INSEGNAMENTO DI
FILOSOFIA DEL DIRITTO II
LEZIONE XI
“GLI ISTITUTI GIURIDICI STRUMENTALI ALLA METODOLOGIA
ERMENEUTICA: L’EQUITÀ E I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL
DIRITTO”
PROF. FRANCESCO PETRILLO
Filosofia del diritto II
Lezione XI
Indice
1
L’equità ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 3
2
I principi fondamentali del diritto. --------------------------------------------------------------------- 8
Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 15
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Lezione XI
1 L’equità
Il nostro ordinamento, nella nostra Carta costituzionale, com’è noto, ha previsto che il
giudice naturale sia precostituito per legge in un giudizio formale e ordinario.
Tale previsione è in linea con l’impronta giuspositivista classica del nostro ordinamento: per
il giuspositivismo classico, infatti, soltanto il giudice poteva essere “bocca della legge” e come il
giuspositivismo logico negava che fosse possibile procedere all’interpretazione del diritto in
mancanza della premessa maggiore del sillogismo, così per i teorici del giuspositivismo classico era
impensabile che nell’ordinamento di Civil Law si potesse giudicare senza una fattispecie
astrattamente data dal legislatore. Ciononostante, il nostro ordinamento consente eccezionalmente il
c.d. giudizio di equità, ovvero un giudizio nel quale manca la premessa maggiore e, perciò, da
alcuni definito: giudizio a <<sillogismo acefalo>>. Tale giudizio è un vero e proprio momento di
negazione dell’ordinamento positivista, cioè di un ordinamento costruito come il nostro, cioè
ordinato e completo.
Un ordinamento di tale tipo ritiene prima facie inconcepibile giudicare in mancanza di
premessa maggiore, di fattispecie astratta prevista dal legislatore. Pensiamo al giudizio arbitrale e
all’ arbitraggio, alla legge istitutiva del Giudice di Pace che lo ha espressamente previsto, alla legge
sulla mediazione e sulla conciliazione, ma soprattutto alla previsione normativa secondo la quale le
parti di un giudizio possono, in qualunque fase del processo, concordemente chiedere al giudice che
si pronunzi secondo equità, anche cioè nel caso in cui sussista una fattispecie astrattamente prevista
e non vi siano lacune ordinamentali da colmare.
Ove si versi nell’ipotesi di richiesta concorde delle parti tesa ad ottenere una decisione
secondo equità, il soggetto giudicante potrà o tener conto delle fattispecie astrattamente prevista
dall’ordinamento per poi allontanarsene allo scopo di operare il contemperamento degli interessi in
gioco e successivamente ancora pervenire alla stessa premessa logica da cui prima è partito e poi si
è allontanato (circolarità triadica dell’equità) o non tenere affatto in considerazione la fattispecie
astrattamente prevista dal legislatore e giudicare relazionandosi direttamente ai soggetti sui quali va
ad incidere la sua decisione (circolarità diadica o pura).
L’equità è una delle fonti del diritto (articolo 1 delle Preleggi al codice civile) insieme con la
legge, i regolamenti, gli usi. Nel nostro ordinamento sopravvive sia la tradizione formale dell’equità
di origine greca (pensiamo a quanto trasmessoci da Aristotele), secondo cui l’equità è un correttivo
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della legge; sia la tradizione sostanziale di origine latina: jus est aequitas constituta, cioè l’equità è
sostanza della giuridicità, momento di esteriorizzazione del diritto sostanziale.
Verifichiamo anche per l’equità se essa abbia o meno una valenza ermeneutica.
Come detto, già nell’antica Grecia era presente l’idea dell’equità come <<un correttivo per
la giustizia contro la legge>> (Aristotele). Quindi, fin dall’antichità, il giudizio reso secondo equità
viene inteso, in senso formale, più che come un giudizio vero e proprio, ordinario, come un giudizio
alternativo.
La particolarità del giudizio reso secondo equità come correttivo della legge è quella di
essere privo della premessa maggiore del sillogismo, di essere un sillogismo <<acefalo>>, ma pur
sempre un giudizio logico sillogistico.
È questo il momento in cui l’aspetto formale e quello sostanziale del giudizio di equità
coincidono. Se vogliamo, perciò, individuare la ragione prima del diritto dobbiamo comprendere
che la sostanza pura dell’equità consiste nel contemperamento degli interessi tra le parti.
Per gli antichi romani emettere un giudizio che contemperi gli interessi è necessario mettere
in relazione due o più interessi in concreto e non in abstracto, cioè nel momento stesso in cui viene
reso il giudizio.
Conseguentemente, il momento che accomuna l’equità intesa come sostanza, cioè come
fondamento del diritto e l’equità intesa come forma, cioè come correttivo formale del diritto per
raggiungere la giustizia contro la legge, è proprio il momento della valutazione concreta, ovvero del
contemperamento degli interessi che emerge dal giudizio di equità.
Carlo Maria De Marini, noto giusprocessualista, aveva scritto un libro, intitolato Il giudizio
di equità nel processo civile in cui aveva riflettuto sul problema dell’essenza prima dell’equità nel
processo civile. Quest’ultima emerge dal processo civile non soltanto come giurisdizionale ovvero
applicativa e pratica, ma anche come sostanziale, proprio perché il giudizio di equità è ad un tempo
forma e sostanza. Questo Autore, in particolare, coglie l’aspetto fondamentale del giudizio reso
secondo equità, e cioè che esso si realizza come la decisione del soggetto giudicante di fronte al
soggetto giudicato senza la mediazione normativa. Non rileva a nulla dire che nel giudizio di equità
il giudice può anche citare un articolo del codice poiché il giudice non è tenuto a citare un articolo
del codice, non è tenuto a citare una legge. Nel giudizio di equità il giudice contempera, mette in
relazione due interessi a prescindere dalla legge, non ha più bisogno di fare riferimento ad una
fattispecie astratta.
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Essendo, dunque, il giudizio di equità caratterizzato dal non essere un sillogismo logico v’è
da chiedersi se vi sia un modo per garantirsi che sia un giudizio giusto.
La risposta è da ricercarsi proprio nella possibilità che la natura sostanziale e formale
dell’equità coincidano con il contemperamento degli interessi in gioco.
Dal punto di vista del quid ius, possiamo ritenere plausibile nell’ambito del nostro
ordinamento il giudizio di equità solo intendendolo come fortemente precomprensivo: il soggetto
che giudica secondo equità deve essere un soggetto che abbia un forte habitus.
De Marini aveva affermato che il problema del giudizio di equità consisteva nel fatto che il
soggetto che giudica secondo equità, non potendo giudicare applicando la fattispecie astratta al caso
concreto, deve aggiungere qualcosa in più, per cui, oltre a possedere competenze giuridiche, deve
avere anche una forte esperienza giuridica, dei particolari requisiti, delle particolari attitudini al
giudizio: non tutti siamo fatti per giudicare! Pensiamo, ad esempio all’attitudine a porsi come terzi
rispetto al giudizio: come si farebbe, altrimenti a contemperare due o più interessi in gioco se si
prendessero le parti dell’uno o dell’altro soggetto giudicato?
La perfetta terzietà però, in mancanza di una norma che abbia previsto astrattamente una
certa fattispecie non basta a garantire il giudizio.
Per tale ragione, il giudizio reso secondo equità richiede che il giudicante abbia un
particolare habitus, una particolare esperienza, che può prendere il nome di sostanza del giudizio di
equità.
Il giudizio giuridico spesso richiede una particolare esperienza, una particolare attitudine
(come abbiamo già scritto per la discrezionalità): la precomprensione
Qualche autore (Vittorio Scialoja, per esempio) ha accomunato la discrezionalità sovrana del
legislatore alla discrezionalità sovrana dell’organo amministrativo e al giudice che decide secondo
equità.
Il giudice che giudica secondo equità decide in maniera sovrana sul caso, ovvero senza la
mediazione della fattispecie astratta; è chiaro, cioè, che nel momento in cui viene a mancare la
mediazione della fattispecie astratta, la mediazione del testo di legge, e i soggetti giudicati
attribuiscono al soggetto giudicante quello che potremmo definire un potere sovrano, discrezionale,
quasi assoluto (tant’è che solo attraverso il ricorso per Cassazione si potrà porre una correzione
ermeneutica al giudizio reso secondo equità) il giudizio diventa un giudizio diretto fra soggetto
giudicante e soggetto giudicato.
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In tal senso il giudizio di equità è assolutamente circolare dal punto di vista sostanziale, in
altri termini c’è un quid ius circolare dell’equità: la circolarità tra soggetto giudicante e soggetto
giudicato senza la mediazione di un testo normativo diventa una circolarità pura o diadica, senza
intermediazioni.
In questo caso, l’oggetto dell’interpretazione giuridica è non solo e non è più il documento
normativo, non solo non è più la norma, ma piuttosto è l’attività svolta dai soggetti.
Si può affermare che l’equità, più di tutti gli altri istituti giuridici, ci fa intendere quanto
l’ermeneutica giuridica sia perfino più strutturata dal punto di vista metodologico dell’ermeneutica
filosofica, e quanto l’interpretazione del diritto, rispetto all’interpretazione di tanti altri campi del
sapere, possa diventare un rapporto assolutamente diretto tra soggetto interpretante e soggetto
interpretato.
Dal punto di vista del quid iuris, invece, proprio la comunanza di sostanza e forma
nell’equità, cioè il fatto che l’equità sia allo stesso tempo sostanza del diritto in quanto sua fonte, e
forma in quanto correttivo formale del diritto (possibilità di verificare se il giudice abbia
effettivamente contemperato gli interessi in gioco), permette di considerare l’aspetto della
precomprensione come criterio di validazione del giudizio.
Il giudizio di equità è un giudizio valido se il soggetto che lo ha emanato è davvero un
soggetto precomprendente, cioè se è davvero un soggetto che ha un particolare habitus.
Per i teorici logico-analitici, ad esempio, tutti possano interpretare la Costituzione, mentre
secondo l’impostazione ermeneutica non tutti possano interpretarla, ma soltanto il giudice
costituzionale in quanto precomprensivo. Ecco perché il giudice costituzionale può interpretare dei
principi fondamentali, che esistono da prima della legge e che sono vincolanti a prescindere dalla
legge stessa.
L’ermeneutica va intesa come metodo di controllo e perciò di garanzia del giudizio nel
senso di evitare che il giudizio giuridico sia arbitrario.
Ciò è possibile verificando la sussistenza dei canoni ermeneutici attinenti alla
precomprensione e alla circolarità attraverso l’equità.
E’ evidente, infatti che nel momento in cui non possiamo più credere ai miti della certezza
della legge, della completezza dell’ordinamento, del giudice bocca della legge, il problema che
sorge è quello di controllare la discrezionalità del giudice, il suo eventuale mero arbitrio.
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L’equità, appunto, come struttura della metodologia ermeneutica nella prospettiva del quid
iuris, consente di verificare la sussistenza di precomprensione e circolarità nello svolgimento
dell’attività
volitiva del soggetto giudicante.
Il tipo di controllo che andremo ad effettuare riguarderà non semplicemente la
corrispondenza del documento alla legge -non come hanno sempre inteso i teorici logico-analitici
secondo un’interpretare conoscitiva del testo giuridico- ma la complessiva attività giuridica.
In particolare, l’equità come strumento di controllo permette di:
1)
considerare la precomprensione critica dei soggetti giudicanti e quindi di non
ammettere che ogni soggetto giuridico possa decidere secondo equità;
2)
considerare gli effetti della decisione giuridica sul soggetto giudicato;
3)
da altro punto di vista, di verificare, riaprendo del tutto in sede correttiva
ermeneutica l’analisi sul giudizio, tutta la complessiva attività svolta dalle parti anche al di
là della applicazione possibile delle fattispecie astratte al caso concreto.
Sarà perciò possibile effettuare tale tipo di verifica anche nel caso in cui il giudizio sia
stato reso non come ordinariamente avviene secondo legge ma secondo principi fondamentali o
secondo equità, poiché trattasi di un controllo che va al di là di quello strettamente legale.
Come, altrimenti si potrebbe in ogni caso garantire un processo giusto ex art. 111 della
Costituzione? L’ermeneutica correttiva del giudizio giuridico erroneo soccorre il giurista
interprete proponendo delle soluzioni in detta direzione.
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2 I principi fondamentali del diritto.
L’ultimo strumento ermeneutico da considerare per cogliere come la metodologia
ermeneutica possa applicare, mediante la canonistica, la giuridicità ai casi concreti, seppur in
assenza di fattispecie astrattamente previste dal legislatore cui ricondurre quei casi concreti, e,
ancora per far sì che l’ermeneutica soccorra come correttivo di giudizi già resi, consiste nei principi
fondamentali del diritto.
Tale strumento è particolarmente rilevante. Basti pensare che anche all’interno delle teorie
cognitive, oggi, si ricorre ai principi fondamentali del diritto per motivare il passaggio dalle c.d.
teorie logico- analitiche a quelle logico-argomentative.
Dunque, tenendo presente che in tema di interpretazione di atti giuridici anche le teorie
logico-analitiche da almeno un quindicennio stanno spostando la loro prospettiva di analisi
interpretativa dalla fattispecie normativa ai principi generali del diritto, possiamo procedere alla
distinzione tra principi generali del diritto e principi fondamentali del diritto.
I principi fondamentali del diritto sono i principi posti a base dell’ordinamento. Sono i
principi che vengono prima delle norme e, in tal senso, sono una negazione non solo un’eccezione
dell’ordinamento positivista.
Diversamente, i principi generali del diritto (per intenderci, quelli di cui all’articolo 12,
secondo comma, delle disposizioni generali sulla legge del codice civile) vengono desunti da norme
esistenti nell’ordinamento, partendo da un singolo caso e andando verso una maggiore astrazione e
generalizzazione della norma stessa.
Si ricorre ai principi generali del diritto in particolare quando si procede all’analogia iuris,
che è valvola di chiusura di un sistema ordinamentale concepito come completo .
Il procedimento analogico non è logico, non parte cioè da una premessa logica, né
riscontrabile in natura, né riscontrabile come dogma ordinamentale.
Pur tuttavia, in assenza di una premessa logica, di una premessa maggiore, garantiamo con
la procedura analogica di giungere comunque ad un argumentum, in quanto muoviamo dalla ricerca
di una norma che regoli una fattispecie simile seppure diversa da quella in esame.
In mancanza, poi, di una norma che regoli un caso analogo, ricorriamo ad una premessa
ancor meno logica, cioè astraiamo e generalizziamo la norma fino a ricavarne un principio.
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Tale principio viene, infine, utilizzato per compiere il procedimento logico che avremmo
dovuto svolgere se fosse esistita una norma specifica per regolare la fattispecie concreta.
Secondo le teorie cognitive è sempre fondamentale avere una premessa logica perché un
ragionamento giuridico possa concludersi con un argumentum. In tale prospettiva i principi generali
del diritto sono considerati in sede analogica come una premessa logica, che sostituisce la premessa
che non c’è.
I principi fondamentali del diritto, invece, non derivano assolutamente dalle norme, essi,
anzi sono posti prima delle norme sono il fondamento delle stesse, si costruiscono, perciò in una
sede non ordinamentale fuori dal tempo e dallo spazio ordinamentale.
Uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento è la riserva di legge.
Confrontando tale principio con quanto previsto dagli articoli 1 del codice penale e 14 delle
disposizioni generali sulla legge al codice civile si comprende che la riserva di legge è principio
fondamentale cui le norme positive si adeguano. Similmente, il principio del giudice naturale
precostituito per legge.
In definitiva, i principi fondamentali non sono posti dall’ordinamento, ma lo precedono.
Eppure, si tenta costantemente di negare detta precedenza, come ad esempio quando si discute di
diritti umani. Non volendosi ammettere l’esistenza di principi fondamentali riconducibili al genus
dei diritti umani, che prescindano dalle fattispecie ordinamentali, li si considera, anziché principi
fondamentali, principi generali, sostenendo che è dalle norme che si ricavano i principi
fondamentali in tema di diritti umani dell’individuo.
Il nodo da sciogliere è se i principi fondamentali possano entrare nella questione dell’
interpretazione giuridica autonomamente all’interno degli ordinamenti di Civil Law, continentali,
come il nostro, o se essi , invece, riguardino solo gli ordinamenti di Common Law.
Per gli ordinamenti di diritto anglosassone la distinzione tra principi fondamentali e principi
generali del diritto è sempre stato chiaro e i principi fondamentali del diritto, che precedono le leggi,
possano entrare a far parte di un giudizio giuridico, di un procedimento interpretativo del diritto .
Tant’è che i sistemi di Common Law, riconoscono che l’argomentazione di un giudice si
possa basare non solo su leggi scritte ma anche sui Rights (principi primi non scritti che si
distinguono dalle Laws scritte) e sulle cosiddette politiche governative.
Questo tipo di approccio è possibile per il fatto che i sistemi anglosassoni non sono stati
costruiti su un’idea di Stato quale soggetto emanatore di legge, dal momento che l’amministrazione,
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cioè il governo non ha rapporti con la politica parlamentare ed emana autonomamente le sue
normative.
Nei sistemi di Common Law è venuta meno l’idea giuspositivistica classica dell’unico
soggetto legislatore, e con essa il principio per cui tutto ciò che non è legge non è diritto.
Conseguentemente, la questione dei principi fondamentali da una parte e dei principi
generali dall’altra per questi sistemi non si pone.
Come pure è ovvio per i sistemi di Common Law che il giudizio reso da soggetto giudicante
è certamente un giudizio che contiene in sé elementi di discrezionalità, per cui oggetto possibile
della decisione sarà tanto la legge scritta quanto il principio fondamentale, quanto la legge
provvedimentale dell’amministrazione governativa.
Questa possibilità del soggetto giudicante di tener conto nel suo giudizio non soltanto delle
leggi, ma anche di principi fondamentali, e delle politiche governative, cioè
degli interessi
collettivi, regolati di volta in volta dall’amministrazione, in seno alle teorie cognitive ha attraversato
l’oceano ed è penetrata anche nei sistemi continentali.
Si è ritenuto da parte dei teorici logico-analitici che l’interpretazione della legge, in
determinate materie, debba caratterizzarsi per essere un’interpretazione che pur necessitando di
premesse logico-normative, può essere argomentata tenendo conto dei principi generali e
fondamentali del diritto. In questo modo i teorici logico-cognitivi hanno potuto giustificare gran
parte delle interpretazioni rese dalla nostra Corte costituzionale, che altrimenti non sarebbero state
giustificabili secondo i criteri dell’ interpretazione logico-analitica, ma anche gran parte delle
interpretazioni rese nell’ambito di giudizi dati secondo equità e delle interpretazioni delle Corti di
giustizia internazionale.
In questa prospettiva, l’interpretazione si è posta come una mera argomentazione logica, che
parte da premesse normative per giungere a conclusioni che riguardano i principi universali del
diritto, tant’è che uno dei più chiari studiosi delle teorie argomentative o neocostituzionaliste, Luigi
Ferraoli ha fatto riferimento ai principia iuris come a delle argomentazioni necessarie in sede di
interpretazione per cui, si badi, pur sempre partendo dalla premessa logico normativa, è possibile
giungere ad argomentare sui diritti, specie in alcuni tipi di interpretazione, quali per esempio le
interpretazioni delle Corti costituzionali e delle Corti internazionali.
La critica che l’ermeneutica muove nei confronti di questo atteggiamento di recupero da
parte delle teorie cognitive della giurisprudenza sociologica americana, cioè dell’interpretazione di
Common Law, la quale, come detto, tiene conto non solo delle leggi scritte ma anche dei principi
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fondamentali del diritto, quindi non solo delle Laws, ma anche dei Rights e delle Politiche
Governative, è fondata proprio sull’ interpretazione dei principi fondamentali, nel senso che non si
accetta da parte dell’ermeneutica giuridica che i principi generali del diritto possano essere
equiparati ai principi fondamentali per la semplice ragione che i principi fondamentali sono principi
non ponibili come premesse maggiori di un sillogismo logico.
L’ermeneutica giuridica intende i principi fondamentali del diritto come strumenti della sua
metodologia e, considerandoli tali, si pone il problema di ricercare il loro fondamento ermeneutico,
posto che nulla hanno a che vedere con i principi generali, e quindi non possono essere inseriti
all’interno di un ragionamento logico-argomentativo, dal momento che il ragionamento logicoargomentativo deve procedere dal punto di vista normativo a partire dalla premessa logica per poi
applicare al caso concreto la premessa normativa che è fattispecie astratta rispetto al caso concreto.
L’ermeneutica giuridica si è quindi posta il problema di individuare il quid ius dei principi
fondamentali del diritto e se possono essere utili a verificare la validità di giudizi complessi come i
giudizi costituzionali o i giudizi in materia internazionale.
Ronald Dworkin, padre della giurisprudenza americana e uno dei consulenti chiave del
Presidente Obama, in un suo volume, intitolato I diritti presi sul serio, si è posto il problema della
discrezionalità del giudice. Cercando di rapportare l’utilitarismo americano con il liberalismo,
ovvero l’utilitarismo, che cerca di collegare la felicità del maggior numero di persone con la libera
espressione della volontà individuale, Dworkin si è chiesto se e come potesse il giudice decidere
con la propria discrezionalità a prescindere dalle leggi scritte in presenza di esigenze collettive o
individuali superiori all’interesse della legge.
Grazie a questo studio di Dworkin, che ha parlato di diritti contro lo stato e diritti contro le
leggi, si è ampliata la prospettiva delle teorie logico-cognitivistiche a favore di un’interpretazione
del diritto non limitata all’ applicazione delle fattispecie astratte al caso concreto, ma più incline ad
argomentazioni in grado di andare al di là delle premesse pur senza negarle.
La questione inerente al rapporto tra principi generali del diritto e principi fondamentali del
diritto è sorta nel nostro paese negli anni ’50, allorquando qualcuno aveva ipotizzato già una crisi
del diritto.
Alcuni altri autori come Caiani, Capograssi, Calamandrei, studiando problematiche nate
soprattutto in Francia, si erano interrogati, in quegli anni, sul rapporto tra validità e valore
normativo. In argomento, ricordiamo che abbiamo avuto modo di soffermarci in precedenza su una
fondamentale questione sorta nell’ambito del giuspositivismo logico e cioè quella della possibile
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ricomprensione di tutti i valori all’interno della validità normativa. Una norma non è valida perché è
giusta ma è giusta perché è valida.
Già negli anni ’50 in Italia si era posta la questione dei valori che vengono formalizzati
all’interno della norma giuridica, e pare che un nostro filosofo del diritto, Angelo Ermanno
Cammarate, fosse impazzito per risolvere questo problema del rapporto tra formalità e sostanza del
diritto, tra i valori che richiedono l’emanazione della norma giuridica e la norma giuridica che
contiene in sé dei valori.
Ciò che rileva per il giurista positivista è la validità della norma, non i valori in essa
contenuti.
Ma, a ben vedere, la validità normativa ha un senso in quanto contenga in sé dei valori che
sussistono prima della norma.
Questi principi detti fondamentali sono in realtà negazioni degli ordinamenti logicopositivisti, perché non ammettono la completezza dell’ordinamento giuridico. Se infatti
l’ordinamento giuridico fosse completo esso conterrebbe nelle sue norme tutto l’insieme dei
principi possibili. Se invece si riconosce l’esistenza di principi fondamentali provenienti non
necessariamente da un determinato luogo o da un determinato spazio o da un determinato tempo, è
chiaro che si fa riferimento a principi diversi da quelli generali, i quali svolgono la funzione di
valvola di chiusura del sistema.
Anche per le teorie cognitiviste, i principi fondamentali del diritto rappresentano una
questione giuridica, sono un istituto giuridico, tant’è che vengono compresi nell’ambito delle
logiche argomentative.
Dal punto di vista dell’ermeneutica giuridica bisogna chiedersi se i principi fondamentali del
diritto per la loro natura sostanziale possono essere considerati giuridicamente ermeneutici.
Dal punto di vista del quid ius cioè del loro fondamento giuridico, dire che sono
ermeneutici, significa verificare se sussistano nella struttura giuridica dei principi fondamentali la
precomprensione critica e la circolarità ermeneutica.
La precomprensione critica è l’attitudine a giudicare in un determinata materia, ma anche un
elemento di validazione del giudizio.
I principi fondamentali del diritto, considerata la loro estesa operatività e la loro assoluta
complessità, non possono essere interpretati da ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, il soggetto
preposto alla interpretazione dei principi deve essere un soggetto con particolare attitudine
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precomprensiva perché sia più probabile che i principi fondamentali vengano conosciuti in tutta la
loro complessità.
Ecco perché si deve ritenere che la precomprensione dei principi fondamentali sia possibile
soltanto per alcune Corti di giustizia internazionali o per le Corti costituzionali o per alcune Corti
supreme le quali controllano l’attività interpretativa pregressa.
La Corte di cassazione può, per esempio, in sede correttiva, applicare i principi fondamentali
del diritto per scardinare un’interpretazione logico-argomentativa erronea che non abbia considerato
la complessiva attività dei soggetti.
Sono i principi fondamentali circolari?
I principi fondamentali del diritto si rivolgono all’essenza prima della circolarità
ermeneutica.
Abbiamo già avuto modo di parlare di ricaduta dell’attività di un soggetto giudicante su un
soggetto giudicato, e del fatto che non esiste un giudizio giuridico in cui l’interpretazione rimane
solo di tipo meramente cognitivo: gli effetti dell’interpretazione ricadono immediatamente sul
soggetto giudicato.
Questa circolarità forte che abbiamo già riscontrato nel giudizio di equità, si pone come
circolarità diadica e si coglie massimamente, anche nel caso dei principi fondamentali del diritto,
nei rapporti tra soggetto giudicato e soggetto giudicante, quali parti della medesima collettività
politico-sociale. Il soggetto giudicante non è un soggetto estraneo al giudizio. Dal punto di vista
circolare ermeneutico è piuttosto un soggetto che partecipa al giudizio.
Un giudice costituzionale che negli anni ’70 concedeva a tutti quanti la proroga del termine
entro cui lasciare libero l’alloggio, bilanciando l’interesse dei proprietari e l’interesse degli
inquilini, senza richiamare nessuna norma di legge, dal momento che la Carta Costituzionale, anzi
sembrava essere più favorevole al diritto di proprietà, si trovava direttamente in relazione con il
soggetto giudicato, che era la complessiva collettività civile. Ora se quel giudice costituzionale
italiano fosse stato di Common Law non avrebbe avuto problemi, perché avrebbe potuto ben dire
anche negli anni ’70, di aver fatto prevalere le esigenze di politica governativa, cioè le esigenze
dell’ amministrazione, della collettività, dell’equilibrio sociale.
Dal punto di vista ermeneutico, un giudice, ponendosi di fronte ad un caso come quello
descritto, non può escludere che un figlio o un nipote sia sotto sfratto: l’interesse del soggetto
giudicante e l’interesse del soggetto giudicato nei principi fondamentali del diritto, nella prospettiva
della circolarità ermeneutica, vanno a coincidere.
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La circolarità ermeneutica studiata dai filosofi è per noi giuristi un concetto chiarissimo.
Probabilmente non c’è circolarità ermeneutica, dal punto di vista interpretativo, più forte di quella
che si sviluppa nel mondo del diritto, perché è l’attività giuridica che mette decisamente un soggetto
di fronte ad un alto soggetto in un momento in cui entrambi sono parti di uno stesso giudizio nel
senso che il soggetto giudicante non è un deus ex machina che vive al di là degli interessi
conflittuali della società civile, e quindi giudica a prescindere da interessi giuridici collettivi
circolari comprendenti tutta la collettività. Gli effetti della sua decisione, ricadono infatti non solo
sulla società giudicata, ma anche su se stesso (sul soggetto giudicante che di quella società fa parte).
E’ questo che rende osmotica la circolarità ermeneutica giuridica, è questo che ci fa capire perché i
principi fondamentali del diritto sono decisamente circolari, perchè appartengono al soggetto
giudicante e a quello giudicato.
Quando noi giuristi interpretiamo una legge non interpretiamo soltanto la legge
documentale, ma la interpretazione (giurisprudenza) della legge stessa: i principi fondamentali del
diritto richiedono molteplici interpretazioni dell’ interpretazione.
Il diritto è lo studio di un insieme di interpretazioni ed il procedere di queste interpretazioni
ci fa capire come si sono snodate le questioni.
I principi fondamentali del diritto come strumenti della metodologia ermeneutica servono a
verificare, insieme alla discrezionalità e all’equità, quanto la precomprensione e la circolarità siano
sussistite all’interno di un processo giurisdizionale e, dunque, dal punto di vista del quid iuris,
consentono di verificare se una decisione sia, dal punto di vista metodologico-ermeneutico, valida o
non valida.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Filosofia del diritto II
Lezione XI
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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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