INSEGNAMENTO DI FILOSOFIA DEL DIRITTO II LEZIONE XI “GLI ISTITUTI GIURIDICI STRUMENTALI ALLA METODOLOGIA ERMENEUTICA: L’EQUITÀ E I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL DIRITTO” PROF. FRANCESCO PETRILLO Filosofia del diritto II Lezione XI Indice 1 L’equità ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 3 2 I principi fondamentali del diritto. --------------------------------------------------------------------- 8 Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 15 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI 1 L’equità Il nostro ordinamento, nella nostra Carta costituzionale, com’è noto, ha previsto che il giudice naturale sia precostituito per legge in un giudizio formale e ordinario. Tale previsione è in linea con l’impronta giuspositivista classica del nostro ordinamento: per il giuspositivismo classico, infatti, soltanto il giudice poteva essere “bocca della legge” e come il giuspositivismo logico negava che fosse possibile procedere all’interpretazione del diritto in mancanza della premessa maggiore del sillogismo, così per i teorici del giuspositivismo classico era impensabile che nell’ordinamento di Civil Law si potesse giudicare senza una fattispecie astrattamente data dal legislatore. Ciononostante, il nostro ordinamento consente eccezionalmente il c.d. giudizio di equità, ovvero un giudizio nel quale manca la premessa maggiore e, perciò, da alcuni definito: giudizio a <<sillogismo acefalo>>. Tale giudizio è un vero e proprio momento di negazione dell’ordinamento positivista, cioè di un ordinamento costruito come il nostro, cioè ordinato e completo. Un ordinamento di tale tipo ritiene prima facie inconcepibile giudicare in mancanza di premessa maggiore, di fattispecie astratta prevista dal legislatore. Pensiamo al giudizio arbitrale e all’ arbitraggio, alla legge istitutiva del Giudice di Pace che lo ha espressamente previsto, alla legge sulla mediazione e sulla conciliazione, ma soprattutto alla previsione normativa secondo la quale le parti di un giudizio possono, in qualunque fase del processo, concordemente chiedere al giudice che si pronunzi secondo equità, anche cioè nel caso in cui sussista una fattispecie astrattamente prevista e non vi siano lacune ordinamentali da colmare. Ove si versi nell’ipotesi di richiesta concorde delle parti tesa ad ottenere una decisione secondo equità, il soggetto giudicante potrà o tener conto delle fattispecie astrattamente prevista dall’ordinamento per poi allontanarsene allo scopo di operare il contemperamento degli interessi in gioco e successivamente ancora pervenire alla stessa premessa logica da cui prima è partito e poi si è allontanato (circolarità triadica dell’equità) o non tenere affatto in considerazione la fattispecie astrattamente prevista dal legislatore e giudicare relazionandosi direttamente ai soggetti sui quali va ad incidere la sua decisione (circolarità diadica o pura). L’equità è una delle fonti del diritto (articolo 1 delle Preleggi al codice civile) insieme con la legge, i regolamenti, gli usi. Nel nostro ordinamento sopravvive sia la tradizione formale dell’equità di origine greca (pensiamo a quanto trasmessoci da Aristotele), secondo cui l’equità è un correttivo Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 3 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI della legge; sia la tradizione sostanziale di origine latina: jus est aequitas constituta, cioè l’equità è sostanza della giuridicità, momento di esteriorizzazione del diritto sostanziale. Verifichiamo anche per l’equità se essa abbia o meno una valenza ermeneutica. Come detto, già nell’antica Grecia era presente l’idea dell’equità come <<un correttivo per la giustizia contro la legge>> (Aristotele). Quindi, fin dall’antichità, il giudizio reso secondo equità viene inteso, in senso formale, più che come un giudizio vero e proprio, ordinario, come un giudizio alternativo. La particolarità del giudizio reso secondo equità come correttivo della legge è quella di essere privo della premessa maggiore del sillogismo, di essere un sillogismo <<acefalo>>, ma pur sempre un giudizio logico sillogistico. È questo il momento in cui l’aspetto formale e quello sostanziale del giudizio di equità coincidono. Se vogliamo, perciò, individuare la ragione prima del diritto dobbiamo comprendere che la sostanza pura dell’equità consiste nel contemperamento degli interessi tra le parti. Per gli antichi romani emettere un giudizio che contemperi gli interessi è necessario mettere in relazione due o più interessi in concreto e non in abstracto, cioè nel momento stesso in cui viene reso il giudizio. Conseguentemente, il momento che accomuna l’equità intesa come sostanza, cioè come fondamento del diritto e l’equità intesa come forma, cioè come correttivo formale del diritto per raggiungere la giustizia contro la legge, è proprio il momento della valutazione concreta, ovvero del contemperamento degli interessi che emerge dal giudizio di equità. Carlo Maria De Marini, noto giusprocessualista, aveva scritto un libro, intitolato Il giudizio di equità nel processo civile in cui aveva riflettuto sul problema dell’essenza prima dell’equità nel processo civile. Quest’ultima emerge dal processo civile non soltanto come giurisdizionale ovvero applicativa e pratica, ma anche come sostanziale, proprio perché il giudizio di equità è ad un tempo forma e sostanza. Questo Autore, in particolare, coglie l’aspetto fondamentale del giudizio reso secondo equità, e cioè che esso si realizza come la decisione del soggetto giudicante di fronte al soggetto giudicato senza la mediazione normativa. Non rileva a nulla dire che nel giudizio di equità il giudice può anche citare un articolo del codice poiché il giudice non è tenuto a citare un articolo del codice, non è tenuto a citare una legge. Nel giudizio di equità il giudice contempera, mette in relazione due interessi a prescindere dalla legge, non ha più bisogno di fare riferimento ad una fattispecie astratta. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 4 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI Essendo, dunque, il giudizio di equità caratterizzato dal non essere un sillogismo logico v’è da chiedersi se vi sia un modo per garantirsi che sia un giudizio giusto. La risposta è da ricercarsi proprio nella possibilità che la natura sostanziale e formale dell’equità coincidano con il contemperamento degli interessi in gioco. Dal punto di vista del quid ius, possiamo ritenere plausibile nell’ambito del nostro ordinamento il giudizio di equità solo intendendolo come fortemente precomprensivo: il soggetto che giudica secondo equità deve essere un soggetto che abbia un forte habitus. De Marini aveva affermato che il problema del giudizio di equità consisteva nel fatto che il soggetto che giudica secondo equità, non potendo giudicare applicando la fattispecie astratta al caso concreto, deve aggiungere qualcosa in più, per cui, oltre a possedere competenze giuridiche, deve avere anche una forte esperienza giuridica, dei particolari requisiti, delle particolari attitudini al giudizio: non tutti siamo fatti per giudicare! Pensiamo, ad esempio all’attitudine a porsi come terzi rispetto al giudizio: come si farebbe, altrimenti a contemperare due o più interessi in gioco se si prendessero le parti dell’uno o dell’altro soggetto giudicato? La perfetta terzietà però, in mancanza di una norma che abbia previsto astrattamente una certa fattispecie non basta a garantire il giudizio. Per tale ragione, il giudizio reso secondo equità richiede che il giudicante abbia un particolare habitus, una particolare esperienza, che può prendere il nome di sostanza del giudizio di equità. Il giudizio giuridico spesso richiede una particolare esperienza, una particolare attitudine (come abbiamo già scritto per la discrezionalità): la precomprensione Qualche autore (Vittorio Scialoja, per esempio) ha accomunato la discrezionalità sovrana del legislatore alla discrezionalità sovrana dell’organo amministrativo e al giudice che decide secondo equità. Il giudice che giudica secondo equità decide in maniera sovrana sul caso, ovvero senza la mediazione della fattispecie astratta; è chiaro, cioè, che nel momento in cui viene a mancare la mediazione della fattispecie astratta, la mediazione del testo di legge, e i soggetti giudicati attribuiscono al soggetto giudicante quello che potremmo definire un potere sovrano, discrezionale, quasi assoluto (tant’è che solo attraverso il ricorso per Cassazione si potrà porre una correzione ermeneutica al giudizio reso secondo equità) il giudizio diventa un giudizio diretto fra soggetto giudicante e soggetto giudicato. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 5 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI In tal senso il giudizio di equità è assolutamente circolare dal punto di vista sostanziale, in altri termini c’è un quid ius circolare dell’equità: la circolarità tra soggetto giudicante e soggetto giudicato senza la mediazione di un testo normativo diventa una circolarità pura o diadica, senza intermediazioni. In questo caso, l’oggetto dell’interpretazione giuridica è non solo e non è più il documento normativo, non solo non è più la norma, ma piuttosto è l’attività svolta dai soggetti. Si può affermare che l’equità, più di tutti gli altri istituti giuridici, ci fa intendere quanto l’ermeneutica giuridica sia perfino più strutturata dal punto di vista metodologico dell’ermeneutica filosofica, e quanto l’interpretazione del diritto, rispetto all’interpretazione di tanti altri campi del sapere, possa diventare un rapporto assolutamente diretto tra soggetto interpretante e soggetto interpretato. Dal punto di vista del quid iuris, invece, proprio la comunanza di sostanza e forma nell’equità, cioè il fatto che l’equità sia allo stesso tempo sostanza del diritto in quanto sua fonte, e forma in quanto correttivo formale del diritto (possibilità di verificare se il giudice abbia effettivamente contemperato gli interessi in gioco), permette di considerare l’aspetto della precomprensione come criterio di validazione del giudizio. Il giudizio di equità è un giudizio valido se il soggetto che lo ha emanato è davvero un soggetto precomprendente, cioè se è davvero un soggetto che ha un particolare habitus. Per i teorici logico-analitici, ad esempio, tutti possano interpretare la Costituzione, mentre secondo l’impostazione ermeneutica non tutti possano interpretarla, ma soltanto il giudice costituzionale in quanto precomprensivo. Ecco perché il giudice costituzionale può interpretare dei principi fondamentali, che esistono da prima della legge e che sono vincolanti a prescindere dalla legge stessa. L’ermeneutica va intesa come metodo di controllo e perciò di garanzia del giudizio nel senso di evitare che il giudizio giuridico sia arbitrario. Ciò è possibile verificando la sussistenza dei canoni ermeneutici attinenti alla precomprensione e alla circolarità attraverso l’equità. E’ evidente, infatti che nel momento in cui non possiamo più credere ai miti della certezza della legge, della completezza dell’ordinamento, del giudice bocca della legge, il problema che sorge è quello di controllare la discrezionalità del giudice, il suo eventuale mero arbitrio. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 6 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI L’equità, appunto, come struttura della metodologia ermeneutica nella prospettiva del quid iuris, consente di verificare la sussistenza di precomprensione e circolarità nello svolgimento dell’attività volitiva del soggetto giudicante. Il tipo di controllo che andremo ad effettuare riguarderà non semplicemente la corrispondenza del documento alla legge -non come hanno sempre inteso i teorici logico-analitici secondo un’interpretare conoscitiva del testo giuridico- ma la complessiva attività giuridica. In particolare, l’equità come strumento di controllo permette di: 1) considerare la precomprensione critica dei soggetti giudicanti e quindi di non ammettere che ogni soggetto giuridico possa decidere secondo equità; 2) considerare gli effetti della decisione giuridica sul soggetto giudicato; 3) da altro punto di vista, di verificare, riaprendo del tutto in sede correttiva ermeneutica l’analisi sul giudizio, tutta la complessiva attività svolta dalle parti anche al di là della applicazione possibile delle fattispecie astratte al caso concreto. Sarà perciò possibile effettuare tale tipo di verifica anche nel caso in cui il giudizio sia stato reso non come ordinariamente avviene secondo legge ma secondo principi fondamentali o secondo equità, poiché trattasi di un controllo che va al di là di quello strettamente legale. Come, altrimenti si potrebbe in ogni caso garantire un processo giusto ex art. 111 della Costituzione? L’ermeneutica correttiva del giudizio giuridico erroneo soccorre il giurista interprete proponendo delle soluzioni in detta direzione. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 7 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI 2 I principi fondamentali del diritto. L’ultimo strumento ermeneutico da considerare per cogliere come la metodologia ermeneutica possa applicare, mediante la canonistica, la giuridicità ai casi concreti, seppur in assenza di fattispecie astrattamente previste dal legislatore cui ricondurre quei casi concreti, e, ancora per far sì che l’ermeneutica soccorra come correttivo di giudizi già resi, consiste nei principi fondamentali del diritto. Tale strumento è particolarmente rilevante. Basti pensare che anche all’interno delle teorie cognitive, oggi, si ricorre ai principi fondamentali del diritto per motivare il passaggio dalle c.d. teorie logico- analitiche a quelle logico-argomentative. Dunque, tenendo presente che in tema di interpretazione di atti giuridici anche le teorie logico-analitiche da almeno un quindicennio stanno spostando la loro prospettiva di analisi interpretativa dalla fattispecie normativa ai principi generali del diritto, possiamo procedere alla distinzione tra principi generali del diritto e principi fondamentali del diritto. I principi fondamentali del diritto sono i principi posti a base dell’ordinamento. Sono i principi che vengono prima delle norme e, in tal senso, sono una negazione non solo un’eccezione dell’ordinamento positivista. Diversamente, i principi generali del diritto (per intenderci, quelli di cui all’articolo 12, secondo comma, delle disposizioni generali sulla legge del codice civile) vengono desunti da norme esistenti nell’ordinamento, partendo da un singolo caso e andando verso una maggiore astrazione e generalizzazione della norma stessa. Si ricorre ai principi generali del diritto in particolare quando si procede all’analogia iuris, che è valvola di chiusura di un sistema ordinamentale concepito come completo . Il procedimento analogico non è logico, non parte cioè da una premessa logica, né riscontrabile in natura, né riscontrabile come dogma ordinamentale. Pur tuttavia, in assenza di una premessa logica, di una premessa maggiore, garantiamo con la procedura analogica di giungere comunque ad un argumentum, in quanto muoviamo dalla ricerca di una norma che regoli una fattispecie simile seppure diversa da quella in esame. In mancanza, poi, di una norma che regoli un caso analogo, ricorriamo ad una premessa ancor meno logica, cioè astraiamo e generalizziamo la norma fino a ricavarne un principio. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 8 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI Tale principio viene, infine, utilizzato per compiere il procedimento logico che avremmo dovuto svolgere se fosse esistita una norma specifica per regolare la fattispecie concreta. Secondo le teorie cognitive è sempre fondamentale avere una premessa logica perché un ragionamento giuridico possa concludersi con un argumentum. In tale prospettiva i principi generali del diritto sono considerati in sede analogica come una premessa logica, che sostituisce la premessa che non c’è. I principi fondamentali del diritto, invece, non derivano assolutamente dalle norme, essi, anzi sono posti prima delle norme sono il fondamento delle stesse, si costruiscono, perciò in una sede non ordinamentale fuori dal tempo e dallo spazio ordinamentale. Uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento è la riserva di legge. Confrontando tale principio con quanto previsto dagli articoli 1 del codice penale e 14 delle disposizioni generali sulla legge al codice civile si comprende che la riserva di legge è principio fondamentale cui le norme positive si adeguano. Similmente, il principio del giudice naturale precostituito per legge. In definitiva, i principi fondamentali non sono posti dall’ordinamento, ma lo precedono. Eppure, si tenta costantemente di negare detta precedenza, come ad esempio quando si discute di diritti umani. Non volendosi ammettere l’esistenza di principi fondamentali riconducibili al genus dei diritti umani, che prescindano dalle fattispecie ordinamentali, li si considera, anziché principi fondamentali, principi generali, sostenendo che è dalle norme che si ricavano i principi fondamentali in tema di diritti umani dell’individuo. Il nodo da sciogliere è se i principi fondamentali possano entrare nella questione dell’ interpretazione giuridica autonomamente all’interno degli ordinamenti di Civil Law, continentali, come il nostro, o se essi , invece, riguardino solo gli ordinamenti di Common Law. Per gli ordinamenti di diritto anglosassone la distinzione tra principi fondamentali e principi generali del diritto è sempre stato chiaro e i principi fondamentali del diritto, che precedono le leggi, possano entrare a far parte di un giudizio giuridico, di un procedimento interpretativo del diritto . Tant’è che i sistemi di Common Law, riconoscono che l’argomentazione di un giudice si possa basare non solo su leggi scritte ma anche sui Rights (principi primi non scritti che si distinguono dalle Laws scritte) e sulle cosiddette politiche governative. Questo tipo di approccio è possibile per il fatto che i sistemi anglosassoni non sono stati costruiti su un’idea di Stato quale soggetto emanatore di legge, dal momento che l’amministrazione, Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 9 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI cioè il governo non ha rapporti con la politica parlamentare ed emana autonomamente le sue normative. Nei sistemi di Common Law è venuta meno l’idea giuspositivistica classica dell’unico soggetto legislatore, e con essa il principio per cui tutto ciò che non è legge non è diritto. Conseguentemente, la questione dei principi fondamentali da una parte e dei principi generali dall’altra per questi sistemi non si pone. Come pure è ovvio per i sistemi di Common Law che il giudizio reso da soggetto giudicante è certamente un giudizio che contiene in sé elementi di discrezionalità, per cui oggetto possibile della decisione sarà tanto la legge scritta quanto il principio fondamentale, quanto la legge provvedimentale dell’amministrazione governativa. Questa possibilità del soggetto giudicante di tener conto nel suo giudizio non soltanto delle leggi, ma anche di principi fondamentali, e delle politiche governative, cioè degli interessi collettivi, regolati di volta in volta dall’amministrazione, in seno alle teorie cognitive ha attraversato l’oceano ed è penetrata anche nei sistemi continentali. Si è ritenuto da parte dei teorici logico-analitici che l’interpretazione della legge, in determinate materie, debba caratterizzarsi per essere un’interpretazione che pur necessitando di premesse logico-normative, può essere argomentata tenendo conto dei principi generali e fondamentali del diritto. In questo modo i teorici logico-cognitivi hanno potuto giustificare gran parte delle interpretazioni rese dalla nostra Corte costituzionale, che altrimenti non sarebbero state giustificabili secondo i criteri dell’ interpretazione logico-analitica, ma anche gran parte delle interpretazioni rese nell’ambito di giudizi dati secondo equità e delle interpretazioni delle Corti di giustizia internazionale. In questa prospettiva, l’interpretazione si è posta come una mera argomentazione logica, che parte da premesse normative per giungere a conclusioni che riguardano i principi universali del diritto, tant’è che uno dei più chiari studiosi delle teorie argomentative o neocostituzionaliste, Luigi Ferraoli ha fatto riferimento ai principia iuris come a delle argomentazioni necessarie in sede di interpretazione per cui, si badi, pur sempre partendo dalla premessa logico normativa, è possibile giungere ad argomentare sui diritti, specie in alcuni tipi di interpretazione, quali per esempio le interpretazioni delle Corti costituzionali e delle Corti internazionali. La critica che l’ermeneutica muove nei confronti di questo atteggiamento di recupero da parte delle teorie cognitive della giurisprudenza sociologica americana, cioè dell’interpretazione di Common Law, la quale, come detto, tiene conto non solo delle leggi scritte ma anche dei principi Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 10 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI fondamentali del diritto, quindi non solo delle Laws, ma anche dei Rights e delle Politiche Governative, è fondata proprio sull’ interpretazione dei principi fondamentali, nel senso che non si accetta da parte dell’ermeneutica giuridica che i principi generali del diritto possano essere equiparati ai principi fondamentali per la semplice ragione che i principi fondamentali sono principi non ponibili come premesse maggiori di un sillogismo logico. L’ermeneutica giuridica intende i principi fondamentali del diritto come strumenti della sua metodologia e, considerandoli tali, si pone il problema di ricercare il loro fondamento ermeneutico, posto che nulla hanno a che vedere con i principi generali, e quindi non possono essere inseriti all’interno di un ragionamento logico-argomentativo, dal momento che il ragionamento logicoargomentativo deve procedere dal punto di vista normativo a partire dalla premessa logica per poi applicare al caso concreto la premessa normativa che è fattispecie astratta rispetto al caso concreto. L’ermeneutica giuridica si è quindi posta il problema di individuare il quid ius dei principi fondamentali del diritto e se possono essere utili a verificare la validità di giudizi complessi come i giudizi costituzionali o i giudizi in materia internazionale. Ronald Dworkin, padre della giurisprudenza americana e uno dei consulenti chiave del Presidente Obama, in un suo volume, intitolato I diritti presi sul serio, si è posto il problema della discrezionalità del giudice. Cercando di rapportare l’utilitarismo americano con il liberalismo, ovvero l’utilitarismo, che cerca di collegare la felicità del maggior numero di persone con la libera espressione della volontà individuale, Dworkin si è chiesto se e come potesse il giudice decidere con la propria discrezionalità a prescindere dalle leggi scritte in presenza di esigenze collettive o individuali superiori all’interesse della legge. Grazie a questo studio di Dworkin, che ha parlato di diritti contro lo stato e diritti contro le leggi, si è ampliata la prospettiva delle teorie logico-cognitivistiche a favore di un’interpretazione del diritto non limitata all’ applicazione delle fattispecie astratte al caso concreto, ma più incline ad argomentazioni in grado di andare al di là delle premesse pur senza negarle. La questione inerente al rapporto tra principi generali del diritto e principi fondamentali del diritto è sorta nel nostro paese negli anni ’50, allorquando qualcuno aveva ipotizzato già una crisi del diritto. Alcuni altri autori come Caiani, Capograssi, Calamandrei, studiando problematiche nate soprattutto in Francia, si erano interrogati, in quegli anni, sul rapporto tra validità e valore normativo. In argomento, ricordiamo che abbiamo avuto modo di soffermarci in precedenza su una fondamentale questione sorta nell’ambito del giuspositivismo logico e cioè quella della possibile Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 11 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI ricomprensione di tutti i valori all’interno della validità normativa. Una norma non è valida perché è giusta ma è giusta perché è valida. Già negli anni ’50 in Italia si era posta la questione dei valori che vengono formalizzati all’interno della norma giuridica, e pare che un nostro filosofo del diritto, Angelo Ermanno Cammarate, fosse impazzito per risolvere questo problema del rapporto tra formalità e sostanza del diritto, tra i valori che richiedono l’emanazione della norma giuridica e la norma giuridica che contiene in sé dei valori. Ciò che rileva per il giurista positivista è la validità della norma, non i valori in essa contenuti. Ma, a ben vedere, la validità normativa ha un senso in quanto contenga in sé dei valori che sussistono prima della norma. Questi principi detti fondamentali sono in realtà negazioni degli ordinamenti logicopositivisti, perché non ammettono la completezza dell’ordinamento giuridico. Se infatti l’ordinamento giuridico fosse completo esso conterrebbe nelle sue norme tutto l’insieme dei principi possibili. Se invece si riconosce l’esistenza di principi fondamentali provenienti non necessariamente da un determinato luogo o da un determinato spazio o da un determinato tempo, è chiaro che si fa riferimento a principi diversi da quelli generali, i quali svolgono la funzione di valvola di chiusura del sistema. Anche per le teorie cognitiviste, i principi fondamentali del diritto rappresentano una questione giuridica, sono un istituto giuridico, tant’è che vengono compresi nell’ambito delle logiche argomentative. Dal punto di vista dell’ermeneutica giuridica bisogna chiedersi se i principi fondamentali del diritto per la loro natura sostanziale possono essere considerati giuridicamente ermeneutici. Dal punto di vista del quid ius cioè del loro fondamento giuridico, dire che sono ermeneutici, significa verificare se sussistano nella struttura giuridica dei principi fondamentali la precomprensione critica e la circolarità ermeneutica. La precomprensione critica è l’attitudine a giudicare in un determinata materia, ma anche un elemento di validazione del giudizio. I principi fondamentali del diritto, considerata la loro estesa operatività e la loro assoluta complessità, non possono essere interpretati da ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, il soggetto preposto alla interpretazione dei principi deve essere un soggetto con particolare attitudine Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 12 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI precomprensiva perché sia più probabile che i principi fondamentali vengano conosciuti in tutta la loro complessità. Ecco perché si deve ritenere che la precomprensione dei principi fondamentali sia possibile soltanto per alcune Corti di giustizia internazionali o per le Corti costituzionali o per alcune Corti supreme le quali controllano l’attività interpretativa pregressa. La Corte di cassazione può, per esempio, in sede correttiva, applicare i principi fondamentali del diritto per scardinare un’interpretazione logico-argomentativa erronea che non abbia considerato la complessiva attività dei soggetti. Sono i principi fondamentali circolari? I principi fondamentali del diritto si rivolgono all’essenza prima della circolarità ermeneutica. Abbiamo già avuto modo di parlare di ricaduta dell’attività di un soggetto giudicante su un soggetto giudicato, e del fatto che non esiste un giudizio giuridico in cui l’interpretazione rimane solo di tipo meramente cognitivo: gli effetti dell’interpretazione ricadono immediatamente sul soggetto giudicato. Questa circolarità forte che abbiamo già riscontrato nel giudizio di equità, si pone come circolarità diadica e si coglie massimamente, anche nel caso dei principi fondamentali del diritto, nei rapporti tra soggetto giudicato e soggetto giudicante, quali parti della medesima collettività politico-sociale. Il soggetto giudicante non è un soggetto estraneo al giudizio. Dal punto di vista circolare ermeneutico è piuttosto un soggetto che partecipa al giudizio. Un giudice costituzionale che negli anni ’70 concedeva a tutti quanti la proroga del termine entro cui lasciare libero l’alloggio, bilanciando l’interesse dei proprietari e l’interesse degli inquilini, senza richiamare nessuna norma di legge, dal momento che la Carta Costituzionale, anzi sembrava essere più favorevole al diritto di proprietà, si trovava direttamente in relazione con il soggetto giudicato, che era la complessiva collettività civile. Ora se quel giudice costituzionale italiano fosse stato di Common Law non avrebbe avuto problemi, perché avrebbe potuto ben dire anche negli anni ’70, di aver fatto prevalere le esigenze di politica governativa, cioè le esigenze dell’ amministrazione, della collettività, dell’equilibrio sociale. Dal punto di vista ermeneutico, un giudice, ponendosi di fronte ad un caso come quello descritto, non può escludere che un figlio o un nipote sia sotto sfratto: l’interesse del soggetto giudicante e l’interesse del soggetto giudicato nei principi fondamentali del diritto, nella prospettiva della circolarità ermeneutica, vanno a coincidere. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 13 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI La circolarità ermeneutica studiata dai filosofi è per noi giuristi un concetto chiarissimo. Probabilmente non c’è circolarità ermeneutica, dal punto di vista interpretativo, più forte di quella che si sviluppa nel mondo del diritto, perché è l’attività giuridica che mette decisamente un soggetto di fronte ad un alto soggetto in un momento in cui entrambi sono parti di uno stesso giudizio nel senso che il soggetto giudicante non è un deus ex machina che vive al di là degli interessi conflittuali della società civile, e quindi giudica a prescindere da interessi giuridici collettivi circolari comprendenti tutta la collettività. Gli effetti della sua decisione, ricadono infatti non solo sulla società giudicata, ma anche su se stesso (sul soggetto giudicante che di quella società fa parte). E’ questo che rende osmotica la circolarità ermeneutica giuridica, è questo che ci fa capire perché i principi fondamentali del diritto sono decisamente circolari, perchè appartengono al soggetto giudicante e a quello giudicato. Quando noi giuristi interpretiamo una legge non interpretiamo soltanto la legge documentale, ma la interpretazione (giurisprudenza) della legge stessa: i principi fondamentali del diritto richiedono molteplici interpretazioni dell’ interpretazione. Il diritto è lo studio di un insieme di interpretazioni ed il procedere di queste interpretazioni ci fa capire come si sono snodate le questioni. I principi fondamentali del diritto come strumenti della metodologia ermeneutica servono a verificare, insieme alla discrezionalità e all’equità, quanto la precomprensione e la circolarità siano sussistite all’interno di un processo giurisdizionale e, dunque, dal punto di vista del quid iuris, consentono di verificare se una decisione sia, dal punto di vista metodologico-ermeneutico, valida o non valida. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 14 di 15 Filosofia del diritto II Lezione XI Bibliografia AA.VV., L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, a cura di A. Palazzo, Esi, Napoli, 2001; AA.VV., Diritto, giustizia e interpretazione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari, 1998. AA.VV. , Interpretazione costituzionale, a cura di G. Azzariti, Giappichelli, Torino, 2007; G.M. CHIODI, Equità. La regola costitutiva del diritto, Giappichelli, Torino, 2000. R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, trad.it. il Mulino, Bologna, 1985. L. FERRAJOLI, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2007. M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1987. F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Cedam, Padova, 2009; F. 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