Capitolo Primo Nozione e fonti del diritto del lavoro

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Nozione e fonti del diritto del lavoro
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1. Il diritto del lavoro
A)Nozione, oggetto e finalità
Il diritto del lavoro è il complesso di norme che disciplinano il rapporto di lavoro e
che tutelano oltre che l’interesse economico, anche la libertà, la dignità e la personalità del
lavoratore (DE LUCA TAMAJO).
L’oggetto scientifico della materia è la disciplina dei rapporti di lavoro e della relazione
giuridica tra il datore di lavoro ed il lavoratore che è caratterizzata da una peculiarità rispetto alla generalità dei rapporti giuridici: se, infatti, dal punto di vista giuridico, le parti
operano formalmente sullo stesso piano di parità (entrambe, cioè, sono soggetti liberi
ed eguali), dal punto di vista economico, il prestatore di lavoro viene a trovarsi in una
posizione di inferiorità che fa di esso il contraente più debole (SANTORO-PASSARELLI,
MAZZONI, SCOGNAMIGLIO).
La posizione di debolezza del lavoratore discende sia dalla condizione di strutturale disoccupazione che
caratterizza il mercato del lavoro (dipendenza economica), sia dal fatto di essere subordinato al potere direttivo
e organizzativo del datore di lavoro (subordinazione tecnica).
Le norme del diritto del lavoro hanno, pertanto, la finalità di tutelare il lavoratore,
attenuando gli effetti più deleteri della subordinazione e assicurando, nei rapporti con
il datore di lavoro, il rispetto e la promozione delle condizioni economiche e della sua
libertà e personalità (Mazziotti).
B)L’evoluzione del diritto del lavoro
Si è soliti assumere come punto di partenza il passaggio dalla scarna disciplina del
codice civile del 1865 (che non prevedeva una disciplina del rapporto di lavoro, ma
solo, agli artt. 1570 e ss., quella della locazione delle opere e dei servizi) alla regolamentazione del rapporto di lavoro in tutti i suoi aspetti.
In un primo momento il legislatore è intervenuto limitatamente agli aspetti del rapporto di lavoro più
gravosi per i lavoratori (tutela del riposo settimanale e festivo e delle cd. mezze-forze: donne e minori), dando
luogo ad «un insieme di norme speciali ed eccezionali rispetto al diritto privato comune», aventi una chiara
finalità protettiva, e che ha caratterizzato la cd. fase della prima legislazione sociale (GHERA).
Negli anni del fascismo il contratto collettivo corporativo concorre allo sviluppo della materia lavoristica
in quanto dotato di generale ed inderogabile (dall’autonomia individuale) efficacia.
Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 si ha una sistemazione organica
della materia del lavoro, cui è dedicata una disciplina ben distinta da quella concernente
i contratti in genere.
La disciplina del lavoro è ricompresa unitamente a quella dell’impresa e delle società,
nel Libro V (in particolare, i primi quattro titoli: artt. 2060-2246).
Ma il momento più importante coincide con la Costituzione repubblicana, approvata il 22-12-1947 ed entrata in vigore il 1°-1-1948, che alla visione corporativistica dello
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stato fascista (cui è ispirato il codice civile del 1942) sostituisce quella democratica e
sociale, fondando la Repubblica sul lavoro (art. 1 Cost.).
Inizia così, una nuova stagione del diritto del lavoro interpretato e orientato alla luce
dei principi costituzionali che segnano i limiti e le direttive entro cui il conflitto tra gli
opposti interessi della produzione e dei lavoratori devono trovare soluzione.
2. Le fonti del diritto del lavoro
A)Le fonti di diritto internazionale e sovranazionali
Sono molteplici, aggregabili in tre partizioni:
a) trattati internazionali;
b) convenzioni dell’O.I.L. (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) nata nel 1917
per assicurare standard di tutela dei lavoratori subordinati;
c) norme dell’Unione Europea (UE).
Le prime due sono fonti indirette in quanto devono essere ratificate con leggi dello
Stato per entrare a far parte dell’ordinamento giuridico italiano ed essere quindi efficaci e vincolanti.
Rispetto al diritto internazionale, maggiormente evidente è l’influenza esercitata in campo lavoristico dal
diritto comunitario che ricomprende sia il Trattato istitutivo della Comunità Economia Europea (CEE), ora
Unione Europea (UE), sia gli accordi della Comunità con Stati terzi (cd. diritto comunitario originario), sia
gli atti che promanano dalle istituzioni comunitarie (cd. diritto comunitario derivato).
Il 1°-12-2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che modifica, senza sostituirli,
il Trattato istitutivo della Comunità Europea (25-3-1957), che assume la nuova denominazione di «Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea» (TFUE), e il Trattato
sull’Unione Europea (7-2-1992). Per un maggior approfondimento si rinvia al libro IV.
Particolare attenzione meritano le fonti del diritto comunitario derivato (TUE).
Il regolamento è un provvedimento normativo di portata generale (si rivolge a Stati membri, persone
fisiche e giuridiche), obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile senza che sia necessario un atto interno di ricezione o adattamento.
La direttiva rappresenta un indirizzo comunitario vincolante per gli Stati membri, i quali, però, sono
liberi di scegliere il concreto modo di attuazione.
Le direttive devono essere recepite con un atto interno (legge, decreto legislativo, decreto legge, atto
amministrativo).
La decisione è un atto obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile per i destinatari da
essa designati.
B)La Costituzione
La Costituzione dedica alla materia del lavoro sia i principi generali (artt. 1, 3, 4)
che l’intero Titolo III della Parte I (rapporti economici).
In particolare:
— l’art. 35: riguarda la tutela del lavoro, la formazione e l’elevazione professionale
dei lavoratori, con particolare riferimento alle condizioni del mercato del lavoro,
interno ed internazionale;
— l’art. 36: definisce i criteri di determinazione della retribuzione. Lo stesso articolo
contiene una disposizione programmatica sulla durata della giornata lavorativa
(riserva alla legge la fissazione della sua durata massima) e stabilisce l’inderogabilità
del riposo settimanale e delle ferie annuali;
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— l’art. 37: garantisce alla donna lavoratrice gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le
stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Il principio della «parità» è esteso,
nell’ultimo comma, anche al lavoro dei minori;
— l’art. 38: sancendo il diritto del lavoratore ad adeguate forme di previdenza ed
assistenza sociale ha inteso garantire il lavoratore (e, in una visione più ampia,
l’individuo in genere) da quei rischi che possono incidere sulla sua capacità lavorativa
e sui suoi bisogni;
— gli artt. 39-40: tutelano l’attività sindacale e riconoscono il diritto di sciopero.
Numerose sono, poi, le disposizioni costituzionali che si riferiscono, indirettamente, al rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. A tale
riguardo si osserva, infatti, che non vi è alcuna norma di rango costituzionale che si
occupi specificatamente del rapporto di pubblico impiego, anche se vi sono principi
di carattere generale nonché riferimenti a figure specifiche, quali funzionari (artt. 28 e
29), impiegati (art. 98) e dipendenti pubblici (art. 28).
Tra le prescrizioni che assumono rilevanza per il pubblico impiego ricordiamo:
— la riserva di legge in materia di organizzazione. L’art. 97 Cost. precisa che i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge e che nell’ordinamento di questi
sono fissati le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei
funzionari;
— i principi di imparzialità e di buon andamento. Il principio d’imparzialità, sancito
dagli artt. 97 e 3 Cost., afferma l’obbligo della P.A. di svolgere la propria attività nel
rispetto di esigenze generali di giustizia, assumendo una posizione di equa terzietà,
non ponendo in essere atti di discriminazione e comportandosi correttamente nei
rapporti diretti con chiunque.
Il principio di buon andamento indica l’obbligo per i funzionari amministrativi e per
tutti gli agenti dell’amministrazione di svolgere la propria attività secondo modalità idonee e opportune al fine di garantire l’efficacia, l’efficienza, la speditezza e l’economicità
dell’azione amministrativa con il minor sacrificio degli interessi particolari dei singoli;
— i principi relativi all’accesso ai pubblici impieghi. L’art. 97, co. 4 Cost. prevede che
agli impieghi pubblici si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
Vi è, ancora, una serie di norme relative allo svolgimento del rapporto di pubblico impiego:
a) in base all’art. 98, co. 1 Cost., i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione;
b) per alcune categorie di dipendenti pubblici (magistrati, militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e
agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero) la legge può anche stabilire limitazioni
al diritto d’iscriversi ai partiti politici (art. 98, co. 3 Cost.);
c) i cittadini che ricoprono funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (art. 54, co. 2 Cost.);
d) i funzionari e i dipendenti pubblici assumono anche una responsabilità diretta, civile, penale e amministrativa, per gli atti compiuti in violazione di diritti (art. 28 Cost.);
e) chi ricopre cariche elettive (art. 51, co. 3 Cost.) o adempie il servizio militare (art. 52, co. 2 Cost.) o il
sostitutivo civile ha diritto di conservare il proprio posto e, nel primo caso, di disporre del tempo necessario per adempiere il mandato.
C)Le altre fonti di diritto statuale
Vi rientrano il codice civile, che contiene la nozione di lavoratore subordinato (art.
2094 c.c.) e dedica al lavoro il Libro V, e la legislazione ordinaria nella materia specifica, comprendente le leggi e gli altri atti aventi forza di legge, nonché i regolamenti di
attuazione e di esecuzione dei suddetti atti.
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D)Le fonti regionali
La competenza legislativa delle Regioni ad autonomia ordinaria è stata per molto
tempo limitata nell’ambito del lavoro, riguardando l’istruzione professionale e l’assistenza
sanitaria e ospedaliera.
Solo a seguito del D.Lgs. 23-12-1997, n. 469, le competenze regionali hanno abbracciato appieno la materia del collocamento e delle politiche del lavoro.
Con la modifica integrale del titolo V della parte seconda della Costituzione, dedicato
appunto a Regioni, Province e Comuni, ad opera della L. cost. 3/2001, si è provveduto
ad una nuova suddivisione della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni (art.
117 Cost.).
La norma individua settori in cui lo Stato legifera in modo esclusivo, riservando a sé ben 17 materie, settori in cui le Regioni hanno potestà legislativa concorrente con lo Stato (sono tenute a legiferare nel rispetto
dei principi fondamentali della Repubblica) e settori in cui esiste una potestà legislativa esclusiva delle Regioni,
senza interferenze da parte delle autorità statali.
Con specifico riferimento alle competenze in materia di lavoro e previdenza sociale,
attengono:
— alla competenza esclusiva dello Stato, la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale, la previdenza sociale e l’ordinamento civile;
— alla competenza concorrente delle Regioni, la tutela e sicurezza del lavoro, la tutela
della salute e la previdenza complementare e integrativa;
— alla competenza esclusiva delle Regioni, le materie non riservate alla legge statale e
alla legislazione regionale concorrente, compreso il potere di dare attuazione ed
esecuzione agli atti dell’Unione Europea.
La disciplina del rapporto di lavoro non rientra nell’ambito della «tutela e sicurezza del lavoro» di competenza regionale ai sensi dell’art. 117, co. 3, Cost., ma attiene all’ordinamento civile di esclusiva competenza
statale (Corte cost. sent. 28-1-2005, n. 50).
Il campo della tutela del lavoro, definito con una espressione di ampia interpretazione, deve ritenersi non
comprensivo di tutta la disciplina del lavoro, bensì limitato alla disciplina degli aspetti gestionali del mercato
del lavoro, quali la mediazione tra domanda e offerta di lavoro e gli interventi per favorire l’occupazione e il
reimpiego dei lavoratori (Corte cost. sent. 14-10-2005, n. 385).
E)Le fonti sindacali (o contrattuali collettive)
I contratti stipulati tra le associazioni rappresentanti i lavoratori e quelle dei datori
di lavoro (a volte singoli datori di lavoro) disciplinano il trattamento economico e
normativo del personale dipendente di una determinata categoria professionale (es.
metalmeccanici, industria etc.). La funzione ausiliaria della legge (art. 2099 c.c.), svolta
sia in ambito privato che pubblico dalla contrattazione collettiva, è più ampiamente
esaminata nel succ. Cap. 3 cui si rinvia.
F)La consuetudine
Consiste nella ripetizione costante e uniforme di una determinata condotta, con la
convinzione della sua giuridica necessità (cd. uso normativo), nel diritto privato comune opera solo in assenza di regola legislativa (praeter legem) o su suo espresso rinvio
(secundum legem).
Nel diritto del lavoro, la consuetudine è regolata dall’art. 2078 c.c., che, da un lato,
prevede l’applicabilità dell’uso solo in assenza di disposizioni di legge o contrattuali
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(collettive), dall’altro, stabilisce che gli usi più favorevoli al prestatore di lavoro prevalgono sulle norme dispositive di legge (ma mai sui contratti individuali di lavoro).
G)Le regole interpretative
Il favore per il lavoratore subordinato (principio del favor prestatoris) è un principio
che informa l’intero ordinamento giuridico: con tale locuzione si indica la particolare
tutela, che nel contratto individuale di lavoro, viene accordata al contraente più debole,
e cioè al prestatore, come conseguenza della necessità di riequilibrare il diverso peso
contrattuale delle parti.
Il principio è affermato in tutta una serie di disposizioni: basti pensare al principio della invalidità delle
rinunce e transazioni stipulate durante il rapporto di lavoro (art. 2113 c.c.) e alla possibilità di derogare le
norme imperative di legge con altre che risultino più favorevoli al prestatore di lavoro.
L’equità, criterio interpretativo e metodo di giudizio della giustizia del caso concreto,
è richiamata dagli artt. 2109 c.c. (ferie annuali), 2110 c.c. (retribuzione e indennità per
infortunio, malattia, gravidanza e puerperio), 2118 c.c. (preavviso).
3. La disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni
Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni — tradizionalmente definito impiego pubblico — è quel rapporto di lavoro per cui una persona fisica
pone, volontariamente e dietro corrispettivo, la propria attività, in via continuativa, alle
dipendenze di una P.A.
La disciplina del pubblico impiego è stata assoggettata, negli anni, ad un complesso
ed articolato iter di riforme, che, a loro volta, devono essere collocate nel più vasto disegno di innovazione dell’apparato pubblico nel suo complesso, ad oggi in pieno divenire.
A partire dagli anni Novanta, infatti, la P.A. italiana è stata teatro di importanti cambiamenti, nell’ottica del superamento delle problematiche di lentezza ed inefficienza
burocratica che erano venute a crearsi parallelamente a situazioni di insoddisfazione
dei cittadini; innovazioni, queste, finalizzate ad una progressiva crescita degli standard
qualitativi delle prestazioni lavorative nonché ad un miglioramento del funzionamento
della P.A., sulla base dei criteri di modernizzazione, efficienza e trasparenza.
Per quanto concerne l’evoluzione della relativa disciplina, occorre premettere che
in una prima fase il rapporto di pubblico impiego era oggetto di una disciplina rigorosamente unilaterale, scandita da atti di natura legislativa o regolamentare, in seno alla
quale non è mai stato riconosciuto rilievo alcuno alla fonte contrattuale.
In particolare, la disciplina del rapporto di impiego era contenuta nel R.D. 11 novembre 1923, n. 2395
(ordinamento gerarchico) e nel R.D. 30 ottobre 1923, n. 2960 (stato giuridico).
Un primo passo verso la parificazione è stato rappresentato dal Testo Unico impiegati civili dello Stato, contenuto nel D.P.R. n. 3 del 1957, nel quale era regolamentata
la distinzione delle carriere lavorative (direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria) e la
disciplina delle funzioni inerenti le qualifiche medesime. Tale Testo Unico, insieme al
D.P.R. 748 del 1972 istitutivo della dirigenza pubblica, rimase la disciplina di riferimento fino alla emanazione della legge quadro sul pubblico impiego, n. 93 del 1983.
Tuttavia, nonostante l’enunciazione della volontà di colmare le distanze tra lavoro
pubblico e lavoro privato, la normativa relativa all’impiego pubblico rimaneva profondamente differenziata rispetto a quella del lavoro privato; soprattutto a seguito della
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emanazione dello Statuto dei Lavoratori emersero i vuoti di tutela che presentava la
condizione giuridica ed economica del pubblico dipendente rispetto al lavoratore privato.
È in tale prospettiva che si colloca il D.Lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993, con cui viene suggellato il (faticoso) percorso di riavvicinamento tra lavoro pubblico e privato e
sancita la privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.: questo
viene assoggettato, salvo determinate eccezioni soggettive ed oggettive, alla disciplina
del lavoro privato, e, di conseguenza, alla contrattazione collettiva, e la relativa tutela
viene spostata dinanzi al giudice ordinario.
In questa fase viene delineandosi la distinzione tra organizzazione amministrativa e regolazione e gestione del rapporto di lavoro: mentre la prima continua ad essere disciplinata in regime di diritto pubblico, la
seconda, cioè la gestione dei rapporti di lavoro in quanto tali, viene rimessa alla regolamentazione di diritto
comune, alle norme del codice civile e ai contratti collettivi negoziati con le organizzazioni sindacali, al pari
di quanto accade nelle imprese private.
Il processo di riforma ha subito una importante accelerazione sia attraverso l’emanazione dei primi contratti collettivi quadriennali, destinati a rappresentare il momento
del definitivo passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina del lavoro pubblico, negli
anni 1994 e 1995, sia grazie al D.Lgs. 80 del 1998, con cui viene meglio delineata la
separazione delle fonti pubblicistiche e privatistiche di disciplina delle macro-aree
del pubblico impiego, marcata la devoluzione del relativo contenzioso al giudice ordinario (G.O.) ed estesa la privatizzazione anche ai dirigenti generali di categoria, che
in una prima fase ne erano stati esclusi. Si tratta della cd. seconda privatizzazione
del pubblico impiego. L’area riservata al diritto comune viene, infatti, ampliata e il
contratto collettivo diventa la fonte privilegiata della disciplina del rapporto di lavoro,
capace di disapplicare le stesse disposizioni di legge e di regolamento o statuto.
L’emanazione di numerosi interventi normativi in materia ha fatto poi sorgere l’esigenza del coordinamento tra le stesse; a questo fine è stato emanato il D.Lgs. 165/2001
(cd. Testo Unico del pubblico impiego) che domina l’attuale panorama normativo,
recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.
Tale decreto contiene la disciplina dell’organizzazione degli uffici e dei rapporti di
lavoro pubblico, del procedimento di contrattazione collettiva, della mobilità, dell’utilizzo delle forme di lavoro flessibile alle dipendenze della P.A., nonché norme in tema
di giurisdizione.
La terza grande riforma del lavoro pubblico si è, infine, avuta con la cd. riforma Brunetta (legge delega
n. 15/2009 e D.Lgs. 150/2009): tale normativa ha aperto una nuova stagione di innovazioni nelle pubbliche
amministrazioni, nella direzione della trasparenza, meritocrazia ed efficienza del (e nel) pubblico impiego.
Alla riforma Brunetta hanno poi fatto seguito ulteriori ed importanti manovre normative, le principali
delle quali vanno nella direzione della razionalizzazione delle spese nell’apparato pubblico (manovre di
spending review) e in quella del recupero della integrità e della legalità degli uffici pubblici (normativa
anticorruzione).
4. Il sistema delle fonti del pubblico impiego: legge e contratto
In virtù del secondo comma dell’art. 2 del D.Lgs. 165/2001 — i rapporti di lavoro dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I,
titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel decreto — il pubblico impiego è assoggettato, tendenzialmente, alla medesima regolamentazione privatistica.
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Per effetto del D.Lgs. 150/2009 (cd. riforma Brunetta) le disposizioni del D.Lgs.
165/2001, che modellano i tratti specifici del rapporto dei pubblici dipendenti, rappresentano «disposizioni a carattere imperativo».
Nell’ipotesi di nullità delle disposizioni contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione collettiva, si applicano gli artt. 1339 e 1419,
comma 2, c.c., determinando la sostituzione automatica delle clausole difformi con la
norma di legge violata.
L’art. 1 della L. 15/2009 era precedentemente intervenuto a modificare il rapporto
tra norme speciali, destinate ai pubblici dipendenti, e contratto collettivo, disponendo che «eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano
discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle
amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente
applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge». Il previgente
dettato, invece, consentiva ai contratti collettivi successivi di derogare alla speciale
normativa intervenuta, azzerandola, a meno che la legge stessa non la autodefinisse
insuscettibile di modifica da parte del contratto collettivo. La forza di deroga affidata
al contratto collettivo era finalizzata ad evitare che la legge (e le altre fonti unilaterali) si riappropriasse stabilmente di ambiti riservati alla contrattazione medesima.
Oggi è, viceversa, l’inderogabilità della legge ad essere presunta, senza alcuna
necessità di una sua menzione espressa, mentre la derogabilità da parte del successivo contratto collettivo deve essere dichiarata. Ciò consente più facilmente la
rilegificazione di intere materie e/o ambiti.