Fellinerie. Incursioni semiotiche nell`immaginario di Federico Fellini

Paolo Fabbri
Fellinerie
ISBN 978-88-6927-305-6
Euro 20,00
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NUOVA EDIZIONE AMPLIATA
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Guaraldi
Paolo Fabbri, semiologo, studia teoria dei linguaggi e pratiche
della comunicazione. Dirige il Centro internazionale di Scienze
Semiotiche, CiSS, Urbino. Insegna alla LUISS di Roma. È stato
presidente del DAMS di Bologna e direttore dell’Istituto Italiano
di Cultura a Parigi. Dottore honoris causa dell’Università francese, Chevalier des Palmes Académiques, Officier des Arts et des
Lettres dalla Repubblica francese.
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Incursioni semiotiche
nell’immaginario
di Federico Fellini
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Paolo Fabbri
L’universo immaginario di Federico Fellini è difficile da
perimetrare e parametrare. Coi metodi della semiotica,
tentiamo alcune incursioni per chiarire qualche segreto,
senza togliere il mistero. Libri, sceneggiature, disegni,
fotogrammi del grande regista da spiegare meglio per capirne di più.
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Studi Felliniani
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© 2011 by Guaraldi s.r.l.
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Seconda edizione:
© 2016 by Guaraldi s.r.l.
Sede legale e redazione:
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Incursioni semiotiche
nell’immaginario di Federico Fellini
.UOVAEDIZIONE
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Indice
San Federico decollato (1998)........................7
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Fellini e la madre di tutte
le tentazioni (1998)........................................19
Prima Donna: la Saraghina
tra Picasso e Kafka (2001).............................27
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Il rinoceronte dà un ottimo latte (2006).........47
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Ritorno alla Mia Rimini (2010).....................63
Cimelio, semioforo, valsente (2011).............77
Il Casanova: Balena e Burattini (2016).........87
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Segnacci di Sogno (2011)............................108
Cine/Poesia –
Omaggio a Zanzotto (2011)........................120
Dante ed Orfeo. L’Aldilà di Fellini
e di Buzzati (2016).......................................124
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Mimmo Rotella, I vitelloni, 1997. Decollage su tela. (Galleria Fabjbasaglia, Rimini)
San Federico decollato (1998)
“Una mattina incontrai per la strada un giovane mercante d’arte che
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mi chiese un bozzetto da cui produrre una serie di litografie.
A Parigi avevo strappato una pagina di Paris Match, in cui c’era
una pubblicità di una piccola ruota munita di due manici con cui,
facendo delle flessioni con le ginocchia, si sarebbero rinforzati
i muscoli del ventre. In francese era scritto: La piccola ruota
vi perfeziona. C’era l’immagine di una donna nell’atto di fare
ginnastica. La piccola ruota era dunque una Rotella.
Per cui mi appropriai della pagina e la diedi come bozzetto...”
M. Rotella, Autorotella
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I primi décollages di Mimmo Rotella risalgono al ’53.
Scoperti da un personaggio straordinario, il poeta e filologo Emilio Villa, ed esposti dal ’54, sono entrati a
far parte, con diverse dizioni (Affichistes, Nouveaux
Réalismes, ecc.), dei linguaggi della modernità. Il termine “Décollage” è entrato nei vocabolari della lingua
italiana.
P. Restany e T. Trini, tra gli altri hanno prospettato
e descritto la pratica delle affiches lacerées di Rotella,
insieme a quelle di Raymond Hains, di Wolf Wostell,
di François Dufrêne e di Villeglé. A differenza di altre
procedure di deformazione continua (compressioni,
trazioni, flessioni, torsioni, ecc.), questi artisti operano per sfigurazione discontinua (tagli, strappi, sfregi) e
per mutamenti nello spessore della materia (scollature).
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Con alterne procedure – interventi murali pubblici, lacerazioni-happening, acquisizioni ai depositi di detriti,
maruflages, cioè incollature su tela – Rotella ha approfondito la formula di questi collages per sottrazione e
l’ha condotta ad un grado estremo di sottigliezza e di
immediatezza espressiva. I suoi strappi – lacerare, dice
il vocabolario “provoca aperture con orli ineguali e discontinui” – hanno la giustezza di pennellate di sottrazione, sono gesti di estrapolazione incidentale ma controllata, atti di detrazione e di desistenza (il contrario del
ritocco e del’interpolazione, ma anche del frammento e
del dettaglio). E come le antiche icone, conservano una
qualità di sinopie, di affreschi distaccati e riportati.
I décollages implicano non solo l’occhio, ma la mano;
sono tracce di impronte. Nel mondo circostante di segni
digitalizzati, ci ricordano da un lato la tattilità e la gestualità della “vera” pittura e dall’altro una caratteristica dell’astrattismo di tradizione italiana: la sua passione
dilaniante e dionisiaca (come scrive Perniola, più della
forma gli importa la forza.) Ma gli strappi sono anche
piccoli operatori di pensiero visivo: producono blanks,
cioè vuoti, sfondi che invitano al nuovo completamento
dell’immagine, e sfidano a nuove, attive inferenze.
Il supporto privilegiato dell’attività di lacerazione è
l’affiche, il manifesto affisso. Certamente le de-fissioni
di Rotella non sono una novità, ma neppure una formula scolastica. Come diceva S. Beckett della pittura di G.
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van de Velde, solo di ciò che sappiamo ripetere riusciamo a comprendere le sabbie mobili.
Mi piace, ad esempio, pensare tutte le sue lacerazioni che siano varianti espressive d’un mito personale di
Rotella, quel quadro irrealizzabile per cui avrebbe fatto
posare “mille o duemila donne. Tutte nude”. Una Leda
col Cigno “un famoso dipinto mitologico che ho in animo di fare da moltissimo tempo. Ho fatto [...] molti disegni, molti studi che distruggo sempre. E un soggetto
che mi ha ossessionato tutta la vita e che mi ossessiona
tutt’ora”. Con il progetto di film, Il sogno di un poeta, in
cui il Cristo flagella una innamorata Maria Maddalena
(Maddalena è un anagramma di Leda?), il capolavoro
sconosciuto di Rotella è la fonte dell’energia erotica
propriamente lacerante che sta dietro la sua attività?
Un (progetto) di film di Rotella
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“In quel tempo mi era venuto in mente di fare un film
underground dal titolo il Sogno del poeta, la storia di un poeta
che nel suo letto sogna di essere Gesù Cristo e incontra una
bellissima donna dal nome di Maria Madddalena, che si innamora
subito del Cristo. Questi le fa capire che non può assolutamente
fare l’amore con lei, data la natura della sua personalità, ma
poiché lei aveva peccato, lui avrebbe dovuto punirla:
perciò scena allucinante della flagellazione. Il tutto
si sarebbe dovuto girare a Saint Tropez, Parigi e Londra.”
M. Rotella, Autorotella
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Un décollage di Fellini
“Ma del cinema ho in mente sopratutto i manifesti;
quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi
di una Gillette, l’immagine di una attrice che mi pareva bellissima,
Ellen Meis. Stava in un film di Maurizio d’Ancora, Venere,
mi pare, lui metteva la testa sulle rotaie, seguiva un capoccione
di Emma Grammatica, che diceva no e lui spostava la testa.
Così per telepatia.”
F. Fellini, Fare un film
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Rotella predilige la de-fissione del cartellone cinematografico. Sono notissimi l’esposizione di décollage Cinecittà del 1962 a Parigi, alla Galleria J; l’Omaggio a
Marylin Monroe del 1963 e la sua partecipazione alla
mostra omonima alla galleria Sidney Janis a New York,
nel 1967.
L’interesse per il manifesto era molto attuale in quel
periodo in cui la nascente pubblicità ricalcava il formato
dello schermo cinematografico abitato dai volti immensi
delle dive hollywoodiane. Si pensi al Lux di 9 stelle su
dieci con il volto affascinante di Ava Gardner. Si ricordi
il dialogo di Fellini in Boccaccio ’70: davanti alla grande struttura del cartellone pubblicitario che raffigurerà
Anita Ekberg e il suo diabolico bicchiere d latte: “È cinema? No, è pubblicità”.
Rotella viveva quel mondo del cinema, anche se le sue
frequentazioni erano nel mondo dell’arte. Nell’autobio-
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grafia accenna appena a G. Pontecorvo e a L. Visconti, o
a L. Fulci, per un film con Sordi su cui l’artista rivendica
un’influenza nei modi e nella moda. Cita pochi film: Il
pianeta delle scimmie, visto sull’aereo che lo porta da
New York a Parigi nel maggio del ’68 o Le quattro stelle
di A. Wahrol (per una certa attrice!)
Ma il “cartellone” cinematografico, quest’immagine
condensatrice d’immagini è il suo naturale riferimento.
Le lacerazioni di Rotella, poeta fonetico, sono come un
doppiaggio, le “colonne” visive di queste icone della
modernità, capaci, per M. McLuhan “con le loro immagini compresse, di riassumere produttore e consumatore, venditore e società”. Lo studioso canadese aggiunge
“quando arrivò il cinema, l’intero schema della vita [...]
si trasferì sugli schermi come un’inserzione pubblicitaria ininterrotta [...] mentre [...] tutte le inserzioni sui
giornali finirono per assomigliare a scene di film”.
Questo però non basta a spiegare Felliniana, il presente incontro con il cinema felliniano, mediato dalla
comune passione per l’affiche (ma già una defissione
sulla Dolce vita era approdata al Vocabolario della Lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani). Il
manifesto è solo il luogo di scambio, co-testo e non pretesto, di un’affinità più intrinseca. Lo aveva visto limpidamente uno scittore, J. M. G. Le Clézio, citato dal filosofo del cinema G. Deleuze: “il travelling di Fellini è un
mezzo di décollage, prova dell’irrealtà del movimento”.
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E ancora: “Il suo cinema non è mezzo di riconoscimento ma di conoscenza, scienza delle impressioni visive,
che ci obbliga a dimenticare la nostra logica e le abitudini retiniche” (L’image-temps). Di questa conoscenza
per strappi e lacerazioni abbiamo molte testimonianze
in Fellini, dai ricordi d’infanzia che abbiamo già citato
agli appunti di regia di Fare un Film: “Finire con parti
via via più monche, lacerate, frammenti...” e, più oltre,
“per una magmatica liberazione di immagini”.
Basta pensare agli scollamenti di Satyricon (in cui
potrebbe trovar posto la Leda col Cigno di Rotella); al
dissolversi degli antichi affreschi in Roma e ai manifesti
pubblicitari tagliati dai fasci di luce delle motociclette e
dell’auto in Roma e in Ginger e Fred; alla fine di Amarcord, quando la memoria si sfolla e si sfalda...
Non si tratta però di comuni gusti artistici, anche se
Fellini diceva di preferire i papiers coupés di Matisse ai
surrealismi Magrittiani (e detestava gli inviti alle inaugurazioni delle mostre di pittura!).
C’è invece un metodo comune di rompere (i) con le
immagini cliché e con (ii) il trattamento della memoria,
che avvicina le immagini mutue di Rotella e di Fellini.
(i) Lacerare il cliché
La strada G. Deleuze ha mostrato, a proposito della pittura di Bacon, la profonda implicazione di questo modo
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di formare. Davanti alla tela o allo schermo vuoto, il
luogo comune – reale o virtuale, immagine realizzata o
cosa mentale – è sempre già presente. Si può metterlo a distanza con l’astrazione (è lo sguardo profondo e
staccato di Antonioni) o usare la visione Felliniana, ravvicinata, senza profondità di campo, che invita alla partecipazione. L’affiche è una buona metafora del modo
“alveolare” della costruzione fellinina: gabbie, nicchie,
palchi, finestre compresenti sulla stessa immagine o sequenza fino a formare una Esposizione Universale, un
teatro del Varietà o delle meraviglie.
Ma bisogna poi sempre decollare, scollarsi dal vedere
comune, renderlo singolare, con un gesto di deformazione. Uno strappo è come un grido: un segno senza
referenza. Il décollage-travelling è una flagellazione carica d’erotismo che cambia i connotati dell’immagine,
ma non li perde definitivamente – come accade nell’Informale, nell’Action Painting o in certo cinema underground – e che lascia emergere o intravedere un’altra Figura Possibile. La defezione è la promessa di una nuova
definizione.
È il caso del grande pannello Felliniana col suo centro illeggibile e la sua Esposizione o Varietà di alveoli
– germi e cristalli, direbbe Deleuze. Un vero polittico,
che strappa, con una procedura comune a Rotella e a
Fellini, i luoghi comuni, i dejà vu che ormai si rapprendono intorno al regista riminese (si veda per contro il
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retorico sipario predisposto dal Festival di Cannes.)
E poiché non si possono distruggere i luoghi comuni,
per i rischio di produrre i loro contrari, scorticarli sembra la sola via... Il pompier e il non pompier, diceva Beckett, vanno messi al servizio l’uno dell’altro.
(ii) Defalcare il tempo
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L’effetto immediato della mostra Felliniana, dopo la
scomparsa del grande regista e nella distanza dalle sue
opere è quello di un’emozione nostalgica: il piacere
d’essere tristi. “Non recidere, forbice quel volto, solo
nella memoria che si sfolla” (Montale).
Ma non è così, né per Rotella né per Fellini. Le loro
non sono immagini-memoria. C’è in entrambi una vitalità simultanea, un sovrapporsi delle immagini – segni di
segni – che non è in profondità. È una successione orizzontale, una fila di presenti (una internità, dice Deleuze
per opporla all’eternità). Il supporto, liberato dalle lacerazioni di Rotella non sta sotto e non viene prima.
Così come le immagini di Fellini, pur riferite al passato, sono serie di attimi di cui nessuno è padrone: danno
tempo al tempo. Mentre gran parte del cinema è dominato dal galoppo temporale, i film di Fellini hanno un
ritmo di ritornello (non è decadenza, ma procadenza,
dice ancora Deleuze). Come gli strappi di Rotella e la
musica di Rota.
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Dedica
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La mostra della Galleria Fabjbasaglia è dedicata a Federico Fellini.
Anche la dedica è un presente, cioè un dono in cui
dare e ricevere sono reciproci e reversibili. Non ci si priva di quel che si dona, se dare e ricevere sono, da punti
di vista diversi, la stessa cosa. Non si può dare se non
quel che già appartiene all’altro, non si può dare se non
quello che è stato già dato.
Ma la dedica riguarda anche noi, sujet trouvés, inclusi
e attualizzati con la nostra memoria, nel polittico Felliniana.
Siamo giunti, con un’accelerazione vertiginosa, alla
fine della società dello spettacolo, quella della grande
immagine cinematografica e pubblicitaria. La periferia
metropolitana e la televisione hanno inghiottito Cinecittà. Resta, si dice, un trash pervasivo, rifiuti e rottami
testuali con cui sarebbe scritta la parola “fine” sui grandi schermi e i loro vasti simulacri. È del tutto vero? Ed
è definitivo?
La civiltà dell’immagine è quella del dejà vu. Dall’attualità del cinema Felliniano, dal presente della mostra
di Rotella, un invito a pensare e a guardare altrimenti. Con quali metafore, con che modi, di formazione e
di deformazione schiveremo il luogo comune e i buoni
sentimenti del vedere?
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Bibliografia
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Abruzzese, A. e Colombo, F. (a cura di), Dizionario della pubblicità,
Zanichelli, Bologna, 1994.
Beckett, S., Le monde et le pantalon, Minuit, Paris, 1989.
Deleuze, G., F. Bacon: logique de la sensation, La difference, Paris,
1981.
Deleuze, G., Image-temps, Minuit, Paris, 1985.
Fellini, F., Fare un Film, Einaudi, 1980.
Fellini, F., Intervista sul cinema, Laterza, Bari, 1983.
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Vocabolario della Lingua italiana,
Roma, 1989.
Perniola, M., Enigmi, Costa e Nolan, Genova, 1990.
Rotella, M., Autorotella. Autobiografia di un artista, Milano, SugarCo,
1972.
Questo saggio è tratto da:
M. Rotella, A Federico Fellini,
Prefazione al Catalogo della
Galleria Fabjbasaglia, Rimini, 1998,
per gentile concessione.
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Mimmo Rotella, La città delle donne, 1997. Decollage su tela. (Galleria Fabjbasaglia, Rimini)
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Due dei bozzetti realizzati
da Stefano Cecchini per
Ginger e Fred, 1985.
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Fellini e la madre di tutte le tentazioni (1998)
Fred: “Bisogna saper cogliere i segni.”
(Da Ginger e Fred)
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Nel programmare un incontro ed una mostra sulla relazione complessa tra Federico Fellini e le icone della
pubblicità eravamo spinti da una coincidenza propizia
al tema del Mystfest 1996: Mystici e Miraggi.
Le Tentazioni del dott. Antonio, il famoso episodio
di Boccaccio ’70, quello dell’incubo da manifesto pubblicitario, è la trasposizione infatti delle tentazioni di
S. Antonio, padre mistico degli anacoreti, nel deserto
egiziano, esposto agli assalti del Maligno. Nello scenario
allucinato e vuoto dell’Eur, il personaggio del cartellone
(Anita Ekberg) dichiarava: “Io sono il Diavolo”. Con
qualche simbolismo psicanalitico di troppo, la storia
conserva tutto il suo diabolismo1.
Se spostiamo ora il nostro cursore visivo all’immagine
estrema dell’ultimo lungometraggio felliniano, La Voce
della luna, troviamo che anche nel volto della Luna, la
bionda eroina strilla: “Pubblicitàààààààààààà”. Il protagonista maschile, un po’ Leopardi e un po’ Pinocchio,
risponde chiedendo silenzio.
In effetti, tra i due testi, lontani nel tempo, l’atteggiamento di Fellini vero la pubblicità era radicalmente
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mutato, passando da una equivalenza ironica (“È cinema?”, “No è pubblicità!”) al rifiuto in chiave grottesca
delle reclame televisive in generale e berlusconiane in
particolare (Ginger e Fred).
Per capire cos’è accaduto una possibile via è quella
appunto di riannodare il legame tra Fellini e il Mistero.
Per Fellini – Jung a parte – si deve “attraversare la vita
abbandonandosi alla seduzione del mistero”. Il talento
è “il dono misterioso che è un grande tesoro, ma rimane sempre la paura che com’è misteriosamente venuto,
altrettanto misteriosamente ti possa essere portato via”
e la creatività è avventura nel buio in una notte in fondo
al mare2.
Il cinema, tutto il cinema sarebbe misterioso per antonomasia. Per Fellini “porta sull’impossibile, sull’incredibile”, dev’essere carico di infernale, sulfurea seduzione, tentare con ambigui messaggi, angelici e diabolici:
come il flaubertiano dott. Antonio, come Toby Dammit3. Per questo il manifesto della pubblicità degli anni
’60, abitato dai volti immensi delle dive hollywoodiane
(pensate al Lux di 9 stelle su dieci con il volto affascinate
di Ava Gardner!) entra a pieno titolo nel grande Luna
Park dell’immaginario Felliniano4. Insieme ai clown,
misteriosi “giullari di dio”, alle mummie in bicicletta
e ad altri personaggi favolosi della cultura di massa di
quegli anni. Ne apprezzava la vitalità simultanea, il rapido sovrapporsi delle immagini – segni di segni – senza
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profondità; la successione orizzontale, come fila di presenti, l’internità, come la chiama Deleuze, per opporla
all’eternità.
Di quella pubblicità Fellini amava sopratutto i vasti
cartelloni con la loro retorica dilatata e grottesca che gli
permettevano di lavorare per deformazione, ispirandosi deliberatamente a Picasso5. Per lasciare all’immagine
pubblicitaria il posto che ha nei nostri spazi collettivi
fisici e mentali, evitandone il piatto riconoscimento,
Fellini ricostruiva nel suoi film tutte le immagini della
pubblicità, stornandole però ai propri fini espressivi. E
ritagliava le immagine per sostituirle con le proprie. In
Fare un film ricorda: “Ma del cinema ho in mente sopratutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un
amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l’immagine
d’una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis. Stava
in un film di Maurizio d’Ancora, Venere”. Poi ha collocato Anita Ekberg al centro della propria affiche6. E lei
per Fellini “non è bella, ma è mitica” (Intervista). Si serviva, l’uno contro l’altro, del pompier e del non pompier,
i quali convivono nella stessa figura.
In seguito, sono cambiati i tempi e l’uomo che è passato dalla provincia alla città Eterna, cioè a Cinecittà,
non li avrebbe del tutto compresi. È sopraggiunta la
televisione che per Fellini è “rito funebre travestito da
music hall”. Ed è finita – contro la vulgata situazionista
– la società dello spettacolo, quella della grande imma-
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