Hiroshima settant`anni dopo

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Giovedì 6 Agosto 2015
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C’erano generali Usa che, dopo la bomba, volevano altri ordigni per terminare il lavoro
Hiroshima settant’anni dopo
Al Congresso dissero che l’atomica faceva morire felici
civili arsi vivi. Tra i centri superstiti, Hiroshima presentava un’orografia che si credeva
avrebbe favorito la diffusione
del Fuoco. La rovina di Nagasaki fu la tenera memoria
del ministro degli esteri Usa,
Henry Stimson, che aveva
passato, tanti anni prima,
una bellissima luna di miele
a Kyoto, capitale culturale del
Giappone, e ora se la trovò designata come bersaglio di un
olocausto nucleare. Egli fece
scattare immediato un veto e
il posto di Kyoto fu preso da
Nagasaki.
da Washington
ALBERTO PASOLINI ZANELLI
Q
uello che è stato chiamato, fra le altre cose,
«il secolo più corto» ha
compiuto da poco i suoi
cento anni, se ci si rifà a un
colpo di rivoltella a Sarajevo.
Si conclude con 70, invece, se
si rende memoria ai due ordigni nucleari che devastarono
fra il 7 e il 9 agosto 1945 due
città giapponesi, da allora legate indissolubilmente nella
memoria: Hiroshima e Nagasaki. Il via e la conclusione di
una tragedia insensata che
coinvolse e devastò l’intero
pianeta, provocando ogni sorta di orrori, nella «qualità» e
nella quantità, senza che né i
protagonisti né i loro discendenti riescano a trovare un
contesto razionale fra il colpo
di pistola di Gavrilo Princip e il battesimo di un’era
nucleare «raccomandata»,
fra gli altri, da Albert Einstein (che se ne pentì quasi
subito). Da allora è cambiato
il mondo, ripetiamo, ciascuno
con un suo sentimento e una
diversa coscienza. Anche oggi
sulle rovine di Hiroshima si
deporranno fiori, si terranno
discorsi, ci si raccomanderà a
turno la memoria e un oblio
camuffato da perdono.
Hiroshima e Nagasaki
pilastri della Storia? Come
Grande storia non fanno parte del capitolo del Giappone
ma di quello dell’America. Gli
Stati Uniti, già allora crogiuolo del pianeta, vi aprirono una
nuova strada; il Giappone, aggressiva potenza provinciale
del ventesimo secolo, ne fu
toccato incidentalmente. Americane furono e sono la gloria,
il trionfo, la responsabilità, il
rimorso, l’ebbrezza. Da Hiroshima e Nagasaki nacque la
pax americana, che coincise
con la Guerra fredda.
Ci si consola, ancora
spesso ma sempre meno, con
l’argomento che quelle due
bombe che hanno mandato
a morte centinaia di migliaia
di civili giapponesi avrebbero
salvato la vita ad altrettanti
soldati americani. «Mezzo milione», lasciò scritto nelle sue
memorie Harry Truman, il
presidente che diede l’ordine
di sganciare la Bomba, convinto dai leader militari che
gli parlarono, appunto, di
«almeno mezzo milione». Le
previsioni del tempo non raggiunsero mai, in realtà, quella
cifra. Il «bilancio preventivo»
dei costi di una guerra, fino
all’occupazione dell’ultimo
lembo dell’arcipelago giapponese, parla di un massimo di
40 mila caduti Usa.
Analisi più moderne,
dovute anche alla disponibilità di documenti fino a ieri
Il fungo atomico, simbolo della tragedia di Hiroshima
segreti, sembrano indicare
piuttosto che, a convincere a
desistere una classe dirigente
di samurai e il suo imperatore,
fu un avvenimento che segue
Hiroshima di quattro giorni:
la decisione di Stalin di violare il Patto di non aggressione
che legava l’Unione Sovietica
al Giappone e di dichiarargli
guerra. Nagasaki venne poche
ore dopo, la resa di Tokyo seguì
quasi immediatamente. Fino a
quegli avvenimenti il governo
imperiale aveva continuato a
sperare che l’Urss sarebbe sì
entrata in gioco ma come mediatrice, in alternativa alla
richiesta americana di resa
incondizionata. Così concluse,
almeno, l’analisi dello storico
giapponese Tsuyhshi Hasegawa, che ricorda fra l’altro
l’ultimatum che Truman aveva letto personalmente alla
radio con le parole: «Altrimenti dal cielo cadrà una pioggia
di rovine di cui la Terra non
ha mai visto l’eguale».
La resa fu firmata il 15
agosto. Essa non fu scritta
soltanto dai generali o dai
diplomatici, ma continua a
essere scritta. Tutti ricordano ancora un grande film di
Akira Kurosawa, Rapsodia
d’agosto, ambientato a Nagasaki, e la sua tesi: che gli
americani «si scusino con il
popolo giapponese, altrimenti questa tragedia non potrà
mai avere fine». Ci si chiede
ancora, per esempio, perché
quelle due città furono scelte
per l’olocausto finale (finale
anche perché l’America di
atomiche, in quel momento, ne
aveva due in tutto). Il motivo
principale è che quasi tutte le
altre città del Giappone erano state distrutte con armi
convenzionali e Tokyo aveva
già contribuito con 150 mila
Altri gallonati avevano
altre preoccupazioni. Per
esempio, che la Bomba non
fosse abbastanza devastante.
E proposero, dunque, di farla seguire da uno stormo di
bombardieri che lanciassero
una pioggia di ordigni incendiari. Ci vollero gli scienziati
unanimi a rassicurarli che
«bastava così». Un altro generale, Leslie Groves, direttore
del Progetto Manhattan, che
aveva costruito l’atomica, aggiunse, in una dichiarazione
davanti al senato di Washington, che la morte causata da
un’alta dose di radiazioni non
comportava una sofferenza
e sarebbe stata invece «un
modo piacevole per morire».
Dopo, immediatamente dopo,
si descrissero il meno possibile
i resoconti e le immagini delle
stragi. La censura era ferrea.
Ad aprire una breccia fu un
giornalista australiano, che
per primo parlò di una «morte nucleare», poi uno scrittore
americano, John Hersey, che
descrisse Hiroshima sul New
Yorker e poi in un libro, che
La Collezione Lambert ad Avignone
Per gli appassionati d’arte è d’obbligo una tappa
in terra francese alla Collezione Lambert ad Avignone, dove fino all’11 ottobre è possibile visitare
una mostra che racchiude
un insieme straordinario
di grandi artisti che vanno da Picasso a Bacon,
da Balke ad Abramovic,
da Balke a Harrison. La
collezione, che riapre al
pubblico facendo le cose
in grande, è ora diretta da
Eric Mézil.
Questa esposizione è dominata dal tema di Eros
e Thanatos, amore e morte, come appare in tutta
evidenza dal monumentale dipinto Un mattino
Un mattino davanti alla porta del Louvre, Debat-Ponsan, 1880
davanti alla porta del
Louvre dell’artista Edouard Bernard
E poi si può ammirare un altro capolaDebat-Ponsan, composto nel 1880. Una voro realizzato da Georges de La Tour,
rievocazione della notte di San Barto- Apparizione dell’angelo a San Giuseplomeo, il nome con cui è passata alla pe: una tela nella quale il chiaroscuro
storia la strage compiuta fra il 23 e il circonda e rende pacifica l’esistenza dei
24 agosto 1572 a Parigi dalla fazione protagonisti.
cattolica ai danni degli ugonotti.
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però in Giappone fu bandito
dalla censura.
Rimasero però le immagini, i racconti di tanti
olocausti personali. I quadri
di padri e figli spellati dalle
ustioni, di una donna vagante
tra le macerie alla ricerca di
un posto in cui cremare il suo
bambino e che alla fine trova
solo un elmetto militare per
contenerne le ceneri. Le immagini delle persone sfigurate dalle radiazioni al punto da
non avere più una fisionomia,
di genitori da cui i figli correvano via spaventati perché li
prendevano per mostri. Oppure la storia di Akiko Osato,
la bambina di Hiroshima che
chiese alla mamma, il mattino
del 6 agosto 1945, uno di quegli aranci che erano stati messi da parte «per mangiarli in
cantina nell’eventualità di un
attacco aereo». La madre glielo negò, dicendo che bisognava
risparmiare. Akiko morì fra le
sue braccia, la mamma visse
a lungo con il rimorso di quel
frutto negato. Sull’altare buddhista, accanto al letto, tenne
fino all’ultimo giorno un cestino di arance come offerta
all’anima di Akiko.
E ci sono le gru di un’altra bimba, Sadako Sosaki,
che il giorno della Bomba
non morì, ma si ammalò di
«qualcosa» che stava per essere riconosciuto e definito
«radiazioni». Quando le scoprirono gli esperti, esaminato il deserto che l’uomo stava
facendo sulla Terra, conclusero che non una sola pianta avrebbe potuto «fiorire su
quella terra avvelenata per
almeno settant’anni». E invece, già nella prima primavera,
i mozziconi anneriti dei salici
videro germogli, riapparvero
fiori. Sadako fece in tempo a
vedere la natura che guariva,
a sperare di poterne far parte. Visse dieci anni e dedicò le
ultime settimane a piegare
pezzi di carta in forma di gru,
uccelli di buon augurio. Si era
convinta che, se fosse riuscita
a fabbricarne mille, sarebbe
guarita. Arrivò a 644. Trecentocinquantasei ne aggiunsero,
racconta, le sue compagne di
scuola, in tempo per l’inaugurazione di una statua di Sadako. L’origami, arte rarefatta
dell’effimero, è diventata per
una volta pietra. Centinaia
di colombe di pace, bianche o
grigie, volano ora attorno agli
alberi piantati dai visitatori
di Hiroshima, anche stranieri, «per ricordare le anime e
pregare per la pace». Però un
cartello accanto al tempio avverte cupo, esagerando: «Chi
tocca le colombe è pregato di
lavarsi le mani per non contrarre la malattia che esse
portano».
pasolini.zanelli
@gmail.com
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