LA PARTECIPAZIONE POLITICA
Una definizione preliminare
Le definizioni di partecipazione politica abbondano. Partecipazione politica = la partecipazione politica è
quell’insieme di azioni e di comportamenti che mirano a influenzare in maniera più o meno diretta e più o
meno legale le decisioni dei detentori del potere nel sistema politico o in singole organizzazioni politiche,
nonché la loro stessa selezione.
La partecipazione può essere:
•
visibile (vedi sopra)
•
invisibile - in base alla presenza di un’opinione pubblica interessata alla politica e informata sui
suoi sviluppi; si attiva raramente e in modo non continuativo. Modalità di partecipazione politica:
 riconosciuta dalle norme, quindi legale
 non riconosciuta ma accettabile e comunque non illegale
 non riconosciuta con diversi gradi di extra-legalità oppure di illegalità.
La partecipazione politica è meglio analizzabile come sub specie di attività e comportamenti, stimoli e
risorse che hanno come referente il singolo individuo. Non si tratta di aderire ad una prospettiva
individualistica nell’epoca della politica di massa (rational choice), secondo cui gli individui agiscono solo in
base a calcoli razionali, ma si parte dall’individuo e i suoi comportamenti per spiegare i processi di
formazione dei gruppi e delle attività collettive.
Un processo complesso
La partecipazione politica è , al tempo stesso, un fenomeno antico (si può parlare di politica come attività
svolta in comunità organizzate) e un fenomeno recente (strettamente legato ai mutamenti
socioeconomici).
Di partecipazione politica si può parlare anche nel caso delle città stato greche e nella Repubblica romana
(già lì si possono riscontrare e caratteristiche centrali della partecipazione, in quanto influenzava le scelte
dei decisori e le decisioni stesse nonostante fosse molto limitata a livello numerico); queste esperienze
hanno suggerito ai pensatori forme di democrazia diretta (petizioni, iniziative legislative popolari,
referendum).
Di partecipazione politica si tornerà a parlare soltanto con l’emergere delle forme moderne di Stato nel
mondo occidentale. Il fenomeno ha assunto caratteristiche più specifiche dopo la formazione degli Stati
nazionali.
La partecipazione politica iniziò ad ampliarsi a causa dei conflitti interni ai diversi settori delle élite, ai
detentori del potere. Una volta acuitosi il conflitto, alcuni settori delle élite cercano sostenitori in un ambito
più ampio per procedere alla mobilitazione politica. Ciò avviene:
•
con la rottura delle vecchie regole e strutture seguita dalla creazione di nuove (ad esempio con
l’espansione della partecipazione elettorale)
•
in maniera sregolata, con improvvise irruzioni di individui nella sfera politica e probabili rivoluzioni
al seguito, con dimostrazioni violente, tumulti, scioperi selvaggi, eccetera …
La partecipazione elettorale è soltanto una delle modalità di partecipazione ma ha conseguenze immediate
e significative che influenzano la selezione dei governanti; il diritto di esercitare il voto rende la
partecipazione elettorale un fenomeno centrale.
C’è chi collega direttamente il processo di democratizzazione con quello di partecipazione politica. Rokkan
individua quattro soglie istituzionali superando le quali si amplia il processo di partecipazione politica:
 legittimazione – prevede il riconoscimento del diritto di petizione, critica, dimostrazione,
riunione, espressione e stampa
 incorporazione – prevede la concessione di formali diritti di partecipazione alla scelta dei
rappresentati con piena parità rispetto all’establishment
 rappresentanza – abbassamento delle barriere che impedivano la rappresentanza di nuovi
movimenti
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 potere esecutivo – forze parlamentari hanno influenza diretta sul processo decisionale
dell’esecutivo
Questo processo di democratizzazione è accompagnato dall’ampliarsi dei livelli di partecipazione.Esso è
plasmato dall’interazione significativa fra la dinamica della sfera politica e la dinamica della sfera
socioeconomica, con l’entrata in campo dei processi di mobilitazione sociale, cioè:
 spostamenti di popolazione dalla campagna alla città
 spostamento dal settore agricolo a quello industriale
 crescita dell’alfabetizzazione
 maggiore esposizione ai mezzi di comunicazione di massa.
Questi mutamenti vanno in direzione di una maggiore disponibilità a partecipare per influenzare i processi
che riguardano più da vicino gli individui, quindi in particolare quelli attinenti alla sfera politicoamministrativa. Il processo che porta ad un maggior coinvolgimento verrà definito:
 partecipazione – quando parte dal basso in modo autonomo e spontaneo
 mobilitazione – quando è indotto dai detentori del potere e perciò riflette il tentativo dei detentori
del potere di organizzare e tenere sotto controllo il consenso e il sostegno dei cittadini; la
mobilitazione può essere:
 primaria – quando c’è la rottura degli antichi schemi di comportamento
 secondaria – quando c’è una rimobilitazione di gruppi che si erano adagiati su schemi di
comportamento passivi e subordinati o che avevano fatto un passo indietro rispetto alla sfera
politica
 smobilitazione – opposizione alla mobilitazione, si cerca di tornare allo status quo smobilitando i
settori appena mobilitati … Nb. Nonostante gli sforzi in senso contrario, una volta attivati processi
di mobilitazione la partecipazione politica non può essere spenta del tutto con processi di
smobilitazione
Un processo a più stadi
Politicizzazione = consapevolezza che altri individui e gruppi (decision makers) influenzano e talvolta
plasmano destini personali e collettivi; maggiore è tale consapevolezza, più crescerà il tasso di
partecipazione.
I diversi tassi di politicizzazione dipendono da un insieme di fattori che derivano dalla cultura e dalla
struttura politica (un esempio di fattore può essere una precedente esperienza di partecipazione).
Se i detentori del potere si sono dimostrati sensibili e ricettivi alle domande espresse o sono stati insensibili
ad esse la partecipazione crescerà; se invece i detentori del potere politico sono in grado di ricorrere alla
repressione e rendono i costi personali di qualsiasi atto di partecipazione elevati essa diminuirà.
Esistono anche spinte alla non partecipazione, all’astensionismo elettorale, all’abbandono dell’arena
pubblica a favore del riflusso nel privato ... ciò a causa della messa in discussione dell’utilità concreta e
immediata della partecipazione.
In generale possiamo concentrare le differenti modalità di partecipazione in due categorie, ovvero le
attività orientate alla decisione e quelle orientate all’espressione.
La partecipazione elettorale
La partecipazione elettorale è una delle modalità di partecipazione politica e forse in termini di impatto
politico neppure la più importante anche se la più diffusa e la più universale.
La partecipazione elettorale si presta a svariate analisi in profondità e nessuna analisi della partecipazione
politica può prescindere dall’analisi del comportamento e della partecipazione elettorale.
Nel caso italiano fino al 1993 sono stati riscontrati tre tipi di relazione fra elettori e partiti, da cui derivano
tre tipi di voto:
 voto di appartenenza: l’elettore si sente parte di un’area socioculturale che, cosa che si traduce in un
comportamento elettorale stabile nel corso del tempo
 voto di opinione: l’elettore si ritiene capace di scegliere di volta in volta tra le varie proposte
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 voto di scambio: rapporto clientelare (promessa di favori e risorse) continuativo nel tempo con gruppi
di elettori
L’estensione del suffragio ha prodotto la creazione di strutture partitiche e istituzionali adeguate a
sostenere il peso della partecipazione elettorale. Dove la partecipazione elettorale non è tutelata
efficacemente tutte le altre forme di partecipazione politica risultano alquanto difficili e precarie.
La spiegazione delle differenze fra i vari sistemi politici è sistemica, cioè dipende dalle caratteristiche
politiche e istituzionali di ciascuno sistema politico. Essa quindi è ricollegabile alla salienza delle elezioni,
all’importanza che gli elettori attribuiscono al loro esito e alla percezione che hanno della propria influenza
su quell’esito.
Nb. Molte elezioni hanno esito predeterminato per il vantaggio di uno dei candidati, in questi casi il tasso di
astensione risulta elevato, in parte compensato da altre forme di partecipazione politica come i
referendum.
Il voto tuttavia non è del tutto privo di costi e viene diversamente agevolato o complicato dalle regole che
vi sovrintendono. E’ un atto che traduce con immediatezza le preferenze dei singoli elettori, tuttavia
comunica informazioni generiche: infatti si esprimono preferenze ma non si forniscono informazioni precise
per quel che riguarda le politiche pubbliche preferite a meno che il voto non riguardi un referendum.Pur
essendo un atto individuale, il voto ha un insieme di caratteristiche che consentono di analizzarlo in un
contesto più ampio.
L’inclinazione degli individui ad esercitare il diritto di voto riguardano alcuni orientamenti psicologici e
alcune componenti ambientali.
Cosa porta la gente a votare? L’interesse per la politica, l’informazione e la discussione politica, la capacità
di influenzare la scelta (senso di efficacia), il coinvolgimento attivo in campagne elettorali, scioperi,
manifestazioni, movimenti e l’iscrizione a associazioni professionali, culturali, economiche, gruppi di
interesse, sindacati e partiti.
I partecipanti
Milbrath: “le persone vicine al centro della società sono più inclini a partecipare in politica delle persone
vicine alla periferia”. Il centro di un sistema è composto da quei gruppi che dispongono di un livello di
reddito elevato, un buon grado di istruzione, un lavoro non manuale, non lontano dal vertice della
stratificazione sociale, spinte dal desiderio di conservare le risorse a loro disposizione.
Contestazione: vi sono cittadini di status elevato che non partecipano o di basso status che
partecipano.Pizzorno: “la partecipazione politica è tanto maggiore quanto maggiore è la coscienza di
classe”.
La maggior parte degli autori sostiene che le organizzazioni (es. partiti e sindacati) costituiscono lo
strumento/veicolo principale di partecipazione politica, in quanto al loro interno le disuguaglianze di status
possono essere colmate e le persone di condizione socioeconomica inferiore possono aspirare a ridurre il
dislivello nell’accesso al potere politico. Anche qui comunque sarà chi possiede migliori risorse e più elevati
tassi di attività ad avere maggiore influenza, pur in modo minore.
Qui fanno la loro comparsa le variabili personali (interesse, informazione e senso di efficacia) con le variabili
di gruppo (gruppi sociali, associazioni professionali, organizzazioni di interessi). La stessa coscienza di classe
come variabile viene definita come la capacità delle organizzazioni di infondere solidarietà e di creare
identità in settori sociali. Pizzorno afferma che “la coscienza di classe promuove la partecipazione politica e
a sua volta la partecipazione politica accresce la coscienza di classe”.
Altre variabili sono il genere (gli uomini godono di condizioni complessivamente più favorevoli alla
partecipazione politica), l’età e l’inserimento nella vita sociale e lavorativa.
Il modello proposto da Pizzorno tuttavia non è riuscito a spiegare perché le persone collocate in posizione
medio-alta della scala sociale partecipano significativamente più dei concittadini meno favoriti. Verba:
propone il modello del volontariato civico, in cui l’autore si chiede perché i cittadini non partecipano
attivamente dando tre possibili risposte: perché non possono, perché non vogliono, perché nessuno glielo
ha chiesto.
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Verba indica due elementi indispensabili per passare dalla pura disponibilità di risorse all’impegno politico:
 la propensione all’impegno che deriva da norme sociali diffuse e dal senso del dovere individuale,
“civico”, del cittadino
 esistenza di strutture di reclutamento dove l’impegno individuale riesca a trovare uno sbocco
Le differenze di partecipazione risultano spiegabili quando si riesce a rispondere a tre interrogativi che
riguardano i partecipanti: dove hanno acquisito le capacità civiche, dove hanno ricevuto la spinta
all’impegno, chi li ha reclutati. Le capacità civiche possono essere acquisite in una pluralità di sedi e
possono venire dalle confessioni religiose, dai partiti e dai sindacati. Ciò che differenzia il volontariato civico
dallo status socioeconomico è che esso non si limita a prendere atto delle differenze di partecipazione ma
le spiega in tutti i ceti.
Qualcosa forse è cambiato negli ultimi tempi con la partecipazione femminile e quella giovanile, che si è
espressa non soltanto attraverso l’affluenza alle urne ma in forme nuove e inusitate.
Altre forme e modalità di partecipazione politica vengono teorizzate da Milbrath, Verba, Nie e Kim.
Considerando l’elenco di Milbrath troppo alto, terremo in considerazione le proposte di Verba, Nie, Kim da
un lato, Barbagli e Macelli dall’altro.
Verba, Nie, Kim:
1. prendere parte alle campagne elettorali
2. svolgere attività di collaborazione
3. votare
4. prendere contatti con dirigenti politici.
Critica: troppo parsimonioso, non tiene conto dei partiti e del ruolo della protesta.
Barbagli e Macelli:
1. dedicare tempo e lavoro a un partito
2. andare a sentire dibattiti
3. partecipare a cortei e comizi
4. iscriversi e sostenere economicamente un partito
5. rivolgersi a uomini politici e inviare lettere e reclami ad autorità pubbliche
6. cercare di convincere a votare per un candidato/partito
7. firmare per leggi di iniziativa popolare e referendum
Due modi diversi di leggere la partecipazione politica:
•
nel contesto statunitense è in qualche modo un’attività di individui nelle loro comunità
•
in Europa è fortemente mediata dai partiti
Barbagli e Macelli citano inoltre dei comportamenti non convenzionali di partecipazione:
- aderire a un boicottaggio
- rifiutare di pagare le tasse
- occupare edifici
- aderire a uno sciopero
- bloccare il traffico con una dimostrazione.
Kaase e Marsh suddividono e classificano i cittadini in base alla loro partecipazione politica:
 gli inattivi - leggono di politica e sono disposti a firmare una petizione
 i conformisti - impegnati solo in forme convenzionali di partecipazione
 i riformisti - forme convenzionali di partecipazione, ma anche di protesta
 gli attivisti - forme illegali di azione politica
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 i contestatori - non prendono parte alle forme convenzionali di politica e si astengono da contatti con
dirigenti o dalle urne
La razionalità della partecipazione politica
Le probabilità che un singolo elettore ha di influenzare il risultato complessivo sono minime, cosicché se
l’obiettivo di ciascun elettore consistesse nel dare un voto decisivo, il comportamento dei singoli elettori
risulterebbe inspiegabile e irrazionale. Al contrario risulta spiegabile perché molti cittadini decidano di
rinunciare al diritto di voto. Infatti, nel caso di voto la motivazione strumentale (perseguimento di un
obiettivo preciso, come l’elezione di un candidato o l’attuazione di una politica gradita) è in linea di
massima subordinata a quella espressiva (riaffermazione di un elettore dell’appartenenza a una classe
sociale, a un gruppo etnico, eccetera). Nel caso di voto espressivo le motivazioni del prendere parte si
fondono con quelle dell’essere parte. Soltanto così risulta spiegabile perché masse considerevoli di cittadini
si sacrifichino per partecipare.
Se si tiene conto di queste motivazioni viene meno drasticamente l’obiezione secondo cui la partecipazione
politica non può cambiare la situazione, anzi rafforza il potere.
Capitolo partecipazione di gruppo: chi partecipa si propone di influenzare la distribuzione dei beni collettivi
in modo più favorevole a sé stesso che al bene collettivo. Quest’ultimo, inoltre, ha carattere indivisibile, nel
senso che il beneficio guadagnato dal gruppo non riguarderà solo chi si è battuto per ottenerlo, ma anche i
free riders, che perciò godono di un “viaggio gratuito” (dal loro punto di vista il non aver partecipato è un
comportamento razionale. Naturalmente se ci sono troppi free riders vi è carenza di partecipazione e va a
farsi tutto benedire. Due considerazioni: primo, non si può affermare se i partecipanti si trovino in
condizioni peggiori/migliori dei free riders; secondo, questi ultimi possono essere consapevoli (freddi
calcolatori) o inconsapevoli (che poi magari si pentono di non aver partecipato).
Conclusione di Olson: “L’individuo razionale non sarà disposto a compier alcun sacrificio per conseguire gli
obiettivi che egli condivide con gli altri. Solo quando i gruppi sono piccoli essi si organizzano e agiscono per
conseguire i loro obiettivi”.
Olson tocca tre aspetti centrali: a) le motivazioni dei singoli b) il rapporto fra agire individuale e agire di
gruppoc) la natura e l’importanza dei beneficiLa partecipazione, inoltre, è soggetta a cicli di coinvolgimento:
a fase di intensa attività corrispondono fasi di ritiro. Hirschman: il punto chiave è il non riuscire a ottenere
la felicità. “Quelli in grado di partecipare attivamente alla determinazione degli eventi rischiano di
sperimentare l’impegno eccessivo, diversamente da quelli che non desiderano nulla di più ma anche nulla
di meno che testimoniare le proprie nuove opinioni. La stessa persona può avere idee diverse in momenti
della sua vita. La scelta tra il troppo o il troppo poco, è necessariamente deludente in un modo o nell’altro”.
A questo punto Hirschman introduce il tema degli incentivi: le organizzazioni devono essere capaci di
ricorrere a incentivi selettivi, diretti a mobilitare in maniera differenziata i loro iscritti, come ad esempio i
benefici materiali (ricompense tangibili), i benefici di solidarietà (che attengono al senso di identità tra i
membri dell’organizzazione, al prestigio, eccetera) e i benefici orientati allo scopo (riguardano elementi di
carattere ideologico, con obiettivi elevati come la trasformazione dei rapporti sociali, la creazione di una
società giusta, la supremazia di una razza e compagnia bella).
La partecipazione nei partiti e nelle organizzazioni
Uno studio sul partito comunista italiano ha fatto emergere tre tipi di partecipante miltante:
 partito ideale – concezione forte e totalizzante del partito; chi partecipa è attratto da ideali di solidarietà
e identità
 partito progetto – concezione forte definita da obiettivi generali di trasformazione sociale; chi condivide
questa concezione è motivato da incentivi volti ad uno scopo
 partito strumento – concezione debole definita da obiettivi/tratti particolari e contingenti; chi abbraccia
questa concezione è più sensibile a incentivi materiali
Strettamente collegato a questi tre punti è il tema della democrazia nelle organizzazioni: se la democrazia
non può mantenersi e instaurarsi all’interno del partito diventa impossibile che succeda nel sistema stesso.
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Tale Linz rielabora la teoria di Hirschman andando a parlare dei fenomeni che possono avere luogo nelle
organizzazioni, come ad esempio:
 la formazione di una leadership e la sua stabilizzazione, con conseguente centralizzazione dell’autorità;
 la formazione di una burocrazia interna;
 la sostituzione dei fini ultimi (ideali) a strumentali (organizzazione diviene fine a se stessa);
 rigidezza ideologica;
 prevalenza degli interessi dei leader su quelli dei membri con perdita di potere da parte di questi ultimi;
 spostamento da una base formata dai membri del partito ad una elettorale sempre più ampia.
Naturalmente (non in Italia) nelle organizzazioni può comunque instaurarsi un processo decisionale
democratico.Si pone infine il problema di come gli individui comuni riescano influenzare la
leadership:Hirschman teorizza tre modalità con cui gli iscritti a un organizzazione possono influenzare le
scelte di questa: la protesta (voice) attraverso i canali di comunicazione esistenti, la defezione (exit) con
l’abbandono dell’organizzazione e la lealtà (loyalty), che consiste nel sostegno in momenti difficili.
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GRUPPI E MOVIMENTI
Analisi dei gruppi: pluralismo e rigidità sociale
La pluralità e la competizione dei gruppi sono elementi essenziali per il manifestarsi, il mantenersi e il
trasformarsi della democrazia; si è sottolineata, inoltre, l’importanza che rivestono i processi di affiliazione
multipla degli individui ai gruppi. Individui che appartengono a più gruppi si renderanno facilmente conto
della necessità di comporre e conciliare i diversi interessi da loro rappresentati piuttosto che cercare lo
scontro o la resa dei conti.
Altrettanta importanza hanno le organizzazioni che fanno incontrare individui di diversa provenienza
economica, sociale e religiosa, facendo venir meno tensioni altrimenti distruttive dell’ordine sociale.
Le analisi svolte dai politologi sono volte all’individuazione e alla classificazione dei gruppi, oltre che alle
loro modalità d’azione. Almond e Powell asseriscono quattro forme di gruppi:
 gruppi di interesse anomico: emergono fuori dalle regole e non dispongono di canali per
manifestarsi. Si sentono spinti a drammatizzare la loro situazione in maniera anomica, con il ricorso
a dimostrazioni, tumulti, sommosse, saccheggi, assassini;
 gruppi di interesse non associativo: gruppi di interesse basati sull’etnia, sulla religione, sulla
parentela, legati quindi da appartenenze primarie o tradizionali che stanno alla base della similarità
d'interessi;
 gruppi di interesse istituzionali: gruppi che hanno una comunanza stabile di interessi (che si tratti
di nobili di corte, di militari o di burocrati). L’interesse di questi gruppi è difendere i privilegi
guadagnati;
 gruppi di interessi associativi: i processi di modernizzazione fanno sorgere una pluralità di interessi
economici, sociali, culturali. Questi gruppi cercano di valorizzare le esigenze e le preferenze degli
iscritti che hanno liberamente deciso di farne parte. Le organizzazioni professionali e i sindacati
costituiscono dunque questi gruppi.
Nota bene: I gruppi sopra elencati hanno diverso status e potenzialità.
Passiamo ora alle modalità d’azione dei gruppi … la più classica è la pressione, da cui il termine “gruppi di
pressione”, in inglese “lobby”.Questa pressione può essere esercitata secondo numerose varianti e gradi
variabili di successo; tutti i gruppi sono riconosciuti e accettati: il loro vantaggio/svantaggio è dovuto alla
congruenza con le norme culturali generali di una data società.
In generale, si possono produrre sei tipi di rapporti fra gruppi e cultura politica di un sistema:
1. armonia fra le domande dei gruppi di pressione e le norme culturali generali
2. crescita graduale nell’accettabilità dei valori politici a sostegno delle domande dei gruppi di
pressione
3. negoziazione con sostegno fluttuante da parte delle norme culturali
4. promozione di fronte all’indifferenza culturale
5. promozione di fronte a tendenze culturali di lungo periodo in mutamento
6. conflitto fra i valori culturali e gli obiettivi
I gruppi di pressione dovranno mettere i loro interessi in sintonia con quelli più generali che discendono
dalle norme culturali di una data società. Ciascun gruppo cercherà di massimizzare le sue opportunità di
successo facendo leva sulle risorse e i canali di comunicazione a cui è in grado di accedere più facilmente,
individuando il livello al quale vengono prese le decisioni che lo riguardano.
Detto questo, le probabilità di successo di un gruppo sono influenzate dalle risorse a sua disposizione, tra
cui:
 la dimensione - il numero di appartenenti a un gruppo; può essere fatta valere sia direttamente
(influenzando con il voto) che indirettamente (minacciando la non accettazione di determinate
decisioni sgradite o fornendo denaro ai decision makers o agli avversari);
 la rappresentatività - prendiamo ad esempio un sindacato: questi può essere numericamente forte
ma allo stesso tempo scarsamente rappresentativo in un sistema economico in cui la maggior parte
della forza lavoro non sia sindacalizzata o abbia preferito l’iscrizione a tanti piccoli sindacati;
viceversa il nostro sindacato sarà rappresentativo se, pur di dimensioni più ridotte, raccoglierà tutti
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i lavoratori di quel settore produttivo. E’ importante la rappresentatività in quanto le carenze di
questa risorsa vengono abilmente sfruttate da Stato e imprenditori per delegittimarne le attività;
 le risorse finanziarie - tendenzialmente derivano dalla forza numerica di un gruppo di interesse
(vedi le risorse derivanti dalle quote pagate dagli iscritti, i contributi alle campagne e agli obiettivi,
eccetera), ma possono dipendere anche dal tipo di aderenti del gruppo. Le risorse finanziarie si
prestano ad un’utilizzazione diretta, per finanziare campagne elettorali e farsi pubblicità, e
indiretta, cioè per creare un clima favorevole con i mass media, acquisire competenze o per
corrompere i decision makers;
 le conoscenze utilizzabili – i decision makers hanno la necessità di informazioni adeguate e
convincenti, mentre i gruppi di interesse mirano a utilizzare le loro conoscenze in modo da far
pendere dalla loro parte la bilancia della decisione; la stessa opinione pubblica ne ha bisogno.
Spesso l’informazione data dai gruppi e dai consulenti è infatti strutturata per poter poi influenzare
le opinioni piuttosto che fornire gli elementi necessari a una decisione rispettosa di tutti gli interessi
in campo; l’informazione, inoltre, è inferiore in quantità e qualità rispetto al dato reale che viene in
parte celato; più il gruppo che la produce è piccolo e coeso, tanta più informazione potrà
controllare e nascondere;
 la collocazione - una collocazione strategica è essenziale al funzionamento del sistema politico e
perciò chi si trova in tale posizione potrà far valere meglio i propri interessi talvolta servendosi del
ricatto, creando disagi intollerabili sfruttando magari periodi propizi Questa strategia può
comunque avere esiti fallimentari per poi ledere sulla forza e la legittimità del gruppo, come
accaduto in Gran Bretagna e Stati Uniti ai sindacati e ai policy takers (dediti alla distribuzione dei
benefici assistenziali, del welfare, eccetera).
Passiamo ora alla teoria relativa all’importanza e alle conseguenze concrete delle attività dei gruppi, che
tratta due tipi di reazioni:
 reazione neoprogressista (vedi paragrafo successivo)
 reazione neoconervatrice - intende i gruppi non più come canali di organizzazione e di espressione
ma come diaframma fra cittadini e governanti, come ostacolo al conseguimento del bene comune e
strumento per la soddisfazione di interessi particolari. Questa teoria prende spunto dalla critica di
Olson nei confronti della politica dei gruppi d'interesse, criticando in particolare la premessa
secondo la quale il bene comune è la risultante dell’interazione e della competizione fra i gruppi che
i processi di mutamento sociale esprimono in ogni tempo e paese. Olson afferma che “le società
stabili con confini immutati tendono ad accumulare nel tempo più collusioni ed organizzazioni per
l’azione collettiva, i gruppi più piccoli hanno un potere di organizzazione collettiva sproporzionato e
questa sproporzione diminuisce col tempo ma non scompare e fanno si che la politica crei più
divisioni”.
E’ chiaro che le impostazioni di Olson fanno discendere la necessità di spezzare le rigidità sociali e
dividere le coalizioni distributive eccessivamente ampie e colluse proprio per rimettere in moto la
competizione. Ronald Regan e Margaret Thatcher si sono indirizzati in questa direzione: è vero che i
gruppi sono elementi ineliminabili ma lo loro azione può non essere sempre funzionale alle
democrazie.
Il neocorporativismo fra rappresentanza e partecipazione
Il pluralismo è stata criticato anche da posizioni neoprogressiste. Philippe Schmitter ha individuato un
modello di rapporti fra organizzazioni e Stato: il neocorporativismo. La teorizzazione di Schmitter è volta a
comprendere le modalità di policy making in paesi governati da partiti di sinistra, che consente di
indirizzare l’attenzione sulla natura specifica dei gruppi, sulle loro interazioni e sulle modalità di
partecipazione . Il problema che si pone è se lo scambio consenso/politiche fra sindacato e organismi statali
sia reso più facile da un sindacato monolitico (verticistico e accentrato) oppure da sindacati pluralisti (con
struttura e processi interni democratici).
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Le organizzazioni imprenditoriali non sembrano soffrire di problemi legati alle modalità decisionali o alla
struttura della leadership, ma per i sindacati la risposta è ambivalente:
1. i sindacati accentrati e verticistici accettano più facilmente assetti e accordi neocorporativi
2. i sindacati pluralisti offrono maggiore partecipazione interna e sono più rappresentativi
Gli assetti neocorporativi in una situazione simile si fondano su una triangolazione di interessi:
1. deve esserci la sinistra al governo
2. i sindacati entrano in accordi neocorporativi perché hanno fiducia nel partito di sinistra ottenendo
vantaggi o altre risorse
3. le associazioni imprenditoriali hanno poco spazio di negoziazione.
Sia la prospettiva delle rigidità sociali di Olson sia il neocorporativismo fanno riferimento alla creazione di
assetti consolidati e quindi alle modalità istituzionalizzate della politica dei gruppi.
Lo stesso Schmitter suggerisce la possibilità che anche gli edifici neocorporativisti vengano sottoposti a
tensioni diverse e che si mettano in moto rivolte della base delle organizzazioni, che si abbiano
mobilitazioni di classe contro interessi troppo sacrificati, che possano sorgere nuovi interessi imprevisti e
inseribili nel sistema neocorporativo, fiduciosi del diritto ad essere rappresentati, e infine che si manifestino
movimenti monotematici con fini specifici magari non negoziabili.
La partecipazione politica attraverso i movimenti collettivi
Vi è una bipartizione fra gli studiosi che attribuiscono:
 connotati essenzialmente irrazionali ai comportamenti delle masse e delle folle
 un ruolo di grande rilievo ai movimenti collettivi tra le modalità dell’azione sociale (Marx, Weber)
L’analisi dei movimenti presenta numerosi dilemmi interpretativi, come il rapporto fra le componenti
psicologiche e le componenti sociologiche dell’agire sociale; la normalità o l’eccezionalità dei movimenti
collettivi, le caratteristiche dei partecipanti (integrati o emarginati), le modalità di istituzionalizzazione (di
dissoluzione di movimenti collettivi).
Per quel che riguarda la partecipazione politica, l’interesse si indirizza ai fenomeni collettivi di gruppo (in cui
i partecipanti sperimentano variazioni in se stessi e nel modo di rapportarsi) e ai fenomeni collettivi di
aggregato (le mode, i boom ecc , dopo i quali si riprende la propria vita normale).
E’ necessario distinguere quattro posizioni generali in tema di movimenti collettivi:
 Neil Smelser: fa dei comportamenti e dei movimenti collettivi il prodotto esclusivo di tensioni e di
disfunzioni sociali, per cui le sfide portate dai movimenti vengono considerate elementi negativi,
mentre i partecipanti dovrebbero essere sottoposti ad un più penetrante e capillare controllo
sociale.
 Francesco Alberoni: prende le mosse dall’esistenza di due stati del sociale e dalla loro
contrapposizione: egli contrappone lo “Stato nascente”allo “Stato istituzionale e della vita
quotidiana” e “movimento” a “istituzione”. L’analisi di Alberoni specifica quando i movimenti
collettivi sorgono, chi ne fa parte, di che tipo di esperienza si tratta e la dinamica del movimento
collettivo. Un’ulteriore distinzione viene fatta tra chi dà inizio al movimento e chi ne trae vantaggi. …
Chi si mobilita per primo? Gli emarginati e gli alienati dal sistema sono privi delle risorse necessarie a
lanciare un movimento collettivo: gli emarginati al massimo vi si aggregano, gli alienati si chiamano
fuori. La leadership dei movimenti collettivi viene assunta da individui collocati alla periferia del
centro, che perciò non godono di tutti i vantaggi del centro, ma hanno risorse che ne consentono
un’attivazione significativa! Come teorizza Melucci:
1. hanno già esperienza di partecipazione, quindi conoscono procedure e metodi di lotta
2. hanno già propri leader e un minimo di risorse organizzative
3. utilizzano reti di comunicazione già esistenti
4. possono riconoscere più facilmente interessi comuni
 Alain Touraine: propone la teoria strutturale dell’azione sociale, secondo cui “i movimenti sociali
appartengono ai processi attraverso i quali una società produce la sua organizzazione a partire dal
suo sistema d’azione storica, passando attraverso i conflitti di classe e le transazioni politiche”.
I cardini della sua teoria sono:
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Identità – l’attore dà una definizione di se stesso, si caratterizza nel mezzo di un conflitto che lo
contrappone agli altri nel campo dell’azione sociale.
Opposizione – il conflitto fa sorgere l’avversario, forma la coscienza degli attori in presenza.
Totalità – è il sistema d’azione storica di cui gli avversari si disputano il dominio
Quanto più importanti, quanto più convinti della loro identità, quanto più inclini a valorizzare il
principio d’opposizione saranno i movimento sociali tanto più valido sarà il principio di totalità. Il
movimento sociale nasce dalla società e, attraverso il conflitto, ne produce la trasformazione.
Mentre per Smelser il cambiamento risiede in una disfunzione di origine esterna al sistema sociale,
per Touraine è il movimento sociale stesso a dare inizio al conflitto. Il movimento sociale nasce nella
società e attraverso il conflitto ne produce la trasformazione. Le società in cui nascono movimenti
collettivi sono il miglior indicatore della loro vitalità.
 Charles Tilly: in tutte le società vi è uno squilibrio nella distribuzione del potere! Quando i gruppi
entrano in contatto fra loro sviluppano interessi che rivelano chi perde e chi guadagna dalla varie
interazioni; è a questo punto che entra in campo l’organizzazione, vale a dire la consapevolezza
dell’appartenenza a un’identità comune e dell’esistenza di un tessuto connettivo fra gli individui che
compongono un gruppo. Scopo di quest’ultima è accrescere l’identità e rafforzare questo tessuto
connettivo o diminuirlo (si avrà disorganizzazione). Essa può consentire la mobilitazione delle risorse
da parte dei contendenti e indicare un accresciuto/diminuito controllo sulle risorse. Dalla
mobilitazione si passa all’azione collettiva, ovvero il perseguimento di fini comuni; l’intero processo
può talvolta essere spezzato dalle reazioni dei detentori del potere con la repressione, naturalmente
tenendo conto di opportunità e minacce che ne possono conseguire.
Tutti gli autori si sono preoccupati di differenziare i vari gruppi sociali, ma Melucci ci dà la classificazione più
chiara:
1. movimenti rivendicativi = l’obiettivo è imporre mutamenti nelle norme, nei ruoli e nelle procedure
di assegnazione delle risorse socioeconomiche
2. movimenti politici = l’obiettivo è incidere sulle modalità d’accesso ai canali di partecipazione
politica e nello spostare i rapporti di forza
3. movimenti di classe = l’obiettivo è capovolgere l’assetto sociale, i rapporti di classe e trasformare il
modo di produzione
Detto questo, nel corso della loro attività i movimenti riescono sempre a cambiare tipo. La loro
trasformazione dipende da numerosi fattori, non ultimo il tipo di risposta che lo Stato è in grado di dare alle
domande dei movimenti e la capacità dei movimenti di estendere il loro seguito e combinare le loro
domande.
I terreni di scontro, tuttavia, non sono più esclusivamente né le società nazionali, né gli Stati nazionali:
infatti, hanno fatto la loro comparsa molti movimenti che si esprimono con maggiore successo e unità
contro qualcosa, piuttosto che nella formulazione di proposte condivise (anti global, no global, new global).
Grande attenzione è stata riservata alle fasi concrete di creazione dei movimenti (Stato nascente) e alla
dinamica organizzativa durante l’azione (mobilitazione delle frange esterne e creazione della leadership).
Meno attenzione è stata data ai risultati dell’azione dei movimenti.
Alberoni analizza i meccanismi messi in atto per controllare i movimenti:
1. lo Stato nascente è impedito nel suo sorgere
2. si classifica tra esemplare o di trasgressione (in caso si cerca di incanalarlo in una istituzione)
3. si impedisce il suo riconoscimento e la sua generalizzazione
4. si impedisce la sua mobilitazione
5. si costringe il movimento a competere scegliendo regole e criteri più favorevoli alle istituzioni
6. il movimento viene infiltrato
7. si fa in modo di sostituirne la leadership
8. viene represso con la violenza
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Che vincano o perdano, i movimenti (frutto dell’azione sociale dell’uomo) introducono numerosi
cambiamenti nel sistema sociale, anche i movimenti terroristi.
Sono le caratteristiche dell’ambiente politico e le modalità di funzionamento del sistema politico che
incoraggiano oppure scoraggiano il coinvolgimento degli attori in forme di azione collettiva. Poiché i
movimenti tendono ad attaccare le istituzioni, è possibile elaborarne una tipologia che comprende i
movimenti comunitari, integralisti, espressivi e riformisti.
Tarrow si propone di individuare i legami fra le energie dispiegate dai movimenti, le loro domande e le
risposte del sistema, in particolare la connessione fra protesta sociale e risposte sistemiche, alla ricerca di
un’eventuale rapporto fra cicli di protesta e cicli di riforma. Tabella di Tarrow (movimenti espressivi,
movimenti riformisti, movimenti integralisti e movimenti comunitari). Dalla tabella sono esclusi i movimenti
rivoluzionari, in quanto sembrano essere venute meno le spinte rivoluzionarie, dall’altro gli Stati e i
detentori del potere appaiono meglio attrezzati che mai nel passato per farvi fronte.
Riallacciandosi all’argomento sopracitato Alexis de Tocqueville sostiene che il momento più difficile dei
regimi conservatori è quando cominciano a riformarsi. Spesso le riforme risultano inadeguate per coloro
che le hanno richieste e allo stesso tempo per i sostenitori del regime conservatore, cosicché i detentori del
potere si troveranno sfidati da entrambi i lati. Prendendo spunto da Tocqueville, uno studioso americano
ha elaborato la teoria delle aspettative crescenti, secondo cui nessuna riforma potrà mai soddisfare gruppi
e movimenti che si siano organizzati contro il potere politico. Il movimento rivoluzionario farà la sua
ricomparsa quando alle aspettative crescenti faccia seguito un sensibile rovesciamento della situazione
concreta. Con l’emergere di frustrazioni crescenti e diffuse il movimento può assumere caratteristiche
rivoluzionarie (James Davies, teoria della curva J … J in quanto rovesciata la lettera indica crescita e declino
delle aspettative).
Le conseguenze della partecipazione politica
Ci sono difficoltà di misurazione per quanto riguarda l’influenza dei movimenti e dei loro aderenti. Per
quanto riguarda invece i gruppi di pressione si può individuare con relativa sicurezza l’esito differenziale
dell’attività dei gruppi e dei lobbisti. La conclusione è che il lato degli outputs, il rendimento vero e proprio,
concreto e pratico della partecipazione politica per gli individui e per il sistema, rimane sostanzialmente in
ombra. Ci sono due gruppi di considerazioni:
a) il primo attiene alle conseguenze dal punto di vista delle preferenze politiche che vengono comunicate. I
cittadini più attivi (più avvantaggiati per condizioni socioeconomiche) influiranno sia sulla comunicazione
delle preferenze, sia sulla selezione dei leader in maniera tale da creare una distorsione rispetto ai cittadini
meno attivi che hanno idee diverse. Le politiche che saranno attuate rifletteranno le preferenze di un solo
segmento della popolazione a scapito della maggioranza. Un modo di ridurre le differenze in termini di
partecipazione può essere costituito dai contesti istituzionali e dalla presenza di organizzazioni che si
preoccupino di mobilitare individui di status socioeconomico inferiore, per quanto si possono verificare
squilibri all’interno delle organizzazioni stesse a causa di differenze di status e di risorse a livello di
istruzione.
b) il secondo attiene all’influenza della partecipazione politica sulla ricettività dei leader e sull’eguaglianza
politica fra i cittadini. I leader sono più ricettivi nelle comunità ad alta partecipazione politica, invece sono
meno ricettivi nelle comunità a partecipazione politica limitata, dove finiscono inevitabilmente per essere
ricettivi alle preferenze dei pochi che partecipano a scapito dei molti non attivi.Allo stesso tempo Nie e
Verba sostengono che in caso aumenti la ricettività dei leader diminuisce l’eguaglianza (in quanto i leader
hanno ricettività anche sui partecipanti meno attivi). Accade così che i free riders traggono benefici da
questa situazione ad alta partecipazione.
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PARTITI E SISTEMI DI PARTITO
I partiti politici e i sistemi di partito sono l’oggetto centrale della scienza politica, che dà attenzione alle
modalità con cui cercano e ottengono voti e con cui entrano in collaborazione o in competizione tra loro.
L'origine dei partiti
I partiti politici nascono in conseguenza dell’allargamento della partecipazione elettorale e quando le
cariche di rappresentanza e governo vengono attribuite attraverso consultazioni elettorali.
I candidati a tali cariche sentono la necessità di dare alla propria attività elettorale e politica
un’organizzazione e a cercare contatti con altri candidati che con cui condividono le proprie posizioni,
andando così a creare gruppi di parlamentari all’interno del Parlamento (partiti parlamentari) e gruppi di
oppositori al di fuori di esso (partiti extraparlamentari o antiparlamentari).
Weber ci dà una definizione di partito: “i partiti sono delle organizzazioni liberamente create e miranti a un
reclutamento libero, il loro fine è sempre la ricerca di voti per elezioni a cariche politiche”. Anche Sartori ci
dà una definizione: “un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si
presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche
pubbliche”.
Un partito comunque dovrà:
 avere strutture tali da consentire la partecipazione dei suoi iscritti
 formulazione un programma di politiche pubbliche
 durata (per più di una tornata elettorale)
Da questa definizione restano fuori tutti i movimenti politici e gruppi che riescono solo in maniera saltuaria
ed episodica a presentare candidati alle elezioni (partiti-flash).
A proposito della nascita dei partiti disponiamo di due prospettive:
 genetica: si occupa delle modalità attraverso le quali sono nati i partiti nel corso del tempo
 strutturale: distingue i partiti in base alle caratteristiche organizzative
Rokkan individua quattro fratture (cleavages) significative che possono dare origine a organizzazioni
politiche:
a. centro/periferia – conflitto tra gli interessi del centro e della periferia (non in senso
puramente geografico, ma soprattutto di collocazione di risorse e riferimenti etnici,
linguistici, culturali, eccetera)
b. Stato e Chiesa
c. interessi agrari e industriali
d. interessi dei datori di lavoro e quelli dei lavoratori
Il sistema di Rokkan suggerisce che una volta che il suffragio è sufficientemente esteso ci sarà un sistema
partitico di cinque o sei partiti (uno conservatore, uno agrario, uno liberale, uno confessionale, uno
socialista).
Subito dopo la prima guerra mondiale intervennero sui sistemi di partiti delle democrazie occidentali due
fratture politiche: a destra i movimenti fascisti, a sinistra i partiti socialisti. Entrambi i processi sono stati
facilitati dall’espansione del suffragio e dall’estesa mobilitazione sociopolitica causata dalla prima guerra.
Duverger: si serve dei rapporti fra le organizzazioni proto partitiche (parlamento e suffragio) per spiegare l
nascita dei partiti.
Fase 1 (parlamentare): i partiti nascono in parlamento come connessioni rispettabili fra i parlamentari
stessi. Si tratta di organizzazioni quasi partitiche a base parlamentare con limitata proiezione
esterna.
Fase 2 (extra parlamentare): con l’ampliarsi del suffragio possono nascere strutture partitiche
extraparlamentari che fanno leva su organizzazioni esterne al parlamento per acquisirvi
rappresentanza (vedi i partiti confessionali e socialisti che sfruttarono il vantaggio delle preesistenti
reti associative di Chiesa e sindacati).
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Fase 3 (anti parlamentare): iniziano a manifestarsi le prime critiche, da cui la formazione di organizzazioni
antiparlamentari (fascisti e comunisti sfruttarono la critica antiparlamentare per acquisire consenso
elettorale).
Tipi di partiti
Weber: la prima distinzione tra partiti riguarda i loro obiettivi … Weber individua la trasformazione
strutturale più significativa verificatasi a inizio secolo: il passaggio da partiti di notabili (strutture embrionali
e attivabili soltanto nelle occasioni elettorali) a partiti di massa (basati su strutture permanenti e
mantenute in costante attività).
Arriva Duverger, che distingue i partiti di massa, che fanno affidamento sugli iscritti per il loro radicamento
e la loro affermazione, e i partiti di quadri, che mirano a riunire dei notabili per preparare le elezioni,
dirigerle e mantenere i contatti con i candidati.
Un partito di quadri ha bisogno di notabili influenti (con un nome, prestigio, fama), tecnici (manipolatori
degli elettori) e finanziatori (ricchi).
Sigmund Neumann invece distingue tra partito di rappresentanza individuale, che si attiva in occasione
delle elezioni e assume i connotati di un comitato elettorale, e partito di integrazione sociale, dotato di
organizzazione estesa permanente, influente, aperto alla partecipazione.
Il partito di massa resta comunque l’organizzazione politica prevalente nei sistemi democratici a
partecipazione allargata con l’eccezione eccellente degli USA, in cui troviamo i partiti di quadri, quindi di
rappresentanza individuale, che si attivano per vincere le elezioni e lasciano gli eletti liberi di fronte alla loro
coscienza per il loro voto al Congresso.
Kirchheimer sostiene che ha avuto luogo una trasformazione da partiti di massa a partiti pigliatutti (catch
all), i cui dirigenti ricercano tutti i sostenitori ed elettori possibili andando a snaturare la stessa identità del
partito in questione. Ci sono varie componenti di tale trasformazione: a) drastica riduzione del bagaglio
ideologicob) rafforzamento dei gruppi dirigentic) diminuzione del ruolo del singolo iscritto al partitod)
minore accentuazione di una specifica classe sociale/gruppo religioso-confessionale per reclutare più
elettori nella popolazione
Angelo Panebianco ha sintetizzato le diversità tra i due tipi di partito (massa/pigliatutto) in base a
leadership, ideologia, attività e strutture.
In generale, la partecipazione degli iscritti alla vita de partiti di massa è sempre stata alquanto limitata. Per
di più, dirigenti e funzionari sono in grado di manipolare la partecipazione degli iscritti e di rendere
impraticabile la democrazia all’interno del partito. Famosa la tesi di Michels della “legge ferrea
dell’oligarchia”, secondo la quale le azioni dei dirigenti sono controllate in modo effimero dai seguaci (vedi
i partiti socialisti in cui le funzioni esercitate dai comitati elettorali sono passate alle direzioni).
Nb. Non tutti i partiti oggi sono di massa, vedi Forza Italia, considerato “partito personale”.
I partiti sono costretti a entrare in competizione tra loro e dunque si differenziano dai loro concorrenti.
Anthony Downs dice che “i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni: non cercano di
vincere le elezioni per realizzare proposte politiche”.I fondatori dei partiti diventano perciò “imprenditori
politici” alla ricerca di elettori – consumatori insoddisfatti e disponibili.
C’è inoltre una nuova forma organizzativa, il partito cartello, che consiste in un accordo fra partiti già
presenti sul mercato per limitare la concorrenza.
Le collusioni rendono difficile l’ingresso nell’arena della competizione partitica a organizzazioni
nuove.Arriva la critica di Kitschelt: oggi i dirigenti del partito sono attenti alle preferenze degli iscritti,
l’arena politico-elettorale non è caratterizzata da collusione fra partiti e la competizione è aumentata. I
partiti contemporanei attraversano una rinnovata fase di dinamismo e si continua a riscontrare la presenza
di una pluralità di partiti.
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Le funzioni dei partiti
I partiti formulano programmi e si presentano come strumenti per la loro attuazione: essi sono perciò
ricettori di esigenze programmatiche provenienti da associazioni collaterali da loro ritenute degne di
notevole attenzione poiché portatrici di voti. Le due attività vitali per i partiti, tuttavia, sono il reclutamento
degli iscritti e la selezione dei candidati migliori per occupare cariche interne da sottoporre agli elettori (ad
esempio con delle elezioni primarie). Inoltre, in tutti i sistemi politici, i partiti promuovono i loro dirigenti a
cariche sia nelle assemblee rappresentative, sia nelle compagini di governo (da cui poi il termine party
government), andando a rappresentare le preferenze, gli interessi, gli ideali dei propri elettori; importante è
anche l’attività nel ruolo di opposizione.
Sistemi di partito
Un sistema di partiti, presuppone l’interazione orizzontale (competitiva fra almeno due partiti) e
l’interdipendenza verticale fra più elementi (elettori, partiti, parlamenti e governi). La competizione fra
partiti ha conseguenze sul piano elettorale, parlamentare e governativo; le molteplici interazioni tra questi
piani determinano la natura e la qualità dei diversi sistemi di partito.
Duverger distingue i sistemi di partito sulla base di un criterio numerico:
 sistemi monopartitici
 bipartitici
 multipartitici
Questo criterio mantiene una sua validità, ma deve essere integrato dal criterio di rilevanza dei partiti
proposto da Sartori.
Quest’ultimo sostiene che si deve valutare se il partito esercita influenza nella formazione dei governi e
nella produzione delle politiche pubbliche.
Secondo Sartori esistono due criteri di rilevanza:
1. basato sull’utilità di un partito nella formazione delle coalizioni di governo: un partito può essere
piccolo per numero di elettori e seggi, ma vitale alla sopravvivenza della coalizione; questi partiti hanno
quindi un forte potenziale di coalizione. Altri, pur non incidendo in modo decisivo in quanto non inclusi
in una coalizione, per numero di seggi e voti possono condizionarne comunque l’operato e hanno
perciò un forte potenziale di intimidazione (o di ricatto)
2. criterio di polarizzazione, che consiste nella distanza ideologica che intercorre tra i partiti, utile per
valutare potenziali alleanze … alcuni partiti di estrema destra o sinistra, comunisti, fascisti, xenofobi
non vengono mai presi in considerazione a causa dei loro ideali “spinti”, però hanno comunque una
certa influenza.
Combinando insieme i criteri Sartori perviene a una duplice classificazione dei sistemi di partito:
 sistemi di partito competitivi – le elezioni non solo si tengono con periodicità prefissata, ma sono
decisive per conferire seggi e potere ai partiti
 sistemi di partito non competitivi – le elezioni, quand’anche esse si tengano, non contano
nell’attribuzione del potere e delle cariche di governo. Sistemi di partito non competitivi sono i sistemi
monopartitici (vedi Cina, Vietnam, Corea del Nord), cioè “partiti Stato” e sistemi a partito egemonico, in
cui viene tollerata la presenza di altri partiti ai quali è consentito ottenere seggi in parlamento senza
poter ottenere tuttavia la maggioranza o sostituirsi al partito egemonico alla guida dello stato.
Torniamo ai sistemi di partito competitivi … essi si suddividono in:
1. sistemi a partito predominante – esiste un partito che, in una lunga serie di elezioni libere e
competitive, ottiene regolarmente un numero molto consistente di seggi (non per forza la
maggioranza assoluta, vedi la Svezia con i socialdemocratici). Gli altri partiti meritano di essere
considerati rilevanti soltanto nella misura in cui una loro coalizione eserciti qualche influenza sul
funzionamento del sistema politico.
2. sistemi bipartitici – dal punto di vista numerico possono apparire multipartitici, ma diventano
bipartitici quando:
a) soltanto due partiti sono in grado di ottenere la maggioranza dei seggi
b) uno di loro conquista effettivamente la maggioranza
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c) il partito vittorioso decide di governare da solo
d) l’alternanza al governo rimane un aspettativa credibile, quindi è periodica
3. sistemi partitici atomizzati – non stabilizzati, fluidi, nei quali nessun partito conquista percentuali
consistenti di voto e nessun partito mostra di poter durare e crescere nel tempo. Solitamente si
tratta di partiti sorti dopo una fase di autoritarismo- totalitarismo di breve vita (il sistema tende a
stabilizzarsi dopo 3-4 tornate elettorali
4. sistemi multipartitici limitati – dai 3 ai 5 partiti rilevanti per la formazione del governo, vedi il
sistema partitico tedesco, caratterizzato da un pluralismo moderato nel suo funzionamento in
quanto in grado di produrre alternanza
5. sistemi multipartitici estremi – 5 o più partiti rilevanti; questi sistemi sono detti anche di pluralismo
polarizzato, in quanto l’alternanza è impraticabile (vedi la Repubblica di Weimar e la Repubblica
Italiana fino al 93) causata dalla presenza di partiti anti sistema, il cui obiettivo è crescere
svuotando il centro. Questi sistemi sono condannati a bassi tassi di rendimento fino a giungere il
collasso.
Le trasformazioni dei sistemi di partito
I sistemi di partito si trasformano in maniera più o meno traumatica. Secondo Duverger si possono evolvere
secondo quattro tipi generali:
•
alternanza – solitamente avviene nei sistemi bipartitici
•
divisione stabile – assenza di variazioni importanti tra i partiti nel corso del tempo; si misura con
riferimento alla scarsa ampiezza degli scarti fra due elezioni e la rarità di movimenti di lunga durata
•
predominio – esistenza di un partito che sta avanti a tutti
•
sinistrismo – slittamento lento ma regolare verso sinistra … si presenta in diverse forme
a) nascita di nuovi partiti alla sinistra dei vecchi
b) indebolimento dei partiti di destra
c) sostituzione di un vecchio partito di sinistra con uno nuovo
d) ascesa del partito maggiormente di sinistra.
Esistono due condizioni generali, la continuità (congelamento dei sistemi di partito, vedi paesi
mediterranei) e il cambiamento (che può avvenire con il cambio della legge elettorale, vedi la Francia dalla
Quarta alla Quinta Repubblica).
Perché sopravvivono i partiti
Il Party government e la sua degenerazione, la partitocrazia, sono altamente criticati. Per molti studiosi
siamo entrati in una fase di crisi dei partiti … questa opinione è ritenuta comunque esagerata. C’è sì un
declino contenuto ma uniforme della partecipazione elettorale, ma essa si può spiegare attraverso le nuove
forme di partecipazione di cui i cittadini dispongono.
Molti affermano inoltre la fine della contrapposizione tra destra e sinistra, ma è proprio questa linea di
distanza ideologica che aiuta a scegliere gli elettori.
In buona parte, comunque, può benissimo essere che l’insoddisfazione degli elettori , giustificata dalle
inadeguatezze e dalle inadempienze dei partiti, non riesca a tradursi, per ragioni diverse, in una
ristrutturazione dei partiti e dei sistemi di partito, come ad esempio nei sistemi partitici consolidati.
Quanto agli indicatori che riguardano i singoli partiti possiamo individuare e utilizzarne cinque: gli iscritti ai
partiti, le oscillazioni elettorali, la strutturazione del voto (programmi che i partiti fanno agli elettori), la
selezione del personale politico e governativo, la scrittura dell’agenda politica.
I primi due sono indicatori elementari, gli altri sono più complessi …
Il reclutamento degli iscritti non è profittevole dal punto di vista del rapporto fra costi e benefici, da cui la
stagnazione del numero di iscritti; le oscillazioni percentuali di voto, invece, possono essere interpretate
come conseguenza dell’incapacità dei partiti di mantenere un seguito stabile con relativo disappunto degli
elettori; la strutturazione del voto è rimasta stabile, specialmente nelle democrazie consolidate; la
selezione del personale politico governativo mette in rilievo che i detentori delle cariche di governo sono
uomini scelti dai partiti; .
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Perché quindi i partiti sopravvivono? Perché la democrazia è impossibile senza partiti politici e perché essi
assolvono a una pluralità di compiti che nessun’altra organizzazione potrebbe svolgere.
a) servono a mantenere il consenso
b) garantiscono il coordinamento del personale politico
c) sondano le opinioni dei cittadini e le rappresentano
d) riducono i problemi che sorgerebbero se l’amministrazione dovesse rispondere alle domande dei
cittadini direttamente.
Pizzorno afferma che la ragione principale della sopravvivenza dei partiti è che essi sono garanti di una
molteplicità di scambi in sistemi nei quali, cessato lo scontro ideologico, vi è alta e pressoché completa
negoziabilità degli interessi; gruppi di interesse e associazioni sono solamente in grado di costituirsi come
controparti dei partiti, in quanto non sono capaci di diventare decisori in prima persona.
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PARLAMENTI E RAPPRESENTANZA
Considerazioni introduttive
Si parlerà di parlamenti nei regimi democratici, non di quelli privi di autonomia e influenza politica. In
qualunque caso, pur diventando organismi addomesticati, in ogni parlamento prima o poi nasce qualche
forma di dissenso e opposizione al potere, vedi i parlamenti comunisti.
In generale, i parlamenti sono sorti quando si è posto il problema di limitare e controllare il potere
dell’esecutivo e del suo capo, generalmente il re, da parte della nobiltà, specialmente in materia di tasse.
Il parlamento diventa quindi il luogo di dibattito, discussione, dialettica fra i rappresentanti eletti, i dirigenti
dei partiti, il governo e l’opposizione, mentre le assemblee legislative sarebbero luoghi dove si procede
all’elaborazione, alla stesura e all’approvazione delle leggi. Nella realtà i termini “parlamento” e “assemblea
legislativa” sono intercambiabili e le attività (dibattito e legiferazione) vanno di pari passo.
Nei regimi democratici i parlamenti sono a carattere elettivo e in alcuni casi possono essere accompagnati
da altre camere, ereditarie e di nomina regia (la Camera dei Lord), di nomina dell’esecutivo (il Senato
canadese), di elezione indiretta (vedi il Bundesrat tedesco, in cui i componenti sono nominati dalle
maggioranze di governo di ciascun Land) o composite (vedi il Senato italiano con senatori eletti e senatori a
vita). Queste camere, dette “alte”, hanno prerogative e poteri politici inferiori a quelli delle rispettive
camere basse.
Le strutture
La prima differenziazione è tra parlamenti monocamerali (Danimarca, Finlandia, Grecia, Portogallo, Svezia,
eccetera) e bicamerali. Quando si hanno due camere vi può essere un bicameralismo paritario, in cui le
funzioni sono quasi le stesse, (vedi Camera e Senato in Italia), o un bicameralismo con differenze
significative per quel che riguarda modalità di formazione (elezione popolare diretta come per il Senato
USA, o indiretta come per il Bundesrat tedesco) e poteri.
Come già detto le seconde camere hanno poteri minori ad eccezione sempre del Senato americano e del
Bundesrat, specialmente quando in essi vi è una maggioranza ostile al governo. Altra particolarità è che le
camere alte sono solitamente più piccole quanto a numero di rappresentanti (cosa che le rende ben
funzionanti, per quanto sempre depotenziate).
Negli stati federali l’esistenza della seconda camera si spiega con la necessità e la volontà di rappresentare
in modo efficace e autorevole le autonomie di tipo territoriale.
Altra caratteristica che contraddistingue i parlamenti è la presenza interna di commissioni parlamentari e la
quantità e qualità dei loro poteri: in Inghilterra sono poche e con poteri limitati, negli USA godono di poteri
e risorse notevoli, così come in Italia. Spesso, i parlamenti possono dotarsi di commissioni specifiche con
compiti di controllo sull’applicazione e sulle conseguenze di determinate leggi; se il parlamento ha poteri
reali le commissioni renderanno bene, sennò finiranno per funzionare male.
Le funzioni
I parlamenti non fanno soltanto leggi e le leggi non sono fatte soltanto da parlamenti. Il mitico e inimitabile
Walter Bagehot fa un’approfondita analisi delle funzioni del Parlamento inglese:
1. eleggere bene un governo: di fatto il capo del partito che ha conquistato la maggioranza assoluta dei
seggi in ciascuno dei parlamenti anglosassoni diventa automaticamente primo ministro, ma questi può
essere sostituito nel corso del suo mandato dai parlamentari del suo partito.
2. Funzione espressiva, cioè di opinione sugli argomenti dibattuti.
3. Funzione pedagogica, in quanto il Parlamento è luogo di dibattiti che educano il pubblico; importante è
il question time del mercoledì quando il primo ministro ha l’obbligo di rispondere alle domande dei
parlamentari, in primis quelle del capo dell’opposizione
4. Funzione informativa, simile alla pedagogica, si rivolge a gruppi particolari
Per comunicare quanto avviene all’interno del Parlamento inizialmente venivano utilizzati i partiti, oggi i
mass media ed in particolare la televisione.
Detto questo, un parlamento bicamerale indifferenziato nei poteri e nei compiti, frammentato in partitini e
gruppetti, in attività di basso livello, difficilmente riuscirà a comunicare sia la funzione pedagogica che
quella informativa.
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5. Funzione legislativa, che in Inghilterra diventa una fusione di esecutivo e legislativo grazie alla presenza
del gabinetto (commissione del corpo legislativo scelta per diventare l’organo esecutivo)
6. Funzione finanziaria, cioè di controllo dell’economia
Partendo dalla teoria di Bagehot possiamo comprendere meglio l’attività dei parlamenti contemporanei.
In primis nessun parlamento può legiferare in splendido isolamento, tanto meno a prescindere dal governo
in carica, così come è vero che non è corretto sostenere che i parlamenti contemporanei non legiferino. La
funzione legislativa, infatti, è esercitata dal Parlamento e dal governo in forma congiunta (nasce dal
governo, ma deve passare per la maggioranza parlamentare che le approva). Un altro compito che può
essere attribuito ai parlamenti è la funzione negoziale, cioè di trovare punti di incontro fra i diversi gruppi
parlamentari che rappresentano gli elettori, oltre naturalmente alla classica funzione di controllo del
governo.
La rappresentanza
Importante è la distinzione fra parlamenti di parlamentari e parlamenti di partiti (nel primo caso gli eletti
godono di autonomia e libertà di voto, nel secondo sono sottoposti a una rigida disciplina di voto). Questa
divisione non è del tutto veritiera, in quanto i partiti indirizzano e disciplinano comunque i loro
parlamentari. Questi ultimi avranno più autonomia quando devono ricorrere di più alle qualità personali e
alle loro capacità di trovare finanziatori per le proprie campagne elettorali, cosa che succede
prevalentemente negli USA e non in Inghilterra, dove il procedimento di selezione dei candidati è affidato al
partito a livello di collegio e il procedimento elettorale è controllato dalle organizzazioni partitiche locali e
nazionali.
Nello svolgimento della complessa attività di rappresentanza contano anche le aspettative e i
comportamenti concreti dei parlamentari, sensibili alle modalità con cui sono stati prescelti e
presumibilmente verranno riselezionati.
Questo discorso rende prima necessaria una definizione di rappresentanza politica: essa è un fenomeno
complesso, stratificato e dinamico che si esprime in più sedi e con diverse modalità, anche oltre le
organizzazioni partitiche e le aule parlamentari.
La visione più articolata delle possibili concezioni della rappresentanza secondo Sartori sono 7:
1. Il popolo elegge liberamente e periodicamente un corpo di rappresentanti (teoria elettorale della
rappresentanza)
2. I governanti rispondono responsabilmente nei confronti dei governati (teoria della rappresentanza
come responsabilità)
3. I governanti sono agenti o delegati che seguono istruzioni (teoria della rappresentanza come
mandato)
4. Il popolo è in sintonia con lo Stato (rappresentanza come idem sentire)
5. Il popolo consente alle decisioni dei suoi governanti (teoria consensuale della rappresentanza)
6. Il popolo partecipa in modo significativo alla formazione delle decisioni politiche fondamentali
(teoria partecipazionista della rappresentanza)
7. I governanti costituiscono un campione rappresentativo dei governati (teoria della rappresentanza
come somiglianza)
Considerazioni: le prime due teorie vanno a braccetto perché collegate dal procedimento elettorale
democratico, cioè che nasce dalle preferenze dei cittadini, espresse con il voto in periodiche consultazioni
elettorali. Secondo la teoria partecipazionista il popolo può farsi valere attraverso numerosi mezzi, come
l’attività nei partiti e nei gruppi politicamente influenti e soprattutto attraverso i referendum, influenzando
non poco le attività del governo. La teoria di rappresentanza come somiglianza è quella che invece prende
più di tutte, in quanto i rappresentanti diventano lo specchio dei rappresentati. Dov’è il problema?
Semplice: come fai ad applicarla con un metodo democratico? Le caratteristiche della popolazione sono in
perenne cambiamento, il parlamento che verrebbe a crearsi sarebbe troppo ampio e comunque non esiste
un sistema elettorale in grado di porre in essere la cosa. Chi ci dice inoltre che la rappresentanza sociologica
coincida con la rappresentanza politica?
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Per quel che riguarda le caratteristiche degli eletti, possiamo affermare che a parte i rari casi di insorgenza
di una forza politica nuova che cambia almeno temporaneamente il volto sociologico di un parlamento,
quest’ultimo è solitamente composto da rappresentanti di genere maschile, di ceto medio-alto, con un
reddito e un livello di istruzione superiori a quello della popolazione. Per la maggior parte dei parlamentari
la politica è l’unica professione. Nei parlamenti contemporanei la maggioranza dei parlamentari sono
uomini di partito, quindi sociologicamente poco rappresentativi dell’elettorato.
Modalità e stili di rappresentanza
Come abbiamo ripetuto alla nausea, i parlamenti oggi sono partitici, quindi i comportamenti dei
parlamentari sono in qualche misura spiegabili attraverso l’analisi dei sistemi di partito.
La domanda di Sartori è: “qual è la sanzione più temuta, quella dell’elettorato, dell’apparato di partito o di
terzi gruppi di sostegno?” . Il politologo a questo punto distingue tra un governo ricettivo, che risponde per
quello che fa, e un governo responsabile, che agisce con efficienza e competenza; non si può conseguire
simultaneamente più recettività e più responsabilità indipendente. Essendo di fatto il comitato esecutivo
della sua maggioranza parlamentare, un governo può cercare di essere sostanzialmente ricettivo su tutte le
tematiche rispetto alle quali si è impegnato di fronte agli elettori e allo stesso tempo essere responsabile
per quel che riguarda le problematiche nuove che emergono nel corso della sua attività.
Sartori propone una classificazione riguardo lo stile della rappresentanza fra i ruoli di delegato, fiduciario e
politico.
 Delegato: non prende direttamente ordini dal suo elettorato; il suo mandatario è il partito che lo ha
candidato, quindi risponderà agli elettori del suo personale operato attraverso la mediazione del
partito che lo ha candidato.
 Fiduciario: ha un’autonomia maggiore; pensa di avere gli strumenti tecnici e la forza politica per
scegliere di volta in volta come votare e chi sostenere (entro certi limiti), questo a causa della debolezza
dei partiti di appartenenza.
 Politico: cercano il punto di equilibrio tra esigenze di partito ed elettorato; l’autonomia è più grande
meno il partito è gerarchico, rigido e potente.
Eulau arricchisce la teoria sopracitata con altre quattro componenti della ricettività di un rappresentante
eletto in termini di politiche, servizi, assegnazione di risorse, simboli:
 Ricettività politiche: il rappresentante cercherà di affrontare le grandi tematiche politiche e di offrire
soluzioni generali in sintonia con le preferenze degli elettori
 Ricettività di servizi: insieme di tentativi di ottenere vantaggi particolaristici per gruppi di elettori della
sua circoscrizione; si tratta spesso di servizi ad personam
 Ricettività di assegnazione: interesse complessivo della circoscrizione, protetto e promosso attraverso
l’incanalamento di fondi, risorse, investimenti, opere pubbliche, insediamenti produttivi
Nota bene: sulla carta ricettività di servizi e assegnazione non dovrebbero presupporre clientelismo e
corruzione.
 Ricettività simbolica: tentativi di intessere un rapporto generale di fiducia, sostegno, al limite di
identificazione fra l’elettorato e il rappresentante, che si cura dei loro bisogni materiali e allo stesso
tempo condivide la loro visone del mondo.
La rappresentanza da un lato si cura della traduzione di problemi e soluzioni in politiche pubbliche,
dall’altro spiegherà il suo comportamento all’elettorato con relative conseguenze, quindi ci deve essere una
completa responsabilità elettorale.
Le degenerazioni dei parlamenti
 Trasformismo: il parlamentare si comporta in modo del tutto svincolato dal suo partito per favorire i
suoi avversari convinto eventualmente da “ricompense”; così facendo inevitabilmente perde contatto e
rapporto almeno con una parte cospicua del suo elettorato. Si indebolisce inoltre l’opposizione
rendendole impossibile l’attività di controllo sull’operato del governo e la forza dell’elettorato stesso,
che avrà difficoltà a mettere in atto le proprie sanzioni.
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 Consociativismo: riguarda le modalità dei rapporti fra gruppi organizzati e fra coalizioni di governo
frammentate e l’opposizione, con scambi sottobanco che consistono nella distribuzione di risorse
collettive, attraverso politiche pubbliche approvate da larghissime maggioranze, che servono ad
ammorbidire l’opposizione e a rendere possibile e relativamente rapido il processo decisionale. Ciò
accade quando non vi è alternanza e governo e opposizione rimangono fissi.
 Assemblearismo: colpisce direttamente il parlamento come struttura nel suo insieme. Senza alcuna
disciplina, i parlamentari fanno e disfanno i governi … particolarmente a rischio sono i parlamenti arena
(Polsby). Il governo non riesce a esercitare controllo sull’attività parlamentare e neppure a usare l’arma
dello scioglimento perché il parlamento è in grado di crearsi il governo che vuole per poi impedirgli di
governare. Il risultato sarà inefficienza e lentezza decisionale
Declino o trasformazione dei parlamenti?
Come si vede se un parlamento è in declino o meno? Non si misura guardando il numero di leggi approvate,
che dipende dalla struttura del sistema politico-istituzionale e dal modo di governare.
Chi comunque approva troppe leggi ha un parlamento più debole, che si perde nel fare “leggine su leggine”
senza dare la possibilità di aprire dibattiti e esercitare un controllo concreto sul governo.
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I GOVERNI
Il problema
Cos’è “governo” nei sistemi politici e che cosa fa? Per prima cosa va detto che è sempre ed esclusivamente
una minoranza organizzata più o meno consapevole, competente e compatta a governare. Il problema
democratico consiste nell’impedire a queste minoranze di ergersi in oligarchie e nel produrre alternanze di
governi.
Che cos’è governo
“Governo” viene dal greco e significa “timone” che guida la nave del sistema politico, in cui i governanti
sono i timonieri ai quali si sono affidati i cittadini imbarcati su quella nave.
I problemi sorgono confrontando la tradizione politica europea continentale con la corrispondente
anglosassone. Il termine “government” non viene usato negli USA, in cui il governo del presidente è
“l’administration” e ricomprende la presidenza e la burocrazia federale alle dipendenze dell’esecutivo; in
Gran Bretagna invece è utilizzato per indicare: Her Majesty’s government, cabinet government, shadow
government e party government.
In qualunque caso il governo viene identificato come il detentore del potere esecutivo, il cui significato e
contenuto è cambiato nel corso del tempo.
Inizialmente il potere era monistico (nelle mani del monarca); i successivi conflitti tra nobili e re portarono a
una suddivisione dei poteri e un loro graduale spostamento a favore del parlamento nella formula “King in
Parliament”. Il parlamento aveva il potere legislativo congiuntamente al re, il potere giudiziario le
interpretava e applicava e l’esecutivo (il sovrano e la burocrazia) traduceva il tutto in atti e fatti.
Bagehot affermava che in Inghilterra era il Parlamento ad eleggere il governo che poi avrebbe esercitato
l’esecutivo, mentre negli USA si aveva una netta preminenza del Congresso (legislativo) con forzature
sull’esecutivo (la presidenza). In generale con il passare del tempo l’esecutivo ha preso il sopravvento sul
legislativo.
Le diverse modalità di formazione e di esercizio dell’esecutivo dipendono da una variabile istituzionale e
una congiunturale.
La formazione degli esecutivi
Variabile istituzionale: modalità con cui vengono formati gli esecutivi. Da un lato vi sono gli esecutivi il cui
potere deriva da un’elezione popolare diretta, dall’altro quelli in cui deriva dai partiti e dai parlamenti,
quindi in modo indiretto dal popolo (questa distinzione richiama quella tra presidenzialismi e
parlamentarismi). Nei sistemi semipresidenziali da un lato il presidente è scelto con un’elezione popolare
diretta, dall’altro il primo ministro è tale perché ha un rapporto fiduciario con il parlamento.
Casi nel mondo ad elezione diretta:
 Israele: fino al 2002 eletti in modo diretto sia il presidente (capo dell’esecutivo), che il primo ministro,
da cui tutta la formazione dell’esecutivo è immediata
 Stati Uniti: elezioni primarie per scegliere il capo dell’esecutivo (il presidente); in alcuni casi il riccone di
turno può auto-foraggiarsi (vedi Ross Perot) scavalcando la presentazione della candidatura ad opera di
appositi comitati o dei partiti … la strada per la formazione di un terzo partito negli USA risulta impervia
 Resto del mondo: candidature direttamente lanciate nell’arena elettorale; ciò tuttavia comporta la
necessità di sostegni non indifferenti, per lo più partitici, perché il candidato abbia la giusta visibilità
In generale, più il sistema partitico è strutturato tanto più è probabile che i candidati alla carica di capo
dell’esecutivo saranno espressione di partiti singoli o coalizioni, in cui il candidato è condiviso.
Elezione indiretta:
 sistemi bipartitici: il leader del partito diventa primo ministro (vedi Grecia, Spagna, Portogallo); la sua
permanenza in carica può essere messa in discussione dal calo di popolarità e da una futura possibile
sconfitta elettorale … il primo ministro è sostituito, vedi Margaret Thatcher e Tony Blair
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 sistemi multipartitici: collegamento stretto tra leadership di partito e carica di primo ministro anche
qui, specialmente quando uno specifico partito è in grado da solo di ottenere la maggioranza assoluta
dei seggi (una maggioranza relativa, ma operativa, che gli consenta di governare, vedi il caso svedese).
In linea di principio nei sistemi multipartitici dovrebbe essere il leader del partito maggiore della
coalizione di governo a diventare capo dell’esecutivo (vedi Israele e Germania) … in altri casi la scelta è
influenzata da tanti altri fattori, come l’unitarietà del partito maggiore della coalizione, la sua capacità
di cambiare alleati, il potere di interdizione degli alleati minori, la loro indispensabilità e capacità di
azione coordinata. Capita quindi che il capo del governo diventa il politico più gradito agli alleati o
perfino il leader di un partito numericamente o politicamente essenziale; questo leader sarà poco
autorevole perché non sufficientemente rappresentativo, cosa spesso favorita dagli stessi alleati per
screditarne il partito a vantaggio dei propri alle elezioni seguenti.
Da sottolineare è il fatto che nelle forme presidenziali il presidente eletto gode di ampia discrezionalità dei
suoi ministri … negli USA tuttavia il Senato può rigettare le nomine dell’administration, quindi nella scelta
bisognerà tener conto anche delle eventuali riserve dell’opposizione. Sempre particolare è il caso degli Stati
Uniti, in cui si può avere un governo diviso in caso di prevalenza di una maggioranza ostile al governo nel
Congresso.
La teoria delle coalizioni
Partiamo col dire che tutti i partiti sono indistintamente vote seekers, in quanto il loro obiettivo primario è
conquistare il maggior numero di voti possibile tenendo conto dello spazio politico nel quale competono e
della presumibile composizione del loro elettorato attuale e potenziale (a volte per cercare voti ci si astiene
dalla presenza nelle coalizioni di governo).
I partiti sono anche office seekers, cercano cariche ministeriali e provano a entrare nella coalizione più
piccola possibile, la coalizione minima vincente (minimum winning).
Quando si fa una coalizione bisogna tenere conto non solamente dei numeri, ma della distanza ideologica
tra i partiti (cosa che penalizza inevitabilmente i partiti di estrema destra e sinistra o antisistema, in quanto
il multipartitismo tende ad essere politicamente moderato), del loro rendimento da un’elezione all’altra
(cioè se gli alleati sono in ascesa o in declino) e del comportamento che avranno poi gli elettori in caso di
alleanza con uno o l’altro partito (policy seeking).
Capitolo governi di minoranza: esempio principe è la Svezia, in cui governano i socialdemocratici. I vari
partiti presenti nel parlamento svedese da un lato non vogliono considerarsi alleati dei socialdemocratici,
dall’altro trovano impraticabile una coalizione in grado di spodestarli in quanto troppo eterogenea …
tornare alle urne sarebbe alquanto inutile in quanto si corre il forte rischio che gli elettori restituiscano un
parlamento simile. Dall’altra parte il partito socialdemocratico dovrà scegliere politiche accettabili per lo
meno ad alcuni partiti per poter governare senza troppe grane.
Arriva Goldstone, che decide di riassumere le modalità di formazione dei governi di cui abbiamo in parte già
parlato con il “process tracing e congruence testing”, con cui analizza ciascun tentativo di formazione di un
governo e ciò che ha portato alla creazione delle varie coalizioni:
7. discriminanti ideologiche e programmatiche
8. contiguità politiche
9. memorie storiche e rapporti consolidati
10. strategie dei singoli partiti, che possono essere policy seeker o office seeker o ancora che adottano una
strategia astensionista
11. le coalizioni di tipo minimum inning sono preferite alle coalizioni sovradimensionate tipiche ad esempio
dell’Italia dal 47 al 93, che sono potenzialmente più lente nelle decisioni e meno limpide nella
produzione di politiche pubbliche. Caso interessante resta quello delle coalizioni under size,
sottodimensionate, cioè i governi di minoranza.
I governi di minoranza
Come possono esistere governi di minoranza? Risposta italiana con i governi monocolore dei democristiani
(detti anche balneari), che hanno una funzione di transizione in attesa che si ricreino le condizioni di
collaborazione necessarie a dare vita a una coalizione più ampia, stabile, operativa (si tratta quindi di un
temporaneo stato di necessità). Nel concreto non è così, in quanto questo tipo di governi non è
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necessariamente più instabile di coalizioni minime vincenti o di coalizioni sovradimensionate … anzi, in
Italia e Norvegia hanno avuto una prolifica produzione di politiche pubbliche.
Quando i governi di minoranza sono composti da un solo partito riescono ad evitare le tensioni e i conflitti
derivanti dalla necessità di conciliare interessi diversificati che al contrario si manifesta in qualsiasi
coalizione composita; questi governi sono considerati efficienti in quanto essendo in una condizione
precaria devono sempre dare il meglio.
I governi di minoranza si trasformano anche in veicoli di alternanza al potere in sistemi di bipartitismo o
bipolarismo imperfetto (che ci sia opposizione leale o antisistema): nel primo caso obbligano l’opposizione
leale a diventare limpidamente propositiva e a candidarsi a sostituirli, nel secondo il governo di minoranza
si trasformerà attraendo forze pro sistema e isolando il partito o i partiti antisistema.
I governi di partito
Due tematiche da affrontare: la composizione dei governi e i loro compiti. I partiti come al solito svolgono
un ruolo centrale nelle coalizioni di governo, che spesso diventa di partito (party government) … l’unica
eccezione tanto per cambiare sono gli Stati Uniti, vuoi per la forma presidenziale sia alla debolezza delle
strutture partitiche in uno stato continentale.
La partiticità dei governi è definibile in base a tre requisiti:
1. le decisioni sono prese da personale di partito eletto (a cariche di governi) o da soggetti sotto il suo
controllo
2. le politiche pubbliche sono decise all’interno dei partiti che poi agiscono in maniera coesa per
attuarle
3. i detentori delle cariche sono reclutati e mantenuti responsabili attraverso il partito
Katz afferma che se tutte le condizioni operano congiuntamente l’esito complessivo è definibile come alta
“partiticità di governo”. Questa partiticità può essere meglio valutata se si configurano tre condizioni
specifiche … l’organizzazione partitica agisce
1. mostrando comportamenti di squadra
2. nel tentativo di acquisire il controllo su tutto il potere politico
3. fondando le sue pretese di legittimità sul successo elettorale.
Il controllo sul potere politico persiste fintantoché il partito rimane al governo.
Katz ritiene opportuno valutare anche quale sia l’ambito di estensione del governo di partito, sottolineando
alcuni aspetti significativi.
1. Tutti i governi delle democrazie occidentali sono stati e sono governi di partito
2. Le differenze più significative fra i governi di partito riguardano in special modo la possibilità che il
governo sia formato da un solo partito ovvero da una coalizione partitica più o meno ampia
3. Le differenze fra i diversi governi di partito riguardano la natura dei singoli attori partitici, la loro
unitarietà e la loro disciplina. Una cosa è avere un governo di un solo partito compatto e
disciplinato, un altro il governo fatto da una coalizione di partiti diviso in correnti più o meno
rigidamente organizzate
4. La presenza dei partiti nel sistema sociale ed economico, con il fine di mantenere controllo e
consenso
I dubbi riguardanti il party government non vengono tanto attribuiti alle nomine in ruoli politicoamministrativi, quanto alle ingerenze sociali ed economiche di dubbia democraticità ed efficienza che
provocano in essa un alto tasso di immobilismo. Il party government invece funzionerà al suo meglio
quando vi è alternanza fra partiti e coalizioni, in quanto vi è la minaccia di revoca del sostegno elettorale e
si sceglierà una classe dirigente non solo leale al partito, ma anche competente.
La crescita del governo
I compiti del governo sono aumentati nel corso del tempo e hanno prodotto una spinta alla crescita del suo
ruolo, tanto che il tema nella letteratura anglosassone prende il nome di “big government”. I governi,
infatti, intervengono in modo sempre più rilevante negli ambiti socioeconomici.
Sorge quindi spontanea la domanda: a cosa servono i governi? Due esigenze sono fondanti:
1. la creazione e il mantenimento della legge e dell’ordine politico all’interno dello Stato
2. la protezione dei cittadini contro le interferenze dall’esterno
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Quando i compiti sono solamente questi due si parla di governo minimo. I governi in qualunque caso
dovranno dotarsi di appositi apparati: una polizia, un esercito, la magistratura, una burocrazia soprattutto
fiscale. Tutto ciò naturalmente richiede … tasse (Monti docet), che in tutti i paesi al mondo esclusa
naturalmente l’Italia vanno destinate all’assistenza ai lavoratori, alle pensioni, sussidi di disoccupazione,
servizi, eccetera. Interventi rilevanti vengono attuati nelle politiche economiche per stimolare la domanda
di beni o contenere e ridurre la disoccupazione. Ulteriori poteri sono stati attribuiti ai governi in seguito alle
Guerre Mondiali.
Domanda 2: c’è una crisi di governabilità? Arriva Rose con l’ennesima teoria contro il big government:
 le leggi approvate dai parlamenti non sono aumentate
 l’aumento del drenaggio fiscale era stato determinato più dall’inflazione che da un’espansione della
quota del prodotto nazionale destinata al settore pubblico
 i pubblici funzionari hanno effettiva utilità, non sono chiusi “nella torre d’avorio” della capitale
nazionale
 il numero di istituzioni e organizzazioni pubbliche non è aumentato, ma diminuito
 i programmi pubblici in espansione sono quelli relativi a politiche pubbliche già ben consolidate e
accettate
I neoconservatori non sono troppo d’accordo, in quanto ritengono che i privati possano fare meglio da soli
e bramino una minore invadenza dello Stato (cosa che succede specialmente nelle società
individualistiche). Il rischio di una cosa del genere è che il ritiro dello Stato si ripercuota in un
ridimensionamento dei diritti civili e sociali dei cittadini, oltre che politici, con un conseguente sviluppo in
negativo della democrazia.
Le forme di governo
I governi svolgono i loro compiti inseriti all’interno di un sistema istituzionale complessivo definito “forma di
governo”, che può essere presidenziale, semipresidenziale, parlamentare e direttoriale (in cui si ha un
esecutivo collegiale a causa delle divisioni etniche, linguistiche e religiose della popolazione).
1. Governo presidenziale – il capo dell’esecutivo è eletto direttamente dai cittadini e ha una sua fonte
di legittimazione autonoma dal parlamento, cioè il Congresso, anch’esso eletto dai cittadini. Il
Presidente della Repubblica non ha il potere di sciogliere il Congresso e quest’ultimo non può
sfiduciare/sostituire il Presidente della Repubblica … al massimo può tentare la carta
dell’impeachment per attentato alla Costituzione. Congresso e Presidente condividono il potere
legislativo, in quanto il presidente introduce disegni di legge, il Congresso può dilazionarli,
cambiarli, respingerli; a sua volta il Presidente può porre un veto parziale o totale. Dove sta il
problema? Può essere in carica un presidente il cui partito non ha la maggioranza nei due rami del
Congresso, dando luogo ad un governo diviso (con funzionalità limitata e
competizione/collaborazione tra Presidente e Congresso che confonde gli elettori sulle
responsabilità decisionali dell’uno o dell’altro soggetto), o che il Presidente abbia una maggioranza
in Congresso che gli permetta di schiacciare l’opposizione.
2. Governo semipresidenziale – si cerca di prendere il meglio dei sistemi presidenziali e parlamentari.
Il Presidente della Repubblica è eletto direttamente dai cittadini e non può essere rovesciato dal
Parlamento, salvo la sua messa in stato d’accusa, ma allo stesso tempo condivide il potere
esecutivo con il primo ministro, nominato dallo stesso Presidente della Repubblica che per lo meno
non deve essere sfiduciato dal Parlamento (ha perciò una doppia responsabilità). Il primo ministro
può chiedere di sciogliere il Parlamento, ma è il Presidente della Repubblica ad avere l’ultima
parola (può decidere anche di nominare un altro primo ministro per evitare un successivo prodotto
di una maggioranza a lui sgradita); il tutto, almeno nel caso francese, non può succedere più di una
volta l’anno. Le elezioni disgiunte di presidente e parlamento possono creare una situazione di
coabitazione tra le due fazioni diverse … vengono tuttavia forniti alcuni snodi, in particolare due: il
fattore personale e il fattore politico.
Fattore personale: costituito dalle ambizioni dei due leader … il presidente non forzerà la
coabitazione per non apparire poco rispettoso della volontà dell’elettorato che ha votato una
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maggioranza parlamentare con idee diverse dalle sue, mentre il primo ministro non andrà allo
scontro col presidente per non compromettere una sua futura candidatura a tale ruolo.
Fattore politico-partitico: il primo ministro prende il sopravvento sul presidente grazie al sostegno
della sua maggioranza parlamentare. In pratica in questo sistema c’è sempre una figura che ha una
maggioranza che gli dà potere per governare.
3. Governo parlamentare – il maggior problema è la stabilità e con essa la durata del governo,
abitualmente identificata con la stabilità in carica del primo ministro … altro discorso riguarda la
durata in carica dei ministri: in Gran Bretagna ad esempio c’è una notevole rotazione, ma non viene
considerata instabilità. Diciamo quindi convenzionalmente che si ha instabilità ogniqualvolta venga
posta in essere la procedura di dissoluzione di un governo e di formazione di un altro,
cambiamento che può essere ratificato con un voto di fiducia (Italia) o con la nomina di un nuovo
primo ministro. In qualunque caso per garantire una maggiore stabilità al sistema vengono forniti
alcuni meccanismi istituzionali specifici, come i diversi sistemi elettorali o il voto di sfiducia
costruttivo applicato in Germania e Spagna, in cui la sfiducia deve essere votata da una
maggioranza assoluta e seguita entro pochi giorni da un altro voto ugualmente a maggioranza
assoluta con cui si conferirà la carica di Cancelliere/Presidente del governo ad un’altra personalità,
pena lo scioglimento del parlamento o una fase transitoria di poteri quasi eccezionali per il capo del
governo sfiduciato. Il deterrente è servito e il voto di sfiducia è stato usato due volte soltanto sia in
Spagna che in Germania.
Dal punto di vista dei poteri del governo, ci possono essere tre potenziali sviluppi controversi:
1. esagerato controllo del governo sulla sua maggioranza parlamentare
2. il governo per decreto caratteristico dei governi deboli
3. presidenzializzazione della politica con l’accentramento di rilevanti risorse e poteri
nell’esecutivo
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LE POLITICHE PUBBLICHE
Dalla politica alle politiche
Conversione delle domande e dei sostegni (inputs) in decisioni (outputs) che portano a dei processi di
retroazione (feedback), con le quali gli esiti delle politiche pubbliche vengono resi noti..
Decisioni e politiche pubbliche
Per pervenire alla definizione di public policy è necessario sottolineare che nessuna decisione singola può
essere di per sé automaticamente considerata una politica pubblica, in quanto va oltre il momento della
decisione fino a ricomprendere l’implementation, ovvero l’attuazione; neppure una legge è di per sé una
politica pubblica.
Le politiche sono quindi pubbliche quando sono prodotte dalle autorità provviste di potere pubblico e
legittimità istituzionale … secondo Mény e Thoenig tuttavia non tutte le attività delle autorità sono
qualificabili come politiche pubbliche (alcune attività potrebbero essere mirate ad accrescere il loro potere
personale). I due studiosi francesi sostengono che “una politica pubblica si presenta sotto forma di un
insieme di prassi e direttive che promanano da uno o più attori pubblici”.
Limite di questa teoria è che è imprecisa in quanto non specifica chi sono gli attori pubblici, eliminandone
alcuni che magari non sono pubblici ma possono prendere parte ad una politica pubblica.
Gli attori nella produzione di politiche pubbliche
Punto di partenza è che non sono solo politici e governanti a produrre politiche pubbliche, ma non si
trovano sempre sullo stesso livello degli altri attori che partecipano al processo di produzione delle
politiche pubbliche.
Modello party government
Il ruolo di decisori delle politiche pubbliche viene attribuito ad attori di appartenenza, di estrazione, di
nomina partitica, responsabili nei confronti dei dirigenti dei partiti, da loro controllabili e quindi da loro
sostituibili; questo modello trova la sua espressione ideale nel sistema bipartitico. La partiticità di un
modello elettorale non dipende dal numero di partiti rilevanti nel sistema politico quanto dal rapporto fra il
sistema dei partiti, la sfera sociale e quella economica.
Neocorporativismo
Pluralismo – le politiche pubbliche sono il prodotto sempre mutevole dell’interazione dall’esito mai
predeterminato fra una molteplicità di interessi, gruppi, associazioni, anch’essi mutevoli per composizione,
struttura organizzativa, capacità di durata, possesso di risorse; lo Stato non è che uno di questi gruppi, a
volte neppure il più importante e potente. I gruppi che contano davvero sarebbero, infatti, tre:
 i governi e i loro apparati esecutivi
 le organizzazioni sindacali
 le organizzazioni imprenditoriali
Il neocorporativismo sembra emarginare il parlamento. Le politiche pubbliche secondo accordi
neocorporativi riguardano soprattutto la sfera economico-sociale nella quale gli interessi imprenditoriali e
gli interessi sindacali potrebbero altrimenti entrare in conflitto e nella quale una loro efficace composizione
porta effetti positivi per tutto il sistema. Comprensibilmente, quando le politiche pubbliche diventano più
complesse per contenuto, le associazioni imprenditoriali e i sindacati si diversificano, vi sono pressioni
provenienti dall’economia internazionale, diventa difficile mantenere gli assetti neocorporativi.
I triangoli di ferro
Attraverso di essi prendono forma le politiche pubbliche più rilevanti; prevedono l’esistenza di tre
aggregazioni principali di attori:
1. i gruppi di interesse
2. le agenzie burocratico-amministrative
3. le commissioni parlamentari.
L’espressione ferro evidenza la solidità del rapporto; i triangoli di ferro possono essere alquanto numerosi,
diffusi e sparsi nello stesso sistema politico e si fondano sulla capacità di ciascun attore di tener fede agli
impegni assunti. Ciascuno degli attori contribuisce alla funzionalità del triangolo in termini di decisioni,
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risorse, voti, affidabilità nell’attuazione, cosicché le politiche pubbliche in ciascuna delle aree specifiche
caratterizzate dall’esistenza di triangoli di ferro presentano una notevole continuità.
Reti tematiche
Le reti tematiche (issue network) differiscono dai triangoli di ferro poiché molto meno strutturate, più
aperte ad una molteplicità di partecipanti, consta di interazioni occasionali che danno vita a politiche
pubbliche instabili e mutevoli, non predeterminabili e non controllabili.
Comunità di politiche
Nelle comunità di politiche (policy communities) gli attori sono sempre numerosi ma per lo più gli stessi. Si
costituiscono attraverso i contatti tra politici, burocrati e rappresentanti di gruppi di interesse, quindi
esperti che hanno un’elevata continuità di ruolo nel tempo.
I partecipanti hanno la consapevolezza che le eventuali perdite sul piano di una politica pubblica potranno
essere compensate sul piano d'un’altra di loro interesse. Alcuni studiosi affermano che rappresenta al
meglio il modello di governo di partito, il processo di formazione delle politiche pubbliche in Italia (con un
numero limitato di politiche caratterizzate da forti conflitti).
Comitologia
Un caso a parte è il processo tramite il quale vengono prodotte le politiche pubbliche dell’Unione Europea.
La partecipazione di una molto elevata pluralità di attori in contesti mutevoli con problemi molto variabili
ha prodotto una situazione confusa caratterizzata da comitati internazionali, sovranazionali, cross-nazionali,
da cui il termine comitatologia. La sovrapposizione di compiti e attori, molti dei quali cambiano al cambiare
dei rispettivi governi, si traduce in politiche pubbliche criticate per i contenuti e l’opacità del procedimento
che ha condotto all’approvazione (si parla quindi di deficit democratico).
Le fasi della produzione di politiche pubbliche
Quando si manifesta la necessità di una politica pubblica? La politica pubblica è una risposta delle autorità
dotate di potere politico e legittimità istituzionale a una domanda sociale?
Risposta: i governanti rispondono alle domande degli elettori perché sono interessati alla rielezione e in
particolar modo a quelle richieste formulate da gruppi dotati di potere sui governi. Gli studiosi, tuttavia,
sostengono che talvolta una politica pubblica costituisce un tentativo anticipato di disinnescare eventuali
domande sociali future, mentre altre volte ancora è la conseguenza delle interazioni fra una pluralità di
attori. In sintesi, a volte le politiche pubbliche rispondono a problemi, domande, esigenze effettive e reali,
altre volte sono esse stesse a configurare problemi.
Si può dire, inoltre, che non sempre quando c’è una politica pubblica c’è un problema da affrontare e non
sempre quando c’è un problema da affrontare c’è una politica pubblica.
L’affermazione di una politica pubblica in assenza di un problema può rispondere all’interesse delle autorità
di farsi pubblicità, ottenere fondi, favorire alcuni gruppi; allo stesso tempo un problema può rimanere tale
senza che vi si appronti una politica pubblica per una molteplicità di ragioni (è marginale, è intrattabile, può
essere sfruttato per più fini).
Lasswell individuò sette fasi per la produzione di politiche pubbliche:
1. informazione – raccolta di notizie, previsioni e pianificazione
2. iniziativa – promozione di politiche alternative
3. prescrizione – emanazione di regole generali
4. invocazione – qualificazioni provvisorie della condotta sulla base delle prescrizioni, includendo
anche le richieste di applicazione
5. applicazione – qualificazione finale della condotta sulla base delle prescrizioni
6. valutazione – stima della riuscita o del fallimento
7. cessazione – estinzione delle prescrizioni e degli istituti entrati a far parte dell’ordinamento delle
regole.
In sintesi … la società esprime un problema o viene identificato e prodotto dalle autorità politiche → viene
inserito nell’agenda politica → inizia il procedimento che potrebbe portare alla formulazione delle soluzioni
(le autorità potrebbero fingere di occuparsi del suddetto problema senza portare il lavoro a termine per
paura di esiti negativi o ritardandolo a favore di altre politiche pubbliche) → viene formulata una pluralità
di soluzioni possibili e se ne seleziona una (valutando tempistica, costi, benefici, consenso e più in generale
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le reazioni previste) → si procede con l’attuazione (aspetto importante perché c’è chi vuole risolvere
concretamente il problema, chi lo strumentalizza per fini propagandistici, chi invece ci mette più che può i
bastoni tra le ruote).
Attuazione e valutazione
Per quanto riguarda l’attuazione (la messa in opera) , si confrontano due prospettive analitiche:
1. top down - si procede dal vertice politico e burocratico, che l’ha formulata, alla base, chi la deve
attuare concretamente traducendola in comportamenti effettivi o sanzioni. Nella realtà concreta il
processo non è così lineare …
2. bottom up – il procedimento qui parte dal basso verso l’alto: gli operatori (a contatto con i fruitori
delle politiche pubbliche) definiscono gli importanti dettagli operativi dell’attuazione di una politica
pubblica e li traducono in pratiche specifiche. Gli operatori godono di una consistente
discrezionalità e hanno l’esperienza e le risorse per procedere concretamente alla messa in opera
di ciascuna specifica politica pubblica. Sono definiti burocrati di quartiere perché hanno le
conoscenze e il potere sufficienti per adattare la politica pubblica alle caratteristiche del loro
pubblico di riferimento e alle proprie esigenze personali. Se la comunicazione dal basso verso l’alto
funziona, la messa in opera di una politica pubblica adattata dagli operatori di base può condurre al
suo miglioramento ad opera dei vertici che ne sappiano prestare il dovuto ascolto.
Capitolo valutazione: una politica pubblica può essere valutata secondo diversi criteri:
•
efficacia – capacità di una politica di conseguire gli obiettivi voluti; è la qualità che legittima
il governo;
•
efficienza - conseguimento degli obiettivi al minor costo possibile; è la qualità che legittima
l’esistenza di una burocrazia;
•
impatto – una valutazione corretta di una politica pubblica deve saper misurare la sequenza
di avvenimenti che promanano alla promulgazione del policy output … gli impatti possono
essere molteplici e di diverso tipo: possono riguardare le intenzioni dei policy makers e le
loro aspettative, avvantaggiare o svantaggiare alcuni gruppi, incidere sull’intero sistema
politico-economico. La linea divisoria tra i prodotti (outputs) e gli esiti (outcomes) di una
politica pubblica è molto sfumata.
Output = ciò che è emerso alla fine del procedimento iniziato con la formulazione della
politica pubblica e la sua messa in pratica.
Outcome = i meriti o demeriti che le possono essere attribuiti.
Aldilà di tutti questi discorsi, raramente le politiche pubbliche cessano in conseguenza di una valutazione
negativa. Si oppongono gruppi che ne hanno tratto beneficio (policy takers) ed i gruppi coinvolti nella sua
attuazione (i policy givers), oltre che norme e procedure consolidate, ugualmente lente e farraginose tanto
nella formulazione e nella produzione di una politica pubblica quanto nella sua cessazione. In qualunque
caso per tentare di abolire una politica pubblica è indispensabile un’altra politica pubblica specifica che ne
imponga la cessazione.
Schemi decisionali
Sono le modalità con le quali le autorità pervengono alle scelte e alle decisioni. E’ possibile individuare
quattro grandi modelli di tali schemi:
1. razionalità sinottica: prevede che il decisore raccolga tutte le informazioni e si impadronisca di tutte le
variabili che influenzano la messa in opera di una politica, prenda in esame tutte le conseguenze ed infine,
scelga con precisione … il tutto è utopico, in quanto è impossibile avere un controllo completo su tutti gli
elementi indispensabili alla formazione e alla produzione delle politiche pubbliche. Si tratta del modello
che giustificava la pianificazione centralizzata dall’alto dell’Unione Sovietica;
2. razionalità limitata: il decisore non si preoccupa più di prendere in esame tutte le alternative, ma si
limita consapevolmente alla soddisfazione di alcune esigenze, definite come la raccolta e la valutazione di
un numero di dati , variabili, alternative, problematiche e conseguenze. A un certo punto il processo si
arresta perché ci si ritiene in grado di scegliere e decidere, il tutto finché non verranno trovate altre
alternative;
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3. incrementalismo sconnesso: i processi decisionali e di produzione delle politiche pubbliche procedono
per tentativi, attraverso accordi e scambi, crescendo su decisioni già prese , revisionandole e
modificandole. Questo modello caratterizza processi decisionali di routine in situazioni di relativa stabilità
degli attori, delle loro aspettative, delle loro risorse, dei loro pubblici;
4. cassonetto della spazzatura: la maggior parte dei processi decisionali è caratterizzata da insopprimibile
complessità ... il numero delle variabili, la quantità dell0informazione, l’imprevedibilità delle conseguenze
sono tali che i decisori si trovano abitualmente in enormi difficoltà … ogni tanto va presa anche qualche
decisione, quantomeno per alleggerire la pressione delle aspettative! Il decisore si abbandona alla casualità
e l’opzione che sceglierà è influenzata per lo più dalle circostanze immediate.
Tipi di politiche pubbliche
La varietà immaginabile di politiche pubbliche dipende dall’espansione del ruolo, dei compiti e delle
funzioni dei governi.
Theodore Lowi propone una classificazione secondo cui esistono quattro grandi categorie di politiche
pubbliche:
 distributive – prodotte dalle assemblee elettive e dalle loro commissioni e attuate da agenzie e
burocrazie governative, riguardano in generale servizi di vario tipo, per lo più collegati alla
previdenza e all’assistenza; distribuiscono risorse e sono finanziate con le tasse;
 regolative – riguardano la produzione di norme che regolano i comportamenti, spesso
avvantaggiando alcuni individui e gruppi a scapito di altri. Sono anch’esse prodotte da assemblee
elettive;
 redistributive – tolgono risorse ad alcuni gruppi per darle ad altri (quindi sono conflittuali e
richiedono un notevole intervento del potere esecutivo e un’attuazione accentrata;
 costitutive o costituenti – riguardano la formulazione di norme che sovrintendono alla creazione e al
funzionamento delle strutture di autorità e delle autorità stesse; sono politiche rare, specie nei
regimi democratici;
 politiche simboliche – servono a rafforzare e trasformare identità collettive, sentimenti di
appartenenza, legami fra i detentori del potere politico e i cittadini, oltre che a legittimare i
detentori stessi del potere; sono le politiche che fissano feste nazionali, inni, bandiera e compagnia
bella.
Ciò che comunque risulta importante dalla teoria di Lowi è che qualsiasi politica pubblica è il prodotto
dell’intervento di autorità pubbliche. Egli afferma inoltre che le modalità con le quali vengono prodotte le
politiche pubbliche finiscono per plasmare anche le strutture politiche: policies determines politics. Alcuni
studiosi non sono d’accordo con l’amico Fritz e affermano che le politiche pubbliche siano per lo più il
prodotto di variabili socioeconomiche, che a parità di disponibilità di risorse, sistemi politici differenti per
struttura istituzionale e assetto partitico produrranno politiche pubbliche significativamente simili. Altri non
sono d’accordo e dicono che l’ideologia dei partiti e dei governi la faccia da padrona.
Ad ogni buon conto è possibile fissare con sicurezza almeno un punto discriminante: quand’anche fosse
esclusivamente ed essenzialmente la disponibilità di risorse socioeconomiche a determinare il tipo di
politiche pubbliche che un sistema politico formula e produce, rimarrebbero non poche e tutt’altro che
marginali differenze politiche e istituzionali fra i sistemi politici per quel che concerne la messa in opera
delle politiche pubbliche e la valutazione del loro impatto.
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I REGIMI NON DEMOCRATICI
Definizioni e distinzioni: regimi autoritari e totalitari
Regimi autoritari – secondo Linz “ i regimi autoritari sono sistemi a pluralismo politico limitato, non basati
su un’ideologia guida articolata, caratterizzati da mentalità specifiche dove non esiste una mobilitazione
politica capillare e su vasta scala e in cui il leader esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale
ma in effetti piuttosto prevedibili.”Pluralismo :
 limitato - le organizzazioni autorizzate a mantenere ed esercitare potere politico sono poche e
legittimate dal leader Esse inoltre non entrano in competizione tra loro
 non competitivo - ad ognuna delle organizzazioni viene data una parte di potere senza
sovrapposizioni; non essendoci competizione le organizzazioni non debbono rispondere a nessun
elettorato
 non responsabili - sono strutturate al loro interno in maniera gerarchica: i dirigenti vengono scelti in
base alla lealtà dimostrata al leader e ai principi del regime autoritario o per anzianità, raramente
per meritocrazia. Alle istituzioni militari, alla Chiesa e alla burocrazia statale vengono riconosciute
alcune sfere di attività specifica (nei regimi totalitari non vi è lasciato alcuno spazio, quindi vengono
definiti monisti)
Linz attribuisce ai regimi autoritari l’esistenza di mentalità, di insiemi di credenze meno codificate, meno
rigide, con margini di ambiguità interpretativa. L’ideologia è soltanto parzialmente la formula politica di cui
si serve la classe politica per mantenere il potere … è infatti un sistema di credenze che i capi del regime
sfruttano e potenziano per ottenere obbedienza e talora impegno attivo: di solito fa levo sulla triade “Dio,
patria, famiglia” (a prescindere dalla religione). Le mentalità autoritarie sono più vulnerabili dalle sfide del
cambiamento e della modernità, cosa che per ragioni opposte non succede nei regimi totalitari con
ideologie rigide, uniformi, univoche, che mirano a plasmare la società. I regimi autoritari presentano
differenze considerevoli costruendosi con riferimento a tradizioni politiche, sociali, culturali e religiose con
base nazionale.Capitolo mobilitazione: mentre nelle democrazie la partecipazione politica dei cittadini è
spontanea ed è incoraggiata, nei regimi totalitari è imposta dall’alto e deve essere la più estesa, frequente e
continua possibile, in quanto si prefiggono come obiettivo il cambiamento totale della società e la
creazione dell’uomo nuovo, andando a cancellare i limiti tra vita privata e pubblica. Nei regimi autoritari,
invece, è estesa, ma non permanente … coincide in momenti particolari, come la fase di instaurazione o in
caso di attacchi interni o esterni al regime; una volta insediato, un regime autoritario rinuncia alle adunate
oceaniche e spoliticizza le masse.
Ulteriore caratteristica dei regimi autoritari è l’esistenza di un leader: che esercita il potere entro limiti
arbitrari, mal definiti e prevedibili. Il leader è il punto di equilibrio accettabile per tutte le organizzazioni
presenti nella società, quindi non è espressione di una delle organizzazioni sulle quali si fonda il regime.
Naturalmente esiste una forte componente personalistica con venature carismatiche, utili per rispondere
alle crisi di ansia collettiva che hanno dato vita al regime stesso, che solitamente si sfalda una volta
scomparso il leader, proprio in quanto quest’ultimo non è rappresentante di un’organizzazione specifica.La
crisi di successione è più facilmente risolvibile ove vige il partito unico, cosa che tuttavia fa propendere più
ad un totalitarismo che ad un autoritarismo, in cui gli interessi del partito andrebbero a limitare quelli del
leader.
Nei totalitarismi, in cui il leader non incontra limiti, quest’ultimo può addirittura ricorrere al terrore, che
può essere sporadicamente resuscitato, come nel caso della Cina con il grande balzo in avanti e la
rivoluzione culturale. Caratteristica fondante dei regimi totalitari è l’esistenza o la costruzione di un
universo concentrazionario, istituzione penale e struttura politica per lo sradicamento del tessuto sociale.
Le peculiarità dei totalitarismi
La caratteristiche principali dei regimi totalitari sono: un’ideologia ufficiale utopica ed escatologica in grado
di cambiare totalmente e ricostruire una società, il terrore, la presenza di un partito unico, la polizia
segreta, il monopolio statale dei mezzi di comunicazione, il controllo di tutte le organizzazioni politiche,
sociali, culturali e la subordinazione delle forze armate al potere politico.
Il concetto di totalitarismo non è stato facilmente accettato nella scienza politica, i suoi critici maggiori sono
Spiro e Schapiro i quali hanno dichiarato che “totalitarismo” è legato alla guerra fredda e all’uso ideologico
che ne è stato fatto contro i regimi comunisti. Ma l'uso ideologico del termine totalitarismo venne fatto
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dagli stessi regimi che intendevano gloriarsi della loro capacità di controllo capillare sulle vite e sui destini
dei loro popoli.
Due fattori vengono considerati indispensabili per il concetto di totalitarismo: un grado di sviluppo
tecnologico che consenta al controllo terroristico totalitario di dispiegarsi pienamente e la presenza di un
partito unico organizzato in modo da applicare questo controllo con estesa e profonda capillarità. La
proprietà dei mezzi di produzione e la nazionalizzazione dell’economia non sono essenziali, ciò che conta è
chi comanda.
Regimi sultanistici e regimi post-totalitari
Linz e Stepan analizzano la varietà di regimi autoritari:
 regimi autoritari
 regimi totalitari
 regimi post-totalitari
 regimi sultanistici
Weber scrive una teoria sui regimi sultanistici: “con il sorgere di un apparato amministrativo e militare
puramente personale, ogni potere tradizionale inclina al patrimonialismo e, con l’estremo ampliarsi del
potere, al sultanismo”.
I regimi sultanistici non hanno alcun tipo di ideologia: sono le idee dei leader a definire i limiti
dell’accettabilità e della variabilità delle posizioni politiche all’interno del regime. Non necessitano di alcuna
forma di mobilitazione, distruggono il pluralismo tramite la conquista del potere del sultano, della sua
famiglia e dei suoi più stretti collaboratori, esposti all’arbitrio e al capriccio del leader. I regimi sultanistici
cancellano le differenze tra privato e pubblico per quel che riguarda la sfera di attività del leader e
giungono a termine con la scomparsa del sultano, oppure dopo un colpo di stato militare.
Capitolo dei regimi post-totalitari … Linz e Stepan ne individuano tre sottocategorie:
1. Post totalitarismo iniziale: si è appena intrapreso il processo di cambiamento. La leadership si trasforma
in burocratica (non più carismatica) e spesso diventata collegiale: ne consegue che i limiti al potere
personale del leader sono più consistenti e la transizione democratica sarà più complicata.
2. Post-totalitarismo congelato: comporta la tolleranza di alcune attività critiche della società civile
suscettibili di tradursi nella comparsa di gruppi e associazioni. Tuttavia il regime mantiene intatto o quasi
l’insieme dei suoi meccanismi di controllo.
3. Post-totalitarismo maturo: soltanto il ruolo del partito non viene messo in discussione … tutte le altre
componenti (ideologia, mobilitazione e pluralismo) sì! Nel momento in cui il partito decide di misurare il
suo potere con le altre forze politiche e sociali, la transizione alla democrazia diventa possibile (potrebbe
essere il caso della Cina dopo il 1989).
La decadenza del regime post-totalitario si può manifestare sotto tre forme diverse: può essere una scelta
consapevole della leadership che vuole mantenere il potere controllando il grado di apertura del regime,
può derivare da un’inarrestabile decadenza delle componenti totalitarie o ancora essere il prodotto di una
conquista sociale. In qualunque caso una volta che il regime totalitario viene meno, non esistono le
condizioni perché venga ricondotto in vita. Il regime totalitario potrà sperimentare una transizione verso un
regime democratico stabile, sfociare in un regime sultanistico o in un regime autoritario di pluralismo
limitato.
Sull’origine e la trasformazione dei regimi autoritari
E’ difficile individuare cause comuni e modalità simili per quanto riguarda l’instaurazione dei regimi
autoritari.
Può succedere ad esempio che si producano tensioni tra i detentori del potere e gli sfidanti, cioè gruppi
sociali relativamente emarginati e con risorse limitate.
I regimi autoritari risultano il prodotto della vittoria di gruppi che si oppongono alla democratizzazione sui
gruppi che la desiderano. Gli stessi detentori del potere, per impedire la vittoria degli sfidanti, sono
costretti a far ricorso alla forza, a irrigidire le modalità di governo, a escludere aperture politiche e chiudere
gli spazi della partecipazione, rischiando di cadere nuovamente nella fase autoritaria.In un altro caso i
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regimi autoritari sono l’opera di una democratizzazione troppo rapida, in cui i detentori del potere per
salvaguardare il loro status e privilegi facilitano addirittura il rovesciamento della democrazia.In altri casi,
infine, il potere delle classi dirigenti appariva comunque declinante e il potere delle classi popolari
ascendente. Peraltro, nessuno dei due gruppi aveva solide convinzioni democratiche e era disposto a quel
compromesso sulle regole, procedure, istituzioni che è essenziale per preservare la democrazia. Esempi di
vittoria delle classi popolari attraverso partito unico, poi ribattezzata rivoluzione, si ebbe in Russia con il
partito bolscevico.
Governi e regimi military
S. Huntington ha definito pretorianesimo il fenomeno dell’intervento dei militari in politica, con riferimento
ai pretoriani della Roma imperiale. Il pretorianesimo può essere:
1. oligarchico: si ha quando la partecipazione politica è limitata a cricche e clan. Gli ufficiali entreranno
temporaneamente a far parte dei governi per acquisire privilegi di carriera o status condividendo il potere
con civili politicamente affini. Il livello della violenza sarà basso poiché i civili all’opposizione non sono
organizzati o inclini a rischiare;
2. radicale: la partecipazione politica è estesa fino a ricomprendere le classi medie, con cui i militari
condividono gli obiettivi e lo status economico, essendone anch’essi entrati a far parte. I governi militari,
con una consistente presenza di ufficiali, durano il tempo di preparare le elezioni generali. Il livello di
violenza può diventare elevato se il partito delle classi medie spodestato si oppone al golpe.
3. di massa: la partecipazione viene estesa fino a ricomprendere le masse popolari. L’intervento dei militari
(per bloccare preventivamente l’accesso al governo dei rappresentanti delle masse popolari) si traduce in
veri e propri governi militari di durata variabile. Il livello della violenza può essere elevato qualora il partito
delle classi popolari decida di opporre alla forza delle armi quella dei numeri.
Il districarsi delle istituzioni militari dalla sfera politica assume abitualmente tre forme:
1. sconfitta politica dei militari, derivante da una sconfitta militare (vedi la Grecia dopo il fallito tentativo di
annessione di Cipro e l’Argentina nella guerra delle Falkland) oppure dalla delegittimazione elettorale (vedi
il Cile nel 1988).
2. disimpegno volontario, spesso di fronte all’ostilità crescente della società, ma negoziato, anche da
posizioni di forza (vedi il Brasile nel 1982).
3. golpe nel golpe, sostituzione degli ufficiali interventisti ad opera di ufficiali costituzionalisti che si
impegnano a restituire il potere ai politici.
I governi esclusivamente militari in genere non hanno lunga durata, ma in numerosi paesi costituiscono
parte integrante della coalizione governativa autoritaria dominante, come in Pakistan.
O’Donnel giunse a teorizzare la nascita e il consolidamento di regimi definibili come burocratico-autoritari,
le cui caratteristiche sono:
 la base sociale è rappresentata da una borghesia oligopolistica e transnazionale
 i militari hanno un ruolo decisivo
 i settori popolari sono esclusi, mentre le istituzioni democratiche e i diritti di cittadinanza sono liquidati
 il capitalismo rafforza le disuguaglianze nella distribuzione di risorse
 neutralità, obiettività e razionalità tecnica vengono utilizzati per spoliticizzare le tematiche salienti
 la rappresentanza è legata alle forze armate e alle imprese oligopolistiche
Questo tipo di regime avrebbe adempiuto al compito di condurre a compimento il processo di
industrializzazione e di perseguire una crescita economica: obiettivo implicito di questi regimi è contenere il
ritmo del mutamento socioeconomico per evitare una mobilitazione dei settori popolari e tarpare le ali ad
alcuni settori della classe media. I regimi autoritari falliscono quando si producono cambiamenti positivi,
che creano le condizioni per il superamento del pluralismo limitato. Ciò non accade nei regimi comunisti in
cui si vuole produrre il cambiamento economico e sociale per creare l’uomo nuovo.
La transizione dai regimi autoritari è condizionata dalla natura dell’organizzazione militare al governo … si
possono avere due casi: nel primo è l’istituzione militare gerarchicamente intatta a decidere tempi e modi
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di negoziazione con i civili o sceglie a quali di loro restituire il potere politico; nel secondo se gli ufficiali al
governo hanno sovvertito la gerarchia dell’organizzazione militare la transizione sarà più complicata (vedi la
Grecia dei colonnelli) in quanto vanno prima ricomposte le gerarchie interne per poi avere un
ricompattamento politico. La praticabilità del regime democratico che sostituisce governi e regimi militari
dipende dalle modalità di inclusione delle classi popolari in procedimenti di partecipazione politica.
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