laboratorio voce - saperne di più - www.fatefaville.it IL SIPARIO E LA

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IL SIPARIO E LA GABBIA
sull’irrinunciabile inattualità del teatro lirico
“Le è piaciuta l’Opera, mia cara?”
“Se mi è piaciuta?
Mi si sono aggrovigliate le budella!”
(dal film “Pretty Woman”)
Suoni sovversivi
La società foggia lo sviluppo cognitivo dei suoi membri attraverso gli strumenti
della cultura, dell’educazione, della comunicazione, chiedendo all’individuo un
costante impegno ad auto-regolamentare il proprio comportamento.
Lo strutturarsi della cultura ha però creato un contesto “protetto” in cui gli elementi
emotigeni “sovversivi” possono esprimersi: il teatro.
Sin dai suoi primi albori, attraverso la sua matrice dionisiaca, il teatro è il luogo
che ospita un’azione rituale che, attraverso la voce ed il movimento, contatta e
recupera alcune forme arcaiche di esternazione emotiva. Il teatro è il luogo dove si
può dare vita, spazio e voce a tutto ciò che è tenuto sotto controllo dalla ragione.
Sono queste le dinamiche che sostengono ogni riuscito spettacolo, che determinano
l’applauso più ampio e “frenetico” da parte del pubblico: la trama, il testo, la
partitura, non sono che meravigliosi alibi.
Tra le pulsioni che, in contesti sociali, sono ritenute più “pericolose” possiamo
annoverare l’aggressività e il sesso. Sono queste a generare i maggiori conflitti, il che
è naturale, dato che richiedono territorio, spazio di azione ed hanno forti collegamenti
con ciò che potremmo definire la nostra natura più arcaica. Sesso ed aggressività
sono contesti nei quali, ancora oggi, possiamo ascoltare la nostra “voce animale”, una
voce che abbiamo educato ad esprimersi ben diversamente.
Ma c’è un luogo dove, per la cultura occidentale, questa voce ha diritto di
cittadinanza ed è il teatro d’Opera.
Animali da palcoscenico
Alla fine del Cinquecento l’Opera nasce come esperimento intellettuale per
recuperare proprio quella matrice rituale del teatro che lega indissolubilmente suono e
movimento. Monopolizzato dalle corti per le sue potenzialità di sfarzo, questo genere
di spettacolo utilizza uno stile di canto aggraziato: la voce, attraverso la poesia del
testo, cerca di realizzare in primis la bellezza della forma. Questo più o meno fino a
Mozart, che inizia a battere nuove strade, aprendo la strada alla musica romantica.
Qui l'Opera subisce una grande trasformazione: arrivano il gusto, i modi delle genti
borghesi e i teatri cessano di essere il luogo esclusivo dell’intrattenimento di una sola
classe, quella aristocratica.
Sull’onda di questo cambiamento i templi dell’opera prendono ad ingrandirsi,
accogliendo al loro interno un numero di persone sempre più vasto ed eterogeneo.
tratto da “Le tre anime del suono” di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio © fatefaville 2010
Anche l'organico orchestrale e di conseguenza la “buca” e lo spazio scenico vanno
ampliandosi. I compositori, sotto la spinta di una Europa che sogna rivoluzione e
libertà, cominciano a liberare la musica ed il canto dagli orpelli estetici che
caratterizzavano il gusto aristocratico. Il teatro d'opera si avvia così ad abbracciare un
intendimento musicale di vasto respiro e ad amplificare l'impatto teatrale-emotivo
con il pubblico. In una parola, potremmo dire che dopo l'epoca dei lumi il mondo del
teatro musicale si sia aperto alla passione.
In questo particolare contesto al cantante veniva richiesta una inusuale incisività
vocale, sostenuta da un deciso apporto fisico. Più l'artista si dimostrava capace di
rispondere a queste esigenze, più i compositori accrescevano le “pretese”. Il fine
ultimo di questo moto circolare era naturalmente quello di rendere vivo e presente
l'ideale romantico: il sogno di un mondo migliore, un luogo “nuovo” dove,
nonostante insormontabili ostacoli e spesso a prezzo della vita, amore e libertà
possano trionfare.
Furono queste le contingenze storico culturali che influirono sulle modalità
dell'emissione vocale, dando il via ad una inaspettata rivoluzione fonica.
L'idea romantica, per motivi intrinseci alla sua stessa filosofia, esigeva un deciso
aumento dell'intensità espressiva della parola, un aumento del volume e quindi del
potenziale declamatorio. Questo fatto incoraggiò la ricerca di una espansione
dinamica del suono, tale da incrementare l’investimento psicomotorio e quindi
l'impersonificazione del ruolo nel divenire della vicenda da parte degli artisti.
Il cantante d’opera cominciò a ricercare fonazioni sempre più intense e vigorose,
scoprendo in poco tempo quel tipo di emissione oggi definita: canto a voce piena.
Nel teatro arrivarono così suoni per certi versi invadenti, ma dall'effetto
stupefacente e che produssero risultati stilisticamente molto diversi da ciò che fino ad
allora il teatro lirico aveva proposto. Questa rivoluzione fonica era ora in grado di
raggiungere il cuore del pubblico e in special modo di quello nuovo. Questa forma
“diretta” di cantare, realisticamente spontanea, fisica, fu dunque il simbolo della
liberazione da certe convenzioni e l’inizio di un modo diverso di intendere il
melodramma.
Il momento d'oro dell'opera lirica è stato il XIX secolo, con la nascita della
maggior parte dei capolavori oggi classificati come “grande repertorio”, ancora oggi
proposto sui più grandi palcoscenici del mondo. Il motore diretto e vivo delle grandi
passioni espresse sul palcoscenico lirico era la nuova voce, che i grandi artisti (da
Duprez1 in poi) avevano scoperto e cominciato ad abbracciare. Una voce capace di
1 Gilbert Louis Duprez nel 1831 fece ascoltare per la prima volta in teatro un
estremo acuto emesso a voce piena e non in falsettone. Il suo famoso “do di petto”
sancisce la fine della vocalità belcantistica e diviene il simbolo dell’estetica
romantica.
tratto da “Le tre anime del suono” di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio © fatefaville 2010
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rendere presente ai moti dell’animo di ogni spettatore le sue stesse perdute, o
disperse, emozioni.
Queste furono in sostanza le contingenze del caso e della necessità, che fecero
venire alla luce suoni vocali capaci di richiamare, nelle oscure profondità
dell’ascoltatore, “gridi” simili a quelli emessi dai nostri progenitori in epoca
preistorica, capaci di istituire luoghi di rievocazione emotiva entro i quali presero le
mosse personaggi di una intensità drammatica senza pari, che quasi dal nulla il
romanticismo aveva creato e che ora si proponevano al mondo senza timori o
reverenze.
In definitiva, potremmo dire che le ragioni che promossero lo sviluppo della
cosiddetta emissione romantica, non avrebbero avuto luogo se ci fossero state
tecnologie atte ad amplificare quel canto. La mancanza di tali mezzi ha costretto
maestri e cantanti a ricercare, per tentativi, qualsiasi cosa potesse in un qualche modo
espandere il “corpo” della voce. Questa fu la ricerca che condusse molti artisti a
discendere, loro malgrado, nelle “viscere del suono”, all’origine cioè del corpo
generatore, aprendo il proprio intendimento a pulsioni per loro natura pregne
d’energia animale.
I risultati di questa operazione furono sorprendenti, come d’altronde sono
sorprendenti i suoni prodotti da un qualsiasi animale intento ad esprimere il suo
potenziale d’azione. E forse è proprio per questo che si usa indicare il talento teatrale
con l’epiteto: animale da palcoscenico.
A rischio di estinzione
Attualmente si lamenta la carenza di “voci” per il cosiddetto grande repertorio.
Voci di cui, curiosamente, vi era invece grande abbondanza fino a due o tre
generazioni fa.
E dire che la maggioranza dei più grandi cantanti d’opera, da Caruso a Di Stefano,
da Lauri Volpi a Gigli, tanto per citare i più famosi, proveniva da luoghi rurali
caratterizzati da ignoranza e povertà diffuse: questi cantanti erano ben lontani dalle
possibilità economiche, di movimento, di confronto e documentazione che un
qualsiasi studente di conservatorio ha oggi a disposizione.
Ma perché, allora, in passato si aveva una così vasta abbondanza di “voci”?
Coloro che hanno studiato canto fino ad una cinquantina di anni fa erano persone
diverse da quelle di oggi. Se riflettiamo su alcuni cambiamenti che si sono prodotti
dopo la fine della seconda guerra mondiale, vedremo come l’italiano medio abbia in
poco tempo rivoluzionato il suo stile di vita, la sua idea del corpo e del mondo.
Sfogliando un rotocalco degli anni ’50 o ‘60, si incontrano volti, sorrisi, posture, che
ci fanno balzare agli occhi come tutto fosse allora costituito da altra “sostanza”, da
altra tonicità. Si mangiava in altro modo, ad esempio restando molto più tempo a
tavola. Ci si nutriva con prodotti diversi. Ci si azzuffava in cortile con gli altri
bambini senza alcuna supervisione, con risultati disastrosi per il vestiario e la salute
(umidità, freddo, ingestione di corpi estranei, batteri, parassiti). Non c'era la tv, le sale
tratto da “Le tre anime del suono” di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio © fatefaville 2010
da cinema erano scarse, il teatro era un'esperienza rara: giravano pochi soldi e il
potere d’acquisto della maggior parte delle persone era basso. L’Italia era
sostanzialmente un paese rurale, governato da forti tradizioni.
Nell’ambiente odierno non è mutato solo il paesaggio urbano, ma anche i
paradigmi con cui il mondo e le cose che l’abitano vengono codificate e quindi
riconosciute. È mutato, in sostanza, il modo stesso con cui il nostro cervello, ma
anche il nostro corpo, processano le informazioni, gli stimoli provenienti dall'esterno.
Ai tempi dei nostri nonni era comune incontrare persone con mentalità ingenue: gente
bigotta, se vogliamo, ma che abbracciava con candore un intendimento della vita
capace di cogliere il semplice nel proprio quotidiano. Non che la vita fosse migliore
di oggi, ma quel modo di concepire il mondo rivelava una particolare psicologia, che
potremmo definire “intendimento semplice”. Una psicologia con cui molti di quei
robusti ingenui si avvicinavano all’arte del canto, con voci generose, toniche e aperte
allo spazio della loro azione.
Chi studia canto oggi proviene per lo più da grandi centri urbani: è nelle città che
sorgono e decollano le opportunità, i fermenti creativi. Ma qui lo spazio si riduce e gli
occhi difficilmente si incontrano con la vastità dell’orizzonte.
Nel passato, inoltre, la maggior parte degli aspiranti cantanti veniva reclutata da
maestri che “scoprivano” le voci dotate, magari semplicemente udendole parlare o
gridare.
Oggi si studia canto su iniziativa personale, per la voglia di misurarsi con se stessi
e di vincere. Così le intenzioni si gonfiano di scopi da perseguire, di fini da
raggiungere e lo “stato dell’abbandono” diventa sempre più difficile da esperire.
Un’arte anacronistica
Il rinnovamento del repertorio e la produzione di nuovi titoli hanno, nel moderno
teatro lirico, uno spazio minimo. Esso cerca di rinnovarsi attraverso l’originalità delle
regie e degli allestimenti, ma sul versante della spettacolarità resta “perdente” rispetto
ad altre forme di intrattenimento che hanno ben altre potenzialità commerciali, ben
altro successo di pubblico.
C’è però una componente che non conosce età, data dall’eterna magia della voce:
quella particolare, vibrante emissione, capace di attualizzare anche storie trite e
ritrite, di indurci a rivedere l’ennesima Traviata, la centesima Tosca, il
cinquecentesimo Barbiere.
Eppure ci sono direttori d’orchestra e registi che dichiarano pubblicamente di non
sopportare, professionalmente parlando, i cantanti. Ed in special modo i cantanti
dotati di maggior corpo vocale. Perché di solito sono i più difficili da “domare”:
l’emissione ipertrofica fatica, infatti, a soggiacere a direttive. Ed in un teatro, come
quello odierno, dove si cerca principalmente la perfezione formale, queste voci
tendono ad estinguersi.
Sarebbe invece importante che, soprattutto grazie ad una didattica rinnovata,
questo prezioso e primigenio modus operandi vocale non venisse a perdersi
tratto da “Le tre anime del suono” di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio © fatefaville 2010
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nell’incalzare delle nuove esigenze dello spettacolo, poiché la voce lirica, prodotta
dal vivo, riesce a “toccare” profondamente anche l’ascoltatore più incolto e distratto.
Possiamo chiudere gli zoo, assieme all’etica demodé che li accompagna, ma
sarebbe un peccato eliminare anche la possibilità di contatto con l’animalità, con la
magia del suo grido.
L’equilibrio tensivo
Senza alcuno studio è certo molto difficile arrivare a cantare alla Scala di Milano,
così come non si può partecipare alle Olimpiadi senza una adeguata preparazione
atletica. Ma ciò non significa che correre gagliardamente o cantare a tutto corpo siano
attività innaturali.
A dimostrazione dell’artificiosità dell’emissione lirica c’è tuttavia chi adduce la
presenza in essa di una tensione continua, prodotta dal lavoro di due forze
antagoniste: una che tira verso l'alto e l’altra che tira verso il basso e che
impedirebbero una fonazione “rilassata”. Ora, a prescindere dal fatto che solo una
laringe silente può dichiararsi in stato di totale relax e che qualsiasi processo
fonatorio impegna l’organo vocale, si fraintende nel contrapporre l’apparente
rilassatezza della voce parlata all’energia sonora investita nel canto. Quella
rilassatezza è frutto di una generalizzata ipotonia motoria, che non rappresenta una
condizione naturale, ma è prodotta ed amplificata da un disimpegno psico-fisico di
ampia portata. Automobili, tapis roulant, montacarichi, gru, ascensori, aerei, treni,
elettrodomestici, TV, computer compiono al nostro posto operazioni che un tempo
facevamo noi in modo diretto e col corpo.
La fonazione “culturale”, che ci appare oggi come la più naturale a nostra
disposizione, comporta uno spostamento della laringe, che risulta molto mobile, verso
l'alto e verso il basso. Ciò dà luogo ad una certa instabilità fonatoria: man mano che
la voce si sposta verso l’alto tende a “strozzarsi” e quando scende verso il basso tende
a “ingozzarsi”. La varietà di posizionamenti laringei dà anche vita, come abbiamo
visto, ad una vasta gamma di timbri e quindi di stili vocali, in cui comunque
estensione e volume risultano limitati.
Il canto lirico, invece, propone una laringe in posizione stabile, che si definisce
“agganciata”, fra due forze uguali e contrarie ed in relazione sinergica fra loro. Ciò
che si ricerca è un costante “equilibrio dinamico”, ovvero una notevole stabilità
fonica. Questo equilibrio è creato dalla pressione proveniente dal basso, cioè dalla
colonna aerea, che la laringe si trova a contrastare, per mantenere costante il suo
tonico assetto d’appoggio. Nel momento in cui le due forze sono in equilibrio, non
avremmo più una tensione, bensì un rilassamento ed inoltre vantaggi riguardo
l’estensione, l’omogeneità timbrica, la purezza degli armonici.
Un risultato che non può ovviamente essere ottenuto con stati di ipotonia
muscolare come quelli che imperano nella nostra attuale vita quotidiana.
tratto da “Le tre anime del suono” di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio © fatefaville 2010