TESTIM ONIANZE SULLA CRISI ITALIANA DAL 1944 AL 1946 *
Il titolo di questa raccolta di lettere che riflette un momento cruciale
della storia italiana dà forse un’idea un po’ inesatta del suo contenuto, poi­
ché, se si trattasse soltanto delle lettere che il Salvemini in quel periodo in­
viò agli amici dagli Stati Uniti, dove, salvo una breve interruzione nel 1947,
rimase fino al 1950, l’epistolario avrebbe un interesse in un certo senso
limitato. Il vero interesse sta invece nelle lettere dei suoi diciotto corrispon­
denti dalla Svizzera prima e dall’Italia poi, soprattutto in quelle di Ernesto
Rossi, di Egidio Reale, di Riccardo Bauer, di Piero Calamandrei, di Emilio
Lussu.
A questa prima osservazione u n ’altra vorremmo aggiungere che si ri­
ferisce al fatto di pubblicare, ad una più o meno breve distanza dalla mor­
te, epistolari di uomini che in un modo o nell’altro hanno fatto storia,
senza tenere conto dei riflessi negativi che ciò può comportare, in rap­
porto a giudizi ingiusti scaturiti da un eccesso di passione o, nel caso più
comune, da un’ignoranza di situazioni che portano ad un’errata e spesso
offensiva valutazione di uomini e di fatti, che il lettore poco informato
tende ad accettare come definitiva. Il che è tanto più increscioso quando
tali giudizi sono formulati intorno all’opera di viventi, sull’attività dei
quali l ’autore stesso delle lettere, negli anni successivi, in un’atmosfera
più chiara e pacata, aveva radicalmente modificato il suo pensiero. Non
potremmo perciò affermare che la figura dello storico esca nella sua luce
migliore in questo epistolario dove sembra che il Salvemini, alla fine della
vita, si compiaccia di confermare ancora una volta quel temperamento « an­
goloso, risentito, intransigente, critico, oppositore costituzionale » 1 come
egli qualche decennio prima aveva definito se stesso.
Queste osservazioni che toccano l ’aspetto morale del problema non han­
no, invece, nulla a che fare con l’interesse storico che il libro suscita e che
proprio da quell’atmosfera sgombra di inibizioni trae un’intensità mag­
giore, soprattutto per coloro che, avendo vissuto i drammatici eventi di
quegli anni, ritrovano in quelle pagine momenti che parevano dimenticati.
La prima lettera dell’epistolario porta la data del 24 marzo 1944, l ’ul­
tima quella del 24 dicembre 1946, ambedue sono scritte da Ernesto Rossi
a Gaetano Salvemini, una dalla Svizzera l’altra da Roma. Fra queste due
date corrono circa ottanta lettere che racchiudono il quadro di un’epoca
* G aetano Salvemini, Lettere dall’America. 1944-1946, Bari, Laterza, 1967, p. 432.
1 G aetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1966, vol. II, p. 95.
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Bianca Cena
orientato verso un settore politico i cui protagonisti escono tutti fuori, chi
più chi meno, nella verità della loro fisionomia.
Passano così, una dopo l ’altra, in queste pagine alcune delle perso­
nalità più rappresentative di quel partito d ’azione, alla storia del quale
queste lettere recano senza dubbio un nuovo contributo. Esso sta qui al
centro della polemica, da un lato il Salvemini che prorompe:
I l partito d ’azione è u n ’altra frode, inventata da Tarchiani e Cianca per
creare un piedestallo a Sforza e portare a cinque il num ero degli « pseudo par­
titi » favorevoli al pateracchio. Senza dubbio vi sono nel partito d ’azione molti
elementi di prim ’ordine dal punto di vista intellettuale e morale. È bene che
questi uomini vedano chiaramente di essere stati indegnamente ingannati (pp„
19-20).
A lui risponde il Calamandrei:
Leggiamo avidamente i num eri del tuo giornale che ogni tanto ci sono por­
tati da amici americani. Ma certi giudizi taglienti che vi leggiamo, certe « li­
quidazioni » categoriche di uomini e di p artiti che oggi si arrabattano alla meglio
in questo caos, ci sembrano talvolta non corrispondenti alla situazione reale
che può esser sentita soltanto da chi ci vive dentro (p. 31).
Alle argomentazioni del Calamandrei fa eco il Bauer:
Comincerò da quanto scrivi del partito d ’azione. T u dici: « è u n ’altra frode
inventata da Tarchiani e Cianca ». A parte il fatto che né l’uno né l’altro sono
uomini da escogitare frodi, m entre ben sanno lottare a viso aperto, rilevo che
essi, arrivando qui, al partito d ’azione hanno dato la loro adesione per l’eccel­
lente ragione che il partito d ’azione esisteva già dal 1942 e non aveva bisogno
della loro escogitazione. Il partito d ’azione è nato dalla attività clandestina
svolta in Italia da uomini provenienti da G L, dai repubblicani, dai socialisti,
dall’Unione naz., nonché di elementi non legati ad alcun altro movimento e ciò
per un fenomeno naturalissimo di convergenza di forze operose contro il fasci­
smo, all’inizio con un semplice programma di lotta diretta al suo rovesciamento,
di poi tendenti ad esprimere e precisare un positivo programma di ricostruzione
politica e sociale; fenomeno che ben conosci e sul quale non mi dilungo. [...]
Potrai domandare perchè il partito d ’azione dopo avere guidato con tanta ener­
gia una così severa battaglia, abbia aderito al governo Bonomi, pur conoscen­
done l’intima fiacchezza, e accettato il luogotenente.
È chiaro: anzitutto perchè il governo Bonomi era l ’unico che potesse reg­
gere in una Italia in pieno caos e letteralm ente sfatta ih senso politico e mo­
rale, avendo radice e legittim ità popolare. Si trattava di portare al governo il
CLN il quale nei 45 giorni ed in periodo di lotta clandestina aveva bene o
male rappresentato moralmente il blocco del paese antifascista, ed intorno al
quale si erano polarizzate tutte le forze vive (pp. 36-37).
La crisi italiana 1944-46
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Il Salvemini, tuttavia, non cede e si abbandona al suo spirito profetico:
La « frode » che io condannai nell’estate scorsa prima che Firenze fosse
liberata era la « frode » che era stata perpetrata nei mesi precedenti a Napoli.
Già a Roma il « partito d’azione » fu infinitamente migliore che a Napoli. E a
Firenze esso è assai migliore che a Roma. Tieni presenti, ti prego, queste diffe­
renze geografiche e cronologiche per collocare il mio giudizio nel suo vero am­
biente e nel suo vero significato.
D’altra parte non posso non dissimularti che il «partito d’azione» mentre
è indispensabile come strumento di lotta contro i tedeschi nella zona occupata
dai tedeschi, mi sembra destinato a disgregarsi non appena quella lotta sia fi­
nita. Il « partito d’azione » è formato di elementi eterogenei tenuti insieme
dalle necessità della lotta comune contro un nemico comune. Esaurita quella
fase mi pare che ognuno dovrebbe andarsene col suo partito: monarchici coi
monarchici, repubblicani coi repubblicani, socialisti coi socialisti, comunisti
coi comunisti. Volendo continuare a stare stretti insieme quando non c’è più
motivo di stare stretti insieme, aumentate senza bisogno il numero dei partiti,
create confusione e servite solamente di piedestallo a chi domanda portafogli
nei ministeri e posti nelle amministrazioni (p. 51).
La data di quest’ultima lettera ci colloca in uno dei momenti più oscuri
degli eventi europei, l’autunno del 1944; al Salvemini in America le pa­
role degli amici italiani in questa prima fase giungono dalla Svizzera dove
sono rifugiati Ernesto Rossi ed Egidio Reale; da Firenze liberata le cui
penose condizioni il Calamandrei si affanna a descrivere all’amico, perchè
cerchi di capire meglio la tragedia italiana prima di condannare nei suoi
giudizi uomini e cose; da Roma da dove il Bauer si sforza di chiarire al
Salvemini, ostile alle recenti alleanze del partito d ’azione, la confusa
situazione politica verificatasi dopo il giugno. Tutti questi uomini testi­
moni e partecipi del dramma delTltalia tagliata in due, distrutta e de­
predata da una parte e dall’altra, ci appaiono come tanti avvocati difen­
sori che dinanzi ad un giudice severo invocano le attenuanti; una chia­
rificazione infatti offrirebbe al Salvemini la possibilità di influire favore­
volmente sull’ambiente americano nei rapporti con l’Italia.
La lettura di queste lettere del 1944 e dei primi del ’45 rivela nella
sincerità estrema del linguaggio, più di una qualunque narrazione di fatti,
l’atmosfera oscura in cui si dibatte la vita italiana, sconvolta da problemi
di ogni genere, e soprattutto dal disorientamento politico:
Certo la situazione italiana — scrive il Calamandrei in data 2 febbraio ’45 —
oltre che dalla miseria spaventevole e dalla vera e propria « polverizzazione »
economica, è aggravata dal caos politico, che è alimentato ed accresciuto dal­
l’atteggiamento degli alleati: i quali, per timore dei comunisti, invece di cercar
di aiutare gli elementi democratici sani che porterebbero ad una nuova repub­
blica largamente socialista, favoriscono gli elementi di destra, monarchici e na­
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Bianca Cena
scostamente fascisti, che porteranno l’Italia all’anarchia e alla distruzione. In
realtà tutti gli americani intelligenti con cui si parla qui capiscono questa situa­
zione, ma ufficialmente le cose rimangono invariate (pp. 92-93).
È difficile, tuttavia, persuadere ad una maggiore serenità un uomo che,
invaso a suo modo dalla passione della patria lontana, le cui condizioni
egli misura da una distanza troppo grande, non si rende conto che defi­
cienze ed errori sono inevitabili in tanta rovina, perciò accusa la cattiva
volontà delle persone, la debolezza degli amici, le colpe degli ambiziosi.
Croce, Sforza e Tarchiani saranno per lui l’oggetto di sfoghi virulenti,
conservatore monarchico l ’uno, gonfio di vanità l’altro, servo ossequioso
degli inglesi il terzo; nessuno si salva, nemmeno gli amici più cari, nem­
meno Ernesto Rossi che, tutto pervaso dal suo sogno del federalismo,
cerca di persuaderlo che in questo campo di azione sta la sola via di scam­
po dal caos che incombe sull’Europa; a lui il Salvemini ribatte:
Federazione europea: Non è possibile, mio caro, costruirla dal tetto. Biso­
gna costruirla dalle fondamenta. Ogni paese deve contribuire per proprio conto
a costruirla nei suoi confini — o meglio nello spirito dei suoi figli. Quale Fe­
derazione europea vuoi costruire oggi, con un’Europa divisa in sfere d’influenza,
ad est Stalin, al sud Churchill: con una Francia che non vuole sentire parlare
dell’Italia che per disprezzarla e vendicarsi; con una Jugoslavia a cui Churchill
ha promesso Trieste e ITstria; con una Germania fatta a pezzi fra Russia,
Francia, Polonia; con lo scatenamento di pazze ingordigie e vendette a cui
stiamo assistendo e con le peggiori che ci aspettano? In Italia vi è ancora
della gente che domanda un mandato sull’Etiopia. Sforza e Don Sturzo vaneg­
giano nella speranza di salvare la Tripolitania, mentre perdono Trieste e
ITstria, e minacciano di perdere Sicilia e Sardegna. E quale posto può trovare
oggi in una federazione europea, un’Italia mutilata, disprezzata da tutti, rap­
presentata dalla monarchia sabauda e dal papa? (p. 58).
Mentre in nome di un realismo politico infrange i sogni dell’amico,
il Salvemini non si accorge intanto di abbandonarsi anch’egli al gioco delle
astrazioni immaginando una « repubblica democratica socialista italiana »
aspirante « a diventare parte della Federazione europea il giorno in cui
francesi, tedeschi, jugoslavi saranno diventiti più intelligenti [...] » (p. 59).
Si avvicinano intanto i giorni della liberazione; Ernesto Rossi ed Egi­
dio Reale ardono dall’impazienza di rientrare in Italia; in tutti si accende
il fermento dell’attesa nel momento di passare dalla fase militare alla fase
politica; il 27 febbraio il Salvemini scrive ad Emilio Lussu una lettera che
ha tutta l ’aria della rampogna ammonitrice del mentore che bandisce a
destra e a manca i suoi ammaestramenti come il mondo dovrebbe essere,
senza tener conto di quello che è, invece, la realtà di questo sconvolto
mondo italiano, dove ciascuno fa quello che può, ammesso che possa pur
fare qualche cosa:
La crisi italiana 1944-46
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Uomini di governo con chi? Con Bonomi? Altro ufficio per voi sogno! Io
continuo a sperare contro ogni speranza che l’amico di Lipari « dalle tre me­
daglie » 2 entri in Milano coi suoi partigiani, prima delle truppe inglesi polac­
che senegalesi, e immediatamente lo raggiungiate lì voi e gli amici che sono
in Svizzera, e subito proclamiate la Repubblica Federale Italiana, Una e Indi­
visibile e subito fuciliate l’arcivescovo Schuster, e subito vi proclamiate Go­
verno Provvisorio della Repubblica, e subito domandiate le dimissioni di Bo­
nomi e compagni e vi ternate pronti a battervi per le vie di Milano contro po­
lacchi, senegalesi e marocchini e inglesi e generali sabaudi. Uno contro cento.
Una nuova tragedia come quella di Atene per disonorare Churchill e Eden per
la seconda volta nei secoli. Lì, vorrei essere io, e finire così la mia vita, se
non fossi incatenato qui dalla impossibilità di partire. Lì vorrei che tu e Bauer
e La Malfa e Fancello vi trovaste con Ernesto e Egidio e Gigino Battisti, in­
torno all’uomo dalle tre medaglie. Che farà a Roma Bauer come graffia carte
della epurazione, invece di stare a Milano? Non vi spaventate per carità di
essere accusati di essere ambiziosi. Churchill è ambizioso. Chiunque ha qual­
cosa da fare per il proprio paese, ha l’obbligo di essere ambizioso [...] (p. 120).
Eppure, allorché quel governo Parri, nel quale il Salvemini aveva spe­
rato tanto da desiderare di esservi chiamato a collaborare, deve cedere di
fronte alle subdole insidie degli avversari coalizzati, il Salvemini non esita
ad affermare che l’aver fatto Parri primo ministro fu « uno sproposito
inaudito », senza rendersi conto delle ragioni storiche e contingenti che in
quell’episodio esercitarono il loro gioco più spietato.
Tuttavia, dobbiamo essere grati a quel groviglio di contraddizioni e
d i incomposte reazioni che le lettere del Salvemini ci offrono, se, d ’altra
parte, esse ci dànno anche l ’occasione di conoscere oggi di quel momento
politico così importante per lo studio del faticoso nascere della democrazia
in Italia, testimonianze così veraci come quelle che leggiamo nelle lettere
di Egidio Reale, che, pur legato d ’affetto al Salvemini, non tollera le sue
strane esuberanze. M ette conto di esaminare le lettere inviate al Salvemini
nel luglio e nel settembre del ’45, nelle quali l’umanità, l ’equilibrio, e l ’acu­
me politico di Egidio Reale si manifestano con la forza della persuasione.
Chiamato dal fecondo esilio di Ginevra a Roma nell’aprile del ’45, vi
giunge in preda alla commozione, nel timore che il lungo distacco dalla
patria gli renda più gravi le responsabilità alle quali va incontro, senza am­
bizioni, senza interessi da soddisfare, nel solo desiderio di essere utile
alla causa alla quale aveva dedicato i migliori anni della vita:
Nel partire ti scrissi, forse, come il sentimento in me predominante, ritor­
nando in Italia dopo più di 18 anni, era il terrore di ciò che mi attendeva ed
avrei trovato. Se dovessi riferirti in una sola parola quel che penso oggi, dopo
queste settimane di operazioni, ti ripeterei la stessa cosa che ho detto allora.
2 Ferruccio Parri.
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Bianca Ceva
Eppure, l’esperienza mi ha mostrato e persuaso che non ci si può trarre da parte
a contemplare e giudicare quel che avviene, e neanche rinchiudersi in una cri­
tica negativa, fatta di presunzioni e di asti, continuando ad affermare per esem­
pio, che tutto quel che capita di male, ed è molto, lo fu perchè in Italia non
v’è la repubblica, o perchè si sono firmate ed accettate le clausole dell’armistizio, o perchè esistono i Comitati di Liberazione Nazionale, che non sono la
rappresentanza genuina del popolo italiano. E tanto meno lo si può fare ora
che Parri ha accettato ciò che gli è sembrato ed è per lui più grave che la lotta
clandestina, nei suoi peggiori momenti. Poiché il suo tentativo è tutto quel che
si possa fare e tentare, in questa Italia com’è ridotta dal fascismo e dalla guerra,
dalla miseria e dal malcostume: cercheremo di far sorgere una democrazia qual­
siasi per avviare il paese verso la ricostruzione materiale e morale, per salvare
insomma ciò che vi è da salvare (pp. 159-160). [...] Se tu fossi in Italia, accanto
a noi, se di queste cose potessimo parlare amichevolmente, sono sicuro che ci
intenderemmo senza difficoltà. Ma siamo lontani e non si ha neanche la certezza
che una lettera scritta oggi arrivi tra un mese, quando molte cose nuove ci sa­
ranno che possano costringerci a mutare i giudizi. E poi ci sono anche silenzi
che valgono più delle parole.
Perchè arrivando qui, ho finito col decidermi a prendere un posto nel partito
d’azione? Non è soltanto perchè di quel partito ero stato tra i promotori, nel
1942, o meglio, tra i primi aderenti ad avere per esso mantenuto contatti con
l’estero. Non è perchè, dal luglio 1943 alla partenza, avevo cercato moltissimo,
in nome di quel partito, a dare un’esperienza ai giovani e, con l’aiuto di Er­
nesto avevo formato gruppi fra i migliori attirando a essi quanto di megliov’era nell’emigrazione italiana in Svizzera (è uno dei pochi miei orgogli). Ma
anche perchè mi sono accorto che nessun lavoro efficace — ora più che mai —
è probabile al di fuori del partito. Irreggimentarsi in un partito non è forse
l’ideale, ma è una necessità almeno per gente modesta.
Non ti dirò che il partito d’azione sia esente dei difetti dei partiti italiani,
che non vi siano in esso arrivisti e profittatori ambiziosi od insipienti. Ve ne
sono, come vi sono spesso confusione d’idee, contraddizioni di pensieri, man­
canza di aderenza tra quel che si pensa e quel che si fa. Ma vi sono pure uo­
mini superiori per intelligenza, per carattere, per dignità, per disinteresse. Non
so se riusciranno a prevalere sugli altri. Ma bisogna aiutarli, a far sì che non sia
dato libero corso ai vanesi, agli intriganti, ai chiacchieroni (p. 162). [...] Ma che
cosa v’è di stabile, oggi, nella vita politica? E che cosa vi è di coerente? Quando
si sentono i motivi della propaganda dei vari partiti c’è da restare rimbecilliti.
Ho sentito comunisti affermare la necessità delle trasformazioni delle piccole
proprietà in proprietà più grandi e gente moderata sostenere che le riforme so­
ciali e l’ordinamento economico della Russia sono « borghesi », vecchi mas­
soni sostenere la necessità di conservare il Concordato, e prosternarsi in manife­
stazioni clamorose di simpatia verso le alte gerarchie ecclesiastiche, e vecchi cle­
ricali affermare quella di una completa separazione fra Chiesa e Stato. Ve n’è
per tutti i gusti e spesso la stessa gente esprime pensieri diversi a seconda della
qualità degli ascoltatori. Credo che il partito più serio sarebbe oggi in Italia
quello che dicesse: nei prossimi cinque anni intendo che si faccia questo e
quest’altro, e poi per gli anni successivi, si vedrà. Quel che conta è salvare il
paese, ora e non tra cinquanta anni, farlo rivivere, liberarlo dalla peste fasci­
La crisi italiana 1944-46
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sta, dal virus fascista che ha infettato anche gli antifascisti, dargli una coscienza,
rifargli il costume (p. 163).
Particolarmente importante è la lettera del Reale al Salvemini, datata
da Roma il 30 settembre 1945, dove egli cerca di dare all’amico lontano
un quadro vivo degli avvenimenti politici di quei mesi, direi quasi di
quelle ore così incerte e tumultuose, per cui la confusione delle cose e
delle idee è così grande che è ben difficile prevedere quello che accadrà di
lì a pochi istanti. La vivezza di questo commento è preziosa anche per
noi, che, pur dopo tanti anni, non siamo riusciti ancora a ricostruire la
storia di quei mesi; ci sembra di leggerla qui per la prima volta:
La Consulta si è aperta. V’è stata una discussione sulle comunicazioni del
governo. Ma finora non vi sono stati interventi di rilievo, né si sono delineate
correnti politiche al di fuori dei partiti esistenti. L’opposizione si è limitata ad
un moderato discorso di un monarchico, che non ha osato difendere il suo re,
quando numerose voci hanno chiesto che fosse compreso tra i criminali di
guerra, e ad un acceso discorso di un generale, il Bencivenga, che si è fatto
paladino della vecchia Italia ed ha violentemente protestato contro la man­
canza di libertà di stampa, dimenticando che ogni giorno quotidiani e setti­
manali d’ogni genere possono ingiuriare come vogliono il presidente del con­
siglio ed il governo, come sanno e come credono.
Il fatto più saliente e che non appare dai giornali è la contrapposizione, in
tutti i gruppi, di due opposte mentalità, quella del vecchio personale politico e
quella degli uomini formatisi in questi ultimi anni, nella lotta antifascista. Il
contrasto si è manifestato, in forma violenta, quando, nel suo discorso, Parri si
è permesso di dire che non credeva che i governi prefascisti potessero chiamarsi
democratici e che perciò bisognava fare di più e qualche cosa di diverso da quello
che quei governi avevano fatto. Tutta la vecchia classe dirigente s’è levata in una
violenta protesta. È stato il solo tumulto che l’aula di Montecitorio abbia vistodopo la sua riapertura. L’opposizione s’è raccolta applaudendo, per contrap­
porlo a Parri, intorno ad Orlando. Ed all’indomani Croce ed altri si sono levati
a difendere questa pretesa democrazia italiana, che, fra il 1860 ed il 1922, sa­
rebbe stata la più perfetta d’Europa. La sera dell’incidente v’era vento di crisi.
E se alla crisi non si è addivenuti, è stato solo perchè la reazione non ha osato
e non si vedeva quale soluzione potesse essere data ad una crisi. Ma le mano­
vre non sono finite, e molti sono coloro che pensano ad una successione che do­
vrebbe allontanare sempre più la Costituente. Questa Consulta avrebbe potuto
costituire un’utile cosa se fosse stata convocata un anno fa. Parri l’ha convocata
appena ha potuto. Ma essa non ha la stessa utilità che avrebbe avuto prima.
Nell’attesa della Costituente potrebbe aver ancora dei compiti: affrettare la Co­
stituente stessa, preparandone le leggi, dare una voce alle correnti politiche del
paese, fare opera di controllo e di critica, preparare una parte della nuova classe
dirigente o almeno esprimere nuovi valori. Che a questa funzione possa adem­
piere dipenderà da se stessa e dallo spirito di responsabilità dei suoi compo­
nenti, spirito che sinora non si vede largamente diffuso. Se la Consulta fa mani­
festazioni repubblicane, non sempre coloro che vi partecipano sono sinceri e
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Bianca Ceva
molti sarebbero disposti a collaborare con la monarchia dopo aver applaudito
alla repubblica, purché i posti fossero assicurati (pp. 180-181).
Si affaccia ormai all’orizzonte la crisi inevitabile del governo Parri,
contro il quale, come scriverà Egidio Reale nel gennaio del ’46,
non si è fatto critica, ma un lavoro sordo di demolizione e non solo da parte
di gente che stava fuori dal governo, ma anche e soprattutto da quella che c’era
dentro. Tutti i mezzi sono stati buoni per la denigrazione [...] [Parri] era ed è
fra gli uomini più odiati dalla monarchia, dai conservatori, dall’esercito, dal
qualunquismo [...] (pp. 203-204).
Le lettere di Egidio Reale gettano una luce più chiara su questa pagina
della crisi italiana del ’45, che purtroppo attende ancora la testimonianza
fondamentale del suo protagonista, Ferruccio Parri, testimonianza che lo
storico Salvemini invocava fin dal settembre 1946 scrivendo ad Ernesto
Rossi:
Qui in America i cattolici fanno credere a tutti che la resistenza italiana fu
opera principalmente dei preti e che De Gasperi fu il capo della lotta clande­
stina! Occorre che gli autori diretti di quella lotta mettano tutti per iscritto la
loro testimonianza. [...] Questa storia dovete raccontarla voi, se non volete che
la falsifichino a loro profitto generali, preti e agenti stalinisti. Parri dovrebbe
scrivere le sue memorie (p. 347).
Nella pur caotica vivacità di queste lettere, nelle quali ciascuno dei
corrispondenti versava tutto il fermento della sua momentanea commo­
zione in una piena libertà di linguaggio, senza il minimo sospetto di pub­
blicità, affiorano le linee di alcuni rilevanti problemi che, usciti dalla fase
acuta di quel momento, anche se con gli anni ebbero a subire i necessari
aggiornamenti, pure rimasero essenziali alla nostra vita politica o con la
loro diretta presenza o con le loro inevitabili conseguenze. Tale ci appare
il travaglio dei partiti, bramosi di affermare la loro forza autonoma ap­
pena la formula del CLN accenna ad esaurirsi nel compimento della sua
funzione storica. Questa crisi, se più o meno fu superata dai partiti tra­
dizionali, appare subito grave di tristi presagi per il partito d ’azione, i
cui problemi di sopravvivenza turbavano già la coscienza di coloro che
pur combattevano coraggiosamente sotto le sue bandiere:
Oggi — scrive il Salvemini al Lussu il 27 febbraio ’45 — se il partito d’azio­
ne è quello che ha lottato e lotta nell’Italia occupata, io riconosco in quel par­
tito d’azione il continuatore di « Giustizia e Libertà » del periodo 1929-1933,
né guarderei molto per il sottile negli anni successivi. Solamente mi domando
se è il caso di tener su un movimento che nacque sotto la costrizione della lotta
La crisi italiana 1944-46
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negativa contro il fascismo, mentre oggi ogni idea deve riprendere la sua per­
sonalità nell’opera della ricostruzione positiva (p. 117).
Come abbiamo già osservato, colpisce in queste pagine una nota par­
ticolarmente drammatica: la passione di questi uomini del partito d ’azione
che non cessano mai di polemizzare intorno alla sua validità, pur sen­
tendo fortemente l’onore di appartenervi; intima contraddizione che li
porta fatalmente a presentire vicina la corruzione e la diaspora di quella
fratellanza di spiriti che pure era stata consacrata da lotte e da sacrifìci.
La relazione che nel febbraio 1946 il Reale fa al Salvemini intorno al re­
cente congresso del partito, ci richiama purtroppo alla verità di una acuta
sentenza, che leggiamo nei Mémoires del cardinale De Retz, l ’avversario
del Mazzarino: « L’on a plus de peine dans les partis à vivre avec ceux
qui en sont, qu’à agir contre ceux qui s’y opposent ».
Tu sai — scrive il Reale — quel che è accaduto nel congresso del partito
d’azione. In poche ore si è riusciti ad ammucchiare una tale quantità di errori,
che sarebbe stato ben difficile immaginarne una più grande. V’erano correnti
contrastanti e v’erano anche contrasti personali fortissimi. Le une e gli altri
avevano reso meschina la vita del partito, impedito ogni suo sviluppo, ed atte­
nuato l’influenza sul paese, che era stata grandissima nel periodo della resi­
stenza. Ma non sono state queste le principali ragioni del fallimento del Con­
gresso e della rottura che ne è seguita. Durante tre giorni il Congresso aveva
dato una prova di serietà e di sincerità, che, dopo tanti anni di soppressione di
ogni vita politica, faceva sperare bene. V’era stato un troppo discorrere di ideo­
logie, nello sforzo non di occuparsi di problemi concreti, ma di definire l’essenza
del partito. I filosofi ed i teorici avevano dato libero corso alle loro fantasie ed
alle loro elucubrazioni. Ma s’erano sentite anche voci di buon senso, che non
astraevano da questa terribile realtà italiana, che gli uomini politici sogliono
così spesso dimenticare. Poi, ad un tratto, alla fine di una discussione, alla
quale i congressisti avevano assistito con pazienza (Lussu ha parlato una prima
volta cinque ore ed una seconda un paio) si era riusciti a mettersi d’accordo su
una certa linea che avrebbe allontanato dal partito estremisti di sinistra ed uo­
mini di destra e ci avrebbe forse liberati da quel massimalismo verbale che è
una delle nostre piaghe maggiori. Quella linea avrebbe consentito una nuova
e diversa azione anche in confronto del governo, avendo previsto le condizioni
alle quali la partecipazione era possibile, condizioni che, non essendo accettate
dalla coalizione, ci avrebbero consentito di aprire in piena libertà ed in accordo
col partito repubblicano ed altre forze la battaglia per la Costituente. Si è vo­
luto spingere l’accordo oltre i limiti consentiti, trovare una concordia là dove
le idee erano discordi. Il Congresso ha reagito, per l’impressione che gli si vo­
lesse imporre qualche cosa di preparato e concordato tra pochi uomini. Si era
troppo sofferto, durante molti mesi, di una politica che si faceva da Roma,
senza tenere conto dei gregari, perchè la reazione non dovesse prevedersi. Poi si
è aggiunto un errore politico di Ferruccio, che, al momento in cui si iniziava
la votazione sulla mozione da lui proposta, l’ha ritirata, provocando la più grande
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Bianca Ceva
confusione. Io non ho capito più nulla ed ho dichiarato di non capire. Gli altri
hanno votato dalle dieci di sera alle sei del mattino, senza sapere quel che fa­
cessero. Ma la mozione approvata, in sé, non era tale da provocare scissioni.
Queste sono state provocate dall’irrigidirsi di uomini e, secondo me, da un’er­
rata opinione, che, nelle condizioni attuali della vita politica italiana, fosse pos­
sibile creare un nuovo partito, che raccogliesse correnti d’opinione diverse e fi­
nora non comprese nei partiti esistenti (pp. 220-221).
Già fin dal novembre-dicembre del 1944 ancor nel pieno della lotta
di liberazione s’affaccia nelle lettere del Salvemini il problema dell’irreden­
tismo, in un primo tempo come reazione all’ideale del federalismo europeo
che accende gli entusiasmi di Ernesto Rossi:
Purtroppo la Federazione Europea non è un problema immediato. Avrai ca­
pito dal marzo in qua che né Stalin né i conservatori inglesi ne vogliono sapere.
L’Italia sarà pestata da francesi, jugoslavi, greci e inglesi. Siamo divenuti i
parenti poveri di tutti: offrire la Federazione Europea non spetta a noi. Primum vivere, deinde pbilosophari. Affermiamo il principio, ma badiamo al pro­
blema italiano immediato.
30
nov. - Il problema italiano immediato è spazzar via la monarchia cioè
lottare con Churchill, Roosevelt e il Papa, che vogliono imporre all’Italia la
monarchia ad ogni costo. E inoltre dobbiamo impedire (se è possibile) il risor­
gere in Italia dell’irredentismo, che è inevitabile se l’Istria occidentale e Trieste
va agli slavi, come Churchill ha deciso fin dal 1941- Su questi due punti e
sulle riforme sociali necessarie in Italia dobbiamo lottare immediatamente. Alla
Federazione Europea ci dedicheremo con tutta l’anima dopo che avremo salvato
il minimo necessario per l’Italia. Se ne occupino i vincitori. Noi siamo i vinti.
Nessuno ci prende sul serio. Pensano che parliamo della Federazione Europea
per sfuggire alle punizioni. Siamo come i tedeschi. Non dobbiamo illuderci
<pp. 44-45).
A lui risponde veemente il Rossi:
Fissarsi sulla questione di Trieste e di Gorizia e delPIstria per me non ha
più alcun senso. Sono questioni insolubili finché si rimane nella tradizione degli
stati nazionali assolutamente sovrani. Qualunque soluzione soddisfaccia una
parte crea irredentismo dall’altra. [...] Ormai non sono più un italiano; sono un
europeo che si propone di svolgere la sua attività politica in Italia solo perchè
in Italia la sua azione è più efficace in quanto parla italiano, conosce gli usi, i
sentimenti, le tradizioni del popolo italiano (p. 125).
Tuttavia il senso politico del Salvemini coglie su questo punto una
realtà che non tarderà ad attuarsi nel futuro; gli errori e le incapacità de­
gli uomini politici italiani al momento della faticosa gestazione del trat­
La crisi italiana 1944-46
39
tato di pace sono perseguiti da lui con una preoccupazione incessante che
lo fa soffrire. Nel marzo del ’46 scrive al Reale:
Dunque la famosa commissione, che deve ancora andare nella Venezia Giulia
a scoprire se è italiana o slava, ha deciso che nel risolvere la questione dell’Alto
Adige non si deve dare peso predominante al fattore « etnico » perchè se l’Italia
perdesse gli impianti idroelettrici dell’Alto Adige sarebbe rovinata, eppoi ci
sono le famose ragioni strategiche... Ecco, dunque, dove andrete a finire: una
ferita aperta verso l’Austria in cui responsabili per la ferita saranno gl’italiani, e
una ferita aperta verso la Jugoslavia, in cui gli autori della ferita saranno gli
jugoslavi. [...] Con quale faccia tosta De Gasperi protesterà per l’assegnazione
dell’Istria occidentale e di Trieste alla Jugoslavia, invocando le ragioni nazio­
nali, economiche, strategiche, che non servono più all’Austria quando si tratta
dell’Alto Adige, lo sa solamente quello Spirito Santo che ispira lui e il Papa.
Fuori d’Italia le pretese sull’Alto Adige tolgono ogni base morale ad ogni riven­
dicazione su Trieste e sullTstria occidentale. La campagna degli austriaci è effi­
cacissima in Inghilterra e in America perchè si fonda su argomenti indiscuti­
bili (p. 235).
Più tardi nel settembre, concluso a Parigi il compromesso tra italiani
ed austriaci, il Salvemini si sfoga con Ernesto Rossi facendogli prevedere
quello che accadrà quando i tedeschi avranno ottenuto l’autonomia: « Si
metteranno a far baccano per andarsene con l ’Austria. Immaginarsi che
cosa faranno quegli ottantamila nazi che se ne erano andati al tempo di
Mussolini e che ritornano ora ».
Tutto questo fermento di aperti sdegni aveva le sue radici in quel­
l ’amore di patria che, nonostante tutto, era rimasto vivo nell’animo di Gae­
tano Salvemini, bene inteso amore di patria che si sentiva ferito proprio
quando assisteva impotente a certe abdicazioni di dignità da parte degli
italiani verso gli alleati, in occasione della firma del trattato di pace, tanto
da ammonire: « i popoli non sono disonorati dalle sventure, ma dalla ma­
niera poco dignitosa con cui le affrontano ». Questo senso della dignità
italiana era tanto più acuto in lui, che esule da molti anni negli Stati Uniti
poteva dare dell’ambiente degli italiani in America un quadro di un rea­
lismo così amaro da far cadere molte illusioni:
Per finire, ecco una notizia. Venerdì a Boston parteciparono a un comizio
per domandare una pace giusta per l’Italia non più che 200 persone, mentre
nella città di Boston e nei comuni vicini vivono più di 100.000 persone [di ori­
gine italiana]. Al tempo della guerra etiopica i fascisti misero insieme a Bo­
ston un comizio di 15.000 persone. Venerdì non fu possibile mettere insieme
più di 200 persone, sebbene il governatore dello Stato del Massachusetts avesse
promesso di intervenire al comizio. Quando un certo Romano cominciò a par­
lare, i 200 italiani intervenuti lo fischiarono sonoramente. Egli era stato uno
■dei capi del movimento fascista in Boston; poi si era buttato sulla radio ad esor­
40
Bianca Ceva
tare i soldati italiani durante la guerra a non battersi contro truppe americane.
Venerdì si presentò a domandare la pace giusta. Quei pochi italiani che par­
tecipavano al comizio, dei quali nessuno era antifascista, lo fischiarono di santa
ragione. Gl’italiani non parteciparono al comizio, perchè essendo fascisti, non
possono perdonare agli italiani d’Italia di aver ammazzato o fatto ammazzare
Mussolini. Questa è la situazione della italianità negli Stati Uniti (p. 335).
Tre anni dopo, alla vigilia di rientrare in Italia il Salvemini non si
lascia ancora una volta sfuggire l ’occasione di ritornare più aspramente su
di un giudizio la cui validità può spiegare alcuni degli aspetti negativi dei
rapporti italo-americani, originati soprattutto dal disinteresse e dall’indifferertza, se non dalla ostilità, verso l ’opera di quell’estrema minoranza di
cittadini che in Italia durante i lunghi anni della dittatura aveva preparato
nel silenzio e nel sacrificio le vie della libertà:
Anche Lei, dunque, crede che gli italiani di America si interessino a quel'
che fecero e soffrirono e pagarono gli antifascisti sotto Mussolini.
Gli italiani di America, o meglio gli americani di origine italiana, se sono
giovani nati in America non parlano più l’italiano, non si interessano più delle
cose italiane, e in molti casi si vergognano di essere italiani e odiano l’Italia. I
vecchi, quasi tutti venuti qui dall’Italia meridionale, scalzi e analfabeti, e ca­
duti sotto le unghie dei preti, sono fascisti, fasdstissimi, mussolinianissimi. I loro
giornali fanno schifo e vergogna. Mussolini è sempre il loro eroe. E la colpa se
non è ancora il duce, fu tutta degli inglesi e degli americani che gli dichiara­
rono la guerra3.
Se da queste pagine esce una visione piuttosto pessimistica dei rap­
porti dell’Italia con le altre nazioni, a colori non meno oscuri è dipinto,
in una lettera di Egidio Reale, scritta nel febbraio del 1946, il quadro della
situazione interna che si dibatte tra passato e presente senza avere in sé al­
cuna forza che rinnovi e purifichi non tanto le antiche strutture, ma la co­
scienza stessa degli italiani:
La rissa sfrenata delle ambizioni e la corsa ai posti ed alle cariche sono
state fra i più tristi fenomeni, ai quali abbia assistito nei mesi successivi al
mio ritorno in Italia. Ne sono restato lontano e non ho chiesto né accetterò al­
cun incarico. Come avrai visto, non sono neanche consultore (quando si sceglie­
vano i consultori me ne andai in Svizzera). Dopo la crisi del Pd’A, in conse­
guenza del Congresso, ho rifiutato il posto che ha preso Cianca. Ritengo che la
partecipazione al governo nelle condizioni attuali sia un male, i pochi vantaggi
politici essendo superati dai molti danni. Non sono fra gli « uomini pratici » e
credo che i più mi considerino come un visionario ed un acchiappanuvole. Ma
non me ne importa. Vado sempre più isolandomi, essendo incapace di adattarmi
alle «necessità» politiche. Ricordi quanto ti scrissi quando arrivai qui? Par­
3 Lettera inedita di G.S. a B.C., aprile 1949, da Boston.
La crisi italiana 1944-46
41
tendo dalla Svizzera per ritornare a Roma dopo 19 anni, dissi che il sentimento
predominante in me era il terrore. L’esperienza mi ha mostrato che avevo ra­
gione. Ma bisogna restare in Italia finché si può, anche se si ritenga di non
potere agire sulle cose e sugli avvenimenti con una qualsiasi efficacia. Se non vi
fosse questo senso di dovere, sarei già altrove, di nuovo per le vie del mondo
(pp. 218-219).
Già un anno prima Ernesto Rossi aveva fatto una pittura desolante del­
le cose d ’Italia:
La situazione in Italia è tale che non si riesce a vedere che cosa si possa fa­
re per gettare le basi di una rinascita democratica. Quel che avviene nell’Italia
« liberata » lo immagini facilmente. Non si sa dove poggiare la mano. L’eser­
cito, la burocrazia, la magistratura, tutto è in putrefazione. Come « epurare » se
la maggior parte degli epuratori andrebbe essa pure epurata? Come fare ese­
guire degli ordini antifascisti da una burocrazia fascista corrotta al punto che
mette tutto in vendita? Come ricostruire un esercito quando tutti i quadri sono
composti di ufficiali che se non sono nazisti, sono monarchici? A tutto ciò ag­
giungi la monarchia sostenuta dagli anglo-americani; l’equivoco del Vaticano; i
comunisti, che, per ordine di Mosca, si presentano come democratici nazionalisti
e si metton d’accordo coi reazionari; il freddo e la fame che non lasciano pen­
sare ad altro; la disorganizzazione di tutti i servizi, le devastazioni, le abitudini
prese nella esistenza fuori legge... (p. 100).
Un anno dopo, a liberazione avvenuta, lo stesso quadro scoraggiante
ritorna ancora in una lettera al Salvemini:
Tieni sempre conto che gli individui veramente democratici (intendo questa
parola nel senso in cui la intendi tu) sono oggi in Italia una minoranza molto
più sparuta di quella che hai conosciuto prima del fascismo. La servitù per un
ventennio non ha insegnato l’amore per la libertà; ha abituato alla servitù.
D’altra parte la libertà è oggetto di lusso, che non può essere desiderato vera­
mente da chi è disoccupato, da chi non sa come fare per mantenere la fami­
glia, da chi perde ogni senso di dignità e di ritegno morale arrangiandosi col
mercato nero e con le iniziative più o meno camorristiche, o prostituendo la
moglie, le figlie pur di « tirare a campare ». La disfatta ha gettato il popolo
italiano in uno stato di miseria tale che non sa che farsene degli strumenti de­
mocratici: vuole mangiare, vuole un riparo dal freddo, vuole un minimo di si­
curezza di vita. Tutte cose che i dirigenti politici oggi non possono dare (pp. 245246).
Intanto col passare dei mesi un aspetto preoccupante si va delineando;
il fatale riaffiorare di un fascismo camuffato, ma che si può facilmente rico­
noscere sotto la nuova maschera e che, secondo Ernesto Rossi, avrebbe
potuto essere eliminato solo da un periodo di dittatura rivoluzionaria poi­
ché « dopo vent’anni di fascismo pensare di uscirne con metodi democra­
42
Bianca Ceva
tici è un assurdo ». La polemica impostata in questi termini divide gli
amici e rende quindi più confuso il dialogo tra gli stessi antifascisti, per
quanto il Rossi sia costretto, suo malgrado, a riconoscere amaramente che:
Le circostanze in cui è caduto il fascismo sono poi state tali da rendere com­
pletamente utopistico ogni proposito rivoluzionario. Non è possibile fare delle
innovazioni radicali con la presenza delle truppe di occupazione. Il governo in­
glese e quello americano considerano il nostro paese come un possibile tram­
polino di lancio nella prossima guerra contro la Russia ed hanno tutto l’interesse
ad appoggiare i reazionari, loro eventuali alleati contro i comunisti (p. 246).
Nonostante queste considerazioni realistiche, la situazione italiana ap­
pare alla coscienza dei combattenti dell’antifascismo sotto aspetti così sco­
raggianti quali ci sono descritti da Egidio Reale in una lettera dell’aprile
del 1946 alla vigilia del referendum e delle elezioni per la Costituente:
Tutti i redattori di questi grandi giornali hanno un brillante passato fasci­
sta. Alcuni si prevalgono del « doppio gioco ». Altri non si curano neanche di
quello e riprendono a scrivere, come se nulla fosse accaduto. Tutte le « grandi
firme » del fascismo, a meno che non siano morte o siano state fucilate nei
primi giorni della liberazione dell’alta Italia, sono di nuovo in vedetta. Solo
qualche disgraziato è finito in prigione ed attende ora che i processi si rifac­
ciano, con le conseguenti assoluzioni. Ma se v’è una rivista, che abbia un’idea
da esprimere, al di fuori dei partiti e dei gruppi di finanziatori, quella è desti­
nata a sparire. Vedi il caso di « Nuova Europa » diretta da Salvatorelli e De
Ruggiero. Era la migliore rivista internazionale che esistesse in Italia, una rivista
che faceva onore al paese, per la serietà con la quale trattava tutti i problemi,
per la personalità dei suoi redattori e collaboratori, per la varietà delle materie
trattate. Ha cessato la pubblicazione per mancanza di denaro e perchè non ha
trovato proprio nessuno disposto a spenderne per sostenere una rivista che non
poteva servire a nessun gruppo ed a nessun partito (p. 254).
Più tardi, pur risolto il problema istituzionale, ma viva ancora e diffi­
cile da risolversi la crisi dei partiti, il Reale stesso cede ad un moto di
verità osservando: « Ecco dei problemi che non si ponevano quando molti
degli attuali democratici erano solo e semplicemente fascisti » (p. 313). Tale
constatazione sintetizzata, al momento dei primi incerti passi che il popolo
italiano intraprendeva sul faticoso cammino delle istituzioni democratiche,
quello che quasi un anno prima il Reale già vedeva negli ostacoli che si
opponevano agli sforzi degli uomini migliori usciti dalla Resistenza:Il
Il modo come il fascismo è caduto non ha fatto che peggiorare la situazione.
Il prolungarsi della guerra non ha giovato: ha eliminato molti fra i giovani
che promettevano di più. (Pensa che solo a Roma il Pd’A ha perduto più di ot­
tanta fra i suoi dirigenti, ed alcuni erano fra i migliori). Il 25 luglio dovrebbe
La crisi italiana 1944-46
43
porsi fra le date nefaste dell’Italia, non commemorarlo fra i fasti della nuova
Italia (per poco non fui accusato di essere un fascista quando mi rifiutai di
celebrare quella data in Svizzera).
Ed il fascismo come spirito, se non come organizzazione, non è scomparso.
È un po’ dappertutto: nell’amministrazione, nei ministeri, in tutti gli uffici,
nell’esercito, che non può servire se non a preparare ia difesa della monarchia,
nelle università; ma lo è soprattutto nella forma mentale impressa agli italiani,
nell’intolleranza, nella vanità, nella vacuità dei discorsi e dei ragionamenti. E
dove non è il fascismo tu trovi quello spirito massimalista, vuoto ed inconclu­
dente, demagogico e stupido, che v’era nel 1919, ma oggi ancora più perico­
loso di allora. Se dici una parola di buon senso, se additi una via che richiede
uno sforzo, se richiami il senso di responsabilità, non sei compreso ed inteso e
qualche volta rischi di essere tacciato dagli uni di utopista, dagli altri di fascista.
È l’eredità delle dittature (e la nostra è durata più di ogni altra, in un paese
in cui l’educazione politica era già così scarsa): esse rendono impossibile la for­
mazione della coscienza civica e dell’educazione politica necessarie all’esercizio
della libertà. È un lavoro tremendo che bisogna fare. Coloro che sono disposti
a farlo sacrificando ad esso ogni vanità, ogni ambizione anche se giusta, ogni
desiderio di tranquillità, ogni popolarità, sono ben pochi. Non bisogna sco­
raggiare quei pochi che vi sono e Fer[ruccio] è, fra essi, uno dei migliori. È
il suo forte senso morale, è la sua onestà inattaccabile, è l’impossibilità di se­
durlo con le solite arti lusingatrici e neanche con il desiderio del potere, che
lo rendono maggiormente inviso agli ambienti più opposti, onde egli è ogni
giorno insidiato (ed in questi giorni le manovre si fanno maggiori e più ardite)
-e non soltanto dalla reazione (p. 178).
Attraverso questa raccolta di lettere possiamo cogliere parecchi tra i più
noti rappresentanti dell’antifascismo italiano in alcuni tratti caratteristici
che ci conducono a comprendere come personalità così spiccate, uomini
di carattere fiero che avevano con fermo coraggio tenuto testa per an­
ni alla dittatura affrontando carcere ed esilio, si trovassero poi al mo­
mento dell’azione nell’impossibilità di imporsi per condurla ad un fine
immediato. Il Salvemini accusava « la incapacità di mordere la realtà im­
mediata » e forse non aveva torto. Ernesto Rossi fin dal febbraio del ’45
confessava:
A dirti la verità mi sorride poco la prospettiva di andare a Roma. Io non
so « navigare ». Non ho nessuna disposizione a trattare con gli uomini « abili ».
Urto inutilmente la gente dicendo sempre quello che penso. Prendo posizione
pro o contro in tutte le questioni che si presentano, anche quando sarebbe con­
veniente rimanere neutrali per tenersi aperte più strade. Mi irrito contro coloro
— e sono i più — che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Dico senza
mezzi termini agli imbecilli che li considero imbecilli. Con un po’ di furberia
qualsiasi imbecille nelle assemblee, nei congressi, può mettermi nel sacco, fa­
cendomi fare una gaffe dietro l’altra. Sono consapevole dei miei limiti (p. 99).
44
Bianca Ceva
Eppure proprio da lui viene poi la critica più esplicita alla particolare
forma mentis di Riccardo Bauer:
Bauer vuole riportare tutte le questioni politiche ai primi principi e non si
dà alcuna cura di studiare le risoluzioni tecniche di concreti problemi. Vorrebbe
tradurre nella pratica lo « storicismo assoluto » facendo in ogni momento nella
sua stessa attività la sintesi delle forze contrastanti, sintesi che almeno Croce
affida alla Divina Provvidenza (p. 128).
E così via; ciascuno crede di penetrare nella verità dell’altro, ciascuno
vede riflessi nell’altro i propri limiti, e così si intrecciano all’infinito giu­
dizi ed apprezzamenti talvolta aspri, più spesso accorati.
Si scorge in queste pagine tutta la sterile dinamica dell’individualismo,
che ha sempre caratterizzato in ogni tempo la borghesia intellettuale, da cui
esce la maggior parte degli uomini di Giustizia e Libertà, dei quali una
piccola élite simbolica, gli amici di Carlo Rosselli, incontriamo nelle pa­
gine di questo epistolario. Intanto le sorti dell’Italia vanno orientandosi
senza di loro, è vero, ma non senza le loro critiche e le loro intelligenti
previsioni, tinte di pessimismo come quelle di Ernesto Rossi, che in una
lettera del dicembre del ’46, dopo un’amara analisi della vita italiana, con­
clude con un triste presagio sull’avvenire dell’Europa:
E la situazione internazionale diventa sempre più oscura: sentiamo avvi­
cinarsi il tifone della terza guerra mondiale, allo scoppio della quale tutti, vo­
lenti o nolenti, dovranno prendere parte o per la Russia o per gli angloamericani
ed i problemi nazionali non avranno più alcuna importanza (p. 411).
Ancora una volta la visione meno scoraggiante di Egidio Reale ha, tut­
tavia, il sopravvento sulla foga pessimistica di Ernesto Rossi; un mese
dopo la nascita della repubblica il Reale, cogliendo nella situazione italiana
motivi più aderenti alla realtà, così commenta:
La repubblica non è nata sotto buoni auspici: per la debole maggioranza dei
voti favorevoli, per le manovre che ne hanno accompagnato i primi passi, ed
hanno fatto pensare che il miglior modo di difenderla fosse l’affidare le cari­
che supreme ed i posti di responsabilità a monarchici di ieri e di oggi, per lo
schieramento dei partiti, che non può che creare condizioni e soluzioni di com­
promesso, ma, soprattutto, per il trattamento che gli alleati dell’oriente e del­
l’occidente ci stanno facendo. Con l’abitudine che la gente ha, e non soltanto
in Italia, di dimenticare le origini vere dei suoi mali, fra sei mesi od un anno
sarà alla repubblica che saranno addossate tutte le responsabilità e tutte le colpe.
È questo che io temo, non le reazioni dei monarchici, che non credo disposti a
far sacrifici per la difesa delle proprie idee. E temo che le forze repubblicane
— molte delle quali abbastanza inclini a cambiare le loro preferenze, con l’aiuto
degli avvenimenti — non saranno pari ai compiti immani che le attendono e-
La crisi italiana 1944-46
45
non avranno l’audacia di porre mano a quelle profonde riforme che costituiscono
il presidio maggiore e la giustificazione migliore del nuovo regime.
Concordo nel tuo giudizio sul popolo italiano. Quando penso ai « cafoni »
di Abruzzo e di Basilicata che hanno votato per la repubblica, ho fiducia nel­
l’avvenire del mio paese ed anche il senso di quello che noi dobbiamo all’ele­
vazione materiale e spirituale delle classi umili. Ma la classe dirigente è così
meschina: per mentalità, per preparazione, per qualità personali. Quella vecchia
tu la conosci. Ma anche nella nuova, che pur s’è formata nelle lotte e nelle
sofferenze, quale incapacità di comprendere i grandi problemi, quale gara di
ambizioni e, più, di vanità, quale corsa agli incarichi ed ai posti, quale facilità
di adattarsi alle vecchie abitudini. Mi dicono che nel salone dei passi perduti
i nuovi frequentatori già si muovono con la stessa « agilità » degli antichi. Ma è
questo un fenomeno soltanto italiano? E non siamo noi forse vittime di un’il­
lusione che ci fa vedere o desiderare un mondo quale l’immaginiamo nella no­
stra fantasia? (pp. 311-312).
Queste ultime parole suggellano forse la sola verità che esce fuori da
tutte queste pagine di vivi e di morti; da uomini che in una nazione meno
schiava di costumi arretrati e non più soggetta a poteri medioevali, in una
parola più civile, avrebbero costituito il nucleo di quell’auspicata classe
dirigente che non abbiamo ancora incontrato nella storia d ’Italia, e che
sola potrebbe condizionare l ’effettiva libertà e modernità delle nostre isti­
tuzioni.
Bianca Ceva
Quando già il testo di questo articolo era stato consegnato alla redazione
della Rassegna, ci pervenne il secondo volume delle Lettere del Salvemini che
si riferiscono agli anni 1947-1949.
Ne accenniamo qui brevemente, osservando anzitutto che il contenuto di
questa seconda parte non è tale da suscitare quell’interesse che era invece sca­
turito dalla precedente raccolta. Il recente volume contiene poco più di un centi­
naio di lettere, delle quali la maggior parte, un’ottantina circa, sono del Sal­
vemini, indirizzate a vari amici, in prevalenza ad Ernesto Rossi. Anche se fra gli
altri destinatari incontriamo qualche nome nuovo, tuttavia, la fisionomia di
'quest’ultimo epistolario ci appare se non del tutto uniforme, certo smorzata di
tono, pur ritrovandosi in esso molti degli argomenti trattati nel I volume, ma
ormai ridotti in frammenti e svuotati di quella vis polemica che caratterizzava
le lettere degli anni 1944-1946. La ragione di ciò sta forse nel fatto che qui
manca quasi totalmente il dialogo che rendeva più vivaci le pagine precedenti;
abbiamo invece un lungo monologo o tutt’al più a tratti uno sfogo reciproco
fra Ernesto Rossi e il Salvemini. Ciò, pertanto, non toglie che si manifesti
■spesso anche qui nei giudizi e negli apprezzamenti un certo linguaggio di crudo
46
Bianca Ceva
realismo, che già notammo nella prima parte e che non suonerà certo gradita
all’orecchio di alcune persone ancora viventi.
Il Congresso socialista che prepara la scissione di palazzo Barberini; le cri­
tiche al trattato di pace; i rilievi aspri e polemici alla politica clericale del go­
verno De Gasperi, ai quali fanno eco gli sdegni di Ernesto Rossi sulla situazione
italiana; qualche sfogo virulento contro l’opera dei Costituenti; questi e pochi
altri i temi ricorrenti di queste corrispondenze, che preludono al definitivo ri­
torno del Salvemini in Italia.
Una nota particolarmente degna di rilievo, perchè legata all’attualità di un
momento storico, è data dal commento alla lotta per le elezioni politiche in
Italia, le prime dopo l’entrata in vigore della Costituzione, quelle che si con­
clusero col voto del 18 aprile 1948: « Qui sono tutti impazziti con le elezioni
italiane. Si sono persuasi che dalle elezioni italiane dipendono i destini del
mondo. Fino a tre settimane fa erano atterriti dai giornali collo spauracchio
della vittoria comunista. Bisognava far passare il piano Marshall e per farlopassare si faceva dipendere da esso la sconfitta o il trionfo di Stalin in Italia.
Non appena il piano Marshall passò i giornalisti americani ricominciarono a
raccontare che in Italia si prevedeva la sconfitta dei comunisti. Ma non pare ne
siano ancora sicuri. Io per conto mio, pur sapendo che il mestiere del profeta
è assai pericoloso, ho continuato a dire che i comunisti si avvicineranno più al
30 che al 40 per cento nelle elezioni di domani, e che non avverrà nulla di
eccezionale neanche dopo. I comunisti faranno la ricevuta e tutto continuerà
ad andare avanti traballoni come è andato avanti in Italia da che mondo è
mondo. Durante la prima guerra mondiale, noi usavamo dire che in Germania
la situazione era seria ma non era disperata, in Austria era disperata ma non era
seria. La situazione italiana è stata sempre disperata ma normale » 4.
B. CL
4
G aetano Salvemini, Lettere dall’America. 1947-1949, Bari, Laterza, 1968, p. 148»