34 .Spettacoli . Intervista SIMONETTA ROBIONY ROMA T oni e Peppe Servillo, i due fratelli più famosi del nostro spettacolo, sono a Torino al Carignano da martedì a domenica con Le voci di dentro di Eduardo e poi di nuovo dal 27 maggio per la stagione del Teatro Stabile (in collaborazione con Cariparma Crédit Agricole); in mezzo il Barbican Centre di Londra, dal 26 al 29 marzo, per quattro date già esaurite, un evento molto atteso che consacra questo spettacolo già ricco di riconoscimenti e applausi. Dice Toni: «Con il teatro ho girato l’Europa, da Madrid a San Pietroburgo, ma a Londra non ero mai andato. Il Barbican è una istituzione, è un onore essere invitati, favorito, credo, dal successo dei film di Sorrentino». È la prima volta che i due fratelli Servillo, Toni, il maggiore attore italiano, e Peppe, compositore e voce degli Avion Travel, lavorano insieme a teatro su un testo classico come questo. La decisione, raccontano i due, è nata dal testo: i due Saporito, Alberto e Carlo, sono fratelli, quale migliore opportunità che a recitarlo fossero proprio loro, Toni e Peppe, per offrire al pubblico una seduzione in più nel gioco del teatro? «Toni è un appassionato di musica - dice Peppe ha perfino messo in scena alcune opere e io amo il teatro. Un paio di anni fa avevamo fatto Sconcerto in cui lui recitava la parte di un direttore d’orchestra e io eseguivo la musica. Questa, però, è tutta un’altra cosa». Non l’è dispiaciuto lasciare la musi­ ca per tanto tempo? «Non l’ho lasciata. Qualche concerto l’ho fatto anche in questi giorni: a Le voci di dentro versando, penso. Eduardo la scrisse in dieci giorni, alla fine della guerra, creando il ritratto di due moderni Caino e Abele: due fratelli senza più fede né speranza, l’immagine di una fraternità ferita. Eduardo era un grande moralista, additava al suo pubblico i pericoli e i danni che si possono procurare vivendo senza ascoltare la voce della nostra coscienza civile». I fratelli Servillo nello spettacolo scritto da Eduardo De Filippo (sopra col fratello Peppino) in scena a Torino da martedì Servillo, che effetto le fa essere consi­ derato il più bravo dei nostri attori? Toni e Peppe Servillo “Fratelli di sangue e d’arte” «Certo non ci penso la mattina quando mi sveglio. So di essere stato fortunato perché ho incontrato grandi registi che mi hanno permesso di ottenere riconoscimenti internazionali. L’Oscar è uno di questi, mi pareva un sogno irrealizzabile. Lo ammetto. Il successo mi fa piacere, ma praticare la poetica quotidiana del teatro serve a darmi equilibrio, a fissare i limiti. Ho accompagnato Sorrentino a Los Angeles senza interrompere le mie repliche: finito lo spettacolo sono partito per Los Angeles e sono tornato per ricominciare». “Ci unisce la cultura del teatro come grande famiglia itinerante” L’Aquila, a Pagani. Comunque, questa estate torno con gli Avion Travel con la formazione originaria». necessario a rendere unica ogni rappresentazione». Per Le voci di dentro lei ha vinto il pre­ mio Ubu. L’avrebbe mai detto? Difficile essere diretti da un fratello? «Mah. Più che un regista Toni è un capocomico, si mette a servizio del testo e noi con lui. Abbiamo fatto sessanta intensissimi giorni di prove e poi siamo partiti. Toni e io siamo cresciuti a Caserta frequentando lo stesso gruppo di artisti. Lui si esprime con la parola, ma una parola che è anche suono, io con le canzoni che sono anche parole. Non fatichiamo ad intenderci, pur se in scena siamo sempre in allarme per quel piccolo scarto di differenza dalla sera precedente che noi pratichiamo e che è «Non pensavo di poter debuttare in teatro alla mia età e vincere perfino un premio, anche se frequento il mondo dello spettacolo da oltre trent’anni e vengo da una famiglia di spettatori onnivori amanti dell’opera, del cinema, del teatro. Ma di quattro figli che siamo, solo Toni ed io abbiamo messo in pratica questa passione: il maggiore è medico, nostra sorella insegna». si è consolidato con le nostre reciproche scelte. Quando ho deciso che, dopo Goldoni, sarei tornato a Eduardo ho subito pensato a Peppe. Ci somigliamo, ci capiamo, condividiamo la stessa antica cultura napoletana della commedia dell’arte, quando gli attori giravano liberamente per l’Europa senza badare alle frontiere. È a loro che mi rifaccio. A quei magnifici secoli passati, a quell’Europa unita da un comune sentire che mi permette di sentirsi a casa sul palcoscenico di ogni città». «Recitare per mesi lo stesso testo è un magnifico percorso di conoscenza. Mi permette un mestiere senza ansia, mi consente di approfondire un personaggio e farlo mio. Capisco una commedia solo quando la interpreto. E la interpreto per tanto tempo. Eduardo è il nostro Molière, ultimo autore di un teatro nobilmente popolare. Adesso che sono arrivato a duecento repliche mi sembra di averlo compreso. Lo riprendo anche la prossima stagione a Milano, Roma, Napoli. Intanto avrò avuto modo di riflettere su cosa fare dopo». Come mai, tra le tante commedie di Eduardo, ha voluto proprio Le voci di dentro che è una delle più amare? Lavorareinsiemevièvenutonaturale? «C’è un codice familiare che ci lega spiega Toni -. Un legame fraterno che Lei fa sempre tournée di anni, andan­ do dalle piccole città alle grandi capi­ tali: cosa la spinge a questa fatica? «Per i tempi amari che stiamo attra- *** *** **** ***** TEATRO e DANZA PESSIMO MODESTO DISCRETO BUONO OTTIMO «Cinecittà» «Petra Von Kant» Christian De Sica il dono della simpatia Perfetto incastro di “lacrime amare” MASOLINO D’AMICO OSVALDO GUERRIERI N U on c’è poi molto di Cinecittà nell’omonimo quasi-one-man-show di Christian De Sica, scritto dal medesimo con Riccardo Cassini, Marco Mattolini e Giampiero Solari anche regista: gli autori sono relativamente giovani, fioriti comunque dopo il periodo mitico, che quindi è trattato con molti luoghi comuni - le comparse in costume che girano per i viali - e non senza approssimazioni (le bighe di Ben Hur erano quadrighe!). Inoltre l’aneddoto che corona in gloria lo spettacolo non si svolse, il punto è proprio questo, dentro quei teatri, bensì in un set anomalo, la Basilica di San Paolo Fuori Le Mura. Fu quando, con Roma occupata dai tedeschi, De Sica «père» finse di dirigere un pio film finanziato dal Vaticano allo scopo di evitare, a un crescente numero di finte comparse (ebrei, perseguitati politici ecc), il trasferimento forzato a Salò. Christian racconta l’episodio con partecipazione affettuosa e ammirata che il pubblico non ha difficoltà a condividere. Del resto è il suo dono principale del performer, una simpatia e una grazia innate che gli consentono di mantenersi, sempre, giocoso, quindi leggero. Nella sua comicità c’è un fondo un po’ ingenuo e surreale che è poi quanto rende accettabile quella, altrimenti assai grossolana, dei fatidici cinepanettoni, di cui egli rappresenta la bandiera, e che la serata giustamente non ignora, dedicando loro uno sketch. Per il resto, a parte qualche rievocazione tra cui Sordi, e qualche episodio personale, Christian canta alla Sinatra, e balla coadiuvato da una eccellente orchestra sul palco e da un valido balletto. Due ore piacevoli e gradimento alle stelle. AL BRANCACCIO DI ROMA FINO AL 13 APRILE **** Una scena di Souls, presto al Ravenna Festival Il balletto di Dubois “Souls”,viacrucisafricana SERGIO TROMBETTA L uci accese; un ampio quadrato di sabbia; la sala bombardata dal ritmo ossessivo di tamburi (la musica è di François Caffenne). A destra tre uomini a terra. A sinistra altri tre quasi coperti di sabbia. Come se fossero sopravvissuti a un’esplosione che ha seminato cadaveri ovunque. Parte così Souls (anime) l’ultimo spettacolo di Olivier Dubois in arrivo il 27 giugno al Ravenna Festival. Dubois, oggi il performer e coreografo su cui maggiormente si accentra l’attenzione in Francia, da poco alla direzione del Centro Coreografico Nationale di Roubaix, con Souls, che ha visto la prima al Cairo, ci parla di anime in pena in viaggio verso la morte. I sei interpreti (tutti africani) ci fanno partecipi della loro odissea. Una via crucis africana. Una traversata non così diversa da quelle dei migranti che affrontano il mare su barconi di disperati, o dalle popolazioni in fuga da eccidi e stermini etnici. Ma tutto in modo asciutto senza cadere nell’aneddotica. I tre coperti di sabbia poco per volta si liberano dal loro involucro per raggiungere i loro compagni. Gli altri li prendono sulle spalle, li accolgono sulle braccia come delle pietà. Avanzano con lo sguardo fisso verso il pubblico, gli occhi sgranati, per poi dare via a una caccia tragica, un gioco crudele dei quattro cantoni da cui qualcuno resterà escluso. L’eletto, l’agnello sacrificale, il più mingherlino, resta a terra. Gli altri intanto in proscenio spostano la sabbia a costruire una barriera. Non lo sappiamo ancora ma sarà la loro tomba. Perché la vittima sacrificale si alza, li abbraccia, ne sistema amorevolmente i cadaveri appoggiando i capi su montagnole di sabbia. Quindi per ognuno improvvisa una danza rituale. E su questo viatico per l’oltretomba le luci si abbassano. IL 27 GIUGNO A RAVENNA FESTIVAL *** n melodramma di donne sulle donne. Non sono altro Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer W. Fassbinder: un’opera semplice, dura e dal destino curioso. Sbeffeggiata al suo apparire, fu poi considerata un reperto etologico, uno studio minuzioso dell’eros femminile di cui tutti si invaghirono. Fra le molte edizioni nelle quali ci siamo imbattuti, questa del Residenztheater di Monaco di Baviera diretta da Matin Kušej è forse la più potente e la più agghiacciante. Lo spettatore guarda da fuori un prisma di vetro, un acquario di un bianco accecante irto di bottiglie geometricamente ordinatissime. E assiste, dal suo buio, al più sconvolgente inferno amoroso che sia possibile immaginare. Petra è una stilista di successo. Autoritaria e malata di solitudine s’innamora di Karin e ne diventa la schiava. Dopo essere stata sfruttata e abbandonata, cade nella più cupa disperazione e nell’odio più profondo verso la madre, la figlia, la serva-segretaria che per lei, per una briciola del suo amore, è disposta a morire. Con Kušej e le sue sei splendide attrici non conta ciò che viene raccontato, ma il modo. Quel tappeto di bottiglie è fondamentale. È ordinato come la vita quando la vita è ordinata. Ma, investito dall’eros, l’ordine salta, subentrano caos e distruzione. Non c’è modo più evidente e violento per rendere palpabile la tesi di Fassbinder, secondo cui in amore occorrono comprensione e sottomissione. Petra e Karin (Bibiana Beglau e Andrea Wenzl: meravigliose) si mentono e non si sottomettono, perciò non possono che dilaniarsi e perdersi. Il resto è melò. ALLE FONDERIE LIMONE DI MONCALIERI *****