Viaggio nel pianeta Ischia - I sentieri svelati Serrara Fontana - Forio Epomeo - Falanga - S. Maria al Monte di Giuseppe Sollino Epomeo. Il monte più alto dell’isola d’Ischia, dalla cui vetta (789 metri s.l.m.) si ammira lo spettacolo di un panorama scritto da una natura meravigliosa. In alcuni testi esso si trova citato con il nome di Epopeo, Epopo ed è spesso denominato inoltre Monte di San Nicola, per l’eremo e la chiesetta ivi esistenti, oppure Monte Forte. Particolarmente emozionanti le escursioni che sulla sua vetta amavano fare già i più antichi ospiti di Ischia allo scopo di ammirare, la mattina, il sorgere del sole, spettacolo attraente e cantato nei più svariati modi con accenti lirici e commoventi. Suggestivo anche lo spettacolo che da lassù si ammira sull’isola stessa e sulle terre vicine e lontane. Per vario tempo fu ritenuto un vulcano, ma poi A. Rittmann,geologo svizzero di fama internazionale, rigettò tale ipotesi e lo considerò la zolla più elevata di attività magmatiche che ha prodotto eruzioni e terremoti e che attualmente genera acque termali e fanghi idrotermali dalle indubbie qualità terapeutiche. Strabone nella sua Geografia così riporta: “Il monte Epomeo al centro dell’isola”. Plinio (Naturalis Historia, II, 89): “montem Epopon”; e sulla scorta di tale autore, Camillo Eucherio de Quintiis, cantando l’isola nel suo poema Inarime seu de balneis Pithecusarum così poetizza: Al centro l’Epopeo tra le nubi occulta la vetta dalle alte rupi: questo tortura, vindice tuttora, In vetta all’Epomeo Epomeo - Veduta (foto da Norman Douglas) e sovrasta con le sue rocce e preme in eterno Tifeo che, tre volte in tencione contro gli dei superni, dal fulmine tricuspide colpito, fiamme ora vomita dalla sua bocca. In merito alle citate denominazioni riportiamo una nota del prof. Giorgio Buchner (in Tremblements de terre.... estratto Publications du Centre Jean Bérard, Naples 1986): «I codici, come si rileva dall’apparato di Sbordone, recano Epoméa e in un caso Epomaia che tutti gli editori, a cominciare da Causabono (1587), correggono in Epopéa. La parola epopào - che siLa Rassegna d’Ischia n. 1/2012 17 gnifica “luogo donde si scorge ampiamente intorno” - è attestata infatti anche altrove quale toponimo di alture, e anche Plinio riporta il nome del monte nella forma Epopon. Se si considera ancora che il toponimo appare particolarmente appropriato per questo monte dalla cui vetta l’occhio spazia libero per tutto l’orizzonte su un meraviglioso panorama, non si può dubitare che l’emendamento colga nel giusto. Che la forma errata Epomeo sia ormai irrimediabilmente radicata è dovuto a Giulio Iasolino (1588) il quale, quando scrisse il suo libro (De’ rimedi naturali…), non poteva conoscere ancora l’emendamento di Casaubono. E più ancora che al testo di Iasolino in cui è riportato per intero il brano di Strabone in traduzione italiana e menzionato varie volte il nome Epomeo accanto a quello volgare di S. Nicola, la fortuna del toponimo artificiosamente reintrodotto è dovuta alla carta topografica dell’isola in grande scala che accompagnava il suo libro e sulla quale è indicato in grandi lettere maiuscole MAXIMUS MONS EPOMEUS. Dalle riproduzioni di questa carta che ebbero vasta diffusione, il nome è passato successivamente alle carte più recenti e a tutti gli scritti che trattano dell’isola. Dall’impiego erudito la voce Epomeo, negli ultimi decenni, è ormai penetrata stabilmente anche nel parlare degli isolani, tanto che oggi soltanto i contadini anziani usano ancora la genuina denominazione locale di San Nicola, derivata dalla chiesa del santo scavata nel tufo della vetta». Di questa chiesetta del Santo già parla lo storico Giovanni Pontano, nel De bello neapolitano, lib. V, quando descrive la battaglia fra Giovanni d’Angiò e le truppe dell’ammiraglio Giovanni Poo: «Era nella cima del monte una picciola chiesa di San Nicola, dalla quale era non molto lontano un bastione vecchio, fatto per ricovero delle genti per gli improvvisi assalti dei Mori, il qual luogo è chiamato in vocabolo barbaro la Bastia». Secondo Enrico Iacono che ha pubblicato nel 1952 uno studio completo sull’Epomeo «non è facile stabilire l’epoca precisa in cui il monte fu scavato, né si può affermare che quelle grotte erano scavate fin dagli albori del cristianesimo. Forse furono ampliate durante le incursioni dei pirati per la popolazione che in esse si ritirava per trovarvi scampo e salvezza». Giulio Cesare Capaccio nella Historia Neapolitana (1607) riporta le due denominazioni: «Epomeo nel mezzo dell’isola, detto anche monte di S. Nicola». Scipione Capece, nel poemetto Inarime ispirato da devota ammirazione per Vittoria Colonna, dice poeticamente che l’isola fu in possesso del re Epopo. Costui, da lungi venuto, abbandonati i campi eretrii e le rocche calcidiche, qui approdò con una eletta schiera, vi stabilì una meravigliosa sede e dal suo nome chiamò Epopo anche il monte che interrompe la distesa del mare e alto si eleva verso le sedi celesti. E qui in una rada ricurva e tranquilla d’Inarime, cui fan corona i “colli chiomati di Epopo”, trovò sicuro ancoraggio la flotta di Enea, profuga da Troia e dal fato guidata verso le sponde del Tevere. E ne venne quindi ancor la denominazione di Aenaria. Non di rado si hanno in testi poetici riferimenti generici: Monte altier - Monte di Tifeo, dalla leggenda che fa giacere sotto questa mole il gigante che osò porsi contro Giove e per castigo vi rimase sepolto. “Cuore pulsante dell’isola”: così definisce oggi l’Epomeo Pasquale Balestriere: «Qui l’anima si piega su se stessa, assorta nella meditazione; qui, lontano dai rumori del mondo, ognuno può recuperare una dimensione più intima, assaporare una pace più autentica, riflettere sulla caducità delle cose, “sentire” l’infinito, in uno stato d’animo che trascende ogni fisicità». Il Percorso Anche una giornata uggiosa e piovosa può invitare ad un fantastico viaggio nella natura di Ischia. Si va alla Falanga: quella brulla parte dell’Epomeo che tante volte abbiamo visto illuminarsi dei colori dell’alba, che là è sempre uno spettacolo. Mentre ci spostiamo verso l’area Valori dei percorsi Valore storico-geologico: l’origine sottomarina del “Tufo Verde”, roccia sedimentaria di grande interesse. Valore architettonico: le case di pietra scavate nelle rocce tufacee dell’Epomeo. Valore paesaggistico: grande panoramicità. Valore vegetazionale: felci, castagni ed erbe aromatiche. 18 La Rassegna d’Ischia n. 1/2012 Le pietre della Falanga della Falanga, comincia sempre di più a delinearsi la struttura sinuosa di valli e calanchi che degradano fin verso il mare dei Maronti che sembra quasi abbracciare il promontorio di S. Angelo Ad ogni passo il sentiero ci mostra squarci di natura che avevamo dimenticato. Ci sorprende, allora, la fioritura dell’umile e sorridente Pratolina; i Cisti imbruniti sono circondati dalla solare Euphorbia, qui particolarmente robusta e satura di benefico latice, capace di eliminare porri e verruche. Ogni tanto spuntoni di roccia trachitica interrompono lo strato di tufo con le loro inconfondibili tonalità di verde, che ne fanno una rarità mineralogica. Intenti a percorrere in sicurezza il sentiero, spesso a strapiondo per i vari calanchi che bordano la fascia meridionale della zolla epomeica, siamo quasi costretti a cogliere quei piccoli e nascosti “particolari” che la natura offre a piene mani, ma che i nostri occhi non sanno più “sentire”. Così un brandello di lava che si insinua nel tufo o una violetta che fa capolino tra le mille erbe appaiono meraviglie di un ambiente dal fascino segreto. Non si deve andare lontano per ammirare quei piccoli capolavori che nell’isola sono frequenti; bisogna fermarsi ed entrare in sintonia con la natura aspra ed ancora selvaggia, spesso ostile, ma mai cattiva. Faticosamente, con il viso umido, raggiungiamo un sentiero che si apre nel tufo verde, che immette in un bosco di Acacie e di Castagni, con un ricco sottobosco inverdito da turgide Ferule, piante aromatiche, e Ciclamini. Il tutto è avvolto da una leggera foschia che sa di antico, sa delle fiabe che ci hanno raccontato da bambini, di boschi, di streghe, di principesse dagli occhi verdi e di azzurri cavalieri che alla fine coronano il loro sogno d’amore. Ci avvince una Il Monte Epomeo nell’arte Dall’Epomeo - Giacinto Gigante (1806-1876) L’Epomeo da Lacco Ameno - Lancelot Théodore Comte de Turpin, 1824 In vetta all’Epomeo: Meditazione (Anonimo) La Rassegna d’Ischia n. 1/2012 19 In vetta all’Epomeo - Romitorio (W. Friederich Gmelin, 1745/60 - 1821) Epomeo - Philippe Coignet (1798 - 1860) 20 La Rassegna d’Ischia n. 1/2012 magica atmosfera; anche le grigie rocce si animano, si riesce a ”vedere” il di dentro delle cose, non solo ciò che appare. Così è bello anche perdere l’orientamento, se questo ti fa incantare a fissare i mille Licheni che formano merletti fiabeschi sui tronchi rinsecchiti dei castagni e sulle rocce. Alla fine la nebbia si dirada e così riusciamo a scorgere le “case” scavate nelle rocce, che accoglievano la popolazione in fuga dalle aree costiere per sfuggire alla furia distruttrice dei Saraceni. Qua e là si scorgono le “fosse della neve”, dentro le quali i “nevaioli”conservavano la bianca meteora che, tramutata in ghiaccio, serviva a rinfrescare la calda e lunga estate con la preparazione di granite dal profumo di bosco. Si racconta che per questa attività i “nevaioli” ricevettero particolari privilegi dal re Ferdinando II di Borbone, che gradiva molto gustare le granite nella sua residenza estiva di Ischia (Palazzo Reale – Casino Buonocore). Oggi queste antiche fosse ospitano una particolare vegetazione ombrofila fatta di eleganti felci (Polypodium, Polysticum, Pteris ecc) e colorati Anemoni. Il sentiero che porta verso Forio, e che si inoltra tra i Castagni, è arricchito da mille erbe. Riconosciamo l’umile Parietaria, l’Aglio selvatico, il Pungitopo, la Valeriana e qua e là Violette, Ciclamini e Anemoni fioriti. Ci fermiamo per una gradita sosta attratti da un antico complesso abitativo scavato nei massi tufacei dell’Epomeo. Una imponente abitazione, scavata nell’ antico sedimento marino diventato roccia, è ancora molto accogliente. Varie feritoie permettono alla luce solare di filtrare, rischiarando così l’angusto spazio interno. Sedili scolpiti nel tufo bordano gli angoli della stanza, mentre al centro le foglie di Castagno ricoprono un tavolato. Poco distanti, si riconoscono cellai e cantine sempre ricavate dalle rocce scolpite con un’arte che gli antichi ischitani conoscevano alla perfezione, così come sono perfette le canalizzazioni esterne, incise sui massi per convogliare l’acqua piovana in capienti pozzi. Senza ulteriori indugi, riprendiamo il sentiero che rapidamente conduce a S. Maria al Monte. I cigli e i bordi sono splendidamente inverditi da Calle, Ginestre,Valeriane e Psolaree. Qua e là occhieggiano gli Anemoni e le profumate Violette. Ci fermiamo a guardare il panorama, che si apre agli ultimi raggi del sole, che ha vinto – e non è infrequente in quest’isola - la sua battaglia in una giornata grigia e piovosa. Dal piazzale della chiesetta di campagna è possibile ammirare la costa di Forio da Punta Imperatore a Citara, fino al promontorio con la bianca chiesa della Madonna del Soccorso. E più in là lo sguardo si perde nell’azzurro del mare fino Forio - S. Maria al Monte alla costa continentale. Si prosegue scendendo un sentiero di scale fatto di trachite e tufo verde che dà vita alle inconfondibili “parracine” (caratteristici muri a secco delle aree agricole terrazzate di Ischia). Arriviamo così su una strada asfaltata che ci riporta alla realtà urbana. Ma, volgendo lo sguardo la sagoma del monte Epomeo e delle colline circostanti ci rapisce ancora con i suoi aromi, i suoi colori e la sua naturale armonia. Di fronte a noi una piccola collina è interamente ricoperta da Ulivi e Lentischi, ma anche da Aloe, Fichi d’India ed Agavi che formano un “unicum” vegetazionale di grande fascino. Intanto il sole va a dormire tuffandosi nel mare all’orizzonte in un tenero abbraccio. Le nuvole intorno sembrano aprirsi per regalarci un ultimo raggio di sole di una giornata in cui la natura e l’uomo si sono fusi in un’armonia magica e lontana come nei racconti delle fiabe più belle che l’uomo non usa più scrivere. Giuseppe Sollino Le fosse della neve La Rassegna d’Ischia n. 1/2012 21 I muri a secco, detti parracine Le parracine fanno parte delle bellezze non naturali, sebbene abbiano tratto la loro composizione generalmente dalle pietre di tufo, le quali, pertanto, rappresentano gli elementi, le sillabe di questo meraviglioso linguaggio che accompagna il turista nelle sue escursioni alla scoperta dell’Ischia sconosciuta. La forma rusticana con cui il colono volle recintare i suoi campi resta il più bell’ornamento delle nostre stradette di campagna. L’ingegno e la fantasia che univano la necessità dello sfogo dell’acqua piovana imbevuta dal terreno ad un ornamento semplice e rustico s’incontrarono quando la mano dell’artista posò la prima pietra di questi muri a secco che il colono greco chiamò parracine. Le balze tagliate a scaloni le ebbero per contrafforti dando alle campagne ischitane un pregio ornamentale. Sul loro ciglio l’ingordo vignaiuolo incastonò, talvolta, acuminati cocci di vetro, per evitare al passante troppo prodigo coi beni altrui di piluccare arditamente i bei grappoli maturi per la vendemmia, o vi fece nascere il rovo spinoso; ma la natura, che asseconda l’opera dell’artista, vi fece spuntare gratuitamente il roseo fiore della cannochiara. E dalle fessure uscì la menta selvatica, e molte si rivestirono di parietaria, mentre alla base, sul verde fondo, gli anemoni incastonarono gemme azzurre e gialle. Quando da poco sono state erette, la pietra è fresca, bruna se lavica, gialla o verdina se tufacea, rossa se vicino sta una vena di roccia ferrigna. Col tempo si macchiano di chiazze bianche, poi si rivestono di muschio prima rossastro, poi verde, che i fanciulli raccolgono per coprire i loro presepi. Di giorno, quando il sole ne illumina di sbieco la facciata e gli interstizi appaiono bene ombrati, esse esprimono un ricamo, in cui si leggono i sobri pensieri dei contadini, le sommesse parole del solitario viandante, il canto degli uccelli, il verso dell’asinello, l’immagine del cacciatore e del cane. È un bassorilievo che racconta tutta la vita e i costumi dell’Isola. E questo bassorilievo, spiegandosi alla nostra contemplazione, ci mostra un susseguirsi d’immagini. Ecco i muli con la classica soma; le contadine col fascio d’erba in testa, cantando ariette patetiche; il comignolo che fumiga; la massaia che cuoce il “coniglio alla cacciatora”; lo zappatore al lavoro; la noria, che al girar del somarello bendato riempie le capaci vasche. E poi filari di viti, balze a scaloni, alberi da frutta ed erbe aromatiche. Di notte, quando la luna è piena, l’effetto si ripete; ma la scultura acquista una tonalità più poetica. Dalla sua reggia il grillo, fattosi sul limitare, incanta le notti col suo cri-cri. E quando tutto tace e il notturno silenzio avvolge la vita di sogni, chi nascostamente sta a spiare vede quella vita statuaria a poco a poco animarsi: l’uccelletto salta di ramo in ramo; la vite s’abbraccia ai rami, intrecciandoli con amplessi svenevoli; l’uva premuta cola nei palmenti odorosi. Più in là quelli che battono il solaio di lapillo: i tamburi suonano; arrivano i grossi cesti imbandierati pieni di cibi profumati e, mentre i magli di legno - i “pentoni” - battono, tutti ballano e cantano: “curre, patrone, e porte u buttiglione”. Ecco l’alta scala a pioli; le campane di mezzogiorno; il fischio di primavera, di salcio bianco, suonato il 21 marzo; i fuochi artificiali sparati all’alba - la diana - per annunziare il giorno di festa; il crotalo che nel Venerdì santo andava suonato in giro pel paese, al posto delle campane; le nasselle piene di fichi al sole; i soffietti per lo zolfo; la vecchietta che fila alla “conocchia”; la ragazza che lava nel vaso di terracotta; la donna davanti alla “ariatella”; il “piennolo” di pomodori; lo stridere delle tessitrici; la conserva sui tetti aprichi; l’uccelletto in gabbia; la cicala col suo rauco accento matura l’estate; il pescatore fa la nassa; il gozzo e i remi; le processioni del Santo Patrono per mare e quelle in campagna. (Da una comunicazione di G.G. Cervera al Centro Studi dell’isola d’Ischia Omaggio a Giovan Giuseppe Cervera scrittore - storico - poeta Il Centro Studi dell’Isola d’Ischia, presieduto dal dott. Antonino Italiano, ha reso omaggio allo scrittore Giovan Giuseppe Cervera con una mostra (aperta sino all’8 gennaio 2012) di sue pubblicazioni ed opere inedite (manoscritti, articoli, quaderni, comizi, atti di teatro, foto, ecc.). Il materiale, contenuto in 8 bacheche, è esposto alla Biblioteca Antoniana d’Ischia e 22 La Rassegna d’Ischia n. 1/2012 comprende anche 3 carte schematiche recanti gli itinerari meno conosciuti dell’isola, nonché una mappatura delle secche e degli scogli più importanti del litorale, con relativi toponimi. L’allestimento, curato da Lucia Annicelli e Moreno Cervera, prevede anche la proiezione di alcuni dattiloscritti che possono essere comodamente letti sullo schermo dell’Aula Magna. La figura di Giovan Giuseppe Cervera è stata illustrata in un convegno, tenuto il 25 novembre 2011 nella bella navata della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli in Ischia, dal prof. Agostino Di Lustro (Cervera, l’uomo, lo storico) e dal prof. Pasquale Balestriere (Cervera, il poeta, lo scrittore); inoltre nella stessa giornata si è svolto, presso il Ristorante “da Cocò” un convivio per ricordare il Cenacolo di Casa Cervera con musiche, canti e declamazioni poetiche e teatrali.