bielle pensieri Gli im per dibili O ttima annata e scelta molto difficile. Due i dischi che in particolare ci hanno preso il cuore (come capita quasi tutti gli anni). Se l'anno scorso erano stati GianMaria Testa e Vinicio Capossela e due anni fa Van De Sfroos e i Sultumana, quest'anno la scelta ardua è stata tra Gigi Maieron e Teresa De Sio. Ha prevalso Teresa anche perché abbiamo avuto più tempo per amarla. Ma Une primavere e Sacco e fuoco restano due magnifici lavori. Non solo, ma sono due lavori non rassegnati, grintosi e appartenenti, in linea del tutto casuale, a due tradizioni lignuistiche diverse dall'italiano: il napoletano per Teresa e il friulano per Gigi, anche se per entrambi questa scelta non è esclusiva. Basti ricordare "Brigate di frontiere" della De Sio o "A passo di donna" per Gigi. Venerdi 14 dicembre festeggiamo i premi di Bielle assieme a Teresa De Sio, Ermanno Giovanardi, Massimo Priviero, I Luf, Alessio Lega, Gerardo Balestrieri, Bonaveri in un serata unica al circolo Arci Scighera di via Candiani, 131, alla Bovisa, ex quartiere operaio di Milano. Ovviamente sono invitati a partecipare anche tutti gli altri "Imperdibili 2007" che saranno comunque premiati in contumacia. A loro, in ogni caso leveremo un calice e un ringraziamento per la bella musica che ci hanno dato. Presenta Enrico Deregibus. Dalle 21. Quindicinale poco puntuale di notizie, recensioni, deliri e quant’altro passa per www.bielle.org Le BiELLENEWS Numero 63 14 dicembre 2007 le bielle novità Sul sito due nuove interviste: John de Leo e Roberto Vecchioni e molte recensioni, tra cui “For dai dentj” di Lino Straulino Inoltre radioBielle, il nostro podcasting per ascoltare le voci dei bielleartisti in streaming oppure, scaricandole sul vostro lettore mp3, dove, quando e come volete... O gni La voce più di tutto mi colpisce. Sale stretta come una ferita, si approfonda in un gorgo dell'anima che sa di ruggine, di sale e di sole. Graffia e colpisce, si impenna e si abbassa come il movimento delle mani su una tamorra, ma poi sa aprirsi in un golfo caldo e scuro nel cuore di una Ninna nanna. Insomma è Teresa De Sio. Quando la voce si fa anima che si trasforma di nuovo in voce, in una serie di rimandi che sbalordisce e che confonde. E' magia sciamanica che si dirama dal canto, che tintinna dalle corde del mandolino suonato da Don Peppino De Trizio, che scorre sulle corde delle chitarra e sulle pelli tese delle percussioni. "Sacco e fuoco" è programmatico: è la storia di un assalto in musica al cuore delle nostre passioni. Un album rapido e veloce. Che si conclude come parte: con uno scatto d'orgoglio. "Brigate di frontiera", un ripescaggio da "Un libero cercare" del 1995, stimolato dall'esito convincente dei concerti, sembra inventata per le Brigate Lolli: "Ma guarda ancora esisto / ancora insisto / mi vesto, mi svesto, / buon esito, resisto". E più avanti: "Siamo ancora qui / scampati a un fuoco di fila / a contarci a uno a uno / a raccontarci di un futuro. / Siamo fuochisti e marinai / siamo gommisti e fornai / siamo cantanti, flautiste e liutai / Abbiamo scale e martelli / abbiamo vele e pennelli / abbiamo bussola, vento e bandiera // Siamo brigate di frontiera / che la frontiera non l'hanno vista mai".Ma tutto il disco batte e batte bene su questi temi. Dall'iniziale "Sacco e fuoco", preceduta dalla breve intro di "A morte e zì Frangillo" di Carlo D'Angiò, alla successiva "Non tengo paura". Da "A figlia d'o rre" fino a "Vulesse addeventare": un album di dignità rabbiosa, di teste scosse a dire no, di rifiuti e ribellioni. "Teresa ringrazia (è detto all'interno della copertina) chi non tiene paura, i briganti e le La voce dell'anima della signora soul di Giorgio Maimone Insomma, se Teresa Batista era stanca di guerra, Teresa De Sio non appoggia la bandiera, ma la tiene bella alta, come in "A sud, a sud" e la fa garrire sui canti popolari, sui concetti giusti, sulle battaglie sante. E' un disco perfetto quindi "Sacco e fuoco"? Per niente. Ma è un disco viscerale. E quando mai i visceri sono perfetti? Per definizione sono imperfetti, sporchi, corrotti. I visceri si buttano. Ma si possono anche buttare sul tavolo perchè contengono il coraggio e la passione, due armi che in mano a Teresa non sono affatto scariche. Sono i frutti migliori di quando la musica popolare si imparenta alla musica d'autore e produce una miscela magica e salvifica. Ci siamo, siamo a fianco di Teresa quando scrive (e canta, sopratutto canta, alito di vento e rabbiosa tempesta): "E so passate ll'anni e è sempre 'a stessa canzone / na vota era 'o Piemonte e n'ata vota era 'o Burbone / ma pure chiste e mò, overo so fietenti / chi 'o tene s'o mantene .... n'culo a chi nun tene niente" ("Sacco e fuoco"). Oppure: "io mamma voglio fregarmene / di tutte le buone maniere / voglio impostare la mia polvere / con la polvere del sole" ("Non tengo paura"). Poi ci sono le oasi: la africaneggiante "Ukellelle" con il sublime controcanto di Esha Tizafy: "E chillu allora sente a luntananza / recensioni le bielle brigantesse di tutte le epoche, la disobbedienza che è un metro per misurare il mondo, l'intelligenza perché salverà la terra dai cretini, ma caricati a salve, le femmine che vogliono vivere e amare libere come pesci nel mare e poi finiscono fritte nella tielluzza. Chi resta e resiste nella splendida e miserabile città di Napoli, gli stati di grazia difficili da mantenere, la poesia e lascienza che nulla sanno l'una dell'altra, ma entrambe possono dirci cose sul cielo stellato. Chi ancora ha una bussola, un vento e una bandiera. Chi non vuole tenere padrone. I piccoli musicisti senza lavoro. La musica popolare. E infine il potere della passione, la sola battaglia che non possiamo perdere". E noi ringraziamo lei, per ogni riga scritta qua sopra, per ogni parola cantata in canzone e per questa voglia inesausta di non allinearsi. Abbiamo aspettato sette anni il disco precedente e solo due anni corrono tra "A sud a sud" e "Sacco e fuoco", ma sono due dischi di anime diverse. Il primo popolare e più giocoso, questo cantautorale, con robuste radici popolari, e più scuro, più incazzoso. Più indignato e battagliero. In coda, per chiudere il tutto, l'inno epico di tutti noi "Brigate di frontiera", che la frontiera non l'abbiamo vista mai. Ma abbiamo visto una donna sulla collina che stringeva una bandiera e la faceva ondeggiare a tempo. La bandiera era rossa, la donna era Teresa: Teresa De Sio. Teresa De Sio "Sacco e fuoco" C.o.r.e./Edel - 2007 Nei negozi di dischi recensioni Tutti i brani sono di Teresa, tranne due: l'inizio con "A morte e zì Frangillo" e il prefinale con "Tambureddu" che è di Domenico Modugno. Zì Frangillo non aggiunge niente al disco (e non è una partenza forte) Modugno sì, perché trasformato in una macchina ritmica violenta, a cui la voce di Teresa, come anche altrove, dà una mano rumoristica. A livello di interpretazione è poi imperdibile il finale di "Vulesse addeventare", quando il rapporto pesce/donna, pescatore/uomo si capovolge e a turno ora l'uno ora l'altro si scambiano mozzichi e brani di carne: "E o pigliasse a muozzeche e m’o mangiasse / Isso ca me vuleva magnà / E me vuleva tenè ‘nzerrata dint’ a casa soia / Ma io m’o magno". E' puro teatro popolare, commedia, sceneggiata. le bielle Pensa ca ce po’ sta ancora speranza / Cull’uocchie asciutte cerca addò sta a sponda / E gira a varca e addreto verso terra / se ne torna", che ricorda il modo asciutto con cui anche Gianmaria Testa racconta storie simili. O ancora la "Ninna nanna" che fa esclamare: "eccola Teresa, quella là!": "E duorme duorme pure tu / Ca nun si cchiù criaturo / Duorme duorme e sta sicuro / Ca ce stongh’ io vicino a te / Ca ce stongh’io cu te". Una canzone che sembra risalire ai tempi di "Pianoforte e voce", dolce, intesa, calda e riposante, cantata con quella voce, quella voce che avvolge e che trascina, che strappa le cortine del tempo e ne fa trine e non polvere sottile. interviste le bielle "Noi che abbiamo resistito e siamo rimasti intatti" Ci sono interviste che si sbobinano subito, altre che restano lì qualchetempo. Così è capitato a questa con Teresa De Sio che però ha il pregio di non aver perso un'oncia di freschezza e di venire fuori proprio nel momento in cui a Teresa viene affibbiato l'onorifico titolo di Imperdibile 2007 di Bielle per il disco "Sacco e fuoco". Ecco la cronaca di allora. Purtroppo non ho ancora sentito il disco, Teresa, quindi partiamo con un’intervista alla cieca. Allora “Sacco e fuoco”. Tu o non fai dischi o ne fai due in due anni. No, vabbé. Sì, sono due anni da “A sud a sud”. In realtà questo disco segue molto la scia di “A sud a sud”. Anche questo ha le radici nella musica popolare, anche se, rispetto ad “A sud a sud” è un disco più cantautorale. C’è un po’ meno tradizione e un po’ di più io come autrice. Le canzoni sono tutte tue? Le canzoni sono tutte mie, eccetto l’intro A morte e zì Frungillo che è una canzone scritta e che cantava Carlo D’Angiò, che mi porto appresso dai tempi di Musica Nova e poi c’è Tambureddu che è di Modugno e che ho scelto di mettere perché è una canzone che raccoglie un po’ tutto il suono del sud, perché se ci pensi, Modugno era pugliese di Polignano a mare, costa levante, parla della pizzica ossia Puglia sud, Salento, è scritta ed io la canto in siciliano e c’è dentro la tarantella napole- di Giorgio Maimone tana. Praticamente era la canzone che faceva per me. E poi soprattutto è il primo esempio di pizzica d’autore, almeno credo di poter dire. In mezzo sono tutti pezzi miei. C’è una canzone che è Vulesse addeventare, in cui ho preso il testo che è parte della tradizione orale napoletana, l’ho modificato, ho completamente riscritto la musica e l’ho reinterpretato in questo modo. Il disco ti soddisfa? Ti rappresenta? Sì, sicuramente rappresenta questo momento della mia vita e della mia storia. Mi spiace che non l’hai sentito perché è un disco che quando lo sentirai dirai “ah, potevo chiedere questo o quest’altro”. (ridiamo) Insomma è un album abbastanza pieno di rabbia, un po’ duro rispetto ai miei ultimi dischi, sia come suono che come storie raccontate. Il gruppo che ti accompagna è lo stesso? Il gruppo è lo stesso, tranne per alcuni brani dove c’è una sezione ritmica di basso e batteria fatta da Luca Troglio e Mario Guerini. Poi sono sempre gli stessi di sempre. L’ottimo Don Peppino De Trizio al mandolino, Her al violino, Max Rosati alla chitarra che in questo album ha avuto un ruolo Riposizionarmi … Mercato …? Sono termini che non ti piacciono? Non è che non mi piacciono. Non mi piacciono pure, ma soprattutto non mi rapporto in maniera molto consapevole con questo. Non saprei se mi sono riposizionata o meno. E poi cos’è questo mercato? (ridiamo) Non è quello del pesce. Certo che non è quello del pesce! Io vorrei anche che il disco andasse primo in classifica, non è che snobbo queste cose. Però non è il fatto prioritario. Prioritario è fare altre cose. Dal punto di vista degli spettacoli? Adesso cominceremo il tour. Abbiamo appena suonato al festival del mandolino genovese a Varazze, un festival che fanno da molti anni e che è molto interessante. Visto che danno un premio ogni anno a un artista, quest’anno sono stati così gentili di darlo a me questo premio. E mi hanno regalato questo mandolino genovese che è uno strumento bellissimo che io non conoscevo, fatto da questo artigiano che si chiama Gabrielli e che ha fatto già tanti mandolini. Ne ha fatto uno per Fabrizio De André che a sua volta ha ricevuto questo premio prima di me. Poi lo hanno preso Battiato, Capossela. Questo mandolino è molto bello perché ha cassa molto piccola, manico molto alto ed è un incrocio tra mandolino e chitarra battente e siccome non ha il manico stretto ho capito subito che lo posso imparare a suonare anch’io. Il mandolino normale è troppo stretto E’ impossibile! Eppure ci sono maschi che hanno dita più grosse delle mie che riescono a suonarlo. Però loro so’ bravi! “Sacco e fuoco” è una canzone sul brigantaggio. Il brigantaggio di ieri, il brigantaggio di oggi. Parte da una considerazione di tipo storico. Ossia il fatto che questa benedetta unità d’Italia che tante volte viene messa in discussione negli ultimi anni, in realtà a noi meridionali è costata sangue, sudore e lacrime. Il Sud dell’Italia ha pagato un grande tributo di sangue: ci furono 685 mila morti, 51 paesi rasi al suolo, spariti completamente dalle carte, iniziato il grande esodo verso le Americhe. Garibaldi avevo promesso la democrazia, aveva promesso la liberazione dai Borboni, aveva promesso la costruzione di una Repubblica, aveva detto ai contadini che gli avrebbe dato le terre e ai latifondisti che nona avrebbero più pagato le tasse, quindi tutti quanti vedevano in questa figura di Garibaldi una mano santa. Però quando Garibaldi ha consegnato ai Savoia il regno delle Due Sicilie così chiavi in mano, i Savoia hanno avuto un impatto violento con il Sud. Non hanno “scambiato” , ma nel Sud è arrivato l’esercito piemontese e a quest’esercito ha risposto quel fenomeno che veniva chiamato brigan- interviste A Sud a sud è stato un disco che è servito e riposizionarti sul mercato perché era tanto tempo che non uscivi con qualcosa di inedito. Senti, vediamo le canzoni una a una? Ha voglia? le bielle molto importante perché abbiamo fatto insieme gli arrangiamenti e lui ha anche registrato il disco. “Non tengo paura” è la lettera di una figlia a una madre. Probabilmente la risposta a una lettera in cui la mamma dice “Figlia mia statte attenta che il mondo è fatto in un certo modo”. E la figlia risponde “Sì, ma io non ho paura, io non conosco le regole, io voglio vivere secondo il mio istinto “voglio ballare sopra un’altere spento /come una femmina di Galatina”. E cito Galatina proprio volendo segnalare questo momento di libertà dell’anima in cui le femmine, fingendosi morse dal ragno in realtà si concedevano un momento di guarigione pubblica, conquistava un ruolo sociale: “io sono la posseduta dal ragno, io sono la morsicata, voi dovete guardarmi ballare e io nel corso del ballo recupero lo status che nella vita quotidiana non ho”. Immaginiamoci quale potesse essere lo status della donne del Salento nel ‘700: zero! Così recupero uno status che mi consente di tornare alla vita quotidiana stando bene. Comunque un grande gesto di forza. Io non tengo paura è una canzone di coraggio, perché di coraggio ce n’è bisogno! "A figlia d’o rre”, invece? I’ song’a figlia d’o rre e non voglio tenè padrone! Sì, per questo ti dicevo che mi rendo conto che è più duro dei dischi precedenti. La canzone dopo però è “Amen”, forse quella è calma … "Amèn", non àmen! Con l’accento sulla e alla napoletana. E’ una parola bella, che sancisce lo stato di grazia. E’ una canzone su Napoli, la canzone che comincia dove finisce Stamme bbuono, la canzone che ho scirtto con Raiss in A Sud a Sud, Che era sui mali della città di Napoli. Mali che in questi due anni non solo stati risolti, ma anzi sono peggiorati. E’ proprio di questi giorni sono le notizie dei roghi dell’immondizia, la città che va in fiamme. E proprio tra quella canzone, Stamme bbuono, e Amèn sono passata attraverso la lettera del libro di Saviano, Gomorra, un libro veramente sconvolgente. E tra le altre cose, a proposito proprio del fatto della spazzatura lui dice che se si mettesse insieme tutta la spazzatura che il Nord dell’Italia attraverso la camorra ha inviato nel sud – dice che Milano è pulita? Per forza! L’ha inviata tutta nel Sud! – Se si mettesse insieme tutta quella spazzatura si farebbe una montagna alta 14 km. Se tieni conto che il Monte Bianco è altro 4810 metri e l’Everest 8 mila, queste sarebbe in assoluto la montagna più alta del mondo. Allora in questa canzone, Amèn, io ho invocato una serie di divinità pagane, dal Padreterno del Vomero, alla Madonna delle Galline, alla Madonna della mondezza perché laddove l’intelligenza umana e terrestre fallisce almeno intervengano gli dei. Che allunghino il loro piedino celeste su questa montagna. Usino la montagna di mondezza per scendere e venire a vedere cosa ci succede! "Ukelelle"? "Ukelelle" è una parola africana. Che in realtà non si pronuncia proprio così, però io non sono africana e interviste Non tengo paura Anche qua bella donna decisa, eh? le bielle taggio, spesso liquidato come un fenomeno di criminalità e invece era proprio un fenomeno di antagonismo armato. Questi erano antagonisti politici! La canzone è dedicata a “quei” briganti, però, insomma, anche a quelli di oggi. Nella canzone dico: “passa il tempo, ma è sempre la stessa canzone / una volta era Piemonte un’altra volta era Borbone / ma pure chist’e mo’ è vero so fietente / chi ottiene s’o mantiene in culo a chi non tiene niente”. Chi ci comanda, chiunque sia, non ho dato connotazioni politiche, il potere in generale, non cambia molto le cose: chi ce l’ha se lo mantiene e chi non ce l’ha se lo prende a quel servizio. "Due ore al giorno"? "Due ore al giorno" è “ufo” rispetto a questo disco. Non c’entra niente. Posso dirlo francamente. Però mi piace talmente tanto … Ho combattuto talmente a lungo con me stessa, perché non volevo inserirla. Il disco è talmente omogeneo che questa canzone non c’entrava niente. E’ parte in italiano, parte in napoletano, però è omogeneo, anche perché è stato scritto tutto nello stesso periodo. Due ore al giorno invece è una canzone che ho scritto tre anni fa e che fa parte di un gruppo di canzoni in italiano che ho scritto, che mi piacciono molto, ma che non ho mai registrato da nessuna parte.. Però due ore al giorno c’era qualcosa che mi ha convinto. Porto Resta solo “Ninna nanna” … "Ninna nanna", come mi ha detto qualcuno, le poche persone che hanno già sentito il disco mi hanno detto “Ah, questa è Teresa De Sio quella là!” Non lo so. Tu scrivi ! “Questa è Teresa De Sioquella-là” e io per non far torto a nessuno dico “eh sì sì … è proprio quella là!” Bonus track: "Briganti di frontiera" E’ una canzone che ho rifatto , che stava su Un libero cercare. "Briganti di frontiera" è una canzone battagliera. Intanto la faccio nei concerti. Ho iniziato un po’ di malavoglia a farla nei concerti di Stazioni Lunari con Ginevra di Marco, che è caratterizzata da un cast che gira e mi sono trovato di tutto. Le cose più bizzarre e quindi più divertenti: Cristina Donà, Cisco, Morgan, Peppe Servillo. E lì abbiamo deciso di farla. Facendola con loro io mi sono detta “Ma allora questo pezzo lo posso rifare?” Ho cominciato a farlo nei concerti e vedo che ha un enorme riscontro. Io lo pensavo proprio come un pezzo minore, quelle cose che sia, si lasciano anche per strada. Non è che io posso fare tutto quello che ho scritto! Verrebbe un concerto di 15 ore! Sarebbe come “Due ore al giorno” (ridiamo) . E quindi ho deciso di riarrangiarlo e l’ho messo a fine disco. E’ una canzone comunque combattente dedicata a tutti quelli come noi che abbiamo resistito e siamo rimasti intatti dentro di noi. Briganti eravamo quando eravamo pischelli e briganti siamo ora che siamo giovanotti e signorine! Tutti quelli che abbiamo resistito siamo un po’ delle Brigate di frontiere, con una bandiera e una dolce arma per andare a combattere battaglie. Speriamo che queste battaglie le vinciamo. Altre siamo pronti a perderle. Intervista rilasciata il 20 gennaio 2007 interviste dentro qualcosa legata al Brasile, alla musica nordestina … mi piace tanto. Mi sono inventata questa cosa di immaginare una giornata intera che diventa un po’ una metafora, se mi si passa il termine un po’ abusato, della vita. In cui succede di tutto. C’è un periodo per la tristezza, uno per la felcità, un periodo per il sesso, uno per la lotta, uno per la rabbia, uno per non fare un amato cazzo di niente, uno per le stupidaggini. Poi se tu fai il calcolo, perché dopo averla scritta il problema me lo sono posto “ma quante ore ci ho messo?” Sono 1600 ore! (Ridiamo) Ho inventato una giornata di 1600 oreo che però contiene tutte le umane passioni. le bielle mi sono presa questa libertà. A me piace molto la musica africana e questo credo possa essersi capito nel corso della mia carriera. La musica soprattutto di quella zona dell’Africa, del Mali, quella musica dove dentro c’è molto ritmo ma molta lentezza, dove ciò che conta non è tanto quello che dici, ma il ritmo a cui lo dici. E mi sono ispirata un po’ alla musica del Mali. Una canzone un po’ particolare in cui mi sono immaginata … in mezzo al mare cosa ci può stare? Nel tratto di mare che unisce l’Africa al Sud dell’Italia. Che ci può stare? Uno che viene dall’Italia, per esempio da Napoli e che decide di andare a vivere fuori dai coglioni, che non ne può più del mondo e della vita dura che si fa in queste zone. Quando arriva in mezzo al mare si rende conto che in mezzo al mare è pieno di barche affondate e queste barche sono affondate perché venivano da un’altra vita e quelle persone pensavano che venire a vivere da noi significasse iniziare un’altra vita. Gente che veniva di poter volare liberi come uccelli e che invece sono rimasti intrappolati in una retata di tonni. E allora questo uomo che è uscito al largo pensa che sia il caso di tornare indietro e riprendere in mano la battaglia. Qualunque essa sia, pur di non abbassare la guardia. E però c’è un’altra cosa che ti voglio dire di questa canzone. Sentirai che c’è una voce che canta insieme a me e sembra la voce di una bambina. E canta in malgascio. In realtà è una giovane ragazza africana, del Madagascar che si chiama Aisha che ho conosciuto casualmente tre anni fa quando suonavo a Palermo e, dopo un concerto, è venuta a cercarmi per cantare con me. Mi ha dato un cd. Io cerco sempre di ascoltarle. Lo dico però e già mi scuso, non riesco a sentirle tutti. Questo di Aisha fortunatamente l’ho sentito, le si scrive anche le canzoni, e l’ho chiamata a cantare con me. Sentirai come è brava! di Lucia Carenini N e ha fatte, di cose, Gerardo Balestrieri prima di approdare al suo primo album. Nato a Remscheid nel '71, si è laureato con una tesi sulla spiritualità nella musica popolare brasiliana, ha collaborato con Daniele Sepe e Bebo Storti, ha fatto parte di E. Zezi, ha partecipato ad Arezzo Wave '96, ha recitato in una soap opera ed è comparso in un paio trasmissioni televisive. E’ stato invitato un paio di volte al Club Tenco: la prima nel ’99 come cantautore inedito (dove presentò alcuni brani poi finiti in questo cd), la seconda nel 2005, come session man per il dopo-Festival. Anche di riconoscimenti ne ha avuti, dalla vittoria nel 1995 al Festival Buskers di Pelago al titolo di “cantautore rivelazione” al festival “Dallo Sciamano allo Showman 2006” passando per il premio per il miglior testo al terzo Mantovamusicafestival. Però l’agognato disco non era ancora riuscito a pubblicarlo; ce l’ha fatta quest’anno ed è finito dritto dritto nella cinquina delle nomination per la Targa Tenco. Qualcosa vorrà pur dire… Andiamo a vedere, o meglio a sentire. Musicalmente si capisce che il ragazzo è preparato: si va dalla tarantella al bolero, dallo swing al blues, dal tango alla giga e alla mazurca, da Napoli a Parigi passando per Atene in una girandola di suoni accattivante e trasversale. Sensuale e sorniona la voce, interessanti le parole, con i toni che si fanno di volta in volta beffardi, flemmatici, acuti, marpioneggianti e sarcastici. “La possente passione passeggia passando tra la voglia e il sonno, tra il senno e la nebbia” è un buon esempio del lavoro di lima fatto sui testi, sostenuti da piano, fisarmonica e da una serie pressoché infinita di altri strumenti suonati dallo stesso Gerardo assieme a una pletora di musicisti. Ospite illustre, in “Furto ai nobili di Rue Berget”, Daniele Sepe con il suo sax, a dare note acide e sentori di selvaggina a una canzone che sembra avere radici nel periodo jazz-parigino di Boris Vian mescolato a quello delle cantine astigiane di un noto avvocato. A rappresentarlo in copertina Balestrieri sceglie un disegno di Tomi Ungerer, importantissimo disegnatore satirico contemporaneo e uomo impegnato in mille battaglie politiche e sociali. Il disegno in questione illustra un gatto che canta in un microfono a forma di topo. Ma visto che le fauci sono spalancate – e il microfono è appunto un topo – il tutto suggerisce diverse chiavi di lettura. I gatti, indolenti, sensuali, furbi ed egoisti, sono sempre stati fonte di ispirazione per Ungerer. In quale di questi tratti si identificherà Balestrieri? Proviamo a scoprirlo con le canzoni. I richiami al patafisico francese non si fermano però qui: il nostro ci dà modo di apprezzare le sue doti di interprete in “Barcelone” e quelle di traduttore in “La java des B.A.”. Peraltro non si fermano qui neanche i riferimenti all’avvocato astigiano e forse anche al fratello del suddetto: “Il blues del putagè” (il putagé è la tipica stufa in ghisa delle campagne piemontesi, su un angolo della quale veniva lasciata per tutto il giorno la minestra putage - a sobbollire borbottando) echeggia delle storie del Conte piccolo (se così si può definire il grande Giorgio), delle sue erbe di San Pietro, delle mele cotte al forno e delle recensioni Un napoletano che guarda alla Francia le bielle Gerardo Balestrieri: "I nasi buffi e la scrittura musicale" Gerardo Balestrieri "I nasi buffi e la scrittura musicale" Intebeat/Egea - 2007 Nei negozi di dischi recensioni Il fatto che Balestrieri deve aver ascoltato parecchio Paolo Conte si evince anche da “L’Ame du Vin”, poesia di Baudelaire messa in musica e da “Il gusto nel niente e nel sorridere” - il brano che contiene la frase che dà il titolo all’album - un collage di immagini che si inanellano come perle di una collana onirica legata da un filo di note di piano e fisarmonica. “lettera di spezie e sogni, forse una ricetta”, la definisce lui nel sottotitolo, ma evoca sicuramente i toni di un film anni Trenta in bianco e nero. Incantevole e incantato. Qualcuno ha scomodato altri due grandi, e ha detto di Balestrieri che “canta alla stregua d’un De André colto da infingarda ebbrezza caposseliana o di un Capossela colto da flemmatico acume deanreiano”. Probabilmente ha ascoltato, assimilato, elaborato, digerito. Echi di molti, clone di nessuno, Balestrieri va tenuto d’occhio. Augurandosi di non dover aspettare altri otto anni per avere la conferma di un talento. le bielle giostre dei vari Bastiani. Ma non è un male: Balestrieri in una delle sue tante peregrinazioni (ai traslochi va uno dei ringraziamenti nelle note finali del disco) ha respirato quell’aria, l’ha assimilata e l'ha fatta sua. E il risultato è affascinante. recensioni le bielle Bonaveri: "Magnifico" La difficile strada dell’impegno di Silvano Rubino C om’è difficile essere impegnati in tempi di anti-politica. Com’è difficile scegliere il sociale, l’invettiva, i realismo in tempi in cui la tentazione di rifugiarsi nel puro immaginario è assai forte. Com’è difficile optare per l’ideale, quando un po’ di ben dosato cinismo può aprire molte più porte... Germano Bonaveri (o meglio, come recita la copertina del disco, soltanto Bonaveri), al suo esordio da solista, non si fa intimorire da tutte queste difficoltà. E si butta nell’impresa di fare un disco impegnato con grande convinzione. Lo si capisce sin dall’inizio, la prima canzone, “Non dimenticare”, sceglie subito i toni dell’invettiva, contro l’immobilismo, il conformismo, sui ritmi di una marcia vagamente balcanica. II disco prosegue con “Torquemada”, ballata di ascendenza folk che prende di mira rigurgiti medievali di cui è vittima la nostra società e “Magnifico”, title track, più intimista, un inno al bello della vita, nonostante tutto. “Il Mago” (con un’intro parlata) è un malinconico valzer sul rapporto tra potere e individuo e la fine delle utopie, “Indelebile” è il versante intimo del disco, quello di un uomo che si getta a capofitto nella sensualità, quasi un rifugio a quella tempestosa realtà messa nel mirino dagli altri brani, “C’è chi (e chi)”, risale di tono, con un ritmo incalzante prende di mira qualunquismo e perbenismo. “Delle Diversità”, la più gaberiana tra le canzoni del disco, per intento etico, è un’esortazione a uscire dal coro, a essere “un’incognita non contemplata/nei manuali dell’autorità”. La denuncia è il tono dominante anche in “Oltre l’arcobaleno”, ritratto a tinte forte di questi nostri tempi e nella latineggiante “Stato sociale”, con i cori di Maria Pierantoni Giua. Chiude “Terraferma”, la canzone più intro- spettiva del disco, una jazzata riflessione sulla complessità dei rapporti d'amore. Di Bonaveri (che scrive tutti i testi, mentre per le musiche di fa aiutare, in qualche brano, da Fabio Guercio) colpisce l’uso della lingua, delle parole. Sulla scorta della migliore tradizione cantautorale, mette in versi una corretta lingua italiana (e non è poco, di questi tempi), senza paura di attingere a un lessico ampio, senza paura di usarne molte, di parole, a rischio di qualche (raro) scivolamento nella verbosità. Dà peso alle parole, Bonaveri, tanto da inserire qualche brano recitato, lasciando intravedere un certo ascendente nei confronti del teatro canzone di matrice gaberiana. Nessun ermetismo, un linguaggio curato ma diretto, capace di trasmettere significati netti, senza molte sfumature. A cui fa da specchio una musica altrettanto diretta, vigorosa, capace di fondere tradizione cantautorale doc, con ritmi folk, sfumature jazz, canzone popolare. Una musica, c’è da dirlo, ottimamente suonata, figlia com’è delle mani d’oro del produttore del disco, Beppe Quirici, che ha coinvolto nell’avventura musicisti della vaglia di Mario Arcari e Elio Rivagli (insieme a Quirici due dei protagonisti della migliore stagione di Ivano Fossati). La voce è quella calda e avvolgente che già avevamo conosciuto con i Resto Mancha (che peraltro continuano a collaborare al cd). Centra sempre l’obiettivo, questo esordio? È sempre all’altezza della sua forte ambizione? Bonaveri "Magnifico" Fabbrica di parole & Musica Duende Music - 2007 Nei negozi di dischi recensioni Oltre ai musicisti dei Resto Mancha Antonello D’Urso (chitarre), Luigi Bruno (piano e fisarmonica), Luca De Riso (basso elettrico), Max D’Adda (batteria), l’album vanta le preziose partecipazioni di Elio Rivagli (percussioni e batteria), Mario Arcari (oboe, clarino e flauto), Martina Marchiori (violoncello) e Maria Pierantoni Giua ai cori in "Stato Sociale". le bielle No, forse, no. C’è qualche momento di stanchezza, di convenzionalità. E pure qualche caduta nel predicatorio. Tuttavia Germano Bonaveri è una persona che canta perché ha qualcosa da dire. In Magnifico c'è la traccia di tutta la tradizione cantautorale, ben assimilata e digerita, con in più una signora produzione. Si parla del rapporto tra potere e persona, del qualunquismo dilagante, del vuoto morale e del fatto ancor peggiore che lo si consideri normale. E si parla anche d'amore, ma mai in toni da sole-spiaggia-mamma-capanna, piuttosto con un approccio introspettivo e poetico. Per un esordio niente male, quindi. È legittimo aspettarsi un bel percorso. di Leon Ravasi S ceglie un disco strano per tornare alla "canzone attiva" Mauro Ermanno Giovanardi, vale a dire il signor La Crus. E' un disco dal vivo, la registrazione di uno spettacolo tenuto al Teatro Dimora - L'arboreto di Mondaino (Ravenna) tra il 10 e il 17 aprile 2006 e poi, con calma, addizionato delle ritmiche in estate, degli archi in autunno e quindi mixato e licenziato a un anno quasi esatto di distanza dalla registrazione. Alla faccia dei dischi "canta e sforna" tipo Elio e le Storie Tese! Il risultato è un prodotto levigato e curato che, almeno inizialmente, non sembra dal vivo. Ed è lavoro complesso e stratificato, giocato sulla passione per la poesia di Giovanardi, che recita molti testi, e su quella per la canzone d'autore, presente qui sotto quasi tutte le sue forme. Giovanardi è un sensibile e dotato interprete che non ha mai fatto mancare neanche nei dischi firmati come La Crus la ripresa di classici della canzone d'autore (da Ciampi a Tenco, da De André ad Alan Sorrenti), fino a dedicare un intero disco, "Crocevia", alle cover (Bruno Martino, Gaber, Patty Pravo, Ivano Fossati, Battisti, Conte). "Cuore a nudo" riprende un po' delle intenzioni di "Crocevia" (e anche direttamente alcune delle cover già cantate) e le colloca in una dimensione di recital autorale di grande impatto emotivo e ottima eleganza formale. Il gioco mostra la corda solo alla lunga distanza (sono 18 brani per un totale di 48', non molto lungo, ma alla fine il gioco attore/fine dicitore/musica rarefatta su disco si fa un po' peso). Tra le cover già fatte dai La Crus ecco tornare "Un giorno dopo l'altro" di Tenco, "Giugno '73" di De Andrè, mentre la magnifica "Naviganti" di Fossati arriva dall'album di cover fossatiane "I disertori". Di Tenco compare invece per la prima volta "Vedrai vedrai" anche questa in una versione commuovente, Hai pensato mai? ("Gastu mai pensa?") di Lino Toffolo e "El me gatt" di Ivan Della Mea in una versione da cabaret jannacciano. In mezzo un pugno di canzoni di mano dello stesso Joe: "La giostra"scritta con Cremonesi e Malfatti (ossia gli altri due terzi dei La Crus) per l'album d'esordio omonimo del 1995, "Un cuore a nudo" scritto con Fabio Barovero dei Mau Mau e Baruffaldi, "Solo sfiorando", scritta con Luca Morino e Fabio Barovero (ossia la totalità dei Mau Mau), "Testamento d'amore" con Leziero Rescigno (batterista del giro La Crus). recensioni Jo non porta La Crus, ma il cuore ha spessore le bielle Mauro Ermanno Giovanardi: "Cuore a nudo" Il risultato finale è da lode. Giovanardi convince anche se la produzione di materiale nuovo, fatti bene i conti, si riduce all'osso e alcuni episodi, sia poetici, sia musicali, sono da segnalare con l'evidenziatore giallo a partire da Un giorno dopo l'altro a Naviganti a La giostra a Hai pensato mai, fino alla conlusiva Sarà ora di chiudere, amore che rende magistralmente la breve poesia di Pagliarani. Scopo raggiunto, anche se resta l'incertezza su quale sarà il cammino di Joe senza i La Crus (anche se Paolo Milanesi è presente anche quicon la sua tromba e pure come spalla recitante in El me gatt) o se ci sarà ancora un cammino dei La Crus assieme, ma se questi sono i segnali c'è da ben sperare: gusto, intelligenza e cultura. "Ho pensato a questo disco - dice Mauro - fin dall’inizio come ad uno spettacolo immaginario… un viaggio emozionale in uno spettacolo immaginario tra canzone, teatro e poesia, dove non si riuscisse a capire quali fossero le tracce registrate in studio e quelle dal vivo, in un gioco sospeso tra Mauro Ermanno Giovanardi "Cuore a nudo" Radiofandango/Edel - 2007 Nei negozi di dischi recensioni finzione e realtà.” "L'idea - spiega Giovanardi - era vedere se era possibile sostenere uno spettacolo intero con una formazione minima, ovvero piano o fisarmonica, una voce e una tromba, creando un percorso di parole cantate o recitate, di cose che sono state fondamentali per me. Abbiamo visto che l'idea reggeva e la mia voce aveva ancora più possibilità di lavorare sull'interpretazione. E potevo dare sfogo anche a una mia passione antica per il teatro". le bielle In mezzo tanta poesia: da William Shakespeare ("Come un attore") a Tonino Guerra ("La figa"), da Pier Vittorio Tondelli ("A Milano") a Elio Pagliarani ("Sarà ora di chiudere, amore"), da Mariangela Gualtieri ("Tu manchi da questa camera") a Marco Lodoli ("Ognuno dentro di sè ha un vuoto") e a Sandro Penna ("Era la mia città"), ma ogni poesia è accompagnata da musiche di Barovero, di Giovanardi o di entrambi o di Lorenzo Corti (già con Cristina Don° e Cesare Basile). di Giorgio Maimone N e Basta ascoltare 8" e 43 centesimi del disco per capire che si tratta dei Luf. Marchio di fabbrica inconfondibile. Impulso rock su cui si innesta un riff di baghet o cornamusa, tipico del folk. Sono ormai tre dischi, più i due episodi del Sambuco, che confermano con forza questa identità. I Luf non si possono confondere. E allora, visto che amo i Luf e che sono amici, per poter giudicare questo disco mi sono sottoposto a una sorta di prova tortura: un'ora di ascolto quotidiano per venti giorni, in ordine sparso dei brani o nell'ordine del disco. Tanto è l'esatta durata del mio viaggio in bicicletta per andare e tornare dal lavoro. Li ho amati, detestati, amati ancora. Forse capiti. Insomma, nonostante non ci sia più l'effetto sorpresa, "Paradis del diaol" è un grande disco, il migliore ascoltato finora. Classico folk-rock, ibridato di combat, cantato con grinta e vissuto con alto impatto emotivo e sonoro. I Luf fanno muovere le gambe e parlano al cuore. Possono scivolare nella retorica, ma lo fanno sempre con sincerità estrema e se "Bala e fa balà" aveva qualcosa delle danze sull'aia, "Paradis del diaol" è più serio, più introverso, forse anche più incazzoso. Si inizia con una conta ("Cunta e canta") e si finisce con un invito al ballo ("Vivi la vita ballando"), ma si passa attraverso storie di Resistenza, di disertori, di preti con la tonaca nera, ma il cuore rosso. E poi i Los Lobos brianzoli (o camuni?) hanno una grossa qualità: conoscono ancora il gusto del riff strumentale. Non me la si venga a contare. Quasi più nessuno aderisce alla massima d'oro del rock, che oltre a strofa, bridge, inciso è necessario che una canzone abbia anche una frase musicale ripetibile e ripetuta che si faccia ricordare e serva come gancio per la memoria. Ecco i Luf fanno tesoro di questa massima e la grossa differenza che sente tra le prime versioni grezze delle canzoni e il prodotto finito è proprio in questo: ogni brano ha un suo gancio strumentale. A volte se ne fa carico il violino, altre le bagpipe, altre ancora la fisarmonica o le chitarre ma quel che conta è che c'è sempre qualcosa da ricordare. E questo senza ancora aver parlato dei testi. Perché non ci sono dubbi, come diciamo nel titolo, che i Lupi ululino solo quando hanno qualcosa da dire. Può anche essere solo un invito al ballo o a prendere la vita con una risata, possono essere storie antiche o filastrocche per cantare (o per contare), ma non esiste brano nella discografia in crescita di Canossi e soci che non abbia una sua intima o esplicita necessità. E peraltro, altro punto di lode, i lupacchiotti non fingono mai di essere altro che quello che sono: fieri di venire dalla provincia e di portare suoni di diverse tradizioni popolari intrecciate tra loro e storie che ancora alle radici popolari fanno riferimento o alla vita quotidiana. Che è un magnifico modo di fare politica cantando. Delle 12 canzoni dell'album almeno otto sono sopra la media (di cui almeno tre che viaggiano sulle cinque stelle), due sono molto buono e solo due rientrano in una produzione media. Il che vuol dire che per tutti i 59'12" dell'album l'attenzione resta alta, altissima per capire le storie, i rimandi, il dialetto (tre brani sono nel camuno di Lozio, paese natale recensioni I lupi ululano quando hanno qualcosa da dire le bielle I Luf: "Paradis del Diaol" Si torna al country-folk con "Ciao bella" (attenzione, sembra Guccini quello che canta, ma è Canossi, a cui si aggiunge nel finale l'ottimo Massimo Priviero. Ma la somiglianza con Guccini, vi giuro è altissima). "Padre Pedro" è tex-mex, con una spezia latina in più. "Fiore amore disertore" è ancora un lento epico, anzi anti-epico. "Crescerò con te" è un fresco rock giovanile. "Signor Dio" una bella ballata che sa di folk. Insomma, non si può proprio dire che non ci sia varietà di atmosfere. Ma dall'inizio alla fine un tiro rock che non deflette un secondo, una passione cantautorale a tutta prova, una sincerità di intenti da premio. Signori, i lupi sono scesi di nuovo a valle, passato l'inverno e dimenticata la neve sui monti; sono scesi a portare allegria, danza, pensieri e storie. Forse le stesse storie che nelle sere d'inverno si raccontavano attorno al fuoco. Il fuoco è ancora acceso. E' quello della passione. Lunga vita ai lupi! E che siano sempre meno solitari. A sorpresa "La revolucion" scopre inaudite (nel senso di mai ascoltate nei dischi dei Luf) sonorità elettroniche che si vanno a michiare a un ritornello latino con un gradevole effetto patchanka. "Pensieri di tritolo" è un altra ballad folk-rock con Massimo Priviero alle voci (che rende la visita a Canossi, ospite a sua I Luf "Paradis del diaol" PerSpartitoPreso - 2007 Ai loro concerti e nel circuito di Botteghe nel mondo recensioni volta ne “La strada del davai” nella "Dolce resistenza" di Priviero). "Comandante" la conoscete tutti: il pezzo dei Gang e i fratelli Severini anche qui sono presenti al canto (Marino) e chitarra (Sandro). Grande versione. Infine "Vivi la vita ballando" è ancora una volta puro folk, di quello da danzare sull'aia. E, se si vuole, il disco si chiude come si era aperto. le bielle di Dario Canossi). Dal folk rock del brano iniziale ("Cünta e canta") si passa al country rock di "Donna di fiori", dal folk puro delle gighe di "Paradis del diaol" (melodia tradizionale) dove sembra di ascoltare i Lou Dalfin, si passa al lento di "Che freddo fa". Dall'epica di "Turna mia 'ndrè", dedicato al comandante partigiano Giacomo Cappellini. di Giorgio Maimone A desso il panorama è completo: un disco di inediti, uno di cover, un live. Manca solo il "The best", ma diamo qualche anno di tempo. Alessio Lega è autore prolifico e adesso che ha iniziato a fare dischi non lo ferma più nessuno. Il live "Zollette" è stato registrato il 10 marzo 2006 all'auditorium comunale di Ponteranica (Bg) e c'è poi voluto più di un anno perché riuscisse a trovare la via della distribuzione. In mezzo è uscito il secondo disco di Lega coi Mokacyclope (o dei Mokacyclope col Lega?) ossia il contrastante "Sotto il pavé la spiaggia", in bilico tra la delizia del foie gras e la dissonanza del Pastis. "Zollette" è molto più commestibile, come si compete a un buon live e tuttavia si caratterizza per proporre una buona manciata di novità o curiosità. E' un esempio di come dovrebbe essere fatto un "Live": ottime canzoni, un po' di brani noti e qualcosa di nuovo. Obiettivo riuscito: segnatevi il titolo, ma non illudetevi di trovarci del dolce. Sono tempi amari ed anche i "Live" come questo si chiudono in amarezza. Si inizia con "Venditor di sassi, ossia "Merchand des Cailloux" di Renaud Sechan, come sempre ottimanente tradotto da Alessio che si conferma uno dei migliori traduttori di canzoni francesi su piazza. Il brano di Renaud non è compreso in "Sotto il pavè" ed è un bizzarro proto-country in salsa armoricaine: grande canzone, ottima versione, splendida apertura di disco. Restiamo in terra di Francia con "Parigi val bene una mossa", classico leghiano degli anni pre-dischi, in una versione migliore di quella finita su "Resistenza e amore", ma ancora inferiore all'originale chitarra e voce che chissà se finirà mai su disco! Restando in tema di classici troviamo subito dopo "Straniero", uno dei brani migliori del canzoniere leghiano, connubio di ottimo testo e perfetta resa musicale: "Sono venuto a sta città / Come straniero che non sa / Come un insulto al cielo nero / In questa pioggia ostile / Lo stile fosco dell’età / E la pietà per questa gente / In tutto questo niente, il vento / Che batte il mio pensiero // E me ne andrò, io mi dicevo / Di notte, come uno straniero / Andrò davvero io non devo / Niente a nessuno andrò leggero via". Si procede con un'altra prelibatezza del ricco menù di "Zollette" (18 tracce, l'ultima realmente fantasma, in quanto inesistente, e intitolata alla Scaramanzia, per non far chiudere il disco con 17 tracce per un totale di 69'29"): "Canzone dei pirati", ossia "Pirataskaja Liricheskaja" di Bulat Okudzava, uno di quei personaggi che potrebbero benissimo essere inventati e che invece, trattandosi del Lega, ti devi prendere la briga di andare a cercare e, meraviglia delle meraviglie, persino trovare! Bulat Okudzhava (nato a Mosca nel 1924), insieme a Aleksander Galich e a Vladimir Vysotskij, fu il più importante autore di quel movimento di protesta comunemente chiamato “la rivoluzione del magnetofono” che, negli anni 70-80, fece traballare l’Unione Sovietica. I grandi temi di questi autori furono la protesta contro il regime, la satira contro sua la corruzione, la denuncia dell’odio etnico e razziale covato dalla classe politica, le persecuzioni di cui quest’ultima era ancora capace, e poi, specialmente in Okudzhava, la critica antimilitarista. Sfido chiunque ad andare oltre a una conoscenza (superficiale) di Vysotskij. Ma qui andiamo oltre. E la canzone, brechtiana nel suo incedere, funziona molto bene. Procediamo con un'altra squisitezza: "Non ho denari, non ho paesi, non ho tesori, non ho città" è forse la canzone col titolo più lungo. Ed è anche un glorioso ripescaggio dal canzoniere di Alfredo Cohen, misconosciuto cantautore omosessuale e anarchico degli anni '70: un unico disco all'attivo, "Come barchette dentro un tram" (e anche qui come titolo andiamo sul lungo) del 1977, peraltro con produzione e arrangiamenti di Franco Battiato e Giusto Pio. La canzone ripresa dal Lega, che prosegue la strategia di attenzione recensioni Un "live" fragrante e appetitoso. Ma non dolce le bielle Alessio Lega & Mocacyclope: "Zollette" Se "Vigliacca!" è bellissima, ma già conosciuta, "Il Lupo" di Henri Tachan (giuro, non so chi sia nemmeno lui) è un'altra esclusiva di questo live: tutta da ascoltare. E' un altro dei motivi per acquistare questo disco. La traduzione, non vale più nemmeno la pena di dirlo, è perfetta.Piccolo angolo dedicato a Genova, prima col suo cantautore eponimo, Fabrizio De André e la sua "Canzone del maggio", nella versione finita su "Storia di un impiegato" e quindi abbastanza lontana dal canto del maggio francese da cui è derivata. Buona la versione di Alessio. Poco significativo l'arrangiamento, pigro. Si passa subito a "Dall'ultima galleria (Genova)" di Alessio Lega, dedicata a Carlo Giuliani, qui in una versione leggeremente più lunga e veloce di quella presente su "Resistenza e amore" ma anche meno violenta. Ci avviciniamo al finale, ma abbiamo ancora due brani: "Chissà" è l'unico estratto da "Sotto il pavé la spiaggia" ed è di Allen Leprest, scritta in coppia con Richard Galliano. Non rientra tra le mie preferenze assolute, ma ha un gran testo. Infine "Zolletta" (lettera a Enzo G.Baldoni), la cosiddetta title track che chiude l'album e lo nobilita una volta di più. L'anima del Lega, fumettaro a sua volta e fumettofilo convinto, trova tutte le caratteristiche per esprimersi al meglio: il ricordo, Milano, l'antimilitarismo, i fumetti, il passato e il presente, un po' di tristezza e molta voglia di riscatto. Ammettiamolo, era molto facile scadere nel patetismo e farsi prendere la mano nel ricostruire una vicenda come quella del giornalista free lance italiano, ostaggio ucciso durante la guerra in Iraq. Lega maneggia la materia con pudore, con emozione frenata e grande, al proposito, l'idea dell'intercalare "Vabbè, Baldoni", che rende l'idea di un discorso in diretta con qualcuno presente, che ci può ascoltare (o leggere) ed eventualmente rispondere. Non serve parlare oltre, basta leggere. Il giudizio complessivo sul disco? Non l'avete capito? Questo è un'imperdibile! Da 5 stelle. C'è come un lampo d'ironia Che aggiusta il naso tra gli occhiali E son tornati tutti uguali I giorni qui che via per via Traverso viale Papiniano Parcheggiati come spine In gola a tutte le mattine Fanno mercato clandestino Di una tristezza vietnamita Che serba amore anche a chi muore C'è una zolletta di dolore Appassionata della vita C'è qui Zolletta che si scioglie In un caffè di Monte Nero Il fricchettone un po' in pensiero Lo zapatista con le doglie E siamo qui che ti scriviamo Del dilagare dell'agosto Nell'obbiettivo sovraesposto Come tre passeri su un ramo Tu ragazzaccio straordinario T'è parsa proprio una trovata Sbatterci in faccia la giornata Testimoniare in solitario Con la tua foto tutta mossa Che ci confonde ogni certezza E mo' la consapevolezza E’ sbigottita, zuppa e scossa Ci resta aperta sulle mani La scelta fra il colera e il tifo: Fra i bombardieri americani E i tagliagole che fan schifo Per questo tu te ne sei andato A curiosare in mezzo al fuoco Lasciando al mondo sconcertato Tutta la serietà del gioco Vabbè Baldoni qui Milano Conserva ancora il tuo passaggio Come il sorriso del coraggio Che spero ci fiorisca in mano Vabbè Baldoni, statti bene Qui per non piangere ridiamo E al tuo sorriso ci sperriamo Che un po' da piangere ci viene Vabbè Baldoni, senza fretta Ci rivediamo certamente Sai che non mollo facilmente Ti aspetto. Sempre tua. Zolletta. Alessio Lega & Mokacyclope "Zollette" (live) Altromercato - 2007 Disponibile nei negozi del commercio equo e solidale recensioni Zolletta (di Alessio Lega) le bielle ai cantanti "minori" del periodo, come il Fanigliulo di "A me mi piace vivere alla grande", un classico delle esibizioni di Alessio dal vivo, è tuttora attuale, ben costruita su un ritmo di sarcastica marcetta. Non lascia indifferenti. Possiamo procedere celermente su "Resistenza e amore" e "Rachel Corrie" che restano abbastanza simili alle versioni (belle) presenti sul primo disco del Lega, fatta salva la lunga coda di 1'50" in fondo alla seconda canzone che ne esalta la assoluta drammaticità e arriviamo ai 7'20" di "Gorizia" una delle più celebri canzoni della musica popolare politica. Ne ricordiamo una versione strepitosa dei Les Anarchistes su "Figli di origine oscura". Quella dei Mocyclope e di Alessio si pone sulla stessa linea. Grande lavoro alla chitarra elettrica di Rocco Marchi, interpretazione di gran classe. Voce giusta e giusta incazzatura. Ferro e metallo ardente direttamente dalla classe operaia. Epica. di Giorgio Maimone C’ è chi un disco del genere lo fa solo per divertirsi. E a volte si diverte solo lui. E, fortunatamente c'è anche chi lo fa "non per piacer suo / ma per dar piacere a iddio". Quest'ultimo è il caso di Massimo Priviero con "Rock & Poems". Un disco che è molto più di un semplice album, piuttosto una collezione, una antologia di tanto del meglio che la musica a stelle e strisce ci ha lasciato nel corso degli ultimi 50 anni. Si parte con "Blowin' in the wind" a cui viene restituita la "g" finale che, in realtà non ha mai avuto e si finisce 51'44" dopo con "We shall overcome", traditional celeberrimo anche prima della rivisitaziione springsteniana. "A spingermi - dice Priviero - è stata la voglia di tornare all’inizio, di rendere omaggio alle canzoni che sono state un po’ la salvezza e dannazione della mia vita. Inizia con Blowing in the wind, perché è stata la prima canzone che ho imparato sulla chitarra. Non credo che si possa parlare di un disco di cover, di raschiatura del fondo del barile, ma è stata un’operazione un po’ folle, perché mettere le mani sui classici vuol dire andare al fronte senza l’elmetto in testa. C’è molta emozione e molta energia". Emozione ed energia che si sentono percorrere la schiena del disco, sempre sul filo del brivido leggero, sia nei pezzi più calmi che in quelli più grintosi, anche se la grinta Priviero, in fondo, non l'abbandona mai. Le versioni sono contemporaneamente molto fedeli agli originali, ma anche molto vicine allo stilo di Massimo, per cui, anche quando (e capita due volte) si passa attraverso pezzi suoi (Resistence e Marchin' on, ossia rispettiva- mente Dolce resistenza e La strada del Davai) la differenza non si avverte. Non c'è lo scalino atteso e il flusso di buon rock & roll verace non si interrompe. "Io penso - ci ha detto ancora Massimo - che ci sia un legame tra i pezzi ed è la quantità di poesia che tutte queste canzoni avevano dentro, il che dà un unitarietà alla cosa. Molti di questi brani hanno tematiche che ritornano: visioni oniriche di speranza e libertà (The promised land, Have you ever seen the rain), dall’altra le poetica della solitudine (Desperado, Old ’55). Due temi che rappresentano bene il mio orizzonte aurorale. Ho scelto quindi brani che mi rappresentassero e assieme a me parlassero di tutta una generazione". L'obiettivo è stato completamente raggiunto. Poi a qualcuno potranno piacere di più alcune rivistazioni e altri invece si concentreranno su altre. Come pure vi sarà chi si appellerà al reato di lesa maestà. In fin dei conti lo stesso Priviero l'ha anticipato, dicendo che "toccare i classici è da incosciente. Come andare in guerra senza l'elmetto". Senza metterci l'elemetto possiamo a nostra volta esprimere le nostre preferenze: al primo posto la lenta ballata di Lily of the west, brano tradizionale ripreso da decine di autori tra cui Joan Baez, Bob Dylan, The Chieftains, Peter, Paul and Mary e Mark Knopfler. La versione di Massimo è lenta e solenne, vagamente alla Van Morrison, lunga e rilassata. Con la voce che giustamente vibra di accenni epici nel narrare la vicenda, una delle murder ballads più conosciute, del giovane che ama recensioni Gli anni '70 a colpi di chitarre e di poesia le bielle Massimo Priviero: "Rock & Poems" Curioso peraltro ascoltare nel giro di poco tempo due riproposte degli anni '70 come il progetto Slowfeet di Franz Di Cioccio e Rock & Poems di Priviero, animati entrambi dalla Massimo Priviero "Rock & poems" Universal - 2007 In tutti i negozi di dischi recensioni Altri pezzi forti sono "The promised land" da Springsteen e "Desperado" degli Eagles, "Ol' 55" di Tom Waits e "Chimes of freedom" di Bob Dylan. Meno convincente, ma è un parere del tutto personale, la Blowing in the wind iniziale, specie da un punto di vista dell'arrangiamento, troppo muscolare. Blowin' sopravvive a tutto: tanto a Peter, Paul & Mary che al reggae del Budokan o al rock di Before the flood e anche qui non è affatto male, ma nel bigoncio ci sono fichi più succulenti. passione profonda per quegli anni, per anni di profonda trasformazione e profondi mutamenti, in cui tutto sembrava ancora possibile e le strade aperte per andare. Ora gli obiettivi sono minimi, gli spostamenti quasi proibiti, ma Priviero e Di Cioccio ci invitano ognuno a modo proprio a continuare a sognare. E a non aver paura di ricordare. le bielle Flora, conosciuta come Lily of the west, la scopre infedele, ne ammazza l'amante e in galera si scopre ancora innamorato di lei.