Biellenews 63 - La Brigata Lolli

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bielle
pensieri
Gli im
per
dibili
O
ttima annata e scelta molto
difficile. Due i dischi che in particolare ci hanno preso il cuore (come
capita quasi tutti gli anni). Se l'anno
scorso erano stati GianMaria
Testa e Vinicio Capossela e due
anni fa Van De Sfroos e i
Sultumana, quest'anno la scelta
ardua è stata tra Gigi Maieron e
Teresa De Sio. Ha prevalso Teresa
anche perché abbiamo avuto più
tempo per amarla. Ma Une primavere e Sacco e fuoco restano due
magnifici lavori. Non solo, ma sono
due lavori non rassegnati, grintosi
e appartenenti, in linea del tutto
casuale, a due tradizioni lignuistiche diverse dall'italiano: il napoletano per Teresa e il friulano per Gigi,
anche se per entrambi questa
scelta non è esclusiva. Basti ricordare "Brigate di frontiere" della De
Sio o "A passo di donna" per Gigi.
Venerdi 14 dicembre festeggiamo i premi di Bielle assieme a
Teresa
De
Sio,
Ermanno
Giovanardi, Massimo Priviero, I
Luf, Alessio Lega, Gerardo
Balestrieri, Bonaveri in un serata unica al circolo Arci Scighera
di via Candiani, 131, alla Bovisa,
ex quartiere operaio di Milano.
Ovviamente sono invitati a partecipare anche tutti gli altri
"Imperdibili 2007" che saranno
comunque premiati in contumacia.
A loro, in ogni caso leveremo un
calice e un ringraziamento per la
bella musica che ci hanno dato.
Presenta Enrico Deregibus.
Dalle 21.
Quindicinale poco puntuale di notizie, recensioni, deliri e quant’altro passa per www.bielle.org
Le BiELLENEWS
Numero 63
14 dicembre 2007
le bielle novità
Sul sito due nuove
interviste: John de Leo
e Roberto Vecchioni e
molte recensioni, tra
cui “For dai dentj” di
Lino Straulino
Inoltre radioBielle, il
nostro podcasting per
ascoltare le voci dei
bielleartisti in streaming oppure, scaricandole sul vostro lettore
mp3, dove, quando e
come volete...
O
gni La voce più di tutto mi colpisce. Sale
stretta come una ferita, si approfonda in un
gorgo dell'anima che sa di ruggine, di sale e di
sole. Graffia e colpisce, si impenna e si abbassa come il movimento delle mani su una
tamorra, ma poi sa aprirsi in un golfo caldo e
scuro nel cuore di una Ninna nanna. Insomma
è Teresa De Sio. Quando la voce si fa anima
che si trasforma di nuovo in voce, in una serie
di rimandi che sbalordisce e che confonde. E'
magia sciamanica che si dirama dal canto,
che tintinna dalle corde del mandolino suonato da Don Peppino De Trizio, che scorre sulle
corde delle chitarra e sulle pelli tese delle percussioni. "Sacco e fuoco" è programmatico: è
la storia di un assalto in musica al cuore delle
nostre passioni. Un album rapido e veloce.
Che si conclude come parte: con uno scatto
d'orgoglio.
"Brigate di frontiera", un ripescaggio da "Un
libero cercare" del 1995, stimolato dall'esito
convincente dei concerti, sembra inventata
per le Brigate Lolli: "Ma guarda ancora esisto
/ ancora insisto / mi vesto, mi svesto, / buon
esito, resisto". E più avanti: "Siamo ancora qui
/ scampati a un fuoco di fila / a contarci a
uno a uno / a raccontarci di un futuro. /
Siamo fuochisti e marinai / siamo gommisti e
fornai / siamo cantanti, flautiste e liutai /
Abbiamo scale e martelli / abbiamo vele e
pennelli / abbiamo bussola, vento e bandiera
// Siamo brigate di frontiera / che la frontiera non l'hanno vista mai".Ma tutto il disco
batte e batte bene su questi temi. Dall'iniziale
"Sacco e fuoco", preceduta dalla breve intro di
"A morte e zì Frangillo" di Carlo D'Angiò, alla
successiva "Non tengo paura". Da "A figlia d'o
rre" fino a "Vulesse addeventare": un album di
dignità rabbiosa, di teste scosse a dire no, di
rifiuti e ribellioni.
"Teresa ringrazia (è detto all'interno della
copertina) chi non tiene paura, i briganti e le
La voce
dell'anima della
signora soul
di Giorgio Maimone
Insomma, se Teresa Batista era stanca di
guerra, Teresa De Sio non appoggia la bandiera, ma la tiene bella alta, come in "A sud, a
sud" e la fa garrire sui canti popolari, sui concetti giusti, sulle battaglie sante. E' un disco
perfetto quindi "Sacco e fuoco"? Per niente.
Ma è un disco viscerale. E quando mai i visceri sono perfetti? Per definizione sono imperfetti, sporchi, corrotti. I visceri si buttano. Ma
si possono anche buttare sul tavolo perchè
contengono il coraggio e la passione, due
armi che in mano a Teresa non sono affatto
scariche.
Sono i frutti migliori di quando la musica popolare si imparenta alla musica d'autore e produce una miscela magica e salvifica. Ci siamo,
siamo a fianco di Teresa quando scrive (e
canta, sopratutto canta, alito di vento e rabbiosa tempesta): "E so passate ll'anni e è sempre 'a stessa canzone / na vota era 'o
Piemonte e n'ata vota era 'o Burbone / ma
pure chiste e mò, overo so fietenti / chi 'o
tene s'o mantene .... n'culo a chi nun tene
niente" ("Sacco e fuoco"). Oppure: "io mamma
voglio fregarmene / di tutte le buone maniere
/ voglio impostare la mia polvere / con la polvere del sole" ("Non tengo paura").
Poi ci sono le oasi: la africaneggiante
"Ukellelle" con il sublime controcanto di Esha
Tizafy: "E chillu allora sente a luntananza /
recensioni
le bielle
brigantesse di tutte le epoche, la disobbedienza che è un metro per misurare il mondo, l'intelligenza perché salverà la terra dai cretini,
ma caricati a salve, le femmine che vogliono
vivere e amare libere come pesci nel mare e
poi finiscono fritte nella tielluzza. Chi resta e
resiste nella splendida e miserabile città di
Napoli, gli stati di grazia difficili da mantenere,
la poesia e lascienza che nulla sanno l'una dell'altra, ma entrambe possono dirci cose sul
cielo stellato. Chi ancora ha una bussola, un
vento e una bandiera. Chi non vuole tenere
padrone. I piccoli musicisti senza lavoro. La
musica popolare. E infine il potere della passione, la sola battaglia che non possiamo perdere". E noi ringraziamo lei, per ogni riga scritta qua sopra, per ogni parola cantata in canzone e per questa voglia inesausta di non allinearsi.
Abbiamo aspettato sette anni il disco precedente e solo due anni corrono tra "A sud a
sud" e "Sacco e fuoco", ma sono due dischi di
anime diverse. Il primo popolare e più giocoso,
questo cantautorale, con robuste radici popolari, e più scuro, più incazzoso. Più indignato e
battagliero.
In coda, per chiudere il tutto, l'inno epico di
tutti noi "Brigate di frontiera", che la frontiera
non l'abbiamo vista mai. Ma abbiamo visto
una donna sulla collina che stringeva una bandiera e la faceva ondeggiare a tempo. La bandiera era rossa, la donna era Teresa: Teresa
De Sio.
Teresa De Sio
"Sacco e fuoco"
C.o.r.e./Edel - 2007
Nei negozi di dischi
recensioni
Tutti i brani sono di Teresa, tranne due: l'inizio
con "A morte e zì Frangillo" e il prefinale con
"Tambureddu" che è di Domenico Modugno. Zì
Frangillo non aggiunge niente al disco (e non è
una partenza forte) Modugno sì, perché trasformato in una macchina ritmica violenta, a
cui la voce di Teresa, come anche altrove, dà
una mano rumoristica. A livello di interpretazione è poi imperdibile il finale di "Vulesse
addeventare",
quando
il
rapporto
pesce/donna, pescatore/uomo si capovolge
e a turno ora l'uno ora l'altro si scambiano
mozzichi e brani di carne: "E o pigliasse a
muozzeche e m’o mangiasse / Isso ca me
vuleva magnà / E me vuleva tenè ‘nzerrata
dint’ a casa soia / Ma io m’o magno". E' puro
teatro popolare, commedia, sceneggiata.
le bielle
Pensa ca ce po’ sta ancora speranza /
Cull’uocchie asciutte cerca addò sta a sponda
/ E gira a varca e addreto verso terra / se ne
torna", che ricorda il modo asciutto con cui
anche Gianmaria Testa racconta storie simili.
O ancora la "Ninna nanna" che fa esclamare:
"eccola Teresa, quella là!": "E duorme duorme
pure tu / Ca nun si cchiù criaturo / Duorme
duorme e sta sicuro / Ca ce stongh’ io vicino
a te / Ca ce stongh’io cu te". Una canzone
che sembra risalire ai tempi di "Pianoforte e
voce", dolce, intesa, calda e riposante, cantata con quella voce, quella voce che avvolge e
che trascina, che strappa le cortine del tempo
e ne fa trine e non polvere sottile.
interviste
le bielle
"Noi che abbiamo
resistito e siamo
rimasti intatti"
Ci sono interviste che si sbobinano subito, altre che restano lì qualchetempo. Così
è capitato a questa con Teresa De Sio che
però ha il pregio di non aver perso un'oncia di freschezza e di venire fuori proprio
nel momento in cui a Teresa viene affibbiato l'onorifico titolo di Imperdibile 2007 di Bielle per il
disco "Sacco e fuoco". Ecco la cronaca di allora.
Purtroppo non ho ancora sentito il disco,
Teresa, quindi partiamo con un’intervista alla
cieca. Allora “Sacco e fuoco”. Tu o non fai dischi
o ne fai due in due anni.
No, vabbé. Sì, sono due anni da “A sud a sud”. In
realtà questo disco segue molto la scia di “A sud
a sud”. Anche questo ha le radici nella musica
popolare, anche se, rispetto ad “A sud a sud” è un
disco più cantautorale. C’è un po’ meno tradizione e un po’ di più io come autrice.
Le canzoni sono tutte tue?
Le canzoni sono tutte mie, eccetto l’intro A morte
e zì Frungillo che è una canzone scritta e che cantava Carlo D’Angiò, che mi porto appresso dai
tempi di Musica Nova e poi c’è Tambureddu che
è di Modugno e che ho scelto di mettere perché
è una canzone che raccoglie un po’ tutto il suono
del sud, perché se ci pensi, Modugno era pugliese di Polignano a mare, costa levante, parla della
pizzica ossia Puglia sud, Salento, è scritta ed io la
canto in siciliano e c’è dentro la tarantella napole-
di Giorgio Maimone
tana. Praticamente era la canzone che faceva
per me. E poi soprattutto è il primo esempio di
pizzica d’autore, almeno credo di poter dire. In
mezzo sono tutti pezzi miei. C’è una canzone che
è Vulesse addeventare, in cui ho preso il testo
che è parte della tradizione orale napoletana, l’ho
modificato, ho completamente riscritto la musica
e l’ho reinterpretato in questo modo.
Il disco ti soddisfa? Ti rappresenta?
Sì, sicuramente rappresenta questo momento
della mia vita e della mia storia. Mi spiace che
non l’hai sentito perché è un disco che quando lo
sentirai dirai “ah, potevo chiedere questo o quest’altro”. (ridiamo) Insomma è un album abbastanza pieno di rabbia, un po’ duro rispetto ai miei
ultimi dischi, sia come suono che come storie
raccontate.
Il gruppo che ti accompagna è lo stesso?
Il gruppo è lo stesso, tranne per alcuni brani dove
c’è una sezione ritmica di basso e batteria fatta
da Luca Troglio e Mario Guerini. Poi sono sempre
gli stessi di sempre. L’ottimo Don Peppino De
Trizio al mandolino, Her al violino, Max Rosati alla
chitarra che in questo album ha avuto un ruolo
Riposizionarmi … Mercato …?
Sono termini che non ti piacciono?
Non è che non mi piacciono. Non mi piacciono
pure, ma soprattutto non mi rapporto in maniera
molto consapevole con questo. Non saprei se mi
sono riposizionata o meno. E poi cos’è questo
mercato? (ridiamo)
Non è quello del pesce.
Certo che non è quello del pesce! Io vorrei anche
che il disco andasse primo in classifica, non è che
snobbo queste cose. Però non è il fatto prioritario. Prioritario è fare altre cose.
Dal punto di vista degli spettacoli?
Adesso cominceremo il tour.
Abbiamo appena suonato al
festival del mandolino genovese a Varazze, un festival che
fanno da molti anni e che è
molto interessante. Visto che
danno un premio ogni anno a
un artista, quest’anno sono
stati così gentili di darlo a me
questo premio. E mi hanno
regalato questo mandolino
genovese che è uno strumento bellissimo che io non conoscevo, fatto da questo artigiano che si chiama Gabrielli e
che ha fatto già tanti mandolini. Ne ha fatto uno per Fabrizio
De André che a sua volta ha
ricevuto questo premio prima
di me. Poi lo hanno preso
Battiato, Capossela. Questo
mandolino è molto bello perché ha cassa molto piccola,
manico molto alto ed è un
incrocio tra mandolino e chitarra battente e siccome non
ha il manico stretto ho capito
subito che lo posso imparare
a suonare anch’io.
Il mandolino normale è troppo stretto
E’ impossibile! Eppure ci sono
maschi che hanno dita più
grosse delle mie che riescono a suonarlo. Però loro so’
bravi!
“Sacco e fuoco” è una canzone sul brigantaggio.
Il brigantaggio di ieri, il brigantaggio di oggi. Parte
da una considerazione di tipo storico. Ossia il
fatto che questa benedetta unità d’Italia che
tante volte viene messa in discussione negli ultimi
anni, in realtà a noi meridionali è costata sangue,
sudore e lacrime. Il Sud dell’Italia ha pagato un
grande tributo di sangue: ci furono 685 mila
morti, 51 paesi rasi al suolo, spariti completamente dalle carte, iniziato il grande esodo verso
le Americhe. Garibaldi avevo promesso la democrazia, aveva promesso la liberazione dai
Borboni, aveva promesso la costruzione di una
Repubblica, aveva detto ai contadini che gli avrebbe dato le terre e ai latifondisti che nona avrebbero più pagato le tasse, quindi tutti quanti vedevano in questa figura di Garibaldi una mano santa.
Però quando Garibaldi ha consegnato ai Savoia il
regno delle Due Sicilie così chiavi in mano, i
Savoia hanno avuto un impatto violento con il Sud.
Non hanno “scambiato” , ma nel Sud è arrivato
l’esercito piemontese e a quest’esercito ha risposto quel fenomeno che veniva chiamato brigan-
interviste
A Sud a sud è stato un disco che è servito e
riposizionarti sul mercato perché era tanto
tempo che non uscivi con qualcosa di inedito.
Senti, vediamo le canzoni una a una? Ha voglia?
le bielle
molto importante perché abbiamo fatto insieme
gli arrangiamenti e lui ha anche registrato il disco.
“Non tengo paura” è la lettera di una figlia a una
madre. Probabilmente la risposta a una lettera in
cui la mamma dice “Figlia mia statte attenta che
il mondo è fatto in un certo modo”. E la figlia
risponde “Sì, ma io non ho paura, io non conosco
le regole, io voglio vivere secondo il mio istinto
“voglio ballare sopra un’altere spento /come una
femmina di Galatina”. E cito Galatina proprio
volendo segnalare questo momento di libertà dell’anima in cui le femmine, fingendosi morse dal
ragno in realtà si concedevano un momento di
guarigione pubblica, conquistava un ruolo sociale:
“io sono la posseduta dal ragno, io sono la morsicata, voi dovete guardarmi ballare e io nel corso
del ballo recupero lo status che nella vita quotidiana non ho”. Immaginiamoci quale potesse
essere lo status della donne del Salento nel ‘700:
zero! Così recupero uno status che mi consente
di tornare alla vita quotidiana stando bene.
Comunque un grande gesto di forza. Io non tengo
paura è una canzone di coraggio, perché di
coraggio ce n’è bisogno!
"A figlia d’o rre”, invece?
I’ song’a figlia d’o rre e non voglio tenè padrone!
Sì, per questo ti dicevo che mi rendo conto che è
più duro dei dischi precedenti.
La canzone dopo però è “Amen”, forse quella è
calma …
"Amèn", non àmen! Con l’accento sulla e alla napoletana. E’ una parola bella, che sancisce lo stato di
grazia. E’ una canzone su Napoli, la canzone che
comincia dove finisce Stamme bbuono, la canzone
che ho scirtto con Raiss in A Sud a Sud, Che era
sui mali della città di Napoli. Mali che in questi due
anni non solo stati risolti, ma anzi sono peggiorati.
E’ proprio di questi giorni sono le notizie dei roghi
dell’immondizia, la città che va in fiamme. E proprio
tra quella canzone, Stamme bbuono, e Amèn sono
passata attraverso la lettera del libro di Saviano,
Gomorra, un libro veramente sconvolgente. E tra le
altre cose, a proposito proprio del fatto della spazzatura lui dice che se si mettesse insieme tutta la
spazzatura che il Nord dell’Italia attraverso la
camorra ha inviato nel sud – dice che Milano è pulita? Per forza! L’ha inviata tutta nel Sud! – Se si
mettesse insieme tutta quella spazzatura si farebbe una montagna alta 14 km. Se tieni conto che il
Monte Bianco è altro 4810 metri e l’Everest 8
mila, queste sarebbe in assoluto la montagna più
alta del mondo. Allora in questa canzone, Amèn, io
ho invocato una serie di divinità pagane, dal
Padreterno del Vomero, alla Madonna delle
Galline, alla Madonna della mondezza perché laddove l’intelligenza umana e terrestre fallisce almeno intervengano gli dei. Che allunghino il loro piedino celeste su questa montagna. Usino la montagna di mondezza per scendere e venire a vedere
cosa ci succede!
"Ukelelle"?
"Ukelelle" è una parola africana. Che in realtà non si
pronuncia proprio così, però io non sono africana e
interviste
Non tengo paura
Anche qua bella donna decisa, eh?
le bielle
taggio, spesso liquidato come un fenomeno di criminalità e invece era proprio un fenomeno di
antagonismo armato. Questi erano antagonisti
politici! La canzone è dedicata a “quei” briganti,
però, insomma, anche a quelli di oggi. Nella canzone dico: “passa il tempo, ma è sempre la stessa canzone / una volta era Piemonte un’altra
volta era Borbone / ma pure chist’e mo’ è vero
so fietente / chi ottiene s’o mantiene in culo a chi
non tiene niente”. Chi ci comanda, chiunque sia,
non ho dato connotazioni politiche, il potere in
generale, non cambia molto le cose: chi ce l’ha se
lo mantiene e chi non ce l’ha se lo prende a quel
servizio.
"Due ore al giorno"?
"Due ore al giorno" è “ufo” rispetto a questo disco.
Non c’entra niente. Posso dirlo francamente. Però
mi piace talmente tanto … Ho combattuto talmente a lungo con me stessa, perché non volevo inserirla. Il disco è talmente omogeneo che questa canzone non c’entrava niente. E’ parte in italiano, parte
in napoletano, però è omogeneo, anche perché è
stato scritto tutto nello stesso periodo. Due ore al
giorno invece è una canzone che ho scritto tre anni
fa e che fa parte di un gruppo di canzoni in italiano
che ho scritto, che mi piacciono molto, ma che non
ho mai registrato da nessuna parte.. Però due ore
al giorno c’era qualcosa che mi ha convinto. Porto
Resta solo “Ninna nanna” …
"Ninna nanna", come mi ha detto qualcuno, le
poche persone che hanno già sentito il disco mi
hanno detto “Ah, questa è Teresa De Sio quella
là!” Non lo so. Tu scrivi ! “Questa è Teresa De Sioquella-là” e io per non far torto a nessuno dico “eh
sì sì … è proprio quella là!”
Bonus track: "Briganti di frontiera"
E’ una canzone che ho rifatto , che stava su Un libero cercare. "Briganti di frontiera" è una canzone
battagliera. Intanto la faccio nei concerti. Ho iniziato
un po’ di malavoglia a farla nei concerti di Stazioni
Lunari con Ginevra di Marco, che è caratterizzata
da un cast che gira e mi sono trovato di tutto. Le
cose più bizzarre e quindi più divertenti: Cristina
Donà, Cisco, Morgan, Peppe Servillo. E lì abbiamo
deciso di farla. Facendola con loro io mi sono detta
“Ma allora questo pezzo lo posso rifare?” Ho cominciato a farlo nei concerti e vedo che ha un enorme
riscontro. Io lo pensavo proprio come un pezzo
minore, quelle cose che sia, si lasciano anche per
strada. Non è che io posso fare tutto quello che ho
scritto! Verrebbe un concerto di 15 ore! Sarebbe
come “Due ore al giorno” (ridiamo) . E quindi ho
deciso di riarrangiarlo e l’ho messo a fine disco. E’
una canzone comunque combattente dedicata a
tutti quelli come noi che abbiamo resistito e siamo
rimasti intatti dentro di noi. Briganti eravamo quando eravamo pischelli e briganti siamo ora che
siamo giovanotti e signorine! Tutti quelli che abbiamo resistito siamo un po’ delle Brigate di frontiere,
con una bandiera e una dolce arma per andare a
combattere battaglie. Speriamo che queste battaglie le vinciamo. Altre siamo pronti a perderle.
Intervista rilasciata il 20 gennaio 2007
interviste
dentro qualcosa legata al Brasile, alla musica nordestina … mi piace tanto. Mi sono inventata questa
cosa di immaginare una giornata intera che diventa un po’ una metafora, se mi si passa il termine un
po’ abusato, della vita. In cui succede di tutto. C’è
un periodo per la tristezza, uno per la felcità, un
periodo per il sesso, uno per la lotta, uno per la rabbia, uno per non fare un amato cazzo di niente, uno
per le stupidaggini. Poi se tu fai il calcolo, perché
dopo averla scritta il problema me lo sono posto
“ma quante ore ci ho messo?” Sono 1600 ore!
(Ridiamo) Ho inventato una giornata di 1600 oreo
che però contiene tutte le umane passioni.
le bielle
mi sono presa questa libertà. A me piace molto la
musica africana e questo credo possa essersi capito nel corso della mia carriera. La musica soprattutto di quella zona dell’Africa, del Mali, quella musica dove dentro c’è molto ritmo ma molta lentezza,
dove ciò che conta non è tanto quello che dici, ma il
ritmo a cui lo dici. E mi sono ispirata un po’ alla musica del Mali. Una canzone un po’ particolare in cui mi
sono immaginata … in mezzo al mare cosa ci può
stare? Nel tratto di mare che unisce l’Africa al Sud
dell’Italia. Che ci può stare? Uno che viene dall’Italia,
per esempio da Napoli e che decide di andare a
vivere fuori dai coglioni, che non ne può più del
mondo e della vita dura che si fa in queste zone.
Quando arriva in mezzo al mare si rende conto che
in mezzo al mare è pieno di barche affondate e queste barche sono affondate perché venivano da
un’altra vita e quelle persone pensavano che venire
a vivere da noi significasse iniziare un’altra vita.
Gente che veniva di poter volare liberi come uccelli
e che invece sono rimasti intrappolati in una retata
di tonni. E allora questo uomo che è uscito al largo
pensa che sia il caso di tornare indietro e riprendere in mano la battaglia. Qualunque essa sia, pur di
non abbassare la guardia. E però c’è un’altra cosa
che ti voglio dire di questa canzone. Sentirai che c’è
una voce che canta insieme a me e sembra la voce
di una bambina. E canta in malgascio. In realtà è
una giovane ragazza africana, del Madagascar che
si chiama Aisha che ho conosciuto casualmente tre
anni fa quando suonavo a Palermo e, dopo un concerto, è venuta a cercarmi per cantare con me. Mi
ha dato un cd. Io cerco sempre di ascoltarle. Lo
dico però e già mi scuso, non riesco a sentirle tutti.
Questo di Aisha fortunatamente l’ho sentito, le si
scrive anche le canzoni, e l’ho chiamata a cantare
con me. Sentirai come è brava!
di Lucia Carenini
N
e ha fatte, di cose, Gerardo Balestrieri
prima di approdare al suo primo album. Nato
a Remscheid nel '71, si è laureato con una
tesi sulla spiritualità nella musica popolare
brasiliana, ha collaborato con Daniele Sepe e
Bebo Storti, ha fatto parte di E. Zezi, ha partecipato ad Arezzo Wave '96, ha recitato in
una soap opera ed è comparso in un paio trasmissioni televisive. E’ stato invitato un paio
di volte al Club Tenco: la prima nel ’99 come
cantautore inedito (dove presentò alcuni
brani poi finiti in questo cd), la seconda nel
2005, come session man per il dopo-Festival.
Anche di riconoscimenti ne ha avuti, dalla vittoria nel 1995 al Festival Buskers di Pelago
al titolo di “cantautore rivelazione” al festival
“Dallo Sciamano allo Showman 2006” passando per il premio per il miglior testo al
terzo Mantovamusicafestival.
Però l’agognato disco non era ancora riuscito a pubblicarlo; ce l’ha fatta quest’anno ed è
finito dritto dritto nella cinquina delle nomination per la Targa Tenco. Qualcosa vorrà pur
dire… Andiamo a vedere, o meglio a sentire.
Musicalmente si capisce che il ragazzo è preparato: si va dalla tarantella al bolero, dallo
swing al blues, dal tango alla giga e alla
mazurca, da Napoli a Parigi passando per
Atene in una girandola di suoni accattivante
e trasversale. Sensuale e sorniona la voce,
interessanti le parole, con i toni che si fanno
di volta in volta beffardi, flemmatici, acuti,
marpioneggianti e sarcastici. “La possente
passione passeggia passando tra la voglia e
il sonno, tra il senno e la nebbia” è un buon
esempio del lavoro di lima fatto sui testi,
sostenuti da piano, fisarmonica e da una
serie pressoché infinita di altri strumenti
suonati dallo stesso Gerardo assieme a una
pletora di musicisti. Ospite illustre, in “Furto
ai nobili di Rue Berget”, Daniele Sepe con il
suo sax, a dare note acide e sentori di selvaggina a una canzone che sembra avere radici
nel periodo jazz-parigino di Boris Vian mescolato a quello delle cantine astigiane di un noto
avvocato.
A rappresentarlo in copertina Balestrieri
sceglie un disegno di Tomi Ungerer, importantissimo disegnatore satirico contemporaneo e uomo impegnato in mille battaglie politiche e sociali. Il disegno in questione illustra
un gatto che canta in un microfono a forma
di topo. Ma visto che le fauci sono spalancate – e il microfono è appunto un topo – il
tutto suggerisce diverse chiavi di lettura. I
gatti, indolenti, sensuali, furbi ed egoisti, sono
sempre stati fonte di ispirazione per
Ungerer. In quale di questi tratti si identificherà Balestrieri? Proviamo a scoprirlo con
le canzoni.
I richiami al patafisico francese non si fermano però qui: il nostro ci dà modo di apprezzare le sue doti di interprete in “Barcelone” e
quelle di traduttore in “La java des B.A.”.
Peraltro non si fermano qui neanche i riferimenti all’avvocato astigiano e forse anche al
fratello del suddetto: “Il blues del putagè” (il
putagé è la tipica stufa in ghisa delle campagne piemontesi, su un angolo della quale veniva lasciata per tutto il giorno la minestra putage - a sobbollire borbottando) echeggia
delle storie del Conte piccolo (se così si può
definire il grande Giorgio), delle sue erbe di
San Pietro, delle mele cotte al forno e delle
recensioni
Un napoletano che
guarda alla Francia
le bielle
Gerardo Balestrieri:
"I nasi buffi
e la scrittura musicale"
Gerardo Balestrieri
"I nasi buffi e la scrittura musicale"
Intebeat/Egea - 2007
Nei negozi di dischi
recensioni
Il fatto che Balestrieri deve aver ascoltato
parecchio Paolo Conte si evince anche da
“L’Ame du Vin”, poesia di Baudelaire messa in
musica e da “Il gusto nel niente e nel sorridere” - il brano che contiene la frase che dà il
titolo all’album - un collage di immagini che si
inanellano come perle di una collana onirica
legata da un filo di note di piano e fisarmonica.
“lettera di spezie e sogni, forse una ricetta”, la
definisce lui nel sottotitolo, ma evoca sicuramente i toni di un film anni Trenta in bianco e
nero. Incantevole e incantato.
Qualcuno ha scomodato altri due grandi, e ha
detto di Balestrieri che “canta alla stregua
d’un De André colto da infingarda ebbrezza
caposseliana o di un Capossela colto da flemmatico acume deanreiano”. Probabilmente ha
ascoltato, assimilato, elaborato, digerito. Echi
di molti, clone di nessuno, Balestrieri va tenuto d’occhio. Augurandosi di non dover aspettare altri otto anni per avere la conferma di
un talento.
le bielle
giostre dei vari Bastiani. Ma non è un male:
Balestrieri in una delle sue tante peregrinazioni (ai traslochi va uno dei ringraziamenti nelle
note finali del disco) ha respirato quell’aria,
l’ha assimilata e l'ha fatta sua. E il risultato è
affascinante.
recensioni
le bielle
Bonaveri:
"Magnifico"
La difficile strada
dell’impegno
di Silvano Rubino
C
om’è difficile essere impegnati in tempi di
anti-politica. Com’è difficile scegliere il sociale, l’invettiva, i realismo in tempi in cui la tentazione di rifugiarsi nel puro immaginario è
assai forte. Com’è difficile optare per l’ideale,
quando un po’ di ben dosato cinismo può
aprire molte più porte... Germano Bonaveri (o
meglio, come recita la copertina del disco,
soltanto Bonaveri), al suo esordio da solista,
non si fa intimorire da tutte queste difficoltà.
E si butta nell’impresa di fare un disco impegnato con grande convinzione.
Lo si capisce sin dall’inizio, la prima canzone,
“Non dimenticare”, sceglie subito i toni dell’invettiva, contro l’immobilismo, il conformismo,
sui ritmi di una marcia vagamente balcanica.
II disco prosegue con “Torquemada”, ballata
di ascendenza folk che prende di mira rigurgiti medievali di cui è vittima la nostra società
e “Magnifico”, title track, più intimista, un
inno al bello della vita, nonostante tutto. “Il
Mago” (con un’intro parlata) è un malinconico valzer sul rapporto tra potere e individuo
e la fine delle utopie, “Indelebile” è il versante
intimo del disco, quello di un uomo che si
getta a capofitto nella sensualità, quasi un
rifugio a quella tempestosa realtà messa nel
mirino dagli altri brani, “C’è chi (e chi)”, risale
di tono, con un ritmo incalzante prende di
mira qualunquismo e perbenismo. “Delle
Diversità”, la più gaberiana tra le canzoni del
disco, per intento etico, è un’esortazione a
uscire dal coro, a essere “un’incognita non
contemplata/nei manuali dell’autorità”. La
denuncia è il tono dominante anche in “Oltre
l’arcobaleno”, ritratto a tinte forte di questi
nostri tempi e nella latineggiante “Stato
sociale”, con i cori di Maria Pierantoni Giua.
Chiude “Terraferma”, la canzone più intro-
spettiva del disco, una jazzata riflessione
sulla complessità dei rapporti d'amore.
Di Bonaveri (che scrive tutti i testi, mentre
per le musiche di fa aiutare, in qualche
brano, da Fabio Guercio) colpisce l’uso della
lingua, delle parole. Sulla scorta della migliore tradizione cantautorale, mette in versi una
corretta lingua italiana (e non è poco, di questi tempi), senza paura di attingere a un lessico ampio, senza paura di usarne molte, di
parole, a rischio di qualche (raro) scivolamento nella verbosità. Dà peso alle parole,
Bonaveri, tanto da inserire qualche brano
recitato, lasciando intravedere un certo
ascendente nei confronti del teatro canzone
di matrice gaberiana. Nessun ermetismo, un
linguaggio curato ma diretto, capace di trasmettere significati netti, senza molte sfumature. A cui fa da specchio una musica altrettanto diretta, vigorosa, capace di fondere
tradizione cantautorale doc, con ritmi folk,
sfumature jazz, canzone popolare.
Una musica, c’è da dirlo, ottimamente suonata, figlia com’è delle mani d’oro del produttore del disco, Beppe Quirici, che ha coinvolto
nell’avventura musicisti della vaglia di Mario
Arcari e Elio Rivagli (insieme a Quirici due dei
protagonisti della migliore stagione di Ivano
Fossati).
La voce è quella calda e avvolgente che già
avevamo conosciuto con i Resto Mancha
(che peraltro continuano a collaborare al cd).
Centra sempre l’obiettivo, questo esordio? È
sempre all’altezza della sua forte ambizione?
Bonaveri
"Magnifico"
Fabbrica di parole & Musica
Duende Music - 2007
Nei negozi di dischi
recensioni
Oltre ai musicisti dei Resto Mancha Antonello
D’Urso (chitarre), Luigi Bruno (piano e fisarmonica), Luca De Riso (basso elettrico), Max
D’Adda (batteria), l’album vanta le preziose
partecipazioni di Elio Rivagli (percussioni e
batteria), Mario Arcari (oboe, clarino e flauto),
Martina Marchiori (violoncello) e Maria
Pierantoni Giua ai cori in "Stato Sociale".
le bielle
No, forse, no. C’è qualche momento di stanchezza, di convenzionalità. E pure qualche
caduta nel predicatorio. Tuttavia Germano
Bonaveri è una persona che canta perché ha
qualcosa da dire. In Magnifico c'è la traccia di
tutta la tradizione cantautorale, ben assimilata e digerita, con in più una signora produzione. Si parla del rapporto tra potere e persona,
del qualunquismo dilagante, del vuoto morale
e del fatto ancor peggiore che lo si consideri
normale. E si parla anche d'amore, ma mai in
toni da sole-spiaggia-mamma-capanna, piuttosto con un approccio introspettivo e poetico.
Per un esordio niente male, quindi. È legittimo
aspettarsi un bel percorso.
di Leon Ravasi
S
ceglie un disco strano per tornare alla "canzone
attiva" Mauro Ermanno Giovanardi, vale a dire il signor La Crus. E' un disco dal vivo, la registrazione di uno spettacolo tenuto al Teatro Dimora - L'arboreto di Mondaino (Ravenna) tra il 10 e il 17
aprile 2006 e poi, con calma, addizionato delle ritmiche in estate, degli archi in autunno e quindi
mixato e licenziato a un anno quasi esatto di distanza dalla registrazione. Alla faccia dei dischi
"canta e sforna" tipo Elio e le Storie Tese!
Il risultato è un prodotto levigato e curato che, almeno inizialmente, non sembra dal vivo. Ed è lavoro complesso e stratificato, giocato sulla passione per la poesia di Giovanardi, che recita molti
testi, e su quella per la canzone d'autore, presente qui sotto quasi tutte le sue forme.
Giovanardi è un sensibile e dotato interprete che non ha mai fatto mancare neanche nei dischi firmati come La Crus la ripresa di classici della canzone d'autore (da Ciampi a Tenco, da De André
ad Alan Sorrenti), fino a dedicare un intero disco, "Crocevia", alle cover (Bruno Martino, Gaber,
Patty Pravo, Ivano Fossati, Battisti, Conte).
"Cuore a nudo" riprende un po' delle intenzioni di "Crocevia" (e anche direttamente alcune delle
cover già cantate) e le colloca in una dimensione di recital autorale di grande impatto emotivo e
ottima eleganza formale. Il gioco mostra la corda solo alla lunga distanza (sono 18 brani per un
totale di 48', non molto lungo, ma alla fine il gioco attore/fine dicitore/musica rarefatta su disco
si fa un po' peso).
Tra le cover già fatte dai La Crus ecco tornare "Un giorno dopo l'altro" di Tenco, "Giugno '73" di
De Andrè, mentre la magnifica "Naviganti" di Fossati arriva dall'album di cover fossatiane "I disertori". Di Tenco compare invece per la prima volta "Vedrai vedrai" anche questa in una versione
commuovente, Hai pensato mai? ("Gastu mai pensa?") di Lino Toffolo e "El me gatt" di Ivan Della
Mea in una versione da cabaret jannacciano.
In mezzo un pugno di canzoni di mano dello stesso Joe: "La giostra"scritta con Cremonesi e
Malfatti (ossia gli altri due terzi dei La Crus) per l'album d'esordio omonimo del 1995, "Un cuore
a nudo" scritto con Fabio Barovero dei Mau Mau e Baruffaldi, "Solo sfiorando", scritta con Luca
Morino e Fabio Barovero (ossia la totalità dei Mau Mau), "Testamento d'amore" con Leziero
Rescigno (batterista del giro La Crus).
recensioni
Jo non porta La Crus,
ma il cuore ha spessore
le bielle
Mauro Ermanno
Giovanardi:
"Cuore a nudo"
Il risultato finale è da lode. Giovanardi convince
anche se la produzione di materiale nuovo, fatti
bene i conti, si riduce all'osso e alcuni episodi, sia
poetici, sia musicali, sono da segnalare con l'evidenziatore giallo a partire da Un giorno dopo l'altro a Naviganti a La giostra a Hai pensato mai,
fino alla conlusiva Sarà ora di chiudere, amore
che rende magistralmente la breve poesia di
Pagliarani.
Scopo raggiunto, anche se resta l'incertezza su
quale sarà il cammino di Joe senza i La Crus
(anche se Paolo Milanesi è presente anche quicon la sua tromba e pure come spalla recitante
in El me gatt) o se ci sarà ancora un cammino dei
La Crus assieme, ma se questi sono i segnali c'è
da ben sperare: gusto, intelligenza e cultura.
"Ho pensato a questo disco - dice Mauro - fin dall’inizio come ad uno spettacolo immaginario… un
viaggio emozionale in uno spettacolo immaginario tra canzone, teatro e poesia, dove non si riuscisse a capire quali fossero le tracce registrate
in studio e quelle dal vivo, in un gioco sospeso tra
Mauro Ermanno Giovanardi
"Cuore a nudo"
Radiofandango/Edel - 2007
Nei negozi di dischi
recensioni
finzione e realtà.” "L'idea - spiega Giovanardi - era
vedere se era possibile sostenere uno spettacolo intero con una formazione minima, ovvero
piano o fisarmonica, una voce e una tromba,
creando un percorso di parole cantate o recitate,
di cose che sono state fondamentali per me.
Abbiamo visto che l'idea reggeva e la mia voce
aveva ancora più possibilità di lavorare sull'interpretazione. E potevo dare sfogo anche a una mia
passione antica per il teatro".
le bielle
In mezzo tanta poesia: da William Shakespeare
("Come un attore") a Tonino Guerra ("La figa"), da
Pier Vittorio Tondelli ("A Milano") a Elio Pagliarani
("Sarà ora di chiudere, amore"), da Mariangela
Gualtieri ("Tu manchi da questa camera") a
Marco Lodoli ("Ognuno dentro di sè ha un vuoto")
e a Sandro Penna ("Era la mia città"), ma ogni
poesia è accompagnata da musiche di Barovero,
di Giovanardi o di entrambi o di Lorenzo Corti (già
con Cristina Don° e Cesare Basile).
di Giorgio Maimone
N
e Basta ascoltare 8" e 43 centesimi del
disco per capire che si tratta dei Luf.
Marchio di fabbrica inconfondibile. Impulso
rock su cui si innesta un riff di baghet o cornamusa, tipico del folk. Sono ormai tre dischi,
più i due episodi del Sambuco, che confermano con forza questa identità. I Luf non si possono confondere. E allora, visto che amo i Luf
e che sono amici, per poter giudicare questo
disco mi sono sottoposto a una sorta di
prova tortura: un'ora di ascolto quotidiano
per venti giorni, in ordine sparso dei brani o
nell'ordine del disco. Tanto è l'esatta durata
del mio viaggio in bicicletta per andare e tornare dal lavoro. Li ho amati, detestati, amati
ancora. Forse capiti. Insomma, nonostante
non ci sia più l'effetto sorpresa, "Paradis del
diaol" è un grande disco, il migliore ascoltato
finora.
Classico folk-rock, ibridato di combat, cantato con grinta e vissuto con alto impatto emotivo e sonoro. I Luf fanno muovere le gambe
e parlano al cuore. Possono scivolare nella
retorica, ma lo fanno sempre con sincerità
estrema e se "Bala e fa balà" aveva qualcosa
delle danze sull'aia, "Paradis del diaol" è più
serio, più introverso, forse anche più incazzoso. Si inizia con una conta ("Cunta e canta") e
si finisce con un invito al ballo ("Vivi la vita ballando"), ma si passa attraverso storie di
Resistenza, di disertori, di preti con la tonaca
nera, ma il cuore rosso.
E poi i Los Lobos brianzoli (o camuni?) hanno
una grossa qualità: conoscono ancora il
gusto del riff strumentale. Non me la si venga
a contare. Quasi più nessuno aderisce alla
massima d'oro del rock, che oltre a strofa,
bridge, inciso è necessario che una canzone
abbia anche una frase musicale ripetibile e
ripetuta che si faccia ricordare e serva come
gancio per la memoria. Ecco i Luf fanno tesoro di questa massima e la grossa differenza
che sente tra le prime versioni grezze delle
canzoni e il prodotto finito è proprio in questo: ogni brano ha un suo gancio strumentale. A volte se ne fa carico il violino, altre le
bagpipe, altre ancora la fisarmonica o le chitarre ma quel che conta è che c'è sempre
qualcosa da ricordare. E questo senza ancora aver parlato dei testi.
Perché non ci sono dubbi, come diciamo nel
titolo, che i Lupi ululino solo quando hanno
qualcosa da dire. Può anche essere solo un
invito al ballo o a prendere la vita con una
risata, possono essere storie antiche o filastrocche per cantare (o per contare), ma
non esiste brano nella discografia in crescita
di Canossi e soci che non abbia una sua intima o esplicita necessità. E peraltro, altro
punto di lode, i lupacchiotti non fingono mai di
essere altro che quello che sono: fieri di venire dalla provincia e di portare suoni di diverse tradizioni popolari intrecciate tra loro e
storie che ancora alle radici popolari fanno
riferimento o alla vita quotidiana. Che è un
magnifico modo di fare politica cantando.
Delle 12 canzoni dell'album almeno otto sono
sopra la media (di cui almeno tre che viaggiano sulle cinque stelle), due sono molto buono
e solo due rientrano in una produzione
media. Il che vuol dire che per tutti i 59'12"
dell'album l'attenzione resta alta, altissima
per capire le storie, i rimandi, il dialetto (tre
brani sono nel camuno di Lozio, paese natale
recensioni
I lupi ululano
quando hanno
qualcosa da dire
le bielle
I Luf:
"Paradis del Diaol"
Si torna al country-folk con "Ciao bella" (attenzione, sembra Guccini quello che canta, ma è
Canossi, a cui si aggiunge nel finale l'ottimo
Massimo Priviero. Ma la somiglianza con
Guccini, vi giuro è altissima). "Padre Pedro" è
tex-mex, con una spezia latina in più. "Fiore
amore disertore" è ancora un lento epico,
anzi anti-epico. "Crescerò con te" è un fresco
rock giovanile. "Signor Dio" una bella ballata
che sa di folk.
Insomma, non si può proprio dire che non ci
sia varietà di atmosfere. Ma dall'inizio alla fine
un tiro rock che non deflette un secondo, una
passione cantautorale a tutta prova, una sincerità di intenti da premio. Signori, i lupi sono
scesi di nuovo a valle, passato l'inverno e
dimenticata la neve sui monti; sono scesi a
portare allegria, danza, pensieri e storie.
Forse le stesse storie che nelle sere d'inverno
si raccontavano attorno al fuoco. Il fuoco è
ancora acceso. E' quello della passione. Lunga
vita ai lupi! E che siano sempre meno solitari.
A sorpresa "La revolucion" scopre inaudite
(nel senso di mai ascoltate nei dischi dei Luf)
sonorità elettroniche che si vanno a michiare
a un ritornello latino con un gradevole effetto
patchanka. "Pensieri di tritolo" è un altra ballad folk-rock con Massimo Priviero alle voci
(che rende la visita a Canossi, ospite a sua
I Luf
"Paradis del diaol"
PerSpartitoPreso - 2007
Ai loro concerti e nel circuito di Botteghe nel
mondo
recensioni
volta ne “La strada del davai” nella "Dolce resistenza" di Priviero). "Comandante" la conoscete tutti: il pezzo dei Gang e i fratelli Severini
anche qui sono presenti al canto (Marino) e
chitarra (Sandro). Grande versione. Infine "Vivi
la vita ballando" è ancora una volta puro folk,
di quello da danzare sull'aia. E, se si vuole, il
disco si chiude come si era aperto.
le bielle
di Dario Canossi). Dal folk rock del brano iniziale ("Cünta e canta") si passa al country rock
di "Donna di fiori", dal folk puro delle gighe di
"Paradis del diaol" (melodia tradizionale) dove
sembra di ascoltare i Lou Dalfin, si passa al
lento di "Che freddo fa". Dall'epica di "Turna
mia 'ndrè", dedicato al comandante partigiano
Giacomo Cappellini.
di Giorgio Maimone
A
desso il panorama è completo: un disco di
inediti, uno di cover, un live. Manca solo il "The
best", ma diamo qualche anno di tempo. Alessio
Lega è autore prolifico e adesso che ha iniziato
a fare dischi non lo ferma più nessuno. Il live
"Zollette" è stato registrato il 10 marzo 2006
all'auditorium comunale di Ponteranica (Bg) e
c'è poi voluto più di un anno perché riuscisse a
trovare la via della distribuzione. In mezzo è uscito il secondo disco di Lega coi Mokacyclope (o
dei Mokacyclope col Lega?) ossia il contrastante
"Sotto il pavé la spiaggia", in bilico tra la delizia
del foie gras e la dissonanza del Pastis. "Zollette"
è molto più commestibile, come si compete a un
buon live e tuttavia si caratterizza per proporre
una buona manciata di novità o curiosità. E' un
esempio di come dovrebbe essere fatto un
"Live": ottime canzoni, un po' di brani noti e qualcosa di nuovo. Obiettivo riuscito: segnatevi il titolo, ma non illudetevi di trovarci del dolce. Sono
tempi amari ed anche i "Live" come questo si
chiudono in amarezza.
Si inizia con "Venditor di sassi, ossia "Merchand
des Cailloux" di Renaud Sechan, come sempre
ottimanente tradotto da Alessio che si conferma uno dei migliori traduttori di canzoni francesi su piazza. Il brano di Renaud non è compreso
in "Sotto il pavè" ed è un bizzarro proto-country
in salsa armoricaine: grande canzone, ottima
versione, splendida apertura di disco. Restiamo
in terra di Francia con "Parigi val bene una
mossa", classico leghiano degli anni pre-dischi, in
una versione migliore di quella finita su
"Resistenza e amore", ma ancora inferiore all'originale chitarra e voce che chissà se finirà mai
su disco!
Restando in tema di classici troviamo subito
dopo "Straniero", uno dei brani migliori del canzoniere leghiano, connubio di ottimo testo e perfetta resa musicale: "Sono venuto a sta città /
Come straniero che non sa / Come un insulto al
cielo nero / In questa pioggia ostile / Lo stile
fosco dell’età / E la pietà per questa gente / In
tutto questo niente, il vento / Che batte il mio
pensiero // E me ne andrò, io mi dicevo / Di
notte, come uno straniero / Andrò davvero io
non devo / Niente a nessuno andrò leggero via".
Si procede con un'altra prelibatezza del ricco
menù di "Zollette" (18 tracce, l'ultima realmente
fantasma, in quanto inesistente, e intitolata alla
Scaramanzia, per non far chiudere il disco con
17 tracce per un totale di 69'29"): "Canzone dei
pirati", ossia "Pirataskaja Liricheskaja" di Bulat
Okudzava, uno di quei personaggi che potrebbero benissimo essere inventati e che invece, trattandosi del Lega, ti devi prendere la briga di
andare a cercare e, meraviglia delle meraviglie,
persino trovare! Bulat Okudzhava (nato a Mosca
nel 1924), insieme a Aleksander Galich e a
Vladimir Vysotskij, fu il più importante autore di
quel movimento di protesta comunemente chiamato “la rivoluzione del magnetofono” che, negli
anni 70-80, fece traballare l’Unione Sovietica. I
grandi temi di questi autori furono la protesta
contro il regime, la satira contro sua la corruzione, la denuncia dell’odio etnico e razziale covato
dalla classe politica, le persecuzioni di cui quest’ultima era ancora capace, e poi, specialmente
in Okudzhava, la critica antimilitarista. Sfido
chiunque ad andare oltre a una conoscenza
(superficiale) di Vysotskij. Ma qui andiamo oltre.
E la canzone, brechtiana nel suo incedere, funziona molto bene.
Procediamo con un'altra squisitezza: "Non ho
denari, non ho paesi, non ho tesori, non ho città"
è forse la canzone col titolo più lungo. Ed è anche
un glorioso ripescaggio dal canzoniere di Alfredo
Cohen, misconosciuto cantautore omosessuale
e anarchico degli anni '70: un unico disco all'attivo, "Come barchette dentro un tram" (e anche
qui come titolo andiamo sul lungo) del 1977,
peraltro con produzione e arrangiamenti di
Franco Battiato e Giusto Pio. La canzone ripresa
dal Lega, che prosegue la strategia di attenzione
recensioni
Un "live" fragrante e appetitoso.
Ma non dolce
le bielle
Alessio Lega &
Mocacyclope: "Zollette"
Se "Vigliacca!" è bellissima, ma già conosciuta, "Il
Lupo" di Henri Tachan (giuro, non so chi sia nemmeno lui) è un'altra esclusiva di questo live: tutta da
ascoltare. E' un altro dei motivi per acquistare questo
disco. La traduzione, non vale più nemmeno la pena
di dirlo, è perfetta.Piccolo angolo dedicato a Genova,
prima col suo cantautore eponimo, Fabrizio De
André e la sua "Canzone del maggio", nella versione
finita su "Storia di un impiegato" e quindi abbastanza
lontana dal canto del maggio francese da cui è derivata. Buona la versione di Alessio. Poco significativo
l'arrangiamento, pigro. Si passa subito a "Dall'ultima
galleria (Genova)" di Alessio Lega, dedicata a Carlo
Giuliani, qui in una versione leggeremente più lunga e
veloce di quella presente su "Resistenza e amore"
ma anche meno violenta.
Ci avviciniamo al finale, ma abbiamo ancora due
brani: "Chissà" è l'unico estratto da "Sotto il pavé la
spiaggia" ed è di Allen Leprest, scritta in coppia
con Richard Galliano. Non rientra tra le mie preferenze assolute, ma ha un gran testo. Infine
"Zolletta" (lettera a Enzo G.Baldoni), la cosiddetta
title track che chiude l'album e lo nobilita una volta
di più. L'anima del Lega, fumettaro a sua volta e
fumettofilo convinto, trova tutte le caratteristiche
per esprimersi al meglio: il ricordo, Milano, l'antimilitarismo, i fumetti, il passato e il presente, un po' di
tristezza e molta voglia di riscatto. Ammettiamolo,
era molto facile scadere nel patetismo e farsi
prendere la mano nel ricostruire una vicenda
come quella del giornalista free lance italiano,
ostaggio ucciso durante la guerra in Iraq. Lega
maneggia la materia con pudore, con emozione
frenata e grande, al proposito, l'idea dell'intercalare "Vabbè, Baldoni", che rende l'idea di un discorso
in diretta con qualcuno presente, che ci può ascoltare (o leggere) ed eventualmente rispondere. Non
serve parlare oltre, basta leggere. Il giudizio complessivo sul disco? Non l'avete capito? Questo è
un'imperdibile! Da 5 stelle.
C'è come un lampo d'ironia
Che aggiusta il naso tra gli occhiali
E son tornati tutti uguali
I giorni qui che via per via
Traverso viale Papiniano
Parcheggiati come spine
In gola a tutte le mattine
Fanno mercato clandestino
Di una tristezza vietnamita
Che serba amore anche a chi muore
C'è una zolletta di dolore
Appassionata della vita
C'è qui Zolletta che si scioglie
In un caffè di Monte Nero
Il fricchettone un po' in pensiero
Lo zapatista con le doglie
E siamo qui che ti scriviamo
Del dilagare dell'agosto
Nell'obbiettivo sovraesposto
Come tre passeri su un ramo
Tu ragazzaccio straordinario
T'è parsa proprio una trovata
Sbatterci in faccia la giornata
Testimoniare in solitario
Con la tua foto tutta mossa
Che ci confonde ogni certezza
E mo' la consapevolezza
E’ sbigottita, zuppa e scossa
Ci resta aperta sulle mani
La scelta fra il colera e il tifo:
Fra i bombardieri americani
E i tagliagole che fan schifo
Per questo tu te ne sei andato
A curiosare in mezzo al fuoco
Lasciando al mondo sconcertato
Tutta la serietà del gioco
Vabbè Baldoni qui Milano
Conserva ancora il tuo passaggio
Come il sorriso del coraggio
Che spero ci fiorisca in mano
Vabbè Baldoni, statti bene
Qui per non piangere ridiamo
E al tuo sorriso ci sperriamo
Che un po' da piangere ci viene
Vabbè Baldoni, senza fretta
Ci rivediamo certamente
Sai che non mollo facilmente
Ti aspetto. Sempre tua. Zolletta.
Alessio Lega & Mokacyclope
"Zollette" (live)
Altromercato - 2007
Disponibile nei negozi del commercio
equo e solidale
recensioni
Zolletta (di Alessio Lega)
le bielle
ai cantanti "minori" del periodo, come il Fanigliulo
di "A me mi piace vivere alla grande", un classico
delle esibizioni di Alessio dal vivo, è tuttora attuale, ben costruita su un ritmo di sarcastica marcetta. Non lascia indifferenti.
Possiamo procedere celermente su "Resistenza e
amore" e "Rachel Corrie" che restano abbastanza
simili alle versioni (belle) presenti sul primo disco
del Lega, fatta salva la lunga coda di 1'50" in fondo
alla seconda canzone che ne esalta la assoluta
drammaticità e arriviamo ai 7'20" di "Gorizia" una
delle più celebri canzoni della musica popolare politica. Ne ricordiamo una versione strepitosa dei Les
Anarchistes su "Figli di origine oscura". Quella dei
Mocyclope e di Alessio si pone sulla stessa linea.
Grande lavoro alla chitarra elettrica di Rocco
Marchi, interpretazione di gran classe. Voce giusta
e giusta incazzatura. Ferro e metallo ardente direttamente dalla classe operaia. Epica.
di Giorgio Maimone
C’
è chi un disco del genere lo fa solo per
divertirsi. E a volte si diverte solo lui. E, fortunatamente c'è anche chi lo fa "non per piacer
suo / ma per dar piacere a iddio".
Quest'ultimo è il caso di Massimo Priviero
con "Rock & Poems". Un disco che è molto
più di un semplice album, piuttosto una collezione, una antologia di tanto del meglio che la
musica a stelle e strisce ci ha lasciato nel
corso degli ultimi 50 anni. Si parte con
"Blowin' in the wind" a cui viene restituita la
"g" finale che, in realtà non ha mai avuto e si
finisce 51'44" dopo con "We shall overcome", traditional celeberrimo anche prima
della rivisitaziione springsteniana.
"A spingermi - dice Priviero - è stata la voglia
di tornare all’inizio, di rendere omaggio alle
canzoni che sono state un po’ la salvezza e
dannazione della mia vita. Inizia con Blowing
in the wind, perché è stata la prima canzone
che ho imparato sulla chitarra. Non credo
che si possa parlare di un disco di cover, di
raschiatura del fondo del barile, ma è stata
un’operazione un po’ folle, perché mettere le
mani sui classici vuol dire andare al fronte
senza l’elmetto in testa. C’è molta emozione
e molta energia".
Emozione ed energia che si sentono percorrere la schiena del disco, sempre sul filo del
brivido leggero, sia nei pezzi più calmi che in
quelli più grintosi, anche se la grinta Priviero,
in fondo, non l'abbandona mai. Le versioni
sono contemporaneamente molto fedeli agli
originali, ma anche molto vicine allo stilo di
Massimo, per cui, anche quando (e capita
due volte) si passa attraverso pezzi suoi
(Resistence e Marchin' on, ossia rispettiva-
mente Dolce resistenza e La strada del
Davai) la differenza non si avverte. Non c'è lo
scalino atteso e il flusso di buon rock & roll
verace non si interrompe.
"Io penso - ci ha detto ancora Massimo - che
ci sia un legame tra i pezzi ed è la quantità di
poesia che tutte queste canzoni avevano dentro, il che dà un unitarietà alla cosa. Molti di
questi brani hanno tematiche che ritornano:
visioni oniriche di speranza e libertà (The promised land, Have you ever seen the rain), dall’altra le poetica della solitudine (Desperado,
Old ’55). Due temi che rappresentano bene il
mio orizzonte aurorale. Ho scelto quindi brani
che mi rappresentassero e assieme a me
parlassero di tutta una generazione".
L'obiettivo è stato completamente raggiunto.
Poi a qualcuno potranno piacere di più alcune rivistazioni e altri invece si concentreranno su altre. Come pure vi sarà chi si appellerà al reato di lesa maestà. In fin dei conti lo
stesso Priviero l'ha anticipato, dicendo che
"toccare i classici è da incosciente. Come
andare in guerra senza l'elmetto".
Senza metterci l'elemetto possiamo a nostra
volta esprimere le nostre preferenze: al
primo posto la lenta ballata di Lily of the west,
brano tradizionale ripreso da decine di autori
tra cui Joan Baez, Bob Dylan, The Chieftains,
Peter, Paul and Mary e Mark Knopfler. La
versione di Massimo è lenta e solenne, vagamente alla Van Morrison, lunga e rilassata.
Con la voce che giustamente vibra di accenni
epici nel narrare la vicenda, una delle murder
ballads più conosciute, del giovane che ama
recensioni
Gli anni '70 a colpi di
chitarre e di poesia
le bielle
Massimo Priviero:
"Rock & Poems"
Curioso peraltro ascoltare nel giro di poco
tempo due riproposte degli anni '70 come il
progetto Slowfeet di Franz Di Cioccio e Rock
& Poems di Priviero, animati entrambi dalla
Massimo Priviero
"Rock & poems"
Universal - 2007
In tutti i negozi di dischi
recensioni
Altri pezzi forti sono "The promised land" da
Springsteen e "Desperado" degli Eagles, "Ol'
55" di Tom Waits e "Chimes of freedom" di
Bob Dylan. Meno convincente, ma è un parere
del tutto personale, la Blowing in the wind iniziale, specie da un punto di vista dell'arrangiamento, troppo muscolare. Blowin' sopravvive
a tutto: tanto a Peter, Paul & Mary che al reggae del Budokan o al rock di Before the flood
e anche qui non è affatto male, ma nel bigoncio ci sono fichi più succulenti.
passione profonda per quegli anni, per anni di
profonda trasformazione e profondi mutamenti, in cui tutto sembrava ancora possibile
e le strade aperte per andare. Ora gli obiettivi
sono minimi, gli spostamenti quasi proibiti, ma
Priviero e Di Cioccio ci invitano ognuno a
modo proprio a continuare a sognare. E a non
aver paura di ricordare.
le bielle
Flora, conosciuta come Lily of the west, la scopre infedele, ne ammazza l'amante e in galera
si scopre ancora innamorato di lei.
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