L'epistemologia e le simmetrie della fisica moderna L'epistemologia (dal greco επιστήμη episteme, "conoscenza certa" ossia "scienza", e λόγος logos, "discorso") è quella branca della filosofia che studia criticamente la struttura logica della scienza, cioè una riflessione filosofica sul linguaggio, sulla metodologia, sull'organizzazione interna e sui risultati delle varie scienze per definire la natura, il valore e i limiti del sapere scientifico. L'epistemologia è una creazione della filosofia moderna, ma non è così per il sapere scientifico stesso, che deve le sue origini ai greci. Orbene, il sapere scientifico ha assunto due configurazione principali. Nella prima, che è quella dei greci, fare scienza significa soprattutto fare filosofia; nella seconda, che è quella dei moderni, fare scienza significa soprattutto fare esperimenti che siano guidati e in seguito interpretati da metodi matematici sicuri, in modo che i risultati siano ripetibili (o falsificabili) da altri in modo oggettivo. La fisica è stata certamente la disciplina che meglio ha interpretato finora questo metodo e sarà quindi usata come esempio in questa tesi. Così, per gli antichi ogni sapere che aspirasse alla dignità di scienza doveva ispirarsi ai metodi e ai caratteri della filosofia; invece per i moderni deve ispirarsi a quelli della fisica(solo oggi altre forme meno matematizzate di conoscenza, come le neuroscienze, hanno sviluppato metodi che sopperiscono in parte alla mancanza di un modello matematico di riferimento). Come è chiaro, solo nel concetto moderno si ha una distinzione adeguata tra sapere filosofico e sapere scientifico, e pertanto solo con esso si acquista il cosciente possesso delle varie articolazioni del conoscere, e solo con esso quindi l'epistemologia può davvero definirsi e svilupparsi. Tuttavia un cenno alle concezioni degli antichi è opportuno, anche per rendersi conto di certi atteggiamenti della epistemologia dei moderni. Il sapere scientifico nell'antichità Considereremo ad esempio due forme dell'approccio alla realtà dei greci, tra loro antitetiche: la teoria del progetto e la teoria materialistica. La prima ebbe maggior successo ed il suo rappresentante più autorevole è Platone; sono invece rappresentanti della seconda Democrito ed Epicuro, che ebbero in Lucrezio il loro portavoce latino. La teoria del progetto stabilisce una connessione tra le evidenti regolarità della natura da una parte e della logica dall'altra. Il filosofo che segue questa corrente di pensiero ipotizza che l'universo realizzi un progetto razionale e dedica la sua vita e la sua opera al chiarimento di questo progetto; non investiga la natura, bensì il progetto della natura. Platone (c.428c.328 a.C.) riteneva che gli oggetti materiali dei quali abbiamo esperienza fossero copie o realizzazioni imperfette di idee trascendenti, realmente esistenti in un mondo non accessibile fisicamente. La scienza (episteme) per Platone coincide con la dialettica, e riguarda il mondo intelligibile, mentre l'opinione (doxa) riguarda il mondo sensibile. L'investigazione della natura è l'attività del filosofo che ragionando può ricostruire nella sua mente il progetto della natura; questa è tutt'al più fonte di ispirazione, ma la reale conoscenza è data dalle idee del filosofo che devono corrispondere alle Idee trascendenti. La teoria materialistica, invece, nega o ignora la possibile connessione tra logica e natura e considera la mente ed i suoi prodotti come costituiti da materia inanimata (gli atomi). Non esiste o non è rilevante in questa teoria un progetto della natura. Poiché gli atomi sono eterni, i cambiamenti della materia sono dovuti al loro aggregarsi e disgregarsi: viene in parte a cadere la necessità di un progetto trascendente dell'esistente. L'ordine del cosmo riflette le affinità dei diversi atomi tra loro ed è quindi immanente ed intrinseco alla natura delle cose. Dalla nascita del metodo all'epistemologia del XX secolo Tra Cinquecento e Seicento grazie alle opere di Galilei,Cartesio e Bacone si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, che investe non soltanto l'acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione filosofica aristotelico scolastica si passa alla formazione della scienza moderna, la quale progressivamente afferma la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica. Si sviluppa l'induttivismo, una prospettiva teorica che individua nel principio di induzione (insieme all'altro principio di deduzione) lo strumento principale dello sviluppo scientifico. Per gli induttivisti il progresso scientifico è una accumulazione continua di fatti che permette il passaggio da asserzioni particolari ad asserzioni generali. Strutturata l'ipotesi generale subentra il problema della relativa applicazione a fenomeni successivi, o meglio il problema della previsione o verifica di una determinata ipotesi. Questo momento viene chiamato principio di deduzione: segna il passaggio dall'asserzione generale "sotto determinate condizioni tutti i giorni sorge il sole" all'asserzione particolare "domani con un alto grado di probabilità sorgerà il sole". Il più grande merito dell'induttivismo è aver postulato una netta distinzione fra scienza e metafisica. Se, infatti, le ipotesi deduttive vengono formulate soltanto dopo una attenta ricognizione induttiva (empirica), le entità di cui parla la metafisica (anima, mondo, dio) sono irrilevanti per la elaborazione delle ipotesi scientifiche, poiché tutto si può dire tranne che quelle entità possiamo verificarle nella realtà empirica. L'induttivismo, ha retto la metodologia della scienza moderna a partire da Galilei fino ai pensatori del Circolo di Vienna, appartenenti al positivismo logico. L'induzione fu messa in questione soprattutto dal filosofo Karl Popper (1902-1994). Egli infatti contrappose all'induzione la falsificazione; l'induzione, per quanto sia alto il numero di casi favorevoli, non può prevedere se anche il successivo lo sarà, perché procede a posteriori, per cui di fatto non può essere utilizzata per giustificare leggi universali formulate apriori, mentre alla falsificazione basta solo un contro-esempio per invalidare una teoria. La dimensione scientifica, considerata come forma di conoscenza forte dai positivisti, venne messa in crisi da Popper, la cui scienza, in quanto tale, deve essere aperta alle possibilità di essere smentita ed è dunque provvisoria. Nonostante questi contrasti, nell'epistemologia del Novecento la prospettiva neopositivista e quella di Popper risultano per certi versi analoghe: entrambe condividono una concezione unitaria del metodo scientifico, prestano più attenzione alla giustificazione delle teorie che alla loro scoperta, inseguono un criterio di demarcazione fra scienza e non-scienza, muovendo dalla premessa che si possono distinguere aspetti osservativi e teorici. È in particolare con T.S. Kuhn (e poi con Paul Feyerabend) che tali presupposti vengono sottoposti a critica radicale. Nel caso di Kuhn, è la storia della scienza a offrirsi come luogo di confronto delle tesi epistemologiche: la storia doveva essere considerata "come qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia", non poteva ridursi a serbatoio di esempi che confermassero l'immagine del progredire del sapere per congetture e confutazioni . La scienza dimentica facilmente il proprio passato, tende ad interpretarlo alla luce del presente, sulla base del "paradigma" del giorno; si finisce così per veicolare l'idea che la scienza proceda in modo lineare e cumulativo, da antichi precursori a futuri eredi. Ma se proviamo a leggere gli scritti scientifici del passato inseguendone la coerenza interna e nel loro contesto culturale, scopriamo che non sempre gli antichi concetti si riferivano alle stesse realtà cui si rivolgono oggi. È come se, prima di Copernico o di Einstein, si guardasse il mondo in modo diverso da oggi, e "si vedesse un'anatra là dove noi vediamo un coniglio". Proprio questi mutamenti percettivi, questi slittamenti di significato, ci impongono di riconoscere l'esistenza di rivoluzioni scientifiche: la storie delle scienze è percorsa da fratture, da discontinuità, e la variazione di un paradigma trasforma i fatti stessi presi in considerazione (l'energia e la materia non sono più la stessa cosa dopo Einstein). Non esiste dunque una base comune, un autentico mondo osservabile, che possa fungere da terreno di confronto fra le teorie: dall'attenzione filologica alla storia delle scienze emergeva così quella nozione di incommensurabilità fra teorie e paradigmi, a cui negli stessi anni giungeva Feyerabend. La riflessione di quest'ultimo è più ardita. Egli considera la scienza come "un' impresa essenzialmente anarchica". Nella sua opera più discussa, "Contro il metodo" (1970), Feyerabend giunge a considerare la scienza libera da ogni presupposto metodologico che possa soffocarne lo sviluppo vincolandola. La sua elaborazione non è priva di tratti paradossali e di elementi provocatori e mira, nel suo complesso, a pensare la scienza come espressione umana avvicinandola in alcuni lavori all'arte e al mito. Il pensiero della Fisica Moderna La simmetria dietro l'apparente disordine Il concetto di simmetria nella fisica moderna si è allontanato parecchio dalla concezione comune di simmetria; ma comunque da questa trae sempre origine. Le simmetrie geometriche, (ad esempio quelle bilaterale e radiale), hanno in comune con le simmetrie fisiche un elemento che rappresenta il nucleo stesso del concetto di simmetria: l'idea di invarianza rispetto a una trasformazione. In generale una "situazione"(usiamo questo termine per indicare un sistema fisico, un oggetto, una figura,...) possiede una simmetria quando può essere sottoposta a un cambiamento che lascia alcune sue caratteristiche inalterate. Nella nozione di simmetria ci sono quindi due aspetti, apparentemente contraddittori: la trasformazione e l'invarianza. Le simmetrie della geometria e le simmetrie della fisica si distinguono per ciò che rimane invariato in seguito alle trasformazioni di simmetria. Nel primo caso rimangono invariate le figure geometriche, nel secondo caso rimangono invariate le leggi fisiche. In sintesi, dunque: una simmetria fisica è un' invarianza delle leggi fisiche rispetto a una certa classe di trasformazioni. Un esempio concreto: consideriamo due cariche che si attraggono per effetto della forza elettrostatica, che dipende solo dalla loro distanza. Il fatto che questa forza non dipenda dalla posizione assoluta delle cariche né dall'orientazione dell'asse che le congiunge comporta che, se spostiamo le cariche in modo da mantenere immutata la loro distanza, o ruotiamo una di esse attorno all'altra, la dinamica del sistema non venga alterata: la legge fisica che descrive il moto delle due cariche è quindi simmetrica per spostamenti rigidi e per rotazioni. La stessa meccanica classica si basa su una simmetria che permette di descrivere oggettivamente un fenomeno: la relatività galileiana, che afferma che le leggi della meccanica hanno sempre la stessa forma nei sistemi di riferimento inerziali (sistema di riferimento in cui è valido il primo principio della dinamica: un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso). Tuttavia il vero esordio delle simmetrie come principi di invarianza delle leggi di natura avviene con la relatività ristretta di Einstein: il postulato di relatività è il più importante principio di simmetria della fisica. Considerazioni di simmetria svolgono un ruolo cruciale nella genesi stessa della teoria einsteiniana. La memoria del 1905, intitolata "Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento", si apre con questa affermazione: "È noto che l'elettrodinamica di Maxwell, così come essa è oggi comunemente intesa, conduce, nella sua applicazione a corpi in movimento, ad asimmetrie che non sembrano conformi ai fenomeni.". I risultati della fisica classica, che erano stati acquisiti entro i primi due terzi del XIX secolo parevano costituire una soddisfacente organizzazione teorica per i vari settori della fisica. Il mondo era caratterizzato dalla fiducia nella scienza: si credeva di essere arrivati a comprendere quasi interamente la fisica dell'universo. Questa fiducia però venne scossa verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Da un lato, emerse un numeroso insieme di evidenze sperimentali, inspiegabili alla luce dei principi della fisica classica. Dall’altro, l’approfondimento dei fondamenti teorici conseguente al desiderio di sintesi impose un radicale cambiamento nella descrizione stessa dei fenomeni fisici. La crisi si articolò in varie direzioni, sia all’interno di ognuna delle branche della fisica classica, sia soprattutto nei confronti del programma di unificazione tra le branche stesse. La relatività galileiana entra in crisi con le equazioni di Maxwell che unificarono i fenomeni elettromagnetici. Da queste equazioni emerge un fatto allora considerato inspiegabile: la velocità delle onde elettromagnetiche (la luce) è invariante, dipendendo solo da costanti di natura. Due osservatori in moto relativo nel vuoto, vedono le onde muoversi alla stessa velocità. Ciò viola il principio di relatività galileiana. Se mettiamo una carica ferma all'interno di un campo magnetico, nel sistema di riferimento dello stesso campo non agisce alcuna forza su questa carica. Nel sistema di riferimento di un osservatore in moto rispetto alla carica, essa si muove con velocità che non è semplicemente contraria a quella dell'osservatore, come spiegherebbe la relatività di Galileo, ma è pure caratterizzata da una componente rotatoria, introdotta sulla velocità stessa dal campo magnetico.. In questo sistema di riferimento agisce dunque sulla carica una forza complessa: la forza di Lorentz. L'origine della discrepanza tra i due punti di vista sta ne fatto che le leggi dell'elettromagnetismo non sono invarianti rispetto alle trasformazioni del sistema di riferimento su cui è basata la meccanica classica. Si potrebbe ritenere che ciò non rappresenti una difficoltà e che le equazioni di Maxwell debbano considerarsi valide solo in un particolare sistema di riferimento, il sistema solidale con un misterioso mezzo pervasivo ed estremamente sottile, chiamato etere. Alla fine dell'Ottocento, fu questo l'atteggiamento comune presso i fisici. Einstein, al contrario, anche a seguito di riflessioni dovute ad Ernst Mach, si convinse che non esistesse un sistema di riferimento privilegiato e che la mancanza di simmetria tra due osservatori in moto relativo uniforme fosse inaccettabile. Bisogna dunque postulare che le leggi della fisica abbiano la stessa forma in ogni sistema di riferimento. È questa l'affermazione che inaugura il concetto di simmetria come principio di invarianza delle leggi fisiche. Il principio di relatività stabilisce che le leggi della fisica devono essere invarianti rispetto alle trasformazioni che cambiano il sistema di riferimento. Questo principio, in realtà, si applica solo a una certa classe di sistemi di riferimento, i sistemi inerziali. Per questo parliamo di relatività ristretta. Anche se la sua elaborazione iniziale fu autonoma, grande fu l'influenza sul pensiero successivo di Einstein dei lavori di Emma Noether; nel teorema che porta il suo nome essa per prima mostrò come dietro tutte le leggi di conservazione della fisica classica (della quantità di moto, dell'energia, del momento angolare) ci fossero proprietà di simmetria rispettate. La relatività galileiana era un fatto empirico, non un criterio regolatore delle leggi. Con Einstein la simmetria viene innalzata a principio universale. Per abbandonare le trasformazioni di Galileo è necessario introdurre un nuovo postulato sul tempo, che prima era considerato come assoluto. Riflettendo sul concetto di tempo e sulla sua misura, Einstein postula che la velocità della luce nel vuoto sia la stessa in tutti i sistemi di riferimento. Si arriva così alle trasformazioni di Lorentz che cambiano non solo le coordinate spaziali, ma anche il tempo, che è quindi relativo, dipendente dal sistema di riferimento in cui viene misurato. La simmetria relativistica è l'invarianza delle leggi della fisica rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Tuttavia la deviazione della teoria relativistica da quella galileiano-newtoniana diventano rilevanti solo quando le velocità sono prossime alla velocità della luce. A comprendere le implicazioni profonde della teoria di Einstein fu Hermann Minkowski, il quale comprese come le trasformazioni di Lorentz potessero essere interpretate come rotazioni in uno spazio-tempo a 4 dimensioni. La simmetria relativistica è espressione quindi dell'isotropia di questo continuum quadridimensionale, cioè dell'equivalenza di tutte le direzioni dello spazio tempo. Mentre la fisica giunge a un nuovo modello di descrizione e rappresentazione del reale, anche l’arte attraversa un momento cruciale che segna l’abbandono dei canoni fondamentali della pittura tradizionale, portando a una ridefinizione dei concetti di spazio e di tempo. Nella storia artistica occidentale, l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le scene dipinte devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Con la prospettiva, la visione diviene tridimensionale e su di essa l’artista può finalmente ritrarre tutta la realtà quale essa appare da un unico punto di vista. Ma poiché la prospettiva non considera l’oggetto nella sua totalità, in quanto ne riporta solo un aspetto parziale, essa non è che un artificio, un’illusione imitativa. Anche nell'arte però lo sconcerto e la ricerca di vie nuove che si manifestavano nella scienza ebbe i suoi effetti, soprattutto su personaggi di singolare, forse unica statura, curiosi di sondare anche campi apparentemente lontani dalla precedente storia dell'arte. All’inizio del Novecento, questo atteggiamento è interpretato dal genio artistico di un uomo in particolare: Pablo Picasso, che rivoluziona decisamente lo stile pittorico del suo tempo. Nei suoi quadri, le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Ciò demolisce di fatto il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista, che imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nelle opere di Picasso, infatti, l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione “totale” dell’oggetto che ingloba tutte le possibili sfaccettature. Si ottiene quindi un’immagine completamente diversa dall’esperienza visiva corrente, ma in fondo più “realistica” perché contiene più volti della realtà, più punti di vista da cui si possono vedere le cose. Questa sua particolare tecnica lo porta ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibilità, in quanto risultano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a percepire le cose. Da ciò nasce anche il termine Cubismo, dato a questo movimento, con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi. Il Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nasce in un momento preciso né con un intento preventivamente dichiarato. Non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità. Ora, se il pittore avesse voluto rappresentare la realtà per come la vediamo e come tutti gli artisti avevano fatto prima di lui, avrebbe dipinto una donna vista completamente di fronte o completamente di spalle. Ed è proprio qui che sta la rivoluzione cubista, nel principio di relatività: ciò che vediamo di un oggetto è sempre relativo al punto di vista da cui lo osserviamo. Lo stesso oggetto, fermo nello spazio di una stanza, possiamo vederlo infatti in tanti modi diversi a seconda di dove ci troviamo. I punti di vista cambiano non appena cambia la nostra posizione nello spazio. Quello che Picasso cerca è una visione simultanea della realtà in tutti i suoi possibili punti di vista. Come? Scomponendo l’oggetto in tutte le sue possibilità visive, e ricomponendolo poi sulla tela sfaccettato, come se lo vedessimo da tutte le angolazioni. Ecco la realtà non più assoluta, ma relativa al punto di vista da cui la si osserva. E non è solo l’oggetto ad essere frantumato. Viene scomposto anche lo spazio in cui questo si trova, e quindi lo sfondo. Perché quando osserviamo qualcosa, accogliamo nel nostro campo visivo anche lo sfondo, che può essere una parete, un armadio, una finestra, un viale, un prato, qualunque cosa. Quando il Cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista, di fatto introduce nella rappresentazione pittorica un nuovo elemento: il tempo, una variabile che prima era assente. Ma ritorniamo alle simmetrie della fisica. Come detto, per la loro affermazione come principio da seguire nel derivare le leggi fisiche ebbe grandissima importanza è il teorema di Emmy Noether, il quale afferma che a ogni simmetria corrisponde una grandezza conservata. Questo teorema, oltre ad essere estremamente generale, ha un carattere costruttivo, nel senso che non si limita a prescrivere l'esistenza delle grandezze conservate, ma mostra esplicitamente come determinarle. Esso permette di ottenere non solo le costanti del moto associate alle simmetrie spazio-temporali, ma anche le grandezze conservate per effetto delle simmetrie interne. Questo teorema è uno dei fondamenti della moderna visione del mondo fisico. Le simmetrie svolgono dunque un ruolo cruciale nella nostra comprensione del mondo naturale: se i risultati di un esperimento dipendessero dal momento in cui viene effettuato, dalla posizione del laboratorio, o dal punto di vista dell'osservatore, il concetto di legge di natura non avrebbe senso. Sono dunque le simmetrie spazio-temporali a garantire l'universalità e la possibilità stessa della fisica. Da un punto di vista epistemologico, le simmetrie rappresentano la risposta alla domanda che John Stuart Mill poneva nel suo "System of Logic: Ratiocinative and Inductive", un libro del 1843 che influenzò la filosofia scientifica di molti fisici: "Qual è il minimo insieme di proposizioni generali da cui si possano dedurre tutte le uniformità esistenti in natura?". Nella costruzione logica della fisica le simmetrie si collocano al vertice della piramide: sono i principi di ordine superiore, quelli che conferiscono unità, necessità e semplicità a tutte le leggi di natura. Senza le simmetrie, l'immagine del mondo fisico si dissolverebbe, e il mondo risulterebbe condannato alla contingenza e inesplicabile. Se per Galileo la natura è "un grandissimo libro scritto in lingua matematica",per Einstein è "un cruciverba ben congegnato". Con queste due metafore, i padri fondatori della fisica(classica e moderna) non intendevano soltanto descrivere l'essenza dell'universo, ma anche definire il significato e i contorni del lavoro dello scienziato. Attraverso l'immagine del libro della natura Galileo portava un attacco al principio di autorità e a quella filosofia scolastica che si appoggiava a libri non scientifici. Einstein contestava invece l'idea ingenua secondo cui l'opera dello scienziato sarebbe improntata a un'assoluta libertà creativa e sosteneva che essa assomigliasse piuttosto a quella di un enigmista, il quale "può proporre ogni volta qualsiasi parola come soluzione; ma ogni volta è solo una la parola che dà la chiave per risolvere il cruciverba in tutte le sue parti". Il fisico non può sottrarsi alle regole che la scienza e la natura gli dettano, perché è proprio nell'ambito di tali regole che la sua creatività ha modo di manifestarsi più efficacemente. Egli è libero di scegliere i concetti e le relazioni fondamentali con cui costruire le teorie, ma la sua libertà di scelta non è affatto simile alla libertà di uno scrittore di romanzi. Ci sono, a dire il vero, scrittori di romanzi che si sono imposti una libertà simile a quella degli scienziati: una libertà che si manifesta nella sottomissione volontaria a un sistema di regole, che non compromettono la creazione, ma anzi la favoriscono. Una delle opere più singolari di Italo Calvino è "Il castello dei destini incrociati", un testo costruito interamente attorno ai tarocchi quattrocenteschi miniati da Bonifacio Bembo per i Visconti di Milano. Disponendo le carte secondo strisce orizzontali e verticali inquadrate in un rigoroso schema geometrico, Calvino compone una serie di storie che hanno per protagonisti le figure dei tarocchi e si intrecciano là dove una striscia ne incrocia un'altra. Come egli stesso sottolinea, la griglia che contiene i racconti ha una funzione strutturale: i vincoli che essa instaura stimolano la creazione delle storie e ne suggeriscono il contenuto. "Il gioco aveva senso solo se impostato secondo regole ferree: ci voleva una necessità generale di costruzione che condizionasse l' incastro d'ogni storia nelle altre. [...] Al centro della narrazione per me non è la spiegazione di un fatto straordinario, bensì l'ordine che questo fatto straordinario sviluppa in sé e attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete di immagini che si depositano intorno ad esso come nella formazione di un cristallo" Nelle materie che non impongono vincoli non è possibile la creatività. Le simmetrie svolgono un ruolo simile a quello del contenitore dei racconti incrociati di Calvino: sovrintendono al cruciverba dell'universo e ne guidano la risoluzione- I fisici quindi in un certo senso, convinti che la soluzione esista e sia sensata, tornano alla teoria del progetto platonica. E il primo ad accorgersene fu probabilmente un personaggio anch'essa geniale e fuori dagli schemi: il poeta, filosofo, epistemologo e fisico Gaston Bachelar, nel suo libro fondamentale: "Il nuovo Spirito Scientifico (1934)".