranno ricompensa inesauribile”. (Corano, Sura 84 Al-'Inshiqaq, versetti 24-25). Ma che cosa è questa ricompensa? “E coloro che hanno creduto e operato nel bene, sono i compagni del Paradiso e vi rimarranno in eterno”.(Sura 2 Al-Baqara, versetto 82). Il Corano spiega anche cos’è il Paradiso: “In verità Allah introdurrà nei Giardini dove scorrono i ruscelli coloro che credono e operano il bene. Colà saranno adornati di bracciali d’oro e di perle e le loro vesti saranno di seta”(Sura 22 Al-Haj, versetto 23). Ma perché Allah non punisce le persone che commettono il male in questa vita? Il Corano ha una risposta molto saggia a questa domanda: Se Allah [volesse] punire [tutti] gli uomini delle loro colpe, non lascerebbe alcun essere vivente sulla terra. Li rimanda fino al termine stabilito. Quando poi giunge il termine, non potranno ritardarlo di un’ora né anticiparlo. (Corano Sura 16 An-Nahl, versetti 61-62). Così solo Allah ha il diritto di decidere chi, quando e cosa punire, poiché Allah si sforza di far vivere le persone senza il male, l’odio e crimini verso il prossimo, non solo nella loro vita mortale, ma anche nell’aldilà. “Monderemo il loro petto da ogni risentimento e staranno fraternamente su troni, [gli uni] di fronte [agli altri]. Non proveranno fatica alcuna e mai verranno espulsi. Sura 15 Al-Hijr, versetti 47-48). Così, la religione legittima il diritto delle persone di vendicarsi e punire le persone che hanno versato sangue e macchiano l’anima umana, attraverso il principio: “Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso.” Allo stesso tempo, Dio impone all’uomo una parte di questo onere della retribuzione, come se si allontanasse dal suo stesso principio: “La vendetta è mia; Io darò la punizione.” L’analisi dei concetti biblici e coranici di rivalsa, punizione, vendetta, giudizio e altre categorie punitive ci mostra quanto può essere profonda e completa la visione degli antichi, quanti significati avevano e quanto bene li hanno conservati fino ai giorni nostri. 143 Per riassumere, studiando il Corano e la Bibbia possiamo trovare concetti e idee che esprimono la vera essenza delle antiche credenze dell’uomo sulla vita e sulla morte, sull’omicidio e la criminalità, la vendetta, il giudizio e la pena. Anticipando di diversi secoli le opere di S. Freud e F.B. Skinner, il Sacro Corano ha offerto all’uomo importanti dogmi sulla vita dopo la morte per quanto riguarda l’esperienza di massimo piacere, chiamata Sa‘id, che significa “benedetto” o “felice”, così come il calvario più terribile – chiamato Shaqi , che significa “maledetto” o “infelice”. Secondo il Corano, le persone che raggiungono il Sa‘id meritano di essere mandati in paradiso, mentre coloro che hanno esperienza dello Shaqi, sono dannati. È difficile trovare un uomo che voglia negare la grande importanza della religione in materia di educazione dei popoli, attraverso i principi dell’inclinazione al bene e della riprovazione del male. Vale anche la pena ricordare che la fede nella retribuzione (la vendetta) nell’aldilà per il male (reato) si può trovare in tutte le tribù, le nazioni e le comunità umane sotto forma di resurrezione della vittima del crimine. La dottrina indù sulla vita dopo la morte, e la filosofia buddista da cui in gran parte deriva, hanno ipotizzato che la metempsicosi è un importante e diretta ricompensa o punizione, ogni forma della quale è deperibile e non permanente. Se un uomo diventa una pianta, un rettile, una donna, un brahmano, un saggio, dipende totalmente da lui e dal suo comportamento in questa vita. Il che significa che nel caso in cui una persona non cancelli i propri peccati attraverso il pentimento, rinascerà come una creatura malata; ma se muore con una coscienza pulita, avrà la possibilità di rinascere come un essere umano perfetto. La Manusmirti e la Visnu Purana possono essere classificati come testi giuridici, in quanto comprendono codici di condotta di alta precisione, nonché un elenco di pene per chi infranga questi codici. 144 I più grandi criminali vengono rigenerati da una specie di piante all’altra, passando così attraverso tutte le forme del regno vegetale. Le persone che hanno commesso un peccato mortale rinascono sotto forma di vermi e insetti. Le persone che hanno commesso reati minori rinascono sotto forma di altri tipi di animali. I criminali di quarta categoria si trasformano in animali acquatici. Coloro che hanno commesso reati punibili con l’esilio dalle caste rinascono come anfibi (Visnu Purana, XLIV. 2). Secondo questa legge, una persona che abbia usurpato la proprietà delle strade rinascerà come un serpente che vive nelle caverne. Coloro che si siano appropriati indebitamente del grano saranno trasformati in topi. Coloro che si siano appropriati indebitamente dell’acqua verranno trasformati in giochi acquatici. L’effetto intimidatorio della pena nell’aldilà, attraverso la trasmigrazione dell’anima da una creatura all’altra ha avuto una forte influenza sulle regole utilizzate nella vita comune, che sono state poi incluse nei libri giuridici. La violazione delle regole, la commissione di reati, le azioni malvagie che contravvengono alle leggi esistenti sporcano l’anima del trasgressore con macchie che possono essere eliminate solo con il pentimento personale, altrimenti tali macchie resistono fin dopo la morte della persona e allora possono essere purificate solo con una ritorsione ancora più dura. Secondo la legge induista, se un bramano viene ucciso, il numero di granelli di polvere macchiati col suo sangue sul caldo suolo indiano segneranno il numero di millenni che l’assassino dovrà passare all’inferno, vale a dire nell’aldilà (Manusmṛti, XI. 20). Vale anche la pena ricordare che i giuristi musulmani e cristiani hanno sempre prestato molta attenzione al concetto di pena. Allora, tutti hanno sicuramente pensato che la pena fosse la retribuzione. Abdel Kader Auda scrive: “La punizione è la retribuzione per la disobbedienza, imposta pro bono publico.” 1 145 Ahmad Fahti Bahnasi condivide quasi lo stesso punto di vista, sottolineando che la punizione è una retribuzione preregolata da parte dello Stato per la violazione dei divieti e al fine di prevenire la criminalità, sia per il condannato che per le altre persone.1 Al-Mavardi definisce la pena come segue: “Lo huddut (punizione stipulata nel Corano – IR) è la pena imposta da Allah per la violazione dei divieti; come la natura umana comprende sia la sete di piacere sia la coscienza della pena promessa nell’aldilà per la violazione dei divieti, così huddut è una promessa di dolore prevista per trattenere lo sconsiderato dal compiere malefatte.”2 Questa definizione profonda e completa contiene diversi aspetti particolarmente interessanti. In primo luogo, la definizione da parte di Al-Mavardi ha di certo un evidente contesto religioso, perché giustifica e comprova la prevenzione della criminalità, non solo nella tutela degli interessi sociali, ma anche per la paura delle torture promesse da Allah nell’aldilà. Questo aspetto è davvero fondamentale. Inoltre, l’autore, a differenza di altri avvocati, mette in evidenza che la pena, allo stesso modo dei divieti, è stabilita e fornita non dai legislatori, ma dallo stesso Allah. In secondo luogo, al-Mavardi postula le ragioni della condotta criminale umana, collegandole con le caratteristiche psicologiche interne della personalità. Così, l’autore si accosta all’idea che le cause principali del crimine risiedono nelle caratteristiche umane di natura biologica. In terzo luogo, questa definizione sottolinea il ruolo della pena nella prevenzione delle malefatte, il che contraddice gli obiettivi indicati poi nel Corano, attraverso l’intimidazione e la promessa di sofferenza. Così, la religione stabilisce la pena sia come retribuzione sia come misura correttiva, un insieme di gentilezza, compassione e guarigione. 146 È facile notare che i filosofi considerano la pena come un concetto filosofico, e che gli ecclesiastici la considerano come un fenomeno di natura divina. In realtà, non siamo in grado di conoscere la verità sulla pena solo attraverso i testi filosofici e quelli sacri, anche se sono mezzi metodologicamente versatili, strumenti, metodi e campi per comprendere la natura sociale e la psiche. Ma nel dare la definizione di pena, il giurista non può fare a meno di concetti di natura puramente giuridica. La cosa principale da ricordare è che non saremo mai in grado di cogliere il concetto di pena se iniziamo separando la legge dal mondo reale di fatti e fenomeni che sono alla sua base. G.V. Maltsev ritiene che il castigo sia una forma di soddisfazione del beneficiario attraverso l’afflizione della sanzione alla persona che ha causato il danno.1 Secondo la definizione di N.S. Timashov, la retribuzione è una conseguenza che si verifica in seguito a un atto che può essere considerato come positivo o negativo da una struttura giuridica, un destino dell’esecutore dell’atto che è equivalente al valore intrinseco dell’atto.2 In parole povere, la retribuzione è la vendetta, il rimborso, il risarcimento del bene o del male alla persona che ha commesso una buona o una cattiva azione. Utilizzando le categorie filosofiche, si può definire la retribuzione come un modo e un mezzo per arrivare alla giustizia. Pertanto, una retribuzione non equivalente è ingiusta. Da dove viene la retribuzione? Michel de Montaigne ha scritto “La vendetta è la più deliziosa passione, ha una certa dignità, ed è del tutto naturale.”3 Sembra che questa passione sia associata ad una brama di pareggiare, perché è umano desiderare che il male per cattive azioni venga resituito. Ecco perché pensiamo alla retribuzione con un senso di soddisfazione e la riteniamo giusta. 147 Naturalmente, stiamo parlando di castigo, e vendetta che siano però equi e giusti. La vendetta di sangue ha avuto origine dall’antico concetto di giustizia retributiva riguardante quella parte di essa che richiede l’istituzione di una proporzionalità tra un male, atto scuro e la risposta, che comporta la vendetta per esso.1 Secondo un’opinione largamente diffusa, la prima espressione del concetto di pena, la punizione, era la vendetta di sangue. Fu solo in seguito che venne istituita la consuetudine di essere puniti per la colpa. Questo processo si è concluso quando lo stato ha abrogato l’autorità di farsi giustizia da soli. Ricordiamo le opinioni di alcuni famosi autori come esempio. A.M. Bogdanovskiy ha scritto: “In ogni parte del mondo, la prima forma di pena come rivalsa per il male è stata la cosiddetta vendetta, o, in senso più ampio, arrogazione. Presto o tardi, questa formula è stata sostituita da un’altra, più giusta, meno ambigua, il cosiddetto sistema di compensazione. L’idea della pena in questa formula è sopravvissuta nel diritto pubblico per molto tempo, ed è cambiata solo dopo la comparsa della nozione di Stato come organismo vivente integrato, e della criminalità come azione ostile a questo organismo. A partire da questo periodo, si è sviluppato un concetto supremo di pena come retribuzione per il crimine, abusando del concetto di diritto, il corpo più completo di cui lo stato è espressione.”2 Secondo I.Ya. Foynitskiy, nelle fasi iniziali della storia della pena, le azioni punitive erano intraprese dagli individui che avevano subìto gli atti criminali. Non c’era nessuna pena, ad eccezione della vendetta. A poco a poco, i gruppi sociali cercarono di concentrare nelle loro mani l’autorità punitiva e di affrontare i criminali senza interferenze private. 148 La vendetta personale e la personalità della vittima sono così sbiadite fino a perdere significato. L’autore ritiene che nel moderno ordinamento giuridico delle nazioni civili, la fusione dei gruppi sociali ha portato a una situazione in cui il diritto finale di erogare le pene apparteneva esclusivamente allo Stato in quanto soggetto legale1. Enrico Ferri sostiene che la pena, dalla sua origine ad oggi, ha subìto quattro fasi di evoluzione: da quella elementare, cioè reazione, difesa e vendetta, si è evoluta nella fase religiosa (divina manifestazione di potenza), poi nella fase etica (espiazione medievale) e, infine, in quella giuridica. Egli ritiene che sia necessario avviare e realizzare una fase sociale, nella quale, in virtù delle recenti statistiche antropologiche e penali sui dati del crimine, la pena cessa di essere una retribuzione equivalente alla colpa morale (fase etica giuridica), ma comprende piuttosto una combinazione di misure sociali proattive e repressive. Queste ultime, riecheggiando la natura e le origini del reato, sono un modo migliore e più umano di salvaguardare la società dagli attacchi criminali.2 Per questo motivo, l’evoluzione della vendetta pura in sanzione penale pubblica dovrebbe essere associata al tempo di formazione dello stato. Anche Hegel ha scritto su questo.3 L’idea che la vendetta di sangue sia la forma da cui ha avuto origine la sanzione penale si basa sulla supposizione che la reazione di un individuo (della vittima) a tali azioni dannose e pericolose come l’omicidio, il saccheggio, rapina e così via, nelle prime fasi dello sviluppo umano fosse ragionevole. Questa reazione corrisponde alla consuetudine della vendetta di sangue e aveva carattere privato. 149 150