ASPETTI TEOLOGICI DELL’INTERCULTURALITÀ
Premessa1
1. Un dato di fatto
La multiculturalità è un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti. Basta andare in una
stazione ferroviaria, entrare in un mercato, conoscere una congregazione religiosa e/o
missionaria per rendersi conto di che cosa sia la multiculturalità: la globalizzazione sta
trasformando il mondo nel famoso “villaggio globale” di Mc Luhan. L’informazione digitale,
la facilità dei trasporti e delle comunicazioni, il commercio, le migrazioni sociali, gli scambi
scolastici … tutto contribuisce a impiccolire e, nello stesso tempo, estendere il nostro pianeta
mescolandone gli abitanti. Un fenomeno tanto ovvio quanto indiscutibile che impressiona
tutti, chi in modo positivo e chi in modo negativo, chi l’accoglie con favore come un
potenziamento e un arricchimento, chi invece lo teme come un fattore disgregante e
dannoso per la società, la cultura e la stessa fede. I religiosi/e sanno che ormai nelle loro
comunità ci sono confratelli o consorelle di diverse nazionalità e guardano anch’essi alla
multiculturalità con sguardi diversi. Che lo vogliamo o no, siamo davanti a un dato di fatto
ineluttabile che attende solo di essere interpretato e vissuto in modo positivo. Combatterlo
o anche solo ignorarlo non serve, ma è andare contro la storia e farsi del male.
2. Due termini correlati da distinguere senza contrapporli
Parlando di questo fenomeno, si usano indiscriminatamente due termini, multiculturalità e
interculturalità che descrivono la coesistenza di molte culture sullo stesso territorio,
all’interno della stessa comunità civile o religiosa, che hanno però un significato diverso che
deve essere mantenuto distinto. Multiculturalità è un termine statico che descrive il dato di
fatto, mentre interculturalità è un termine dinamico che allude ad una interrelazione e
interazione tra le culture e a un possibile, auspicabile e reciproco dialogo tra di loro.
L’interculturalità si esprime in tre atteggiamenti: riconoscere le diverse culture, rispettare le
differenze culturali e promuovere una sana interazione tra di esse.
3. Una realtà non solo ecclesiale
L’interculturalità e cioè l’interazione che si stabilisce e che deve essere favorita tra le diverse
culture in vista di una positiva convivenza, non è un problema che riguarda solo la chiesa,
ma anzitutto la società civile. Ad essa e ai suoi responsabili compete di trovare la formula
giusta e le modalità concrete per far convivere e, quanto possibile, collaborare le diverse
culture, tenendo presente le esigenze storiche ma non dimenticando il dovere di equilibrare
le diversità e farle interagire positivamente, evitando la giustapposizione, l’assorbimento e la
ghettizzazione, e puntando invece all’unità nazionale che salvi anche le diversità culturali e
religiose. Un campo in cui laicità, tolleranza e legalità devono coniugarsi in una difficile ma
imprescindibile sinergia. La chiesa, rispetto allo stato, ha il vantaggio di poter contare su
motivazioni spirituali e quindi può contribuire a costituire comunità di comunione e non solo
di coesistenza a partire dalla fondamentale koinonia, che è l’essenza della chiesa stessa. Il
contributo della chiesa all’interculturalità nella società civile, ai processi di accoglienza e
1
Ref. Arch.: Conferenze/PIME Aspetti teologici dell’interculturalità.docx – Conferenza per una sessione di
studio su “Le frontiere dell’interculturalità”, 17-19 settembre 2013 a Monza, presso lo Studio Teologico
Internazionale del PIME, in via Lecco, 73.
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integrazione delle varie culture, in altre parole a quel processo di meticciato che si sta
imponendo ormai ovunque, è importante e iscritto nella natura stessa della chiesa,
sacramento di comunione. Il problema dell’interculturalità è di ordine antropologico,
teologico e politico. In questa sede cercheremo di trattare i due primi aspetti, antropologico
e teologico, a partire dalla Sacra Scrittura e dall’ecclesiologia.
1. Il disegno creatore di Dio sull’umanità e la Torre di Babele (Gn 1-11)
I primi 11 capitoli della Genesi non parlano ancora del popolo di Dio, la cui storia inizia
con la vocazione di Abramo al cap. 12, ma dell’Adam, uomo e donna, dell’umanità di ieri e di
oggi, del senso e della qualità del suo rapporto con Dio, con sé e con il mondo. Per farlo
usano lo strumento del mito che, a partire dalle costanti dell’esistenza umana, le proietta su
un “principio” (arché) che le rende valide sempre e dappertutto. Gn 1-11 spiega il progetto
creatore dell’humanitas (e dell’in-humanitas) che lega il futuro d’Adam al rispetto
dell’alterità di Dio, all’accoglienza della Parola nel rapporto ascolto/obbedienza che lo fa
essere se stesso2. Gn 1-11 si chiude con il testo della Torre di Babele (Gn 11,1-9) sul quale
vogliamo fermare la nostra attenzione.
1
Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall’oriente, gli uomini
capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l’un l’altro: «Venite,
facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un
nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i
figli degli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno
tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare
non sarà loro impossibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non
comprendano più l’uno la lingua dell’altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi
cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la
lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
Gn 11,1-9 è tradizionalmente interpretato come un peccaminoso “tentativo di invadere lo
spazio riservato a Dio solo e qualifica positivamente la condizione iniziale di un’umanità
dotata di una lingua sola”3. Il senso del racconto però è più profondo e più attuale, come
mostra André Wénin: “Il desiderio delle popolazioni di Babele non è quello di un’unità che
impedisca la dispersione, ma di un’uniformità che abolisca le singolarità. In questo senso la
costruzione di Babele rappresenta il tipico progetto totalitario, dunque «altericida». Adonai
non s’inganna su questo punto, quando scende a vedere la città e la torre: vi scopre i sintomi
di una potenza distruttiva che appiattirà tutto al suo passaggio (Gn 11,6)” 4. Questo potere
distruttivo è espressione del peccato originale che produce “frammentazione e, nel senso
peggiorativo del termine, individualizzazione”5.
Il Signore dell’umanità non vuole che la famiglia umana perda le sue ricchezze culturali e
sia livellata in un «progetto unico» e in un «pensiero unico», ma che essa possa esprimerle
nella sinfonia dei popoli. Per questo Egli vanifica il progetto di Babele disperdendo gli uomini
e obbligandoli, tramite la differenziazione e la confusione delle lingue, a ricercare l’unità
2
Carmine Di Sante, L’uomo alla presenza di Dio, GdT 344, Brescia 2010.
Michelangelo Priotto, La torre di Babele, in Parole di vita, 2007/6/p. 17.
4
A. Wénin, Dalla Violenza alla speranza, Qiqajon Magnano (Bl) 2005, p. 232.
5
Henry de Lubac, Catholicisme, Ed. du Cerf, Paris 19837 (ed. orig. 1938), p. 11.
3
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attraverso un cammino di dialogo e di convergenza. Così l’autore biblico riprende e continua
idealmente la riflessione iniziata in Gn 1-2 dove Dio, creando l’universo, stabilisce delle
distinzioni per separazione e lo fa in vista di un’unità che si fonda su una logica di alleanza e
non di uniformazione. E questo a maggior ragione quando Dio crea Adam, il quale non trova
il suo benessere che nello spazio della relazione con la donna creata non come serva o
concorrente, ma come “aiuto che gli sta di fronte” (Gn 2,20). L’uomo, infatti, ha bisogno
dell’alterità e della comunione, per essere se stesso a «immagine di Dio»: “Dio creò l’uomo a
sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gn 2,27).
La dispersione di Babele, potrebbe sembrare una punizione per il progetto di un’umanità
unidimensionale, è invece, come dice Wénin è “un gesto creatore” che indirizza l’uomo
verso un percorso di comunione che parte dalla condizione di pluralismo descritta nella
tavola dei popoli di Gn 10 dove la varietà delle lingue e delle culture costituiscono una
ricchezza e non un ostacolo alla comunicazione e alla comunione dei popoli6. Babele è un
tentativo di scardinare la visione di un’umanità, pluralistica e rispettosa delle differenze,
quale è descritta al cap. 10, che Dio però sconfessa risolutamente.7 Il progetto di Dio
contempla il pluralismo culturale e la collaborazione su un piede di uguaglianza, perché tutti
siamo parte della stessa famiglia umana voluta dal Creatore, una preparazione per la chiesa.
2. Da Babele alla Pentecoste
Dovendo fissare un momento per la rivelazione del mistero della chiesa, Luca (e solo lui)
lo colloca nell’evento della Pentecoste. Certo la cellula-madre della chiesa potrebbe essere
collocata al momento in cui si forma il gruppo dei discepoli che accolgono la Parola, oppure
quando Gesù istituisce l’Eucaristia, evento generatore della comunità dei discepoli a cui
ordina di “far memoria di Lui”. Ma resta il fatto che il termine ekklesia, praticamente mai
usato dagli evangelisti per designare il gruppo dei discepoli prima della Pasqua, si trova ben
16 volte8 in Atti e, per quanto nel 2° capitolo di questo libro non si trovi il termine ekklesia, è
“fuori dubbio che l’avvenimento che vi si racconta riguarda il gruppo che (a partire da At
5,11) sarà designato con questo termine”9. Pentecoste è quindi l’epiphania della chiesa, del
nuovo popolo di Dio.
1
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo.2 Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e
riempì tutta la casa dove stavano. 3 Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si
posarono su ciascuno di loro, 4 e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in
altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. 5 Abitavano allora a
Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 A quel rumore, la folla si
radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7 Erano stupiti e,
fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8 E come
mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti
della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della
Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11 Giudei e
6
Cf. Michelangelo Priotto, art. cit., p. 17.
Il redattore di Genesi aveva senza dubbio nella memoria lo stile politico degli Assisi e la loro tendenza al
totalitarismo che livellava e cancellava le nazioni, come noi non possiamo dimenticare l’ormai passato
imperialismo dell’URSS o del sistema coloniale e, oggi, la prepotenza del processo di globalizzazione finanziaria
e politica che livella tutto e tutti sul «pensiero unico».
8
Jean-Marie-R. Tillard, Eglise d’Eglises, Du Cerf Paris 1987, p. 18.
9
Ibidem.
7
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proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». 12 Tutti
erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: «Che cosa significa questo?».
Subito dopo la venuta dello Spirito Santo, Pietro, sollecitato dalla meraviglia dei presenti,
spiega l’evento e proclama il mistero della risurrezione del Crocefisso. Ma ciò che qui
interessa è che la comunità che si costituisce a Pentecoste, è un gruppo di persone di diverse
nazionalità che formano subito una koinonia (At 2,42ss), una fraternità o una comunità di
persone che, pur differenti tra loro, “sentivano gli apostoli parlare ciascuno la propria lingua”
(2,6).10 Formano subito una comunione prodotta dallo Spirito invisibile, di cui il gruppo dei
Dodici costituisce il nucleo visibile. “Esegeti seri, scrive Tillard, concordano con i Padri della
chiesa dei primi secoli che nel racconto di Pentecoste leggevano l’inverso del dramma di
Babele. Alla confusione delle lingue e alla divisione del genere umano simboleggiato da
Babele al capitolo 11 della Genesi, corrisponde la riunificazione dell’umanità nella
comprensione della testimonianza apostolica e attraverso essa del messaggio divino. A
Babele un’unica lingua, simbolo di un’unità vissuta, viene spezzata dalla orgogliosa pretesa
dell’uomo. Nella festa di Pentecoste, la molteplicità delle lingue, simbolo della barriera
costruita in mezzo ai popoli, è unificata nella comune comprensione della Parola degli
Apostoli. Questa è l’opera dello Spirito degli «ultimi giorni». (…) La comunità della
Pentecoste, cellula madre della chiesa, appare così come la manifestazione dell’aprirsi dei
tempi della salvezza che si fa nell’incontro, radicalmente inscindibile, di tre elementi, lo
Spirito, la testimonianza apostolica che rinvia al Signore Gesù Cristo, e la comunione in cui
l’unità si esprime nella molteplicità delle diversità”11.
La cattolicità della chiesa, secondo J. Dupont, è già presente a Gerusalemme attraverso
quel gruppo di giudei e di proseliti che provengono da “tutte le nazioni che sono sotto il
cielo” (At 2,5) che tuttavia “in un certo modo” rappresentano “l’universo intero che,
simbolicamente, è là per essere testimone della venuta dello Spirito e per ascoltare la Parola
di Dio”12. Alla Qāhāl YHWH (Dt 9,10) corrisponde l’assemblea dei fedeli di Pentecoste dove si
trova il nuovo popolo di Dio, epi tô autô, nel fuoco e nel vento dello Spirito, come al
momento dell’assemblea d’Israele nel deserto ai piedi del Sinai (Dt 9, 6-15).
Questa è il mistero della chiesa di Gesù Cristo, il popolo di Dio, universale già all’inizio che
grazie alla missione s’estenderà “da Gerusalemme in Giudea, in Samaria e fino ai confini
della terra” (At 1,8), secondo il mandato del Signore. Verrà poi Paolo di Tarso a rompere il
guscio ebraico che, malgrado le aperture di Pietro a Cesarea (At 10-11), continuava a
custodire il Vangelo di Gesù.
3. La chiesa di Gesù Cristo nasce multiculturale
La chiesa di Gesù il giorno della Pentecoste nasce cattolica, una caratteristica così
essenziale che i Padri della chiesa dal III al VII secolo la chiamano la Catholica13, mistero di
unità e universalità, mistero di comunione. Cattolico non ha il significato delimitante che ha
assunto nel tempo, in riferimento alla confessione cristiana legata a Roma, indica invece ciò
che è universale, generale (katà holón, secondo il tutto), dove il tutto è più della somma
10
“Nella Pentecoste le lingue di fuoco sono disperse sui singoli presenti ma per una missione di unificazione: lo
Spirito che esse manifestano ristabilirà, infatti, tra gli uomini quella «mutua intelligenza» per la quale ciascuno
comprende nella sua lingua l’unica verità che lo unisce agli altri” (Henry de Lubac, op.cit., p. 31).
11
J.-M.-R. Tillard, op. cit. pp. 21-22.
12
J.-M.-R. Tillard, op. cit., p. 22. Cf. anche Henry de Lubac, op.cit., p. 26.
13
Henry de Lubac, op. cit., p. 25, nota 2.
|5
delle sue parti14. Già a partire dalla nota della cattolicità, la chiesa si rivela multiculturale,
aperta cioè per sua natura alla molteplicità delle culture e a tutti i popoli, in senso
quantitativo ma anche qualitativo, in grado di entrare in tutte le culture per accoglierne gli
elementi positivi e introdurli nell’unità della fede e della carità. Per questa ragione dice
Henry de Lubac che “è missione della chiesa rivelare agli uomini che l’hanno persa la loro
unità originaria, restaurarla e portarla a perfezione”15.
È del tutto normale che le diverse realtà culturali che la compongono producano delle
tensioni (cf. At 6,1ss, le lamentele dei greci nei confronti degli ebrei). Non per questo le
diversità vanno cancellate, sono invece prese seriamente in considerazione e creativamente
affrontate, perché la molteplicità delle culture fa parte del kerygma della risurrezione: il
Risorto è “stato costituito Signore e Cristo” (At 2,36), e quindi “non c’è Giudeo né Greco; non
c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”
(Gal 3,28), non nell’uniformità che livella e annulla le diversità, ma nell’accoglienza rispettosa
e nella collaborazione reciproca. Le diversità sociali, nazionali, culturali, religiose non sono
barriere divisorie della comunità, meno ancora minacce portate alla sua unità, sono invece
frontiere da varcare e ricchezze da condividere in uno scambio di doni che già Paolo
annuncia nell’immagine del “corpo di Cristo” e, in modo pratico, in occasione della colletta
per la Comunità madre di Gerusalemme (2Co 8-9). L’unità della chiesa vive delle diversità e
la sua multiculturalità diventa dinamismo di carità, ossia scambio, collaborazione,
arricchimento reciproco, in una parola, interculturalità.
4. Missione della chiesa è promuovere l’interculturalità: “Ecclesia de Trinitate”
L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, che si caratterizza come un’ecclesiologia trinitaria,
sacramentale/eucaristica e comunionale, offre all’interculturalità dei fondamenti oggettivi e
sicuri e risponde alla missione di promuovere la comunione dentro e fuori della chiesa.
1. Fondamento trinitario. La chiesa, dice il Concilio, è “popolo di Dio, corpo di Cristo,
tempio dello Spirito Santo” (Lumen gentium 17), è Ecclesia de Trinitate: “Questo è il sacro
mistero dell’unità della chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo, mentre lo Spirito santo opera
la varietà dei ministeri [dei doni munera]. Il supremo modello e il principio di questo mistero
è l’unità nella trinità delle persone di un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo” (UR 2§6 ; cf.
AG 2). Lumen Gentium n. 4 citando S. Cipriano definisce la chiesa “un popolo adunato
dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito santo” [“de unitate Patris et Filli et Spiritus
Sancti plebs adunata”]16. La chiesa è un’analogia del mistero della Trinità SS.ma e, alla luce
anche delle scienze umane (antropologia, psicologia e filosofia), è definita come comunità di
comunione, unità delle diversità, che si forma, non malgrado le diversità, ma grazie alle
diversità. Quest’affermazione è stata possibile grazie alla nuova teologia trinitaria che,
partendo dall’affermazione della Prima lettera di Giovanni, “Dio è amore” (4,6), riconosce
nell’unico Dio le diverse persone, dopo secoli in cui la teologia cristiana, per paura di un
14
Cf. Walter Kasper, Chiesa cattolica, Essenza, realtà, missione, Queriniana Brescia 2012, p. 282.
Henry de Lubac, op. cit., p. 29.
16
«Le subtil jeu de mots de l’originel est presque intraduisible: De unitate ... plebs adunata. La préposition
latine de évoque à la fois l’idée d’imitation de celle de participation: c’est à partir de cette unité entre
Hypostases (Personnes) divines que se prolonge l’unification du peuple: en s’unifiant, celui-ci participe à une
autre Unité, si bien que pour saint Cyprien, l’unité de l’Eglise n’est pas compréhensible sans celle de la Trinité»
(Gérard Philips, L’Eglise et son mystère ..., vol I, p. 91).
.
15
|6
triteismo o del modalismo, si era ridotta a una forma di monoteismo. Ma nella seconda metà
del XX secolo i teologi riaprono il discorso sulla Trinità e si giunge così alla formulazione
positiva della presenza delle tre Persone nell’unico Dio, considerato come comunità,
famiglia, amicizia, comunione. Grazie alla filosofia personalista la teologia trinitaria supera la
paura di stabilire tra le Persone divine forme di rivalità o concorrenza, ma afferma che Dio è
la comunione di tre esseri in comunione tra di loro, come l’amante, l’amato e l’amore che li
lega reciprocamente, li distingue e li apre sul mondo. Non è per sé una novità, dato che
questa concezione risale ad Agostino e a Ugo e Riccardo di san Vittore (sec. XIV), ma è oggi
ricuperata nella teologia trinitaria contemporanea non solo orientale (J. Zizioulas) ma anche
occidentale (W. Pannenberg, J. Moltmann, K. Rahner e anche altri). Questa rinnovata
teologia trinitaria fonda anche l’ecclesiologia di comunione, tipica del dopo Concilio e
canonizzata nel Sinodo del 1985. Comunque la si guardi, la chiesa è koinonia e il popolo di
Dio è l’“unità cattolica” (Lumen gentium 13), la comunione cui tutte le famiglie dei popoli
appartengono o sono ordinate, una comunione fondata sull’ontologia di grazia, sul disegno
del Padre che chiama tutti a formare la sua famiglia “prima della creazione del mondo” (Ef
1,4).
2. Fondamento cristologico. San Paolo afferma che il popolo di Dio è sacramentalmente
formato dal corpo eucaristico (LG 3; 1Co 10,17) e diviene così la chiesa che è il vero “corpo di
Cristo”, comunione organica di tutti i fedeli, ricapitolati in Cristo, capo del corpo. Questa
definizione paolina, è stata ricuperata nella pienezza del suo significato dal Vaticano II in
riferimento alla chiesa (Lumen gentium 3.5). Come il corpo di Cristo è il sacramento di Dio
(“chi vede me vede il Padre” Gv 14,7), così la chiesa è sacramento di Gesù Cristo. Lo afferma
il primo numero della Costituzione dogmatica Lumen gentium: “La chiesa è, in Cristo, in
qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e
dell'unità di tutto il genere umano” (n. 1). La chiesa che vive in Cristo, per una “non debole
analogia” (Lumen gentium n. 8) con il mistero dell’Incarnazione, partecipa al sacramento
primordiale che è Cristo17. In questo senso, senza essere un ottavo sacramento, la chiesa è
“in Cristo come (veluti = in un certo modo, analogicamente) un sacramento”18. Questa
precisazione nulla toglie alla sacramentalità, al fatto cioè che essa è un segno che attira
l’attenzione e che mette in comunicazione con Dio il mondo. La chiesa è un “simbolo reale”
(K. Rahner) che rinvia a Gesù Cristo e alla sua croce. Configurata quindi all’immagine di
Cristo, è una “chiesa sotto la croce e all’ombra della croce”19. Nel suo pellegrinaggio (…), la
chiesa porta la figura fugace di questo mondo, ma lascia intravvedere - come segno
escatologico della salvezza - la futura unità dell’umanità (cf. Lumen gentium 48)20. Per
questo la possiamo chiamare anche un “sacramento del mondo”21 e “sacramento universale
di salvezza” (Lumen gentium 48).
Come corpo di Cristo la chiesa è comunione che non solo permette ma postula in se
stessa una pluralità di realtà, una variegata ricchezza doni, di servizi e di attività, “ma è lo
stesso Spirito, lo stesso Signore e lo stesso Dio che li attiva in ciascuno” (1Co 12, 4-6). Lo
Spirito, che non è l’agente della comunione, organizza il corpo di Cristo, la chiesa, come un
17
“Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6) e “Chi ha visto
me, ha visto il Padre” (Gv 14,9)
18
Walter Kasper, Chiesa cattolica… p. 133.
19
Ibid. p. 135.
20
Ibid. p. 135-136.
21
Ibid. p. 136.
|7
organismo vivente, in cui ogni elemento nella sua diversità ha una funzione “per l’utilità
comune” (1Co 12,7) e, in sinergia, contribuiscono alla crescita del corpo ecclesiale di Cristo e
alla sua missione nel mondo. La molteplicità di diverse realtà nell’unica chiesa è iscritta nella
natura stessa della chiesa. Non solo. Cristo, capo del corpo della chiesa, trasforma il
sacramento della comunione in sacramento della riconciliazione grazie al suo sacrificio: Dio
infatti, “tutto ha messo sotto i piedi [di Cristo] e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le
cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Ef 1,21-22), pienezza che abita in Lui e ” per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate
tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla
terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1,18-22).
3. Fondamento eucaristico. La chiesa è Ecclesia de Eucharistia22. L’eucaristia è l’«atto
generatore» della chiesa, il momento costitutivo della chiesa, la sorgente del suo mistero e il
motore della sua missione. È l’eucaristia che fa la chiesa e le trasmette la sua stessa
sacramentalità, perché è il sacramento della chiesa, che è la res tantum del sacramento. Il
banchetto eucaristico realizza del banchetto imbandito sul monte del Signore “per tutti i
popoli” (Is 25,6-7). L’eucaristia è l’epifania della comunione nell’unico pane spezzato e nel
calice condiviso: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di
Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo” (1Co 10, 16-17)”. Il
pane e il calice condivisi, destinati a tutti (“Prendete e mangiatene tutti … bevetene tutti” Lc
22), trasformano coloro che li assumono in “un solo corpo e in un solo spirito”23 per l’azione
dello Spirito Santo, in una chiesa cioè, sacramento di comunione. La chiesa eucaristica non
solo è aperta a tutti, ma è arricchita dagli apporti delle diverse culture che la compongono.
La chiesa eucaristica è “schola amoris”, di dialogo e di condivisione, che proprio per questo
vive della molteplicità delle sue componenti e ne favorisce la presenza e l’interazione. In
essa tutte le ricchezze, umane e culturali, hanno cittadinanza, tutti i riti, tutte le lingue, tutte
le legittime sensibilità culturali possono e devono esprimersi, sicché nella chiesa ogni popolo
trova la propria comunità e si sente «a casa propria», accolto, capito, e in comunione con
tutti gli altri, come il giorno di Pentecoste. Questo è il mistero della chiesa della Trinità, della
chiesa corpo di Cristo, sinfonia delle voci di ogni tribù, popolo e nazione (cf. Ap 5,9).
5. Il dialogo è lo stile della chiesa comunione
La chiesa-sacramento non esiste per sé, ma è “ germe, segno e strumento” del regno
(Redemptoris missio 18) al cui servizio essa è posta (Ibid. 20) e realizza il disegno di Dio
proclamando il Vangelo del regno per fare di tutti i popoli una sola famiglia “santa e
immacolata di fronte a Lui nella carità” (Ef 1,4), in cui ciascuno mantiene la sua identità.
Missione quindi della chiesa-sacramento di unità, comunione, salvezza e riconciliazione è di
salvaguardare, alimentare e dilatare la comunione tra i popoli e le diverse culture facendole
interagire e arricchire mutuamente.
La missione nella multiculturalità riveste oggi una nuova importanza nel tempo del
fenomeno della mondializzazione che rischia di alimentare rivalità e conflitti. La chiesa ha la
missione di trasformare il fenomeno della «globalizzazione dell’esclusione» in una
22
23
Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, lettera enciclica del 17 aprile 2003.
Messale romano, Preghiera eucaristica n. 2.
|8
«globalizzazione della solidarietà», della comunione e della partecipazione24 e di offrire segni
di una comunione sempre possibile attraverso le sue comunità multiculturali25. Questa non è
un’esigenza della congiuntura attuale del mondo, ma è iscritta nella natura della chiesa e
nella missione affidata da Cristo ai suoi discepoli, contribuire all’avvento del regno di Dio, il
quale è “giustizia, pace e gioia nello Spirito santo “(Rm 14,17).
Il popolo di Dio è un popolo messianico e ai fedeli Gesù chiede di essere suoi testimoni
“fino agli estremi confini della terra” (At 1,8 e Lc 24,48), testimoni della risurrezione, del
regno di Dio che è “regno della verità, della giustizia, della santità, della libertà e della
pace”26. La chiesa svolge questa missione di testimonianza e di proclamazione non solo per
obbedire a un mandato, ma per un bisogno del cuore, perché non può tenere per sé la gioia
di aver trovato la pienezza e il senso della vita e per rendere così conto delle “ragioni della
speranza (…) con dolcezza, rispetto e retta coscienza” (1Pt 3,15-16). E secondo il mandato di
Gesù deve proclamare il Vangelo a tutti i popoli e farli entrare nella grande famiglia di Dio.
Nello svolgimento della sua missione, la chiesa deve abbandonare ogni atteggiamento di
imperialismo spirituale, di paternalismo, ogni complesso di superiorità, ogni arroganza e
presunzione di aver tutta la verità e ogni forma di proselitismo e accostare invece il mondo
con lo stile del dialogo.
Dopo Paolo VI, il dialogo è diventato quasi una nota che caratterizza la chiesa27, sia nella
proclamazione del Vangelo come nella vita interna della chiesa: “Il dialogo è un elemento
della missione perché missione significa comunicazione invitante e accattivante della verità
(…) Il dialogo è un mezzo quasi sacramentale attraverso il quale Dio può penetrare nella
coscienza del partner del dialogo, se questi si apre … In questo senso il dialogo deve essere
proprio oggi un elemento insito nella missione … la deve precedere, accompagnare,
completare e approfondire”28. Lo stile di dialogo aperto a tutti e tra tutti, dinamizza la
molteplicità delle culture, perché si conoscano, si accettino, si promuovano reciprocamente
e insieme ricerchino la pienezza della Verità e ciascuna contribuisca ad arricchire la chiesa e
la sua missione con la propria maniera di vivere la stessa fede. Il dialogo è un dovere di carità
ma anche di giustizia, perché mette tutte le culture sullo stesso piano e offre a tutte
l’occasione di esprimersi a partire dai propri doni. Il dialogo ad extra e ad intra si richiamano
e si condizionano reciprocamente.
A questo punto dovremmo aprire due capitoli, uno sul processo d’inculturazione e l’altro
sul dialogo interreligioso, due temi importanti e attuali, sentiti molto fortemente, ma ciò
domanderebbe una trattazione che allungherebbe eccessivamente il nostro discorso. Rinvio
questa parte del discorso all’enciclica Redemptoris missio dove Giovanni Paolo II ha svolto in
modo ampio questi due argomenti (nn. 52-57). Faccio solo notare che il dialogo
interculturale diventa più vero quando entra nel campo delle religioni. Il dialogo
interreligioso è ritenuto un fattore importante di pacificazione anche dagli stessi governanti
civili che sono coscienti che nulla può essere più violento della mescola politica e religione.
Anche l’inculturazione del messaggio cristiano ha dei vantaggi non solo religiosi: quando la
24
cf. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1998 n.3; Benedetto XVI, Caritas in
veritate n. 42.
25
Giovanni Paolo II, Vita consecrata, n. 52.
26
Walter Kasper, Chiesa cattolica… p. 467. Il Cardinale Kasper afferma: “Il fine della missione è solo
indirettamente la chiesa e la diffusione della chiesa. In primo luogo si tratta dell’annuncio del regno di Dio che è
venuto con Gesù Cristo e che si fa adesso strada, nello Spirito Santo, per mezzo della chiesa”(ibid.).
27
Paolo VI, Ecclesiam suam (1964), n. 67: “La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La
Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio”.
28
Walter Kasper, Chiesa cattolica… pp. 470-471.
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missione cristiana introduce il messaggio evangelico nelle fibre profonde della cultura, non
solo assicura un’evangelizzazione non epidermica e pertanto profonda e durevole, ma salva
e conserva le culture locali dall’erosione della globalizzazione.
La multiculturalità nella società, nella chiesa e nella vita consacrata è oggi un fenomeno
storico che attende di essere positivamente sfidato a superare il dato di fatto per diventare
un fattore di unificazione e di futuro sviluppo in linea con la tendenza della storia e, in
definitiva, con il disegno del Padre di “ricapitolare tutto in Cristo” (Ef 1,10) per fare di Cristo
il cuore del mondo.
Tavernerio, 21-31 agosto 2013.
Gabriele Ferrari s.x.
[email protected]