FULVIO SCAGLIONE
IL PATTO CON IL DIAVOLO
futuropassato
Proprietà letteraria riservata
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A./BUR Rizzoli
ISBN 978-88-17-08828-2
Prima edizione BUR Futuropassato maggio 2016
Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
Le mappe sono di Elena Lombardi
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IL PATTO CON IL DIAVOLO
Introduzione
I confini dell’Isis
Prima l’uovo o prima la gallina? Anche con l’Isis e i suoi
numerosi parenti ha un senso la domanda. Sono i terroristi a generare il terrore o è il terrore a far nascere i terroristi? È il radicalismo a produrre lo sfascio del Medio
Oriente o è lo sfascio a potenziare il radicalismo? Il gioco di specchi è perenne e alimenta due atteggiamenti
contrapposti e perfettamente corrispondenti. Quello
dell’Occidente, che si sente minacciato dai fallimenti
dell’islam politico, dei quali ritiene di non avere alcuna
colpa o responsabilità. E quello del mondo islamico mediorientale, convinto che tutto, dalle sue parti, sarebbe
stato perfetto se solo gli occidentali non ci avessero messo il naso e il portafoglio. Due vittime e nessun carnefice.
Ma esiste un giorno zero, un momento fondativo, un
peccato originale? C’è un passo della storia in cui gli
eventi avrebbero potuto prendere una piega diversa?
Secondo i jihadisti dell’Isis sì, e ce l’hanno indicato con
grande clamore e precisione. Torniamo ai primi giorni
di giugno del 2014: l’Isis è ormai uscito dall’ombra di
Al-Qaeda, ha affrontato una serie di pesanti scontri con
i miliziani di Al-Nusra (la formazione armata che rappresenta Al-Qaeda nella guerra civile in Siria) e ha conquistato la preminenza tra i gruppi armati in conflitto
contro Bashar al-Assad e il suo regime. A questo punto,
i siti islamisti legati all’Isis fanno piovere sui social network decine di fotografie e di filmati che sono autentiche dichiarazioni programmatiche.
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Il patto con il diavolo
Le immagini sono state scattate a Yarubia, rudimentale posto di confine tra Siria e Iraq. Si vedono ruspe e
mezzi pesanti di produzione americana che i jihadisti si
sono appena procurati conquistando la grande città irachena di Mosul e saccheggiando le caserme dell’esercito
iracheno in fuga: stanno scavando una pista, una sorta di
rozza strada attraverso i terrapieni sabbiosi che delimitano la frontiera. Ancor più chiari i video, in cui terroristi
barbuti con la passione della divulgazione storica spiegano che non riconosceranno mai i confini «artificiali» dei
Paesi del Medio Oriente e che abbatteranno la costruzione imperialistica nata con l’accordo Sykes-Picot, a cui
alcuni di quei filmati fanno riferimento nei loro titoli come si trattasse di cosa nota a tutti.1 E in effetti, in Medio
Oriente, chiunque abbia fatto un po’ di scuola conosce
quei due nomi. In Occidente, invece, quasi nessuno.
Non poca cosa, le dichiarazioni dell’Isis. Anche perché alcuni giorni più tardi, il 29 giugno 2014, l’avvocato
iracheno Ibrahim Awwad Ibrahim Ali al-Badri, ex detenuto nelle carceri di Camp Adder e Camp Bucca gestite
dall’esercito di occupazione americano in Iraq, viene
proclamato califfo col nome di Abu Bakr al-Baghdadi.2
Nel mondo islamico proclamarsi o farsi proclamare
califfo, e di conseguenza annunciare la nascita di un ca1
Alcuni di questi video possono tuttora essere recuperati in rete. Per
esempio su https://www.youtube.com/watch?v=AzDJgv6sNYI oppure
https://www.youtube.com/watch?v=TxX_THjtXOw.
2
Al-Baghdadi vuol semplicemente dire «di Baghdad», «originario di
Baghdad» (anche se probabilmente è nato a Samarra). Abu Bakr, invece, è
il nome del primo successore di Maometto, quindi del primo califfo
dell’islam. Fu il primo uomo a convertirsi all’islam (la prima in assoluto
fu invece Khadija, moglie di Maometto), e con le risorse accumulate grazie alla sua fortunata attività di mercante contribuì notevolmente alla diffusione del nuovo credo. Molto rispettato tra i musulmani (era detto AlSiddiq, il Veritiero), fu l’unico dei primi quattro califfi a morire di morte
naturale e durante il suo breve califfato (632-634) riuscì a estendere il dominio dell’islam su tutta la Penisola Arabica.
I confini dell’Isis
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liffato o l’intenzione di crearne uno, è un passo importante, una mossa che, ben oltre le conseguenze pratiche,
produce un insieme di suggestioni storiche, religiose ed
emotive. «Califfo» e «califfato» derivano entrambi
dall’arabo khalifa, che vuol dire «successione», «reggenza», «vicariato», e rimandano alla soluzione ideata dai
compagni di Maometto dopo la sua morte, nel 632, per
garantire una guida politica e spirituale alla comunità
islamica. Il califfo, pertanto, sarebbe il supplente del
Profeta sulla terra, incaricato di governare i musulmani e
difenderli: un’investitura che, nella forma originaria o
sotto il sinonimo di amir al-muminin (comandante dei
credenti), tutti gli aspiranti alla leadership del mondo
islamico hanno cercato, dal genero di Maometto, Ali, ad
Al-Baghdadi passando per gli ottomani e per Osama bin
Laden, che prediligeva, appunto, il titolo di amir.
Fin dalla nascita, l’islam «politico» guarda al passato, all’esempio fissato da Maometto e dai primi califfi,
suoi seguaci della prima ora.3 L’idea di un’età dell’oro
dell’islam, di un momento perfetto, di una serie di pratiche ottimali a cui tornare, non nasce con il radicalismo
islamico contemporaneo (che peraltro la riprende, la
esalta e ne fa non solo una filosofia ma anche una prassi politica) ma è insita nell’islam sunnita che, non a caso, definisce «ben guidati» i primi quattro successori di
Maometto (Abu Bakr, alla testa della comunità dal 632
al 634; Omar, dal 634 al 644; Othman, dal 644 al 656; e
Ali, dal 656 al 661), lasciando intendere che i successivi
potrebbero anche non essere stati altrettanto illuminati.
Gli stessi primi quattro califfi, peraltro, per quanto ben
guidati non erano certo apprezzati dall’intera comunità
musulmana, visto che gli ultimi tre vennero assassinati.
3
Un’analisi più approfondita di questo concetto, come del rapporto di
potere che lega suddito e califfo, di cui si parla più avanti, è offerta da
G. Sale, Isis Islam e cristiani d’Oriente, Jaca Book, Milano 2016.
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In quanto successore del Profeta, una volta insediato il califfo dovrebbe essere politicamente intoccabile.
A prescindere da come si guadagna il titolo (i primi quattro furono scelti da un gruppo ristretto di saggi, quelli seguenti lo divennero grazie alle armi o per diritto dinastico), i sudditi gli dovrebbero obbedienza incondizionata,
sia egli il più crudele dei tiranni o il più benevolo dei capi.
Dal punto di vista religioso, sempre perché successore del
Profeta, il califfo non gode però di alcuna autonomia: il
suo compito, infatti, è assicurare la fedeltà della comunità al Corano e alla Sunna,4 i testi sacri che costituiscono la sharia. In altre parole: scopo del califfo è realizzare
sulla terra quanto prescrive la legge islamica e gli si deve
obbedire proprio per raggiungere questo obiettivo. Ecco
perché i movimenti dell’estremismo islamico, anche quelli non jihadisti, accusano i moderni «califfi» (presidenti,
dittatori, re o sceicchi) di secolarismo o di compromissione con le idee e i valori occidentali: il quietismo politico
incarnato da questi capi giustifica la ribellione dei loro
«sudditi», che considerano tradito il patto con il potere.
Il 5 luglio 2014, insignito del nome «rubato» al primo
dei successori di Maometto e di un titolo che attinge a
quindici secoli di storia dell’islam, il piccolo avvocato che
già da quattro anni è uno dei tre terroristi most wanted
della lista dei ricercati dai servizi segreti americani 5 si
presenta nella grande moschea Al-Nuri di Mosul per ri4
La Sunna (arabo per «consuetudine», «norma», «tradizione») è la raccolta, codificata nei primi secoli dopo la morte di Maometto, dei comportamenti tenuti dal Profeta in determinate situazioni e dei suoi detti a proposito di particolari problemi, come riferiti da fonti degne di fede in brevi
hadith (racconti). Comportamenti e detti che fanno, appunto, «norma»,
«tradizione». Sunniti sono, per definizione, i musulmani che si attengono
alla tradizione, che seguono le norme.
5
Oggi Al-Baghdadi occupa il secondo posto in questa lista, preceduto solo
da Ayman al-Zawahiri, ormai storico capo di Al-Qaeda in Iraq. Sul capo di
Al-Baghdadi pende una taglia di dieci milioni di dollari. Si veda https://
www.rewardsforjustice.net/english/most-wanted/all-regions.html.
I confini dell’Isis
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volgere la sua prima allocuzione al popolo. È chiaro, dunque, che il califfo e il califfato sono figli di quei bulldozer
e che il loro cammino politico procede lungo la rozza pista scavata a Yarubia. Il califfo e il califfato, infatti, possono esistere solo se parlano alla umma,6 alla comunità dei
musulmani nella sua interezza, senza le divisioni artificiali rappresentate dai confini e le costrizioni degli Stati-nazione. D’altra parte, anche la umma, nell’assenza irrimediabile di Maometto, non può esistere o resistere senza il
califfato e il suo califfo. È anche per questo che Al-Baghdadi ha scelto di attribuirsi proprio il nome di Abu Bakr,
che dopo la morte di Maometto si batté per impedire alle
tribù ribelli di sciogliere il vincolo di fedeltà e ristabilire
le antiche divisioni e zone d’influenza. In una parola: i
confini.
Nell’ottica di questo nuovo califfo i confini sono il
frutto di un’imposizione imperialista degli infedeli ma
soprattutto sono anti-islamici. E vanno abbattuti. In primo luogo quelli disegnati dall’irruzione dell’Occidente
in Medio Oriente all’epoca della Prima guerra mondiale,
quando Francia e Gran Bretagna fissarono appunto
nell’accordo Sykes-Picot la spartizione dei possedimenti
dell’Impero Ottomano (a sua volta un califfato) in agonia. E pazienza se il confine tra Iraq e Siria a Yarubia non
c’entra nulla con quell’accordo che, quando fu firmato
nel 1916, teneva sia Mosul (Iraq) sia Aleppo (Siria) entro
la zona assegnata al controllo francese. Mosul fu tolta ai
francesi e trasferita all’Iraq controllato dalla Gran Bretagna solo nel 1925, quando fu chiaro agli inglesi che la regione era ricca di petrolio. Ma poco importa: i bulldozer
6
Umma è un termine arabo con la stessa radice del vocabolo che significa
«madre» (in arabo umm) e vuol dire «comunità», per estensione «comunità dei fedeli», «comunità dei musulmani». Viene usato in questo senso fin
dal 622, da quando cioè Maometto si trasferì con i suoi seguaci a Medina,
dove scrisse la famosa Costituzione (o Rescritto) che dava alla umma anche uno statuto legale.
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Il patto con il diavolo
hanno bisogno di qualcosa da abbattere e un posto di
frontiera vale un tempio di Palmira, purché possa essere
usato come simbolo.
La cosa più curiosa, però, è che adesso anche in Occidente molti sembrano pensarla come l’Isis: meglio abbattere i confini nati dall’accordo diplomatico tra Francia e Gran Bretagna e dai successivi arrangiamenti. E
anche qui: lo pensiamo perché esistono l’Isis e i suoi parenti o esistono l’Isis e i suoi parenti perché nell’ultimo
secolo non abbiamo mai smesso di smontare e rimontare
una costruzione mal concepita fin dall’inizio?
Chissà. Resta il fatto che il coro si allarga di giorno in
giorno, con soddisfazione di qualche vecchio adepto.
Per esempio di Joseph «Joe» Biden, vice del presidente
Barack Obama ma nel 2006 semplice senatore democratico. Il 1° maggio di quell’anno Biden firmò, con Leslie
Gelb,7 un editoriale sul «New York Times» che auspicava la ripartizione dell’Iraq in tre regioni largamente autonome e fondate su base etnico-religiosa: una per gli sciiti,
una per i sunniti, una per i curdi. La proposta incontrò il
parere favorevole del Senato americano ma fu ignorata
dall’amministrazione Bush. Inutile dire che Biden è tuttora un convinto sostenitore di questa ipotesi, ispirata,
nel suo pensiero, da quanto accaduto, o fatto accadere,
nei Balcani negli anni Novanta. Non sono pochi, in realtà, quelli convinti che in Medio Oriente possa applicarsi
con successo il modello dei Balcani. Dopo che la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia fu disintegrata in
7
Leslie Howard Gelb è stato a due riprese (1973-1977 e 1981-1993) corrispondente diplomatico e editorialista del «New York Times». Tra il
1977 e il 1979 è stato assistente al segretario di Stato nell’amministrazione di Jimmy Carter. Lasciata la carriera giornalistica, Gelb è diventato presidente del Council on Foreign Relations, di cui era presidente
emerito al momento della pubblicazione dell’articolo qui citato, reperibile all’indirizzo: http://www.nytimes.com/2006/05/01/opinion/01biden.
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