La peste finanziaria: crepe nel muro delle menzogne

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Qualcuno disse che occorre sorridere quando le nostre ragioni fioriscono sulle labbra
dell’avversario. Abraham Lincoln osservò che è possibile ingannare tutti per qualche tempo e alcuni
per tutto il tempo, ma non ingannare tutti per tutto il tempo. Tali sono i sentimenti che prova chi ha
speso anni a diffondere scomode verità in campo politico economico e finanziario, inascoltato ed
emarginato, alla lettura di un’intervista rilasciata ad un quotidiano specializzato da un professore di
economia di quelli importanti, mainstream, santuario inviolabile dell’ortodossia economica.
L’illustre docente è Fabrizio Pezzani, ordinario di economia e management alla Bocconi, ed il titolo
dell’intervista parla di “peste finanziaria”. Forse qualche muro, almeno qualche paratia della
possente diga eretta dai padroni del vapore e dai loro numerosi vassalli sta cominciando a cedere,
magari agisce un bizzarro “combinato disposto”, quello della verità effettuale, come la chiamava
Machiavelli, e dei segnali di insofferenza delle opinioni pubbliche di paesi insospettabili come Gran
Bretagna (Brexit) e Stati Uniti (effetto Trump).
Pezzani inizia enunciando un fatto, contro cui, “non valet argumentum”. L’odierna crisi è figlia
dell’evento più importante della seconda metà del Novecento prima della caduta del comunismo, la
cancellazione del sistema di cambi fissi e della convertibilità in oro del dollaro frutto della
conferenza di Bretton Woods. Quel giorno, era il 15 agosto 1971, il presidente americano Nixon
dichiarò chiusa un’epoca, ponendo le basi per un’economia sovraordinata alla finanza: la carta, poi
gli impulsi elettronici al posto della realtà. Quell’atto imperiale della potenza egemone sanciva un
fatto epocale: la moneta non rappresentava più il controvalore di qualcosa di reale (l’oro o
l’argento), ma si trasformava in misura del valore fiduciaria, forzosa, addirittura valore della misura
come capì Giacinto Auriti.
Gli Usa diventavano i finti debitori del mondo, giacché obbligavano tutti ad accettare dollari
garantiti unicamente dal ricatto della potenza militare americana. In accordo con i produttori di
idrocarburi, inventarono i “petrodollari”; ogni transazione doveva avvenire in bigliettoni verdi
(virtuali!) della Federal Reserve, convertibili in nulla.
Pezzani perviene ad una conclusione che somiglia all’uovo di Colombo: “la crisi? Possiamo uscirne,
ancorando la moneta a valori reali. E imponendo limiti alle banche”. Benvenuto all’inferno
professore! Chi, munito o no del suo prestigioso curriculum accademico, afferma queste cose è
trattato come un proscritto o un dilettante allo sbaraglio dalla stampa, dalla politica, e, ovviamente,
dai cosiddetti “esperti”, rizomatica metastasi contemporanea. Negli Stati Uniti, il senatore Ron Paul,
che si batte per restituire un ruolo di ancoraggio “monetario” all’oro, è stato osteggiato e dileggiato
per decenni.
La sua visione, peraltro, è inficiata dal monopolio londinese della famiglia Rothschild sul mercato
dell’oro, e dalla circostanza che il metallo giallo non è sfuggito alla finanziarizzazione, per cui girano
titoli, futures, derivati in quantità e valore immensamente superiore all’oro realmente disponibile. E’
diventata comune l’espressione “oro fisico” per definire il metallo davvero esistente, e tale
incredibile sintagma è forse il simbolo della presente follia, o peste, finanziaria. Il professor Pezzani
accoglie poi, con il prestigio della cattedra e di un inattaccabile curriculum, un’ulteriore esplosiva
opinione, sinora appannaggio di screditati complottisti, quella dell’esistenza di un disegno preciso di
dominio da parte di una cupola mondiale di iperpadroni.
Lo dice con linguaggio curiale, felpato, utilizzando una citazione di Noam Chomsky, ma il concetto è
chiarissimo e dirompente. Affermando che la crisi della finanza tossica ha “natura dolosa”, egli
riconosce che l’obiettivo dei manovratori è “costruire una sorta di senato sovranazionale virtuale, in
grado di orientare le scelte dei singoli Stati”. Colpito ed affondato! Al riparo dell’elegante periodare
dell’esperto di linguistica Chomsky, Pezzani afferma nientemeno che una cricca di padroni del
denaro vuole dominare il mondo. La Spectre esiste, dopotutto.
Ereticamente
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In un altro passaggio, il professore riconosce che la
separazione della moneta da un controvalore reale rende inconciliabili i mondi contrapposti di
economia e finanza. Da un lato, la realtà, ciò che è misurabile, concreto e soggetto a limiti, dall’altro
la nebulosa delle scommesse finanziarie. Al proposito, Ezra Pound scrisse una frase memorabile:
“per far piacere a coloro che amano il gioco d’azzardo, la Borsa permette a Caio di vendere a
Sempronio quel che non possiede”, aggiungendo che i suoi connazionali americani “invece della
corrida hanno scelto questo gioco”. Sappiamo che non di gioco si tratta, ma di un volgare,
gigantesco imbroglio le cui cifre reali sono indefinite ed assolutamente prive di contatto con la
verità. La finanza è forse l’ambito in cui si più dispiega il senso dell’hybris, l’assenza di limiti che ha
pervaso l’uomo occidentale.
E’ un buon segno che se ne rendano conto i cattedratici, poiché è dai luoghi della conoscenza che
devono partire le munizioni culturali e devono essere trovati gli antidoti contro la peste finanziaria.
Pezzani va oltre, prendendo atto della concentrazione della ricchezza in pochissime mani. Anch’egli,
tuttavia, finisce per scambiare l’albero con le radici: “la chiave sono le transazioni sui futures:
promesse d’acquisto virtuale, senza sottostante, mai portate a scadenza, perché sempre rinnovate”.
Verissimo, ed è coraggiosa la sua definizione del sistema dei CDS (Credit Default Swaps – il prodotto
finanziario che ha la funzione di trasferire su altri il rischio di credito) come la forma di una macrousura su scala mondiale. Il punto è che gli effetti non sono le cause, e la radice da cui si sviluppa
l’albero è il controllo dell’emissione e della circolazione monetaria.
Non esisterebbe la corrida, o il casinò finanziario, per usare il suggestivo lessico poundiano, se il
denaro dovesse essere convertito in qualcosa di concreto e visibile, e, soprattutto, se la sua
creazione non fosse stata lasciata in mano ai gestori della bisca finanziaria globale. L’articolo 1 della
costituzione degli Stati Uniti prevede che sia il Parlamento (neppure il governo!) a “battere moneta,
regolarne il valore e il valore della monete estere”. John Adams, secondo presidente americano,
affermò che i mali della nuova nazione derivavano dall’ignoranza della natura del denaro, del credito
e della loro circolazione. Non tutti i liberali, dunque, erano schierati con l’usura, ma qualcuno ha
vinto e gli altri, noi, i popoli, hanno perduto, anche per l’azione di molti colleghi del professore
Pezzani.
Probabilmente, non si può (ancora) chiedere alla corporazione degli economisti di dichiarare la loro
propria bancarotta scientifica, culturale e morale, ma si resta interdetti dinanzi all’ultima riflessione
che svolge il bocconiano. Alla domanda su come se ne esca, egli risponde che è urgente “qualche
forma di convertibilità della moneta e di regolazione della finanza”, soggiungendo che occorre
separare le banche commerciali da quelle d’affari.
Esiste un unico soggetto in grado di realizzare obiettivi tanto giusti ed ambiziosi, ed è lo Stato,
proprio quell’entità che il mondo economico e finanziario ha espulso dal campo di gioco. Le ottime
Ereticamente
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leggi bancarie italiane del periodo tra le due guerre, imitate dal famoso Glass Steagall Act
americano esistevano e funzionavano assai bene. Sono state abbattute verso la fine dagli anni 90 del
Novecento dal governo “democratico” di Bill Clinton e, a cascata, da quelli delle province
dell’impero, tra le quali l’Italia, sotto la guida di Massimo D’Alema, il pioniere dell’Unione Sovietica
che bombardò Belgrado. Quanto alla convertibilità della moneta, meglio sarebbe sottrarre
l’emissione ai privati banchieri e restituirla agli unici titolari della sovranità, gli Stati espressione dei
popoli.
Un boccone troppo difficile da digerire anche per accademici coraggiosi come Pezzani,
evidentemente. Una volta di più, appare evidente la disonestà intellettuale di una scienza, quella
economica, che, tra istogrammi, algoritmi e modelli matematici, evita di interrogarsi sino in fondo su
quell’entità che è insieme soggetto ed oggetto della materia, ovvero la moneta, il denaro.
Trascura anche un altro dettaglio, l’arroganza ideologica degli economisti e dei loro padroni, ovvero
che non esiste sviluppo o crescita infinita in un mondo finito, per cui la finanza è in contraddizione
con il principio di realtà. Talvolta, la parola giusta esce dalla bocca dei poeti. Francisco de Quevedo,
protagonista del secolo d’oro spagnolo, scrisse che “poderoso caballero es Don Dinero”, potente
cavaliere è Don Denaro. Tanto potente che non vuole neppure che i suoi adoratori indaghino sulla
sua natura. Finge di essere un mezzo, una semplice unità di misura, millanta di mantenere
un’impossibile neutralità tra le forze in campo.
Dopo decenni di egemonia, tuttavia, il monetarismo ed il suo dogma della scarsità annaspano,
sembrano in difficoltà anche presso il bastione universitario degli economisti embedded. E’ una
pessima abitudine dei fatti, quella di tornare a galla.
L’intervista al prof. Pezzani rilasciata da Italia Oggi
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