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RIVISTA DI STUDI ITALIANI
TEATRO
ORAZIO COSTA GIOVANGIGLI E LA DRAMMATURGIA
CONTEMPORANEA: LA POTENZIALITÀ TEATRALE DELLA PAGINA
SCRITTA DI MARIO LUZI
LUCILLA BONAVITA
Università degli Studi di Roma “Tor Vergataˮ
O
razio Costa Giovangigli si inserisce nel panorama storico-letterario
del Novecento con la fisionomia tutta particolare del fondatore, oltre
che del metodo mimico, del Piccolo Teatro di Roma che lo vide
protagonista negli anni 1948-1954, fino al momento in cui il teatro venne
“ucciso”, attaccato da ogni lato, dalla politica e dalla critica. Padre della regia
italiana, protagonista della scena italiana da quando, nel 1938, si diploma
presso l’Accademia d’Arte Drammatica con Silvio d’Amico, plasma una
accezione nuova del regista, intravedendo in essa colui che crea nella
rappresentazione una coscienza spirituale che ne fa un qualcosa di vivo ed
attuale, colui che garantisce una unità morale in un mondo fenomenicamente
diviso e che ristabilisce un ordine assoluto1. Il significato profondo della regia
non può essere che il suggello di una responsabilità, di una affermazione di
dignità comune per l’autore, gli attori e il pubblico: si deve rischiare
compromettendosi, senza alibi di sperimentazioni gratuite, fedeli alle esigenze
di una coscienza sempre pronta a pagare. L’idea che Costa ha del teatro,
risponde ad una condizione indispensabile che trova il suo centro ideale nella
ricerca: secondo quanto dichiara il regista corso, “attraverso lo studio, che non
ho mai cessato di continuare, del mio metodo di insegnamento, sono arrivato
ad un’idea del teatro che mi obbliga di per sé a fare delle ricercheˮ2. Infatti, la
regia italiana anche quando si è permessa di avere tempo, non ne ha mai
trovato abbastanza per il lavoro teorico; si è sempre dedicata al pratico fare,
così non si è formato un metodo, ma una tecnica nemmeno troppo abile a
causa di una precipitosa realizzazione di una prima idea bizzarra venuta in
mente ad un visionario di spettacoli3.
La consapevolezza, per esperienza ed argomentazioni, che il teatro
1
O. Costa, “La regia teatraleˮ, Rivista Italianadel Dramma, III (1939), 4,
pp. 12-27, ora in G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di
Orazio Costa, Roma: Bulzoni, 1989, pp. 66-79.
2
O. Costa, “L’indice sul futuro. Conversazione tra Orazio Costa Giovangigli
e Sergio Colombaˮ, in Teatro in Europa, n. 6, 1989, p. 19.
3
O.Costa Giovangigli, “Crisi della regia”, in G. Antonucci, La regia teatrale
in Italia, Roma: Abete, 1978, p. 25.
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SCRITTA DI MARIO LUZI
rappresenti la matrice unica di tutte le arti, dalla danza alla Parola passando
per la musica, per la pittura, per l’architettura, induce Costa ad affermare la
sua fede nella Poesia con l’esecuzione della maggiore opera di poesia e teatro
assoluto esistente, nell’unico luogo capace degnamente di accoglierla: la
Divina Commedia nel cratere e sugli spalti del Colosseo. Un’altra grande
impresa attende il regista che si accosterà presto alla poesia di Mario Luzi.
In un dattiloscritto recante il titolo manoscritto di Sintesi memoriale di
un’amicizia conservato sulla scrivania dello studio di Orazio Costa a Firenze,
confuso tra gli appunti e le copie di alcuni testi teatrali inviati al Maestro da
alcuni suoi allievi, Mario Luzi ricostruisce con meraviglia il corso della sua
amicizia con Orazio Costa Giovangigli, constatando che, per quanto
sembrasse sempre esistita, aveva nella cronologia oggettiva una data
abbastanza recente. In questa materia il paradosso è familiare: la durata
interiore soggettiva conta più di quella stabilita dalle convenzionali misure del
tempo. I due letterati si conobbero quando Costa decise di affrontare con i
suoi allievi la Vita nuova di Dante. Luzi era stato fino a quel momento
contrario per principio alle conversioni teatrali di opere nate in altra forma e
struttura. Quella recita a cui Orazio Costa gli chiese di assistere lo indusse a
cambiare parere: la potenza drammatica, nascosta negli eventi interiori e
chiusa nelle perfette forme di quell’opera giovanile di Dante, venne tutta in
luce come drammaturgia nuda e sapiente. Da allora nacque una
corrispondenza di spiriti eletti che si tennero sempre al corrente, della loro vita
privata e del loro lavoro. Nel 1978 Orazio Costa comunicò a Mario Luzi che,
avendo adottato nella sua scuola l’Ipazia come testo di studio, avrebbe
desiderato concludere il corso con un saggio di recitazione pubblica. Quel
saggio tenuto in un salone dell’Educandato della SS. Annunziata a Poggio
Imperiale divenne poi la prima ufficiale all’Istituto del Dramma Popolare a
San Miniato. Mario Luzi non aveva mai scritto per il teatro se non molti anni
prima un’opera dal titolo Pietra oscura e neanche scrivendo Ipazia secondo
una morfologia drammaturgica aveva pensato davvero a una possibile
rappresentazione.
In quell’occasione, Luzi ebbe modo di ammirare la lettura affilata, tagliente,
precisa che Orazio fece della sua Ipazia e dalla quale si sarebbe dovuta
sprigionare l’energia della recitazione. Dalla intelligenza effettiva doveva
nascere il pathos e su questo principio Costa era implacabile a tal punto da
suscitare l’ostilità di qualche attore di grido che tuttavia segretamente lo
ammirava.
Alcuni anni dopo Orazio Costa e Mario Luzi si ritrovarono affiancati nella
preparazione di Rosales per il teatro di Genova che esordì al Maggio
fiorentino, nel 1983, alla Pergola di Firenze.
In una intervista rilasciata da Orazio Costa a Renzia D’Incà in occasione del
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conferimento del Premio Ultimo Novecento, il regista rivela che il rapporto
con il poeta ha significato per lui la possibilità di riaprirsi alla speranza di
potersi impegnare anche alla rivelazione di nuove opere contemporanee, senza
doversi rassegnare all’indagine inesauribile dei classici. Orazio attende
instancabile la promessa di un dramma su Emmaus che potrà essere una delle
più alte risposte alla sete così insoddisfatta di religiosità del nostro tempo. Il
regista sogna di sentir arrivare questo Emmaus di Mario Luzi, questo nuovo
dramma o contesto non definibile di versi, a parlarci di noi come da dentro
noi, come prima del tempo, come dal Sempre che “fra due fedeli Apostoli
disperati di perduta guida e ragione di vita, non può non scoccare al trasalire
negato e invocato del presentimento d’un Possibile che si disfa e si assevera
nell’esser già nato. Ciò che Lui solo può saper fareˮ4.
L’attenzione di Orazio Costa verso la drammaturgia contemporanea si
manifesta sin dall’inizio del suo lavoro registico e a connotarsi di una
attenzione privilegiata alle proposte più innovative. La novità dei testi allestiti
lascia spazio alla sperimentazione che trova le sue forme nel testo, con un
approccio filologico basato su una lettura aderente alla parola e un successivo
dialogo aperto con la tradizione critica. L’attenzione alla drammaturgia
contemporanea si spinge oltre la scena nazionale facendo di Costa un regista
pronto a cogliere gli spunti degli autori che anche a livello europeo si
confrontano con la scena teatrale. Dagli autori5 scelti all’interno del panorama
della drammaturgia contemporanea, emergono una necessità di percorso e una
coerenza ad alcune tematiche ricorrenti6. L’attualità dei temi affrontati impone
4
R. D’Incà, “La parola ad un premiatoˮ, articolo di giornale, s.d., Archivio
Costa.
5
Segue una panoramica degli allestimneti di autori contemporanei
rappresentati da Costa: 1943, George Bernard Shaw, Le case del vedovo;
1945, Eugene O’Neill, Giorni senza fine e Anna Christie; 1945, Françoise
Gattillon, Maya; 1946, Françoise Mauriac, Amarsi male; 1949, William
Saroyan, I giorni della vita; 1950, Jean Anouihl, Invito al castello; 1950,
Ferenc Molnar, Liliom; 1951, G. B. Shaw, Le case del vedovo; 1952, George
Bernanos, I dialoghi delle carmelitane; 1953, G. B. Shaw, Candida; 1953,
Graham Greene, L’ultima stanza; 1958, Camus-Faulkner, Requiem per una
monaca; 1962, Oscar Vladislao de Lubicz, Miguel Manara; 1981, Arthur
Miller, Morte di un commesso viaggiatore; 1984, Clifford Odets, La
ragazza di campagna.
6
I testi allestiti trattano tematiche relative alle domande fondamentali
dell’uomo: il rapporto dell’uomo con i beni terreni (La leggenda di Ognuno),
il problema del libero arbitrio che porta l’uomo a scelte che, generate da
situazioni di estrema tragicità, lo pongono in odore di santità (Miguel
Manara, Requiem per una monaca); questioni teologiche sul Bene e sulla
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al regista una particolare attenzione alle esigenze della scena contemporanea e
Costa diventa interprete e traduttore dei significati dell’autore, in modo
particolare di quelli italiani che l’autore può conoscere personalmente. Su
queste coordinate si inserisce il rapporto regista-autore, Costa-Luzi. Il regista
è colui che diventa garante della coerenza dei segni e dei moduli della
composizione scenica e confrontandosi con l’opera la elegge a forma di
archetipi che costituiscono idee guida per testimoniare pro o contro l’ordine
culturale contemporaneo, è colui che “garantisce un’unità morale in un mondo
fenomenicamente diviso, contribuendo così a ristabilirvi un ordine assolutoˮ7.
La capacità di Costa di confrontarsi con testi non facili e la sua disponibilità
ad affidarsi alla penna di un contemporaneo oltre ai classici più sperimentati,
lo induce ad accettare la sfida rappresentata dalla poesia di Mario Luzi
mettendo in scena Ipazia per l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato e
la critica attende con curiosità di verificare la potenzialità teatrale della pagina
scritta di Luzi che, secondo Nicola Garrone8, “non si trasforma mai in teatroˮ,
ma diventa il luogo dell’attualità teatrale del poeta che trova nella “libera
versificazioneˮ il suo punto di forza. Costa intuisce quanto tutta la
composizione lirica di Luzi sia di carattere drammaturgico, dato che nella
forma del verso sarebbe inscritta la modalità espressiva a cui l’attore deve
affidare la propria lettura9.
possibilità dell’uomo-intellettuale moderno di applicarlo (Invito al castello,
Liliom, Veglia d’armi, Vento notturno, La ragazza di campagna). La
forma parabolica e la trasposizione allegorica è il denominatore comune delle
tematiche trattate nei vari allestimenti di Costa. Per ulteriori precisazioni
vedere C. Cazzola, La regia di Orazio Costa. La linea dei contemporanei,
Tesi di Laurea in Lettere e Filosofia, Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano, a.a. 1995-96, pp. 40-65.
7
“La regia si confronta con l’opera scritta per eleggerla a forma di archetipi
tanto per il passato quanto per il presente, ma solo attraverso il coerente gioco
espressivo di segni e moduli specifici della composizione scenica possono
divenire proposte artistiche di idee guida valide a testimoniare pro o contro
questo o quel senso dell’ordine culturale contemporaneoˮ. R. Tessari, Teatro
italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture 1906-1976, Firenze: Le
Lettere, 1996, p. 80.
8
N. Garrone, “Il Barbaro alle porte adora un certo Cristoˮ, La Repubblica,
26 luglio 1979.
9
“Avvicinarmi alla poesia di Luzi nel suo complesso, mi ha fatto cogliere con
evidenza che tutta la sua composizione lirica è di carattere drammaturgico. Ci
sono nei suoi versi, tanto variati per ritmo, respiro e fantasia di struttura,
cesure che suggeriscono all’attore la pausa significativa del fraseggio. […] La
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La regia risulta incentrata sulla necessità di dare risalto al verso, a tale scopo
utilizza una rarefazione della scena in cui la voce dell’attore è l’elemento
fondamentale e lascia estrema libertà agli altri mezzi espressivi. Si riserva una
libertà scenografica che permette di esaltare la modernità del dramma.
Secondo Poesio, l’astensione da qualsiasi effetto scenico10 viene tradotto in un
gioco sapientemente regolato in cui la semplicità “di due finestroni aperti sulla
notteˮ comunicano il sogno e la sensazione di un ponte verso un tempo
“altroˮ11 ponendo in risalto “il nitore poetico di Luziˮ12.
Costa, per sottolineare la precisione dell’analisi filologica del testo che si
pone alla base dei suoi allestimenti, sottolinea che in Rosales, rispetto ad
Ipazia e al Messaggero, “l’atemporalità storica è imposta direttamente dal
testo di Luziˮ13, il processo di astrazione della scena, pertanto, ha potuto
poesia drammatica consegna all’attore i ritmi e i significati con i quali l’autore
ha vissuto la propria parolaˮ. A. Viganò, “Il fascino poetico dell’ambiguitàˮ,
in M. Luzi, Rosales, Genova: Edizioni del Teatro di Genova, 1983, p. 161.
10
“A questa materia che offre poco appiglio visivo, Orazio Costa Giovangigli
ha recato la sua sapienza di acuto e intento svisceratore della parola scenica,
tanto più in quanto questa parola è anche in particolare parola poetica. Non ha
chiesto agli attori di riempire la scabra azione di gesti o mimiche superflue: li
ha anzi tenuti a un’asciuttezza severa, evitando al tempo stesso di cadere nella
pura lettura o nella pura dizioneˮ. P. E. Poesio, “L’uomo messo alla provaˮ, Il
Resto del Carlino, 26 luglio 1979.
11
“Anche da queste poche e rapide note – sul testo ben altro è stato scritto e
ancora potrebbe scriversi – si avvertirà come dare veste scenica al dramma
significasse innanzi tutto obliterare qualsiasi gusto per l’effetto scenico e
puntare le carte, invece, sul tessuto verbale: renderlo chiaro al massimo senza
perciò cadere sul piano di una lettura pura e semplice. Costa ha regolato il
gioco con estrema sapienza, arricchendo le pause delle musiche originali di
Sergio Prodigo ma soprattutto creando nella composizione quasi sacrale
dell’assieme un clima di sospesa attesa: pareva davvero che là dietro i
finestroni aperti sulla notte si stendesse il sogno di un ponte, verso un tempo
di ragione, se mai verràˮ. P. E. Poesio, “L’uomo messo alla provaˮ, Il Resto
del Carlino, 26 luglio 1979.
12
“Il nitore poetico e dialogico dei drammi di Luzi è stato posto in risalto,
nella regia di Orazio Costa, da uno spettacolo nudo ed essenziale, quasi un
oratorio. L’azione, tutta orizzontale, da basso rilievo, si svolge al proscenio
mentre il palcoscenico è chiuso da pannelli con immagini fatiscenti di
Alessandria e Cireneˮ, “Quando il poeta diventa drammaturgoˮ, Il Corriere
della Sera, 26 luglio 1979.
13
A. Viganò, “Il fascino poetico dell’ambiguitàˮ, in M. Luzi, Rosales,
Genova: Edizioni del Teatro di Genova, 1983, p. 160.
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giungere alle estreme conseguenze: lo spazio, nel tentativo di concentrare
l’attenzione sull’attore, viene condizionato solo dalla luce che prende vita
posandosi su una struttura mobile. Lo spazio scenico è occupato da un enorme
serpente di plastica che muovendosi e prendendo forma sotto i diversi fasci di
luce definisce la scena liberando l’attore dalla gabbia della scenografia14.
Fascinoso, pertanto, risulta l’aspetto visivo e scenografico: il lavoro
sperimentale di Costa sulla scena in plastica raggiunge esiti di livello
superiore, poiché questa scena – abitata dal corpo del serpente piumato di
Canevari – può diventare, sempre con effetto suggestivo, un paesaggio caldo e
tropicale dal rosso cielo, la notte silenziosa di Città del Messico, l’enigmatico
blu dell’ora della morte. Costa restituisce alla “parolaˮ15 il compito arduo di
costruzione del personaggio e rivendica al regista il compito di sorvegliare che
ciò si verifichi diventando garante di un lavoro di critica letteraria e
drammatica sostenuto da un “particolare rapporto di corrispondenza con gli
attoriˮ16. Il regista rende fluida sulla scena la parola di Luzi, secondo Tei17, e
14
“Ho voluto immergere l’azione in uno spazio molto particolare,
proseguendo un lavoro di ricerca che ho già sperimentato in altri spettacoli e,
mi pare, con risultati interessanti. Abbiamo cercato cioè di confezionare una
scena il cui perimetro entro il quale l’attore che agisce non è condizionato che
dalla luce. […] Per esistere la luce deve essere rimandata da un corpo
sufficientemente solido e la nostra scelta è caduta su un materiale trasparente
che solo per necessità tecniche è plastica. […] La scelta scenografica che è
stata alla base del nostro lavoro in Rosales si è indirizzata appunto nella
prospettiva di liberare l’attore dalla gabbia opaca della scenografia e di far
concentrare su di lui tutta l’attenzioneˮ. Ibi, p. 168.
15
“Rappresentarla significa compiere un lavoro minuto, puntiglioso sulla
parola. Una prova superata magistralmente; insommaˮ. P. E. Poesio, “Il
rivoluzionario e il libertinoˮ, La Nazione, 4 aprile 1983.
16
“In Rosales come in tutti i grandi testi di poesia teatrale, è parola che
costruisce i personaggi e sorvegliare che ciò si avveri sulla scena significa in
primo luogo l’esercizio di un’attenzione che riunisca non solo tutta una pratica
di critica letteraria e drammatica, ma anche un particolare rapporto di
corrispondenza con gli attoriˮ. Viganò, “Il fascino poetico dell’ambiguitàˮ, in
M. Luzi, Rosales, Genova: Edizioni del Teatro di Genova, 1983, p. 162.
17
“Orazio Costa ha costruito la sua regia sulla base di un lavoro poderoso e
magistrale, sul verso, che trova il suo ritmo in un gioco articolatissimo di
parametri talora dimenticati: non solo l’accentuazione e l’alternarsi delle
pause, ma perfino la durata delle parole e delle sillabe, l’attacco di una
consonante. Un ritmo continuo e ʻnaturale’, cucito in frammenti segnati da
tutta la varietà dei toni e delle voci possibili, che non fa rimpiangere il fluire
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ne verifica la possibilità lanciata dallo stesso poeta con la scrittura per la scena
attraverso un gioco di elementi che tiene conto dell’accentuazione e
dell’alternarsi delle pause ma anche della durata delle sillabe. Un ritmo
continuo e naturale, cucito in frammenti segnati da tutta una varietà dei toni e
delle voci possibili, che non fa rimpiangere il fluire sublime e quasi
inarrestabile della parola poetica di Luzi sulla pagina scritta. I versi di Luzi,
prosastici, di andamento volutamente a singhiozzi, capaci di rendere la
variabilità del parlato, perdono in scena il loro aspetto oscuro, per vivere solo
del loro mobilissimo ritmo, mutevole da parola a parola e dall’accensione
lirica che sostiene ogni frase, vero segreto di questa poesia invisibile. La
parola luziana è scritta per essere detta, per questo il teatro è, forse,
l’esperienza poetica per eccellenza. La regia, mettendo in luce con prezioso
pudore espressivo le liricità del testo, ne ha attenuato i tratti che alla lettura
sembravano meno felici o di minore teatralità.
L’atemporalità individuata da Ronfani18 si riferisce alla possibilità della
poesia e della parola di creare le immagini che prima erano evocate dalla
lettura e rappresenta, unitamente all’indeterminazione ambientale, la
condizione necessaria per far convivere il mito e la storia che costituiscono la
sostanza della tragedia moderna Rosales. Nessun altro termine potrebbe
meglio di questo rendere lo spirito e la struttura di un testo che pur essendo
collocato in un contesto all’Autore assai prossimo, vive in realtà in un tempo
senza tempo e che, pur essendo ambientato in una precisa dimensione
geografica, il Messico, si snoda in realtà in un territorio assai più vasto quale
può essere quello dell’angoscia e della disperata solitudine universale. Per
evocare tale condizione, l’azione viene ridotta al minimo dal regista, mancano
scene ad effetto, mentre viene adottato il monologo, il colloquio interiore e si
affaccia il coro, anche se rappresentato da una voce astratta proveniente da un
invisibile empireo: in tal modo, la tragedia si riallaccia alla tradizione classica.
Rappresentarla significava compiere un lavoro preciso sulla parola e questo è
stato il merito maggiore di Costa che ha condotto tutti gli attori ad un nitore
espressivo notevole, capace di far scintillare tutti i significati, palesi e meno
immediati che pervadono e incastonano la pagina di Luzi. Indubbiamente
siamo di fronte a quell’oggetto raro, misterioso e poco esplorato che è la
“poesia teatraleˮ e che in quel dato contesto storico ed intellettuale riaprì la
questione dei rapporti fra letteratura e teatro, ponendo in luce la scarsa
sublime e quasi inarrestabile, della parola poetica di Luzi sulla pagina scrittaˮ.
F. Tei, “I miti non si uccidonoˮ, La Città, 4 maggio 1983.
18
“Il regista Costa Giovangigli ha sottolineato l’atemporalità della vicenda
morale (o religiosa, se si preferisce) narrata da Luzi immergendola in uno
spazio-luceˮ, U. Ronfani, “Uccidere Trokij? Don Giovanni dice noˮ, Il
Giorno, 4 maggio 1983.
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comunicazione fra gli scrittori e il teatro. Per questo motivo, all’alba del
debutto a Firenze di Rosales di Mario Luzi, ovvero un poeta che scrive per il
teatro e un teatro che decide di rappresentarlo, un evento che altrove sarebbe
stato normale, nel fermento culturale del tempo, si tinse di eccezionalità.
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