A vvento 2016 - Terzo incontro

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Porta libertà,
Principe di pace!
Dona santità,
Seme di giustizia!
Nell’oscurità,
tu Luce del mondo!
Nella povertà,
tu Dono del Padre!
Abita con noi,
Signore Gesù!
2.
LA SANTITÀ DEL DISCEPOLO
(Matteo 5-7)
Affrontiamo ora lo stesso tema
biblico a livello più personale, riflettendo sulla santità del discepolo in
Matteo 5-7.
Mi sembra utile, a modo di
introduzione, ricordare come la
meditazione Il fare del cuore corrisponda alla prima parte del Principio e fondamento negli Esercizi
spirituali di Ignazio di Loyola, che
sottolinea il fine dell'uomo: «L'uomo è creato per lodare, riverire e
servire Dio nostro Signore e per
Avvento 2016 - Terzo incontro
Esercizi Spirituali: Meditazioni sul Vangelo secondo Matteo
Vieni in mezzo a noi,
Fonte della vita!
salvare, così, la propria anima» (Ignazio di
Loyola, Esercizi spirituali, n. 23). Di fatto il
Discorso della montagna delinea quel fine
dell'uomo che è la giustizia del Regno, intesa
appunto — nel linguaggio matteano — quale
perfetta giustizia. Potremmo anche definirla
come "umanità pienamente espressa",
cioè umanità completamente a posto nel
rapporto con Dio, con sé e con gli altri, l'essere dalla parte di Dio secondo il suo piano
di salvezza. E lo scopo, il fine proposto a ogni
creatura umana, è la santità: un'esistenza
autentica nel quadro realistico del peccato
e della redenzione. Non a caso il Discorso
della montagna parla di nemici, di adulterio,
di cuore impuro, di tutte le forme di divisioni
operanti nel mondo; in esse e mediante esse
l'uomo raggiunge la pienezza della sua verità
in relazione a Dio e ai fratelli. L'ideale del
Discorso della montagna, è un'umanità sviluppata nelle sue molteplici potenzialità che
comprendono, nel quadro della morte e della
risurrezione di Cristo, la vittoria sul peccato e
la partecipazione alla vita del Risorto. Un'umanità felice, beata, perché ha trovato la
perla preziosa; esistenza tipica di chi ha colmato il divario tra l'essere e il dover essere,
divario che è la radice di ogni sforzo morale;
qui si giunge a cogliere il dover essere come
realizzabile, sull'esempio di Gesù, con e in
lui. Così va capito il vivere dell'uomo secondo
il Discorso della montagna. E se è presentato
in questo modo, come l'esperienza felice di
chi ha risolto il problema esistenziale, del
proprio dover essere, è forse possibile non
volere la felicità, la contentezza, la gioia, la
pienezza?
Tutta la morale di san Tommaso prende
avvio da questo punto di partenza: gli uomini
vogliono essere felici, dunque l'essenziale
è trovare dov'è la vera felicità. Matteo 5-7
insegna dov'è sulla terra la vera felicità, che
è nello stesso tempo la gloria di Dio. Vorrei
appunto approfondire tale ideale, di avvicinarlo a noi attraverso tre domande:
- a chi ti rivolgi, Gesù, quando pronunci
il Discorso della montagna?
- che cosa ci proponi, in concreto?
A CHI SI RIVOLGE IL DISCORSO
DELLA MONTAGNA
Signore, a chi e per chi parli con questo
Discorso? a chi si rivolge sia nella struttura
originaria sia nella redazione di Matteo?
Sappiamo che gli esegeti hanno discusso a lungo su chi fosse il destinatario
del testo. Io pure ho oscillato tra diverse
soluzioni, perché non è facile rispondere e
perché la risposta può portare conseguenze
di cui si ha magari paura.
- Alcune teorie minimaliste hanno
dichiarato, per esempio, che il Discorso
esprime una morale, un'etica cosiddetta interinale, utile per il breve periodo che
precede la catastrofe finale, l'ultimo sforzo
che l'uomo deve compiere prima di un'esca-
2
tologia imminente. Se ne spiegherebbero
in tal modo le eccessive esigenze: di fronte
all'imminenza della fine del mondo, vale la
pena di vivere così.
- Altri autori ritengono — ho spesso
inclinato per questa opinione — che si tratta di un'etica per i discepoli più che per
la massa, di un'etica chiesta a chi sceglie
radicalmente Gesù: i preti, i diaconi, le persone consacrate. Matteo 5, 1 favorisce tale
interpretazione: «Vedendo le folle, Gesù salì
sulla montagna e, messosi a sedere, gli si
avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola li ammaestrava...». E ci sono
altri brani del Discorso della montagna applicabili specificamente ai discepoli: «Beati i
perseguitati per amore della giustizia... Beati
voi quando vi insulteranno» (Mt 5, 10-11). È
chiaro che si pensa anzitutto ai discepoli, a
coloro di cui si dirà, nel Discorso della missione: «Sarete condotti davanti ai governatori e
ai re per causa mia... » (cfr. Mt 10, 17-19).
E anche l'affermazione: «Beati i poveri in
spirito» (Mt 5, 3) rimanda alle indicazioni
di non portare «né oro né argento» (Mt 10,
9-10), date ai discepoli.
Ci sono dunque dei buoni motivi per
sostenere che il Discorso della montagna
ha di mira anzitutto i discepoli, i consacrati,
i presbiteri, i diaconi.
• Tuttavia non sono motivi sufficienti.
La finale, per esempio, richiama la folla:
«Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le
folle restarono stupite del suo insegnamento» (Mt 7, 28). Le folle sono ben individuate
ancor prima dell'inizio del Discorso: «Grandi
folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea,
dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano. Vedendo le folle
salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli
si avvicinarono i discepoli» (Mt 4, 25).
Ricaviamo l'impressione che ci fossero
le folle e i discepoli e che, se alcune parole
appaiono direttamente rivolte ai discepoli, le
folle le ascoltano, le sentono per loro; Gesù
si ferma su situazioni che riguardano tutti
(inimicizie, divorzio, impurità del cuore),
sulle esperienze di vita della gente.
L'interpretazione più logica, perciò, va
nella linea di un Discorso programmatico
pronunciato da Gesù per il suo popolo.
E interessante notare che, indicando
le folle, Matteo menziona cinque luoghi di
provenienza (dalla Galilea, dalla Decapoli,
da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre
il Giordano), mentre nel testo parallelo di
Luca sono ricordate anche Tiro e Sidone.
Matteo non le nomina di proposito perché
pagane: il Discorso è rivolto all'Israele di
Dio, al popolo che Gesù è venuto a radunare
(dirà alla donna Cananea: «Non sono stato
inviato che alle pecore perdute della casa
di Israele», Mt 15, 24), al popolo chiamato
per primo a essere il popolo di Dio. È a questo popolo che Gesù presenta lo statuto del
Regno; naturalmente anzitutto ai discepoli
che saranno (cfr. Mt 10) gli strumenti per la
diffusione di tale messaggio, gli operai delle
grandi masse per Israele; viene presentato
ai discepoli ma per la gente, per la folla, a
cui loro insegneranno ad osservare ciò che
Gesù ha comandato.
È un Discorso di santità per il popolo,
nella missione temporale di Cristo, e diventerà, in Matteo 28, 20, per tutti i popoli, fino
all'estremità della terra.
I discepoli, primi destinatari, dovranno vivere pienamente questo statuto per insegnarlo testimoniandolo. Così
noi, successori degli apostoli e dei discepoli,
chiamati a farlo vivere ai fedeli, alle comunità.
Da qui la necessità di coglierlo in tutta
la sua forza.
CHE COSA PROPONE CONCRETAMENTE IL DISCORSO DELLA MONTAGNA
Siamo forse al punto più delicato e
importante della riflessione. Se il Discorso
è per tutti, non può essere un messaggio di eroismo elitario, che si vive sotto
pressione, con uno sforzo straordinario. Al
contrario è un messaggio di grazia, che è
grazia e dà grazia.
Lo dimentichiamo spesso quando sottolineiamo le esigenze etiche del Discorso
della montagna.
• Ritorniamo al versetto introduttivo,
Matteo 4, 23: «Gesù andava attorno per tutta
3
la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe
e predicando la buona novella del Regno e
curando ogni sorta di malattie e di infermità
nel popolo». Queste parole costituiscono
un sommario dei capitoli seguenti, fino alla
fine del cap. 9 che le ripete identicamente:
«Gesù andava attorno per tutte le città e i
villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe,
predicando il vangelo del Regno e curando
ogni malattia e infermità» (v. 35). È chiaro che Matteo intende collegare 4, 23, che
precede il Discorso della montagna, con 9,
35 che conclude la sezione dei dieci miracoli.
Se è così, possiamo dire che 4, 23 contiene
la sintesi di quanto verrà detto dopo, precisamente ai capp. 8 e 9 che raccontano i
dieci miracoli (lebbroso, centurione, suocera di Pietro, tempesta sedata, indemoniati,
paralitici, emorroissa, figlia del capo della
sinagoga, i due ciechi, il muto), che mostrano
Gesù mentre «cura ogni sorta di malattia e
di infermità del popolo». Ma dov'è allora che
insegna «nelle loro sinagoghe e predica la
buona novella del Regno»?
Ovviamente nei capp. 5-7; il Discorso
della montagna è sintetizzato come insegnamento e predicazione del Regno.
Che cosa significa? Significa che la
buona novella è già l'insegnamento etico del Discorso della montagna. Il discorso
non è soltanto la condizione per entrare nel
Regno, le esigenze etiche del Regno; è già
annuncio del Regno, è già grazia e salvezza. E questo è fondamentale per la nostra
predicazione morale.
Tento di approfondire tale aspetto con
una riflessione sugli imperativi del testo;
imperativi impliciti nelle beatitudini (se vuoi
essere felice, sii povero in spirito, sii puro di
cuore...) ed espliciti nel resto del discorso:
lascia il tuo dono presso l'altare, cava il tuo
occhio quando ti dà scandalo ecc.
- Ci viene in aiuto il confronto con gli
imperativi in Paolo che - notano gli esegeti
- si collocano in una prospettiva diversa. E
infatti usuale, per l'apostolo, la derivazione
dell'imperativo dall'indicativo.
«Giustificati dunque per la fede» (è
l'indicativo) «noi siamo in pace con Dio... ci
vantiamo nelle tribolazioni» (i verbi espri-
mono l'esortazione, l'imperativo): le conseguenze etiche sono il frutto dell'annuncio
e l'annuncio è la giustificazione per la fede
(cfr. Rm 1ss.). E, in Romani 12, 1 dopo aver
annunciato nei primi undici capitoli la giustificazione gratuita per la fede nel sangue di
Cristo, dà l'insegnamento morale: «Vi esorto,
fratelli, a offrire i vostri corpi come sacrificio
vivente, santo e gradito a Dio». Gli imperativi
paolini conseguono al kerygma precedente.
Ancora, in Colossesi 3, 1: «Se dunque siete
risorti con Cristo» (indicativo) «cercate le
cose di lassù» (imperativo), «mortificate
quella parte di voi che appartiene alla terra».
La visione paolina pone l'aspetto
morale quale imperativo derivante dalla
grazia che ha invaso l'uomo, lo ha reso
figlio, lo ha colmato dello Spirito. Noi siamo
abituati a questo schema: annuncio della
salvezza, della misericordia, del Regno e,
quindi, il dovere morale.
In Matteo, invece, accade qualcosa di
diverso. L'imperativo, che appare fin dal
primo discorso di Gesù, è il contenuto stesso
del messaggio, è già annuncio di grazia,
di salvezza, è già Regno vissuto, quando è
accolto. E fondamentale capire questo stile
espressivo e noi lo vogliamo fare rispondendo
meglio alla domanda: come mai l'imperativo
matteano è grazia?
E grazia perché nella prospettiva della
potenza di Dio che viene e rovescia la potenza del peccato, l'uomo è caricato di energie
nuove; come il Regno, in Gesù, ha operato i
miracoli, così nell'uomo a cui è venuto il Regno, la potenza divina si rivela quale purità
di cuore, misericordia, capacità di fare pace,
mitezza, povertà di spirito.
Vi porto un caso tipico: «Se io scaccio
i demoni per virtù dello Spirito di Dio, allora
è giunto a voi il regno di Dio» (Mt 12, 28).
Possiamo dire: se un uomo vive una purezza
di cuore tale da non guardare un'altra donna,
se un uomo è pacifico e misericordioso al
punto di perdonare la propria moglie, allora
il Regno di Dio è in lui, lo Spirito di Dio opera in lui. Se un uomo, in virtù dello Spirito,
porge l'altra guancia a chi lo ha percosso, è
giunto per lui e per voi il Regno, la forza di
Dio si sta manifestando.
Ampliando il concetto, l'imperativo di
Matteo è grazia perché chi lo pratica mostra
di essere già membro del popolo dell'alleanza, di aver accolto l'appello di Gesù che vuole
radunare tutto il suo popolo sotto le sue ali;
qui ha inizio la Chiesa in quanto popolo della
benevolenza divina.
L'imperativo è grazia perché porta a
compimento la grazia dell'elezione del Primo Testamento, rivelando le intenzionalità
profonde, le implicazioni ultime della Legge.
Non si tratta di un'economia opposta, bensì
dello scoppio, per così dire, dell'economia di
Israele, giunta a compimento nei comportamenti che rivelano la presenza dello Spirito.
Tutto questo Matteo quasi lo suppone;
egli parte dal vissuto, dalla pratica, dal "fare",
però da un "fare" che ha tali dimensioni, da
un "fare" che annuncia, proclama, rende presente il Regno. Gesù stesso inizia
questa proclamazione indicandone i segni
nell'umanità rinnovata, nel modo di essere
persone felici e realizzate; non in un mondo
etereo o idilliaco, bensì in un mondo peccatore, un mondo dove ci sono impurità,
lascivie, odi, guerre, dove c'è da sopportare
inimicizie, dove ci sono ostentazioni, vanità,
invidie, rivalità. Proprio in questo mondo è
immessa la forza innovativa e redentrice del
Regno.
rale
4
Corollario per la predicazione mo-
Dalle precedenti riflessioni possiamo
trarre un breve corollario per la predicazione
morale.
Più volte noi ci appelliamo alla legge
evangelica per sostenere gli imperativi morali, magari nel campo familiare o della sessualità. Diciamo: la legge del vangelo è così
e dobbiamo osservarla pur se è dura, non
si può trasgredire, non si può andare contro
i comandamenti del Signore.
È un insegnamento in sé corretto,
ma non è né paolino né matteano.
Se fosse paolino dovrebbe partire dalla
gioia dello Spirito: da essa, infatti, sgorga
quella spontaneità dell'amore che trova
questo modo di vivere più degno di un uomo
redento, che partecipa con Cristo alla pie-
DOMANDE CONCLUSIVE
nezza dell'umanità nuova. Allora il discorso
sarebbe completo.
Se fosse davvero matteano, proclamerebbe le esigenze morali quali vittoria di
Cristo. Nel quadro del Discorso della montagna, il divieto del divorzio, per esempio, va
visto nell'ambito della grazia che rende puri
di cuore, misericordiosi, operatori di pace.
In realtà quello che noi diciamo rimane un insegnamento di limiti da non
valicare (dura lex sed lex) e perciò non
convince la gente. Occorre invece mostrare
che l'ideale umano proposto da Gesù - e a cui
la fragilità umana può ribellarsi - è più grande del suo contrario; non è semplicemente
una chiusura alla felicità umana, è piuttosto
un'indicazione che parte dalla ricchezza
delle beatitudini, dalla loro forza e dal cuore
trasformato che esse esprimono.
Dalla nostra consueta predicazione morale, chi ascolta non riceve nessuna forza,
anzi cerca le ragioni per sottrarsi, non avendo
colto quella vita nuova che sola permette
di rendere accettabile concretamente, cioè
recepibile il messaggio.
E dunque assai importante che il discorso morale sia davvero o paolino o matteano e
non un estratto ridotto, semplificato dell'uno
o dell'altro, che si limita alla pura esposizione
della legge concludendo: questo è il vangelo.
No, il vangelo è molto di più, è la forza di
Dio che, penetrando nella storia, cambia il
cuore dell'uomo e gli apre sentieri di felicità
e di libertà nella purezza di cuore, nella capacità di operare pace e di essere misericordioso, di vivere con scioltezza la sofferenza
e il pianto; la forza di Dio è l'unica in grado
di attraversare le oscurità dell'esistenza
vincendole. La proposta cristiana non è
astratta, non è elitaria; è per un popolo che
piange, che soffre, per gente affaticata, oppressa, che si trova gli orizzonti chiusi e ha
bisogno di spalancare le finestre del cuore.
Ecco la santità cristiana del Discorso della
montagna.
1. Una domanda pastorale: com'è la
mia predicazione morale? è puramente
moralistica, indicando correttamente i limiti
dell'agire umano, anche se con qualche consapevolezza che l'indicarli non convince di
natura sua, non è sufficiente, pur se scarica
la mia coscienza? oppure è una predicazione
paolina, che proclama cioè le ricchezze dello Spirito divino diffuso nei nostri cuori, per
fare poi comprendere come da tale pienezza di Spirito nascono i frutti (amore, gioia,
pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà,
mitezza di Galati 5, 22, è un altro modo di
esprimere il Discorso della montagna)? o è
forse una predicazione morale tendente a
essere matteana, che proclama le esigenze
morali quale vittoria di Cristo nell'uomo nuovo, quindi in maniera convincente e attraente
(che suscita nell'ascoltatore l'esclamazione:
come sarebbe bello vivere così!)? Sovente la
gente ritiene che l'insegnamento della Chiesa in certe materie è sorpassato, intristisce
l'esistenza. Per questo occorre mostrare attraverso il collegamento con le beatitudini,
con quei modi che permettono all'uomo una
vita autentica, aperta, gioiosa, piena anche
in un mondo oscuro e confuso, che la morale cristiana è attualissima e dona di vivere
serenamente e nella libertà del cuore.
2. La seconda domanda è più personale:
come guardo oggi, in questo giorno di Esercizi, la mia chiamata alla santità? vi guardo con
paura e nel sospetto che mi chieda troppo?
vi guardo con sconforto, quasi con rassegnazione, perché la ritengo lontana da me?
oppure vi guardo con desiderio, persuaso
che la chiamata alla santità è la grazia che
il Signore adesso mi fa, è il dono con cui lo
Spirito riempie il mio cuore, è la vittoria del
Regno oggi in me?
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CHE COS'E L'ETICA?
lamentosi, pronti a rimproverare, a deprecare, a denunciare il male presente nel
mondo, o comunque uomini e donne severi,
inflessibili.
Un po' è giusto che sia così. Tuttavia
ritengo che l'etica debba essere soprattutto
un luogo in cui la gente viene incoraggiata, animata, confortata. La grande parola
dell'etica è: tu puoi fare di più, ti è possibile
fare meglio, sei chiamato a qualcosa di più
bello nella vita, essere onesti è possibile ed
è un'avventura straordinaria dello spirito.
Proprio di tale spirito di ottimismo
abbiamo bisogno per non perderci in lamentazioni sterili e obbedire al precetto
fondamentale dell'etica: cerca di essere
più autenticamente te stesso, di essere
più vero più libero, più responsabile.
E dunque con atteggiamento ottimistico
che affronteremo il vocabolario dell'etica.
Affrontiamo una parola difficile e che
funziona da chiave per tutto: è il termine
ETICA, che ha almeno quattro significati.
1. Etimologicamente, cioè nella sua
origine, il termine «etica» allude a ciò che si
usa fare, a ciò che si fa di solito. Il vocabolo
greco «ethos» significa infatti il costume sociale, il modo di comportarsi recepito in una
determinata società.
2. Per i greci, però, si tratta di una società ben ordinata, di una società buona.
L'etica quindi indica i comportamenti che una
società, nella sua saggezza ed esperienza, ha
ritenuto positivi per la pace e l'ordine sociale,
per il progresso dei cittadini, per l'aumento
del benessere di tutti. Tali comportamenti
sono appunto «etici», eticamente onesti.
3. In terzo luogo, la parola viene usata
in senso assoluto: etico non è solo ciò che
si usa fare in una società buona, bensì
─ ciò che è buono in sé,
─ ciò che va fatto o evitato a ogni costo
e in ogni caso, a prescindere dai vantaggi
personali o sociali che se ne ricavano,
─ ciò che è assolutamente degno
dell'uomo o che si oppone a ciò che è indegno,
─ ciò che non è negoziabile, su cui non
si può né discutere né transigere.
4. Il quarto significato è quello dell'etica
come riflessione filosofica sui comportamenti umani e sul loro senso ultimo.
E grande vanto dell'umanità essere
giunta a intuire l'esistenza di comportamenti che sono al di sopra del piacere,
del guadagno, dell'interesse; comportamenti che non hanno prezzo perché sono al
di là di ogni apprezzamento terreno.
Qui va richiamata con forza la mentalità con cui bisogna trattare dell'etica: uno
spirito di ottimismo.
E mi spiego. Spesso, quando si parla
di determinati comportamenti si assume un
tono arcigno se si vuole sottolineare la serietà, oppure un tono lamentoso se si vuole
deprecare la loro inosservanza. I moralisti
sono sempre stati ritenuti uomini queruli,
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