OPERAZIONE VERITA`: A CHE PUNTO E` LA NOTTE ITALIANA

OPERAZIONE VERITA’: A CHE PUNTO E’ LA NOTTE ITALIANA
Premessa:
In questi anni di crisi, oltre alle tasse e al disagio economico e sociale, c'è stata
un'altra grande costante che ha tenuto compagnia alle nostre giornate, ai nostri
momenti: la menzogna proferita in modo sistematico dai vari governi e dai politici di
turno che, in maniera spudorata e vergognosa, hanno reiteratamente mentito e
mistificato (e continuano a farlo) circa l'esatta situazione dell'economia e dei conti
pubblici, in costante ed inesorabile deterioramento.
È' chiaro che tutto ciò incorpora evidenti elementi di criminalità, proprio perché tende
ad alimentare false aspettative nei confronti degli agenti economici più deboli: i
disoccupati con le loro famiglie e le imprese, prime vittime sacrificali di questa crisi.
Proprio per questo, insieme ad altri siti amici, tra i più seguiti in Italia di economia,
tutti liberi e senza padroni, abbiamo pensato di lanciare, coralmente, tutti insieme,
questo post divulgativo al fine di far ben comprendere l'esatto stato dei conti pubblici
e dell'economia.
LA MENZOGNA
I grafici che seguono esplicano in maniera esaustiva i clamorosi errori
previsionali commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi 3 anni di
cirsi, su Deficit Pubblico, Debito pubblico e Pil Nominale.
A CHE PUNTO E' LA NOTTE ITALIA
Come noto, appena qualche di settimane fa, il governo ha reso pubblica la Nota di
Aggiornamento al DEF. Per chi non lo sapesse, il DEF è il documento di economia e
finanza che rappresenta il punto nodale nella programmazione della politica
economica e di bilancio del paese. Il punto d’incontro tra politica nazionale e
l’Unione Europea, che incorpora le variabili macroeconomiche e di bilancio che il
governo stima si possano realizzare, stante una crescita presunta del PIL.
Leggendo il documento licenziato dal governo, la cosa che più lascia perplessi, è
dover constatare la volgarità della menzogna esercitata dal governo, proprio su talune
variabili che risultano manifestamente abbellite, taroccate, per nulla aderenti con la
realtà dei fatti, con l'esatta situazione dell'economia italiana e dei conti pubblici.
Questi ultimi, appositamente “massaggiati” per offrire un quadro della finanza
pubblica migliore rispetto a quello che effettivamente è.
Cerchiamo di andare nel dettaglio.
LA MENZOGNA SUI CONTI PUBBLICI
La nota licenziata dal Governo, rispetto al DEF di primavera, con la fine dell'anno
ormai alle porte, recepisce ciò che era ormai chiaro da mesi, più o meno a tutti i
commentatori di buon senso. Ossia che il Pil, anche quest'anno, diminuirà
dell'1.7%(?), posizionandosi a 1.557,3 miliardi di euro, quindi ben oltre l'1.3%
previsto solo a maggio dal governo Monti.
Sul fronte della spesa pubblica, il governo, proprio con l’intento di esporre un deficit
migliore rispetto a quello reale, da un lato ha aumentato di un miliardo di euro la
spesa corrente (pensioni, stipendi, acquisti); mentre, dall’altro, ha corretto al ribasso
la stima della spesa in conto capitale portandola a 807,6 miliardi rispetto agli 810, 6
precedentemente previsti: quindi, 3 miliardi in meno di spese che aiuterebbero
(secondo il governo) a far rientrare sotto il 3% lo sconfinamento deficit/Pil.
Ma entrando nel dettaglio del DEF, si scopre che questo (apparente) miglioramento, è
determinato da artifici contabili, per cui si differiscono all’anno successivo (cioè al
2014) talune spese in conto capitale originariamente previste nel 2013, nonostante la
spesa per investimenti sia stata fortemente ridotta in questi ultimi anni proprio per
esigenze di bilancio, non considerando che questa determina
anche delle
manifestazioni virtuose per il ciclo economico. E’ ovvio che, se cossi fosse, questa
pratica andrà ad impattare sul fabbisogno del prossimo anno.
Ciò nonostante, analizzando le spese della amministrazioni pubbliche e proiettando al
31 dicembre il consuntivo realizzato nei primi sette mesi dell’anno -dove sono
cresciute dell’1.8% rispetto allo stesso periodo del 2012- si osserva che queste, a fine
anno, dovrebbero aggirarsi intorno ai 678.5 miliardi di euro: cioè 6 miliardi in più
rispetto ai valori rettificati dal governo nella nota di aggiornamento.
Sul fronte delle entrate, a causa dell’aleatorietà dei pagamenti da parte degli agenti
economici, la questione è molto più difficile da interpretare. Anche se i dati
disponibili delle entrate tributarie, per i primi 8 mesi dell’anno, registrano una
diminuzione dello 0.3% rispetto allo stesso periodo del 2012.
Le entrate contributive, invece, secondo quanto comunicato dalla Ragioneria Generale
dello Stato, nei primi sette mesi dell’anno, si sono attestate a circa 124 miliardi di
euro, in flessione dello 0.9% rispetto allo stesso periodo del 2012.
Proiettando a tutto il 2013 i dati sulle entrate tributarie e contributive realizzate nei
primi 9 mesi, dando per certa una copertura del taglio della seconda rata dell’IMU -in
parte assorbito anche dal recente aumento IVA- e, in via del tutto prudenziale,
ipotizzando comunque un miglioramento dell’andamento delle entrate, è verosimile
ritenere, a fine anno, un minor gettito che oscilli tra +0,1 e +0,4% per le entrate del
2013 sul 2012, ad un valore tra 755 e 757 miliardi di Euro, contro 759 preventivati,
con un ammanco tra 2,0 e 4,0 miliardi.
Quindi in estrema sintesi, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe ritenere del
tutto verosimile un deficit, a fine anno, oscillante tra il 3.4% e il 3.6%, cioè dai 4
ai 6 miliardi in più rispetto ai 48.7 miliardi stimati dal governo nella nota di
aggiornamento, con un debito pubblico prossimo al 134% contro li stima del
governo al 132,9%
In buona sostanza, è questo il quadro di finanza pubblica che, con ogni probabilità, ci
attenderà da qui a fine anno, salvo ulteriori manovre correttive o giochi di prestigio
per esporre un deficit inferiore al 3%. Ma in uno scenario come quello descritto, nel
quale si balla proprio ai limiti, nonostante la manovra di contenimento di 1.6 miliardi
di euro varata lo scorso 10 ottobre, molto dipenderà dalla crescita economica
dell’ultima parte dell’anno e dalle entrate tributarie degli ultimi mesi, anche se, a
parer di chi scrive, i margini di ottimismo sembrano piuttosto ridotti, se non
addirittura inesistenti.
COME TAROCCARE LE PREVISIONI SULLA SPESA PER INTERESSI
Ma andando oltre, sempre nel DEF, e sempre a proposito dell’inattendibilità delle
stime governative, si scopre che, sul fronte della stima della spesa per interessi, il
tandem Letta-Saccomanni, compiono una vera e propria manovra di prestigio, degna
di Mago Otelma.
Tanto per renderci conto di cosa stiamo parlando, vi propongo questa tabella che
riepiloga la stima della spesa per interessi dal 2014 al 2017: sulla prima riga quella
effettuata dal Governo Monti, sulla seconda quella del Governo Letta con la nota di
aggiornamento al DEF.
Stima Spesa per interessi Gov. Monti vs Gov. Letta . (dati in migliaia di euro)
2014
2015
2016
2017
Def . Maggio 2013- MONTI
90377 97465 104384
109289
Agg. Def settembre- LETTA
86087 88827 91858
92500
RISPARMIO
4290
8638
12526
16789
Come è facile intuire, già dal 2014, fino ad arrivare al 2017, il governo Letta stima
un robusto e progressivo risparmio per la spesa per interessi, fino a giungere, nel
2017, appunto, a oltre 16 miliardi di euro, equivalenti ad 1 punto percentuale del
Pil. E' chiaro che queste presunte economie determinano un miglioramento dei
saldi di finanza pubblica.
A questo punto occorrerebbe chiedersi perché il governo stimi una riduzione
così significativa del costo per interessi, o secondo quale parametro. Prima di
dare una risposta all’interrogativo, è bene precisare che, come giustamente
segnala il Prof. Gustavo Piga nel suo blog, ormai da oltre 15 anni a questa parte,
o meglio fino all’ultimo DEF dello scorso maggio, le previsioni di stima della
spesa per interessi venivano “formulate utilizzando i tassi impliciti nella curva dei
rendimenti italiana rilevati a metà marzo 2013….”. In buona sostanza si
tratta(va) di un criterio riconosciuto dalla comunità scientifica e finanziaria, che
traeva fondamento proprio dall’analisi della curva dei tassi in un determinato
periodo temporale.
Con la nota di aggiornamento, il governo cambia paradigma. Infatti, sul
documento, la stima della spesa per interessi fonda la sua previsione su una
“ipotetica e una graduale chiusura degli spread di rendimento a dieci anni dei titoli
di stato italiani rispetto a quelli tedeschi a 200 punti base nel 2014, 150 nel 2015 e
100 nel 2016 e 2017”. Cioè, per dirla in parole più semplici, il costo degli interessi
sarebbe destinato a scendere in ragione di una ipotetica diminuzione degli
spread.
Siamo quasi al demenziale o, se preferite, al dilettantismo, poiché, un analisi di
questo genere, è priva di qualsiasi fondamento, non solo scientifico, ma anche
logico. Invero, va precisato che un calo dello spread non significa
automaticamente una diminuzione dei costi al servizio del debito (interessi).
Infatti, lo spread, altro non è che una variabile che misura la differenza tra il
rendimento Btp decennale e quello del bund tedesco: anche quest’ultimo
soggetto a variare in ragione di una moltitudine di variabili economiche e di
mercato.
Ne consegue, in maniera peraltro del tutto ovvia, che se diminuisce lo spread, ma
al tempo stesso aumenta il rendimento del bund, l’aumento del titolo tedesco
vanifica in tutto o in parte il beneficio prodotto dal ripiegamento dello spread .
Da ciò se ne deduce che se ad un eventuale aumento del rendimento del Bund,
non si contrappone un calo più che proporzionale dello spread, il costo del debito
aumenta anziché diminuire. Questo, banalmente, per significarvi che la stima
fatta dal governo per quantificare la spesa per gli interessi, oltre ad essere
infondata nel metodo, lo è anche logicamente.
Detto ciò, con ogni probabilità, ciò che induce il governo a ritenere un
ripiegamento dello spread nei confronti del titolo tedesco, verosimilmente,
risiede proprio nelle previsioni di crescita del PIL, dal 2014 al 2017, a parer di
chi scrive, fin troppo ottimiste, o meglio non realizzabili.
Il perché dovrebbe esser chiaro. Infatti tanto più la crescita si dimostrerà
(almeno sulla carta) vigorosa, tanto più i conti pubblici si stabilizzeranno verso
sentieri di maggiore sostenibilità (sempre sulla carta) e, di conseguenza,
aumenterà anche la fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico,
determinando anche un ripiegamento dello spread, magari allineandosi (??) alle
previsioni elaborate dal governo nel DEF. Quindi, un rientro dello spread a 100
punti base, in ragione della crescita esponenziale del PIL esposta nel DEF,
potrebbe essere verosimile. Ma ciò che non lo è, sono le previsioni sul PIL.
A PROPOSITO DELLE PREVISIONI FANTASIOSE SULLA CRESCITA
Ecco, il punto è proprio la crescita economica.
E’ proprio qui che il governo commette una vera e propria indecenza,
proiettando stime che, non senza difficoltà e fantasia, potrebbero semmai essere
ospitate nel libro dei sogni, nonostante, nel corso degli ultimi 14 anni ed oltre, il
PIL dell’Italia sia cresciuto mediamente ad un livello ben inferiore (oltre 1%)
rispetto alla media UE27.
Ad ogni buon conto, la Nota di Aggiornamento al DEF si fonda su una dinamica di
tassi di crescita del Pil dal 2014 al 2017 decisamente ottimista:
 2014 +1,0%;
 2015 +1,7%;
 2016 +1.8%;
 2017 +1.9%.
Cioè, una crescita molto più robusta di quella mediamente prodotta negli ultimi 13/15
anni, ascrivibile, secondo il DEF, all'impatto (positivo) che dovrebbe produrre le
riforme varate dai governi negli ultimi anni. Che poi, quali sarebbero queste riforme,
sfugge del tutto.
In pratica, una crescita ben superiore a quella prevista da altre istituzioni
finanziarie internazionali (es FMI) che appaiono comunque fuori dalla portata
dell'Italia, almeno nel contesto che andremo tra poco a chiarire.
E' chiaro che gonfiare ad arte una previsione di crescita per i prossimi anni, in visione
prospettica, rende il quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche assai più roseo
rispetto a quello che altrimenti sarebbe. Per il semplice fatto che, ampliare la base
imponibile (maggiore PIL), ha come ovvia conseguenza anche un aumento delle
entrate fiscali, determinando un miglioramento dei deficit, senza che ciò derivi da un
inasprimento delle aliquote.
E questo favorirebbe anche un maggior interesse nell'acquisto del debito italiano
anche da parte degli investitori, che comunque sanno (o meglio dovrebbero sapere)
che si tratta di previsioni di crescita del tutto irrealizzabili. Anche perché, se fosse lo
stesso governo a disegnare una quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche a tinte
fosche (cioè più verosimile alla realtà), chi mai avrebbe interesse ad investire sul
debito pubblico italiano, se non con un rendimento che incorpori anche un maggior
premio di rischio?
Quindi, banchieri compiacenti, ancorché conoscano (o quantomeno lo sospettino) che
i dati sulla crescita siano del tutto inverosimili, acquistano ugualmente il debito
pubblico. Perché sanno che il governo, all'occorrenza e in caso di necessità, in virtù
dell'autorità che ha di imporre tasse -nelle forme più fantasiose possibili, patrimoniali
comprese- sarà sempre disponibile ad intermediare ricchezza (quella degli italiani,
nello specifico)e ripagare il debito nei confronti degli investitori.
Ma siccome il Governo ben conosce che i dati sono del tutto dissociati dalla realtà e
che si tratta di ipotesi irrealizzabili, destinate a naufragare aprendo buchi nel bilancio
dello stato, anticipa gli eventi. Quindi vara una nuova manovra in modo che, quando
ci si accorgerà del naufragio delle previsioni di crescita, tutto sarà già più o meno
sotto controllo. Perché, è chiaro: le clausole di salvaguardia servono proprio a questo.
Salvo ulteriori manovre e quindi altre tasse.
Ed è quello che, in buona sostanza, è stato fatto nei giorni scorsi varando la Legge di
Stabilità, della quale parleremo più diffusamente in prossimo articolo.
Ma tornando al fattore crescita economica, vorrei proporvi un breve
ragionamento, di buon senso, per farvi ben comprendere quanto siano infondate
le previsioni di crescita formulate dal governo. Ragionamento che, per certi versi,
esula dalla solita prospettiva approcciata dagli economisti su tali tipi di analisi.
Nulla di complesso e particolarmente difficile.
Per comprende di cosa stiamo parlando, è bene fare un breve excursus su ciò che
è stata la crescita italiana negli ultimi 13 anni, ossia dall’introduzione dell’euro.
Ragioneremo in termini nominali. Cioè non considerando l’effetto inflazione che
si è manifestata nel periodo considerato e che, comunque, giova ricordare, è stata
di circa il 30% dal 2000 al 2013.
grafico
2,000,000.00
1
Pil Nominale 2000-2017
(2013 -2017 stima DEF)
1,800,000.00
1,600,000.00
1,400,000.00
1,200,000.00
1,000,000.00
800,000.00
600,000.00
400,000.00
200,000.00
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
-
*banda celeste: Pil nominale secondo le previsioni del DEF
Come è facile osservare, in tutto il periodo considerato, l’Italia è cresciuta in
maniera del tutto asfittica: certamente non in sintonia con le proprie necessità, e,
mediamente, come evidenziato in precedenza, ben oltre un punto percentuale
annuo in meno rispetto alla media dei pausi UE27. Nel frattempo, il debito
italiano ha conosciuto ritmi di crescita molto più sostenuti, con una drammatica
accelerazione proprio dal 2008 in poi. Ossia con l'esplosione della crisi che ha
determinato, ad esempio, un maggior esborso da parte dello Stato per sussidi di
disoccupazione, o per la partecipazione ai vari piani di salvataggio condotti nel
cotesto europeo.
Tant'è che, dal 2000 in avanti, il debito pubblico non è mai sceso sotto il 103%
del Pil -quando i parametri di Maastricht lo vorrebbero confinato al 60% del
prodotto lordocon un'accelerazione vertiginosa proprio nell'ultimo
quinquennio.
Fino a giungere, alla fine del 2013, a ridosso del 134% del Pil. Circa 2090 miliardi
di euro, a fronte dei un PIl appena sopra ai 1550 miliardi di euro.
Tanto per offrirvi l'idea dell'accelerazione subita dal debito pubblico, giova
ricordare che, da fine 2011 ad oggi, il debito è cresciuto di circa 170 miliardi,
ossia oltre l'8% dello stock totale.
Arrivati a questo punto, è il caso di ricordare che dal 2015, l'Italia, in
applicazione del Fiscal Compact, per i prossimi 20 anni, dovrà procedere ad una
riduzione del debito pubblico di 1/20 all'anno in ragione del PIl, al fine di
confinare il debito entro il 60% imposto da Maastricht. Per sostenere
l'abbattimento del debito pubblico in un percorso così impegnativo, la
condizione necessaria è che il PIL nominale cresca di almeno il 3% per i prossimi
20 anni. In modo tale che -confida il governo- una volta stabilizzato, il debito
possa rientrare in maniera quasi automatica. Questa condizione imprescindibile,
benché sulle previsioni del governo sia soddisfatta, appare del tutto
irrealizzabile, almeno per i prossimi anni.
Ritornando alla dinamica del PIl dal 2000 in avanti, giova segnalare che questo è
passato dai 1191 miliardi dell'anno 2000, fino ai 1567 miliardi del 2008. Per poi
flettere ai 1520 miliardi con la recessione del 2009, e riprendersi nel 2011, fino a
giungere ai 1580 miliardi e per poi flettere nuovamente nel 2012 e 2013, fino ad
attestarsi, secondo le stime DEF, ai 1557 miliardi del 2013. Da ciò se ne deduce
che il PIl, negli ultimi 14 anni (comprendendo anche in dato del 2013, indicato
nel DEF a 1557 miliardi) è cresciuto di appena 366 miliardi di euro nominali:
ossia solo del 30.74%, appena poco sopra il livello di inflazione cumulata nello
stesso periodo. Ossia, non è cresciuto in termini reali.
Secondo le previsioni riportate nel DEF , già dal 2014, il Pil salirà a 1602 miliardi,
per poi passare a 1660 nel 2014, 1718 nel 2016 e 1779 nel 2017.
Cioè ben 222 miliardi in più rispetto ai livelli di fine 2013 (quasi il 15% in più),
che rappresentano circa il 60% della crescita realizzata negli ultimi 13 anni.
Tutto questo è riscontrabile dal grafico (1) sopra esposto, dove dal 2014 in poi,
secondo le previsioni del DEF, si assiste ad un irripidimento della curva del PIL
nominale, che incorpora tassi di crescita medi nel quadriennio di oltre il 3%
annuo.
A questo banale ragionamento, si potrebbe obiettare che è sostanzialmente
insensato paragonare la crescita del PIL nominale in due periodi temporali
differenti, senza considerare gli effetti inflattivi acquisiti, che hanno comunque
contribuito ad una maggiore crescita dal PIL nominale. Vero: osservazione
ineccepibile. Ma che non cambia di molto le previsioni troppo ottimistiche fatte
dal governo, atteso che le previsioni sull’inflazione sembrano anch’esse fuori
dalla realtà, stante anche la persistente debolezza dei consumi che si protrarrà
anche nei prossimi anni, spingendo al ribasso anche le previsioni sull’inflazione.
Di conseguenza, con un inflazione che verosimilmente sarà destinata a rimanere
al disotto delle previsioni, la performance del PIL nominale appare ben al
disopra di ogni ragionevole previsione.
CONDIZIONI ECONOMICHE OPPOSTE
A conferma dello scenario sopra evidenziato e di quanto siano inverosimili le
previsioni di crescita del PIL elaborate dal Governo, giova ricordare che nel
periodo considerato, almeno fino al 2007, si sono verificate eccellenti
condizioni di crescita nelle aree economiche più importanti del mondo,
che, indubbiamente, hanno trainato la crescita italiana, con un export
particolarmente dinamico.
In questo periodo, al netto delle distorsioni prodotte, si è assistito anche ad un
abbondanza di credito che è stato riversato nell’economia, determinando una
fase virtuosa del ciclo economico.
La facilità di accesso al credito ha consentito agli operatori economici il
finanziamento delle proprie attività e dei propri bisogni: le imprese hanno
potuto investire in opifici, capannoni, immobili, attrezzature, macchinari e
ricerca. Mentre le famiglie ed i privati, nell’acquisto di case, automobili, o altri
beni durevoli. E’ evidente che dinamiche di questo tipo abbiano avuto un
enorme impulso sullo sviluppo economico del periodo considerato,
determinando fenomeni virtuosi anche nella disoccupazione, che ha conosciuto
livelli minimi proprio nel 2007, al 6.1%.
E’
fuori da ogni dubbio che queste condizioni abbiano contribuito
significativamente alla crescita del PIL che, tuttavia, ricordiamo, è stata ben al
disotto della media europea e delle necessità del paese.
Ad oggi sembra di vivere in un altro mondo.
Le desertificazione economica prodotta dalla crisi e dalle politiche di austerity è
sotto gli occhi di tutti, soprattutto nella monotonia delle tasche degli italiani.
La disoccupazione è doppia (oltre il 12%) rispetto ai tassi minimi del 2007,
mentre quella giovanile ha superato la soglia del 40%, con punte ben superiori al
50% in alcune zone del sud. Tuttavia, il tasso di disoccupazione indicato dalle
statistiche oltre il 12%, non racconta affatto l'esatta drammaticità della
piaga della disoccupazione, poiché non tiene conto di chi ha smesso di cercare
lavoro o di chi è sottoccupato.
Non tiene neanche conto delle centinaia di migliaia di persone che ancora
godono della cassa integrazione e che sono in forza ad aziende che non avranno
mai la possibilità di riemergere da questa situazione. Se di considerassero anche
queste variabili, il dato sarebbe proiettato ben oltre la soglia del 20%.
Inoltre, rispetto al periodo che potremmo chiamare “delle vacche grasse” (20002007, N.d.r.), il reddito procapite reale è precipitato ai livelli che non si vedevano
da oltre un quindicennio. La capacità dei spesa della famiglie, anche a causa
dell'inasprimento fiscale di questi ultimi anni, ha subito un drammatico tracollo.
Decine di migliaia di imprese hanno cessato la loro attività, hanno chiuso i
battenti o si sono delocalizzate in aree geografiche ove risulti più conveniente
fare impresa.
La pressione fiscale ha raggiunto livelli record, ben superiori a quelli conosciuti
fino al 2007.
Ancora: le banche sono alle prese con sofferenze record che si attestano ad oltre
quota 140 miliardi di euro. Queste, sono almeno quelle ufficiali. Poi ci sarebbero
anche quelle non ancora emerse, che le banche cercano di mantenere latenti più
a lungo possibile. Stando la fragilità del sistema bancario (solo per usare un
eufemismo), appare del tutto improbabile che le banche possano tornare ad
allargare i coroni della borsa e sostenere un ciclo economico, ancorché trainato
da altre economie mondiali che comunque,pur mostrando segnali di maggior
ottimismo,sono ben lontane dai fasti del periodo “delle vacche grasse”.
Nel contesto europeo, invece, giova segnalare che molte economie sono alle
prese con percorsi di rientro dai deficit che chiaramente impattano sul siclo
economico di quelle nazioni e, conseguentemente, anche nella componente
export del PIL italiano.
Queste sono solo alcune delle variabili economiche fortemente deteriorate che
non possono che aggravare le previsioni di crescita per il prossimo futuro,
rendendo gli sforzi previsionali del governo del tutto inattendibili.
E’ chiaro che queste variabili -che costituiscono solo una minima parte di quelle
che si potrebbero considerare ai fini della nostra analisi e che confermerebbero
comunque il nostro ragionamento-, stando la persistente fragilità, non potranno
contribuire alla crescita del PIL, come invece avvenuto in passato nel periodo di
crescita economica.
Eppure, questo ragionamento, che non ha ben poco di dottrina economica,
sembra sfuggire del tutto al governo che ipotizza previsioni di crescita fuori da
ogni logica di buon senso.
Di conseguenza non si comprendono le ragioni per cui il PIL, nei prossimi 4 anni,
debba cresce in maniera così esponenziale come, invece, prevede il governo.
Per dirla in maniera prosaica, potremmo chiederci: ALLA LUCE DELLA
DEVASTAZIONE ECONOMICA INTERVENUTA, PERCHE MAI L’ECONOMIA
ITALIANA, NEI PROSSIMI 4 ANNI, DOVREBBE CRESCERE IN MANIERA BEN PIU’
SOSTENUTA RISPETTO A QUANTO AVVENUTO NEI PRIMI 8 ANNI DEL SECOLO,
IN CONDIZIONI IMPARAGONABILI RISPETTO ALLE ATTUALI?
La risposta è semplice. Ossia non esiste nessun elemento che possa confermare i
livelli di ottimismo profusi dal governo, posto il fatto che, l’Italia, in questa
crisi, ha perso anche una buona parte della capacità di reazione ad
agganciare cicli economici favorevoli, ancorché indotti da altre economie
trainanti.
In altre parole, a parer di chi scrive, l’Italia si trova a vivere un’epoca di declino
economico e sociale di lungo periodo, dalla quale uscirne non sarà affatto facile,
se non impossibile, permanendo simili condizioni.
In una situazione come quella descritta, con un cambio non rappresentativo dei
caratteri di debolezza strutturale dell’economia italiana, invertire la tendenza,
verosimilmente, sarà del tutto improbabile.
Nella condizione attuale, l’ipotesi che appare più verosimile è quella secondo la
quale l’’Italia si troverà ad alternare periodi recessivi, con periodi di bassa
crescita ( stagnazione), in un percorso altamente allarmante e distruttivo che
determinerà:
 Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano;
 Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo
tempo;
 Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli
altri;
 Collasso del welfare attuale perché insostenibile.