L`epistemologia e le simmetrie della fisica moderna

L'epistemologia e le simmetrie della fisica moderna
L'epistemologia (dal greco επιστήμη episteme, "conoscenza certa" ossia "scienza", e λόγος logos,
"discorso") è quella branca della filosofia che studia criticamente la struttura logica della scienza, cioè una
riflessione filosofica sul linguaggio, sulla metodologia, sull'organizzazione interna e sui risultati delle varie
scienze per definire la natura, il valore e i limiti del sapere scientifico.
L'epistemologia è una creazione della filosofia moderna, ma non è così per il sapere scientifico stesso, che
deve le sue origini ai greci. Orbene, il sapere scientifico ha assunto due configurazione principali.
Nella prima, che è quella dei greci, fare scienza significa soprattutto fare filosofia; nella seconda, che è
quella dei moderni, fare scienza significa soprattutto fare esperimenti che siano guidati e in seguito
interpretati da metodi matematici sicuri, in modo che i risultati siano ripetibili (o falsificabili) da altri in
modo oggettivo. La fisica è stata certamente la disciplina che meglio ha interpretato finora questo metodo e
sarà quindi usata come esempio in questa tesi.
Così, per gli antichi ogni sapere che aspirasse alla dignità di scienza doveva ispirarsi ai metodi e ai caratteri
della filosofia; invece per i moderni deve ispirarsi a quelli della fisica(solo oggi altre forme meno
matematizzate di conoscenza, come le neuroscienze, hanno sviluppato metodi che sopperiscono in parte
alla mancanza di un modello matematico di riferimento). Come è chiaro, solo nel concetto moderno si ha
una distinzione adeguata tra sapere filosofico e sapere scientifico, e pertanto solo con esso si acquista il
cosciente possesso delle varie articolazioni del conoscere, e solo con esso quindi l'epistemologia può
davvero definirsi e svilupparsi.
Tuttavia un cenno alle concezioni degli antichi è opportuno, anche per rendersi conto di certi atteggiamenti
della epistemologia dei moderni.
Il sapere scientifico nell'antichità
Considereremo ad esempio due forme dell'approccio alla realtà dei greci, tra loro antitetiche: la teoria del
progetto e la teoria materialistica.
La prima ebbe maggior successo ed il suo rappresentante più autorevole è Platone; sono invece
rappresentanti della seconda Democrito ed Epicuro, che ebbero in Lucrezio il loro portavoce latino.
La teoria del progetto stabilisce una connessione tra le evidenti regolarità della natura da una parte e
della logica dall'altra. Il filosofo che segue questa corrente di pensiero ipotizza che l'universo realizzi un
progetto razionale e dedica la sua vita e la sua opera al chiarimento di questo
progetto; non investiga la natura, bensì il progetto della natura. Platone (c.428c.328 a.C.)
riteneva che gli oggetti materiali dei quali abbiamo esperienza fossero copie o realizzazioni imperfette di
idee trascendenti, realmente esistenti in un mondo non accessibile fisicamente. La scienza (episteme) per
Platone coincide con la dialettica, e riguarda il mondo intelligibile, mentre l'opinione (doxa) riguarda il
mondo sensibile. L'investigazione della natura è l'attività del filosofo che
ragionando può ricostruire nella sua mente il
progetto della natura; questa è tutt'al più fonte di ispirazione, ma la reale conoscenza è data dalle idee del
filosofo che devono corrispondere alle Idee trascendenti.
La teoria materialistica, invece, nega o ignora la possibile connessione tra logica
e natura e considera la mente ed i suoi prodotti come costituiti da materia inanimata (gli atomi).
Non esiste o non è rilevante in questa teoria un progetto della natura.
Poiché gli atomi sono eterni, i cambiamenti della materia sono dovuti al
loro aggregarsi e disgregarsi: viene in parte a cadere la necessità di un progetto trascendente dell'esistente.
L'ordine del cosmo riflette le affinità dei diversi atomi
tra loro ed è quindi immanente ed intrinseco alla natura delle cose.
Dalla nascita del metodo all'epistemologia del XX secolo
Tra Cinquecento e Seicento grazie alle opere di Galilei,Cartesio e Bacone si assiste in Europa a un rapido
progresso delle scienze, che investe non soltanto l'acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il
metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione filosofica aristotelico scolastica si passa alla formazione della scienza moderna, la quale progressivamente afferma la propria
autonomia dalla filosofia e dalla teologia ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in
maniera specifica. Si sviluppa l'induttivismo, una prospettiva teorica che individua nel principio di
induzione (insieme all'altro principio di deduzione) lo strumento principale dello sviluppo scientifico. Per
gli induttivisti il progresso scientifico è una accumulazione continua di fatti che permette il passaggio da
asserzioni particolari ad asserzioni generali.
Strutturata l'ipotesi generale subentra il problema della relativa applicazione a fenomeni successivi, o
meglio il problema della previsione o verifica di una determinata ipotesi.
Questo momento viene chiamato principio di deduzione: segna il passaggio dall'asserzione generale "sotto
determinate condizioni tutti i giorni sorge il sole" all'asserzione particolare "domani con un alto grado di
probabilità sorgerà il sole". Il più grande merito dell'induttivismo è aver postulato una netta distinzione fra
scienza e metafisica. Se, infatti, le ipotesi deduttive vengono formulate soltanto dopo una attenta
ricognizione induttiva (empirica), le entità di cui parla la metafisica (anima, mondo, dio) sono irrilevanti
per la elaborazione delle ipotesi scientifiche, poiché tutto si può dire tranne che quelle entità possiamo
verificarle nella realtà empirica.
L'induttivismo, ha retto la metodologia della scienza moderna a partire da Galilei fino ai pensatori del
Circolo di Vienna, appartenenti al positivismo logico. L'induzione fu messa in questione soprattutto dal
filosofo Karl Popper (1902-1994). Egli infatti contrappose all'induzione la falsificazione; l'induzione, per
quanto sia alto il numero di casi favorevoli, non può prevedere se anche il successivo lo sarà, perché
procede a posteriori, per cui di fatto non può essere utilizzata per giustificare leggi universali formulate apriori, mentre alla falsificazione basta solo un contro-esempio per invalidare una teoria.
La dimensione scientifica, considerata come forma di conoscenza forte dai positivisti, venne messa in crisi
da Popper, la cui scienza, in quanto tale, deve essere aperta alle possibilità di essere smentita ed è dunque
provvisoria. Nonostante questi contrasti, nell'epistemologia del Novecento la prospettiva neopositivista e
quella di Popper risultano per certi versi analoghe: entrambe condividono una concezione unitaria del
metodo scientifico, prestano più attenzione alla giustificazione delle teorie che alla loro scoperta, inseguono
un criterio di demarcazione fra scienza e non-scienza, muovendo dalla premessa che si possono distinguere
aspetti osservativi e teorici. È in particolare con T.S. Kuhn (e poi con Paul Feyerabend) che tali presupposti
vengono sottoposti a critica radicale. Nel caso di Kuhn, è la storia della scienza a offrirsi come luogo di
confronto delle tesi epistemologiche: la storia doveva essere considerata "come qualcosa di più che un
deposito di aneddoti o una cronologia", non poteva ridursi a serbatoio di esempi che confermassero
l'immagine del progredire del sapere per congetture e confutazioni .
La scienza dimentica facilmente il proprio passato, tende ad interpretarlo alla luce del presente, sulla base
del "paradigma" del giorno; si finisce così per veicolare l'idea che la scienza proceda in modo lineare e
cumulativo, da antichi precursori a futuri eredi. Ma se proviamo a leggere gli scritti scientifici del passato
inseguendone la coerenza interna e nel loro contesto culturale, scopriamo che non sempre gli antichi
concetti si riferivano alle stesse realtà cui si rivolgono oggi. È come se, prima di Copernico o di Einstein, si
guardasse il mondo in modo diverso da oggi, e "si vedesse un'anatra là dove noi vediamo un coniglio".
Proprio questi mutamenti percettivi, questi slittamenti di significato, ci impongono di riconoscere
l'esistenza di rivoluzioni scientifiche: la storie delle scienze è percorsa da fratture, da discontinuità, e la
variazione di un paradigma trasforma i fatti stessi presi in considerazione (l'energia e la materia non sono
più la stessa cosa dopo Einstein).
Non esiste dunque una base comune, un autentico mondo osservabile, che possa fungere da terreno di
confronto fra le teorie: dall'attenzione filologica alla storia delle scienze emergeva così quella nozione di
incommensurabilità fra teorie e paradigmi, a cui negli stessi anni giungeva Feyerabend.
La riflessione di quest'ultimo è più ardita. Egli considera la scienza come "un' impresa essenzialmente
anarchica". Nella sua opera più discussa, "Contro il metodo" (1970), Feyerabend giunge a considerare la
scienza libera da ogni presupposto metodologico che possa soffocarne lo sviluppo vincolandola. La sua
elaborazione non è priva di tratti paradossali e di elementi provocatori e mira, nel suo complesso, a pensare
la scienza come espressione umana avvicinandola in alcuni lavori all'arte e al mito.
Il pensiero della Fisica Moderna
La simmetria dietro l'apparente disordine
Il concetto di simmetria nella fisica moderna si è allontanato parecchio dalla concezione comune di
simmetria; ma comunque da questa trae sempre origine.
Le simmetrie geometriche, (ad esempio quelle bilaterale e radiale), hanno in comune con le simmetrie
fisiche un elemento che rappresenta il nucleo stesso del concetto di simmetria: l'idea di invarianza rispetto a
una trasformazione. In generale una "situazione"(usiamo questo termine per indicare un sistema fisico, un
oggetto, una figura,...) possiede una simmetria quando può essere sottoposta a un cambiamento che lascia
alcune sue caratteristiche inalterate. Nella nozione di simmetria ci sono quindi due aspetti, apparentemente
contraddittori: la trasformazione e l'invarianza. Le simmetrie della geometria e le simmetrie della fisica si
distinguono per ciò che rimane invariato in seguito alle trasformazioni di simmetria. Nel primo caso
rimangono invariate le figure geometriche, nel secondo caso rimangono invariate le leggi fisiche. In sintesi,
dunque: una simmetria fisica è un' invarianza delle leggi fisiche rispetto a una certa classe di
trasformazioni. Un esempio concreto: consideriamo due cariche che si attraggono per effetto della forza
elettrostatica, che dipende solo dalla loro distanza. Il fatto che questa forza non dipenda dalla posizione
assoluta delle cariche né dall'orientazione dell'asse che le congiunge comporta che, se spostiamo le cariche
in modo da mantenere immutata la loro distanza, o ruotiamo una di esse attorno all'altra, la dinamica del
sistema non venga alterata: la legge fisica che descrive il moto delle due cariche è quindi simmetrica per
spostamenti rigidi e per rotazioni.
La stessa meccanica classica si basa su una simmetria che permette di descrivere oggettivamente un
fenomeno: la relatività galileiana, che afferma che le leggi della meccanica hanno sempre la stessa forma
nei sistemi di riferimento inerziali (sistema di riferimento in cui è valido il primo principio della dinamica:
un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di
esso).
Tuttavia il vero esordio delle simmetrie come principi di invarianza delle leggi di natura avviene con la
relatività ristretta di Einstein: il postulato di relatività è il più importante principio di simmetria della fisica.
Considerazioni di simmetria svolgono un ruolo cruciale nella genesi stessa della teoria einsteiniana. La
memoria del 1905, intitolata "Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento", si apre con questa
affermazione: "È noto che l'elettrodinamica di Maxwell, così come essa è oggi comunemente intesa,
conduce, nella sua applicazione a corpi in movimento, ad asimmetrie che non sembrano conformi ai
fenomeni.".
I risultati della fisica classica, che erano stati acquisiti entro i primi due terzi del XIX secolo parevano
costituire una soddisfacente organizzazione teorica per i vari settori della fisica.
Il mondo era caratterizzato dalla fiducia nella scienza: si credeva di essere arrivati a comprendere quasi
interamente la fisica dell'universo. Questa fiducia però venne scossa verso la fine del XIX e l’inizio del XX
secolo. Da un lato, emerse un numeroso insieme di evidenze sperimentali, inspiegabili alla luce dei principi
della fisica classica. Dall’altro, l’approfondimento dei fondamenti teorici conseguente al desiderio di sintesi
impose un radicale cambiamento nella descrizione stessa dei fenomeni fisici. La crisi si articolò in varie
direzioni, sia all’interno di ognuna delle branche della fisica classica, sia soprattutto nei confronti del
programma di unificazione tra le branche stesse. La relatività galileiana entra in crisi con le equazioni di
Maxwell che unificarono i fenomeni elettromagnetici. Da queste equazioni emerge un fatto allora
considerato inspiegabile: la velocità delle onde elettromagnetiche (la luce) è invariante, dipendendo solo da
costanti di natura. Due osservatori in moto relativo nel vuoto, vedono le onde muoversi alla stessa velocità.
Ciò viola il principio di relatività galileiana.
Se mettiamo una carica ferma all'interno di un campo magnetico, nel sistema di riferimento dello stesso
campo non agisce alcuna forza su questa carica. Nel sistema di riferimento di un osservatore in moto
rispetto alla carica, essa si muove con velocità che non è semplicemente contraria a quella dell'osservatore,
come spiegherebbe la relatività di Galileo, ma è pure caratterizzata da una componente rotatoria, introdotta
sulla velocità stessa dal campo magnetico.. In questo sistema di riferimento agisce dunque sulla carica una
forza complessa: la forza di Lorentz.
L'origine della discrepanza tra i due punti di vista sta ne fatto che le leggi dell'elettromagnetismo non sono
invarianti rispetto alle trasformazioni del sistema di riferimento su cui è basata la meccanica classica. Si
potrebbe ritenere che ciò non rappresenti una difficoltà e che le equazioni di Maxwell debbano considerarsi
valide solo in un particolare sistema di riferimento, il sistema solidale con un misterioso mezzo pervasivo
ed estremamente sottile, chiamato etere. Alla fine dell'Ottocento, fu questo l'atteggiamento comune presso i
fisici.
Einstein, al contrario, anche a seguito di riflessioni dovute ad Ernst Mach, si convinse che non esistesse un
sistema di riferimento privilegiato e che la mancanza di simmetria tra due osservatori in moto relativo
uniforme fosse inaccettabile. Bisogna dunque postulare che le leggi della fisica abbiano la stessa forma in
ogni sistema di riferimento. È questa l'affermazione che inaugura il concetto di simmetria come principio di
invarianza delle leggi fisiche. Il principio di relatività stabilisce che le leggi della fisica devono essere
invarianti rispetto alle trasformazioni che cambiano il sistema di riferimento. Questo principio, in realtà, si
applica solo a una certa classe di sistemi di riferimento, i sistemi inerziali. Per questo parliamo di relatività
ristretta. Anche se la sua elaborazione iniziale fu autonoma, grande fu l'influenza sul pensiero successivo di
Einstein dei lavori di Emma Noether; nel teorema che porta il suo nome essa per prima mostrò come dietro
tutte le leggi di conservazione della fisica classica (della quantità di moto, dell'energia, del momento
angolare) ci fossero proprietà di simmetria rispettate.
La relatività galileiana era un fatto empirico, non un criterio regolatore delle leggi. Con Einstein la
simmetria viene innalzata a principio universale.
Per abbandonare le trasformazioni di Galileo è necessario introdurre un nuovo postulato sul tempo, che
prima era considerato come assoluto. Riflettendo sul concetto di tempo e sulla sua misura, Einstein postula
che la velocità della luce nel vuoto sia la stessa in tutti i sistemi di riferimento.
Si arriva così alle trasformazioni di Lorentz che cambiano non solo le coordinate spaziali, ma anche il
tempo, che è quindi relativo, dipendente dal sistema di riferimento in cui viene misurato.
La simmetria relativistica è l'invarianza delle leggi della fisica rispetto alle trasformazioni di Lorentz.
Tuttavia la deviazione della teoria relativistica da quella galileiano-newtoniana diventano rilevanti solo
quando le velocità sono prossime alla velocità della luce.
A comprendere le implicazioni profonde della teoria di Einstein fu Hermann Minkowski, il quale comprese
come le trasformazioni di Lorentz potessero essere interpretate come rotazioni in uno spazio-tempo a 4
dimensioni. La simmetria relativistica è espressione quindi dell'isotropia di questo continuum
quadridimensionale, cioè dell'equivalenza di tutte le direzioni dello spazio tempo.
Mentre la fisica giunge a un nuovo modello di descrizione e rappresentazione del reale, anche l’arte
attraversa un momento cruciale che segna l’abbandono dei canoni fondamentali della pittura tradizionale,
portando a una ridefinizione dei concetti di spazio e di tempo.
Nella storia artistica occidentale, l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo
naturalistico. Ossia, le scene dipinte devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi
meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano
che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro
per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Con la prospettiva, la visione diviene tridimensionale e su di essa
l’artista può finalmente ritrarre tutta la realtà quale essa appare da un unico punto di vista. Ma poiché la
prospettiva non considera l’oggetto nella sua totalità, in quanto ne riporta solo un aspetto parziale, essa non
è che un artificio, un’illusione imitativa. Anche nell'arte però lo sconcerto e la ricerca di vie nuove che si
manifestavano nella scienza ebbe i suoi effetti, soprattutto su personaggi di singolare, forse unica statura,
curiosi di sondare anche campi apparentemente lontani dalla precedente storia dell'arte. All’inizio del
Novecento, questo atteggiamento è interpretato dal genio artistico di un uomo in particolare: Pablo Picasso,
che rivoluziona decisamente lo stile pittorico del suo tempo. Nei suoi quadri, le immagini si compongono
di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Ciò
demolisce di fatto il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista, che imponeva al
pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nelle opere di Picasso, infatti, l’oggetto viene
rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione “totale”
dell’oggetto che ingloba tutte le possibili sfaccettature. Si ottiene quindi un’immagine completamente
diversa dall’esperienza visiva corrente, ma in fondo più “realistica” perché contiene più volti della realtà,
più punti di vista da cui si possono vedere le cose. Questa sua particolare tecnica lo porta ad ottenere
immagini dalla apparente incomprensibilità, in quanto risultano del tutto diverse da come la nostra
esperienza è abituata a percepire le cose. Da ciò nasce anche il termine Cubismo, dato a questo movimento,
con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi. Il
Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nasce in un momento preciso né con un
intento preventivamente dichiarato. Non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo
particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue
possibilità.
Ora, se il pittore avesse voluto rappresentare la realtà per come la vediamo e come tutti gli artisti avevano
fatto prima di lui, avrebbe dipinto una donna vista completamente di fronte o completamente di spalle. Ed è
proprio qui che sta la rivoluzione cubista, nel principio di relatività: ciò che vediamo di un oggetto è sempre
relativo al punto di vista da cui lo osserviamo. Lo stesso oggetto, fermo nello spazio di una stanza,
possiamo vederlo infatti in tanti modi diversi a seconda di dove ci troviamo. I punti di vista cambiano non
appena cambia la nostra posizione nello spazio. Quello che Picasso cerca è una visione simultanea della
realtà in tutti i suoi possibili punti di vista. Come? Scomponendo l’oggetto in tutte le sue possibilità visive,
e ricomponendolo poi sulla tela sfaccettato, come se lo vedessimo da tutte le angolazioni. Ecco la realtà non
più assoluta, ma relativa al punto di vista da cui la si osserva. E non è solo l’oggetto ad essere frantumato.
Viene scomposto anche lo spazio in cui questo si trova, e quindi lo sfondo. Perché quando osserviamo
qualcosa, accogliamo nel nostro campo visivo anche lo sfondo, che può essere una parete, un armadio, una
finestra, un viale, un prato, qualunque cosa.
Quando il Cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista, di fatto introduce nella
rappresentazione pittorica un nuovo elemento: il tempo, una variabile che prima era assente.
Ma ritorniamo alle simmetrie della fisica.
Come detto, per la loro affermazione come principio da seguire nel derivare le leggi fisiche ebbe
grandissima importanza è il teorema di Emmy Noether, il quale afferma che a ogni simmetria corrisponde
una grandezza conservata. Questo teorema, oltre ad essere estremamente generale, ha un carattere
costruttivo, nel senso che non si limita a prescrivere l'esistenza delle grandezze conservate, ma mostra
esplicitamente come determinarle. Esso permette di ottenere non solo le costanti del moto associate alle
simmetrie spazio-temporali, ma anche le grandezze conservate per effetto delle simmetrie interne. Questo
teorema è uno dei fondamenti della moderna visione del mondo fisico.
Le simmetrie svolgono dunque un ruolo cruciale nella nostra comprensione del mondo naturale: se i
risultati di un esperimento dipendessero dal momento in cui viene effettuato, dalla posizione del
laboratorio, o dal punto di vista dell'osservatore, il concetto di legge di natura non avrebbe senso. Sono
dunque le simmetrie spazio-temporali a garantire l'universalità e la possibilità stessa della fisica.
Da un punto di vista epistemologico, le simmetrie rappresentano la risposta alla domanda che John Stuart
Mill poneva nel suo "System of Logic: Ratiocinative and Inductive", un libro del 1843 che influenzò la
filosofia scientifica di molti fisici: "Qual è il minimo insieme di proposizioni generali da cui si possano
dedurre tutte le uniformità esistenti in natura?".
Nella costruzione logica della fisica le simmetrie si collocano al vertice della piramide: sono i principi di
ordine superiore, quelli che conferiscono unità, necessità e semplicità a tutte le leggi di natura. Senza le
simmetrie, l'immagine del mondo fisico si dissolverebbe, e il mondo risulterebbe condannato alla
contingenza e inesplicabile.
Se per Galileo la natura è "un grandissimo libro scritto in lingua matematica",per Einstein è "un cruciverba
ben congegnato". Con queste due metafore, i padri fondatori della fisica(classica e moderna) non
intendevano soltanto descrivere l'essenza dell'universo, ma anche definire il significato e i contorni del
lavoro dello scienziato. Attraverso l'immagine del libro della natura Galileo portava un attacco al principio
di autorità e a quella filosofia scolastica che si appoggiava a libri non scientifici.
Einstein contestava invece l'idea ingenua secondo cui l'opera dello scienziato sarebbe improntata a
un'assoluta libertà creativa e sosteneva che essa assomigliasse piuttosto a quella di un enigmista, il quale
"può proporre ogni volta qualsiasi parola come soluzione; ma ogni volta è solo una la parola che dà la
chiave per risolvere il cruciverba in tutte le sue parti".
Il fisico non può sottrarsi alle regole che la scienza e la natura gli dettano, perché è proprio nell'ambito di
tali regole che la sua creatività ha modo di manifestarsi più efficacemente. Egli è libero di scegliere i
concetti e le relazioni fondamentali con cui costruire le teorie, ma la sua libertà di scelta non è affatto simile
alla libertà di uno scrittore di romanzi.
Ci sono, a dire il vero, scrittori di romanzi che si sono imposti una libertà simile a quella degli scienziati:
una libertà che si manifesta nella sottomissione volontaria a un sistema di regole, che non compromettono
la creazione, ma anzi la favoriscono. Una delle opere più singolari di Italo Calvino è "Il castello dei destini
incrociati", un testo costruito interamente attorno ai tarocchi quattrocenteschi miniati da Bonifacio Bembo
per i Visconti di Milano. Disponendo le carte secondo strisce orizzontali e verticali inquadrate in un
rigoroso schema geometrico, Calvino compone una serie di storie che hanno per protagonisti le figure dei
tarocchi e si intrecciano là dove una striscia ne incrocia un'altra. Come egli stesso sottolinea, la griglia che
contiene i racconti ha una funzione strutturale: i vincoli che essa instaura stimolano la creazione delle storie
e ne suggeriscono il contenuto.
"Il gioco aveva senso solo se impostato secondo regole ferree: ci voleva una necessità generale di
costruzione che condizionasse l' incastro d'ogni storia nelle altre. [...] Al centro della narrazione per me non
è la spiegazione di un fatto straordinario, bensì l'ordine che questo fatto straordinario sviluppa in sé e
attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete di immagini che si depositano intorno ad esso come nella
formazione di un cristallo"
Nelle materie che non impongono vincoli non è possibile la creatività.
Le simmetrie svolgono un ruolo simile a quello del contenitore dei racconti incrociati di Calvino:
sovrintendono al cruciverba dell'universo e ne guidano la risoluzione- I fisici quindi in un certo senso,
convinti che la soluzione esista e sia sensata, tornano alla teoria del progetto platonica. E il primo ad
accorgersene fu probabilmente un personaggio anch'essa geniale e fuori dagli schemi: il poeta, filosofo,
epistemologo e fisico Gaston Bachelar, nel suo libro fondamentale: "Il nuovo Spirito Scientifico (1934)".