Mini Dossier Prevenzione N. 4/07

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Mini Dossier Prevenzione N. 4/07
Le dimensioni globali dell’obesità
Definizione
Secondo la definizione dell’OMS, l’obesità è una condizione caratterizzata da eccessivo peso corporeo per accumulo di tessuto adiposo in misura tale da influire negativ amente sullo stato di salute. Come rilevato dal 6° Rapporto sull’Obesità dell’Istituto Auxologico Italiano, con il termine generico di obesità si comprendono in realtà una serie di
sindromi caratterizzate da cause, quadro clinico e approcci terapeutici diversi, per cui si
potrebbe addirittura par lare “delle” obesità.
Per stabilire la diagnosi viene valutato il “Body Mass Index” (BMI) che si calcola div idendo il peso per la statura elevata al quadrato (BMI = Kg/m2).
L’OMS indica le seguenti classi: sottopeso BMI<18,5, normopeso BMI>18,5 e < di 25, sovrappeso BMI>25 e obesità BMI>30. Sono state definite Obesità di I, II e III grado quei valori di BMI compresi rispettivamente tra 25 e 29,9, fra 30 e 39,9 e maggiori di 40.
Esistono comunque delle differenze tra uomini e donne, che tendono ad avere più
grasso corporeo, e tra la popolazione anziana rispetto a quella giovane. Per una corretta
diagnosi clinica di obesità, sarebbe quindi opportuno conoscere la composizione corporea, in modo da poter discriminare l’eccesso di adiposità, cioè l’obesità vera,
dall’eccesso ponderale legato anche ad altri fattori, quali l’ipertrofia muscolare
dell’atleta, la ritenzione idrica e la costituzione scheletrica.
Epidemiologia
I dati di prevalenza sono allarmanti: si parla di epidemia e di pandemia dell’obesità,
dal momento che anche i paesi in via di sviluppo (e soprattutto quelli con economie in
transizione), che solitamente affrontano condizioni di sottoalimentazione, si trovano paradossalmente a fronteggiare questo problema.
L’obesità è considerata l’epidemia di più vaste proporzioni del terzo millennio e la più
comune patologia cronica del mondo occidentale, considerando sia le complicanze dirette (cardiovascolari e respiratorie) sia quelle ad essa frequentemente associate. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) americani, essere obesi aumenta il rischio di molte condizioni patologiche tra cui ipertensione, iperlipidemia, diabete tipo II, malattie cardiovascolari, calcolosi della colecisti, osteoartrite, problemi respiratori, alcuni tumori.
Circa il 90% dei casi di diabete è attribuibile all’eccesso di peso. Nel 2025 si prevede
che saranno più di 400 milioni i casi di diabete associati a obesità, in larga prevalenza
dovuti a modificazioni nello stile di vita che accompagnano i processi di urbanizzazione,
soprattutto per le popolazioni che hanno abbandonato le loro abitudini tradizionali. Il rischio di patologie cardiovascolari è notevolmente maggiore tra i soggetti obesi, i quali
soffrono di ipertensione arteriosa cinque volte più spesso dei normopeso.
Di fatto il sovrappeso e l’obesità stanno contribuendo all’aumento globale
dell’ipertensione: nel 2000 gli ipertesi erano un miliardo, ma saranno 1,56 miliardi nel 2025.
Questo aumento avrà effetti considerevoli nei paesi in via di sviluppo, dove la prevalenza dell’ipertensione è già elevata e le malattie cardiovascolari tendono a svilupparsi più
precocemente r ispetto ai paesi sviluppati.
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Tali complicazioni e associazioni sono di gran lunga più frequenti nell’obesità centrale
(o viscerale o androide), caratterizzata dal deposito di adipe a livello soprattutto addominale e riconoscibile per un rapporto fra la circonferenza minima della vita e quella
massima dei fianchi superiore a 0.85 nella donna e a 0.95 nell’uomo, rispetto a quanto
avviene nell’obesità periferica (o sottocutanea o ginoide).
Negli ultimi anni diversi studi internazionali hanno dimostrato che l’aumento della circonferenza addominale rappresenta un fattore predittivo più efficace di rischio cardiovascolare rispetto al classico indice di massa corporea, e addirittura lo studio Interheart
ha identificato l’obesità addominale come uno dei nove fattori potenzialmente responsabili di infarto. Uno studio internazionale (IDEA) ha valutato la prevalenza del fenomeno
in diversi paesi del mondo (63 nazioni coinvolte), grazie alle rilevazioni effettuate da più
di 6000 medici di medicina generale su circa 177.000 pazienti, nel maggio 2005.
La ricerca ha previsto la realizzazione di una sorta di “mappa” mondiale della prevalenza dell’obesità addominale, con la creazione di 10 macroregioni (Canada, America
latina, Europa settentrionale, Europa meridionale, Europa orientale, Africa (in particolare
alcuni paesi dell’area subsahariana e il Sud Africa), Medio Oriente, Asia dell’Est, Asia
dell’Ovest e Australia).
Dalle rilevazioni emerge chiaramente il rapporto esistente tra maggiore incidenza di
malattie cardiovascolari e aumento della circonferenza addominale, con l’obesità localizzata a livello addominale che rappresenta da sola un fattore in grado di incrementare
il rischio cardiovascolare, indipendentemente dall’età e dall’indice di massa corporea.
In particolare, un incremento significativo della circonferenza addominale (14 cm per gli
uomini e 14,9 per le donne), rispetto ai valori di partenza, aumenta il rischio di malattie
cardiovascolari dal 21 al 40%. La prevalenza dell’obesità addominale si aggira su scala
mondiale intorno al 40%, considerando come cut-off – rispettivamente per uomini e
donne – 102 e 88 centimetri di circonferenza. Il dato è simile in tutte le aree considerate
esclusa l’Asia; adottando i limiti più restrittivi suggeriti recentemente dall’International
Diabetes Federation (IDF), pari a 94 cm per i maschi e 80 cm per le femmine, la prev alenza di obesità addominale sale su scala mondiale al 65 per cento, sempre escludendo
l’Asia, in cui raggiunge comunque il 40%.
Nel suo “Rapporto sulla salute in Europa 2002”, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS definisce l’obesità come "un’epidemia estesa a tutta la regione europea". Circa la metà
della popolazione adulta è in sovrappeso e il 20-30% degli individui, in molti paesi, è definibile come clinicamente obeso. La Conferenza Europea sull’obesità di Copenhagen del
2002 ha evidenziato che l’incidenza dell’obesità è aumentata in Europa del 10-50 per
cento nell’ultima decade, secondo il paese considerato, e che circa il 4% di tutti i bambini europei è affetto da obesità.
In Italia, secondo stime recenti, il 34,7% della popolazione è in sovrappeso, con il 9% di
obesi. Le cifre parlano del 40% di maschi adulti in sovrappeso (30% le femmine) e del 10%
di adulti obesi, con picchi nel Sud del paese. Ma il dato preoccupante riguarda i più
piccoli. Gli italiani sono, con i greci, i bambini europei più in sovrappeso.
La situazione è meno drammatica che in America dove il 60,5% degli adulti sono in sovrappeso, il 23,9% obesi e il 3% gravemente obesi. Sono oltre 40 milioni gli americani che
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possono essere definiti obesi (BMI = 30) e l’obesità, con almeno 300 mila decessi l’anno, è
la prima causa di morte.
Nel mondo ci sono più di un miliardo di adulti in sovrappeso e più di 300 milioni di obesi.
Secondo la Task Force internazionale sull’obesità, almeno 155 milioni di bambini sono in
sovrappeso o obesi. (Hossain P. et al. NEJM 2007; 356: 213-5).
Cause e meccanismi
L’obesità deriva da una alterazione dell’assunzione e/o dell’utilizzazione e/o del deposito delle sostanze nutritive (in un soggetto adulto medio, il tessuto adiposo è in grado di
contenere una quantità di energia che va dalle 100.000 alle 200.000 kcal): meccanismi
che comportano uno squilibrio tra eccessiva introduzione calorica, assoluta o relativa, rispetto al dispendio energetico.
Uno studio recente (BMJ. 2005 Jun 11;330(7504):1357) su un campione di circa 9000
bambini inglesi di 7 anni, ha identificato otto fattori di rischio che possono costituire altrettanti obiettivi di terapie preventive. Essi sono:
§ genitori obesi (uno o entrambi)
§ adiposità precoce (prima dei 3 anni e mezzo)
§ passare più di otto ore a settimana davanti alla televisione (fino a 3 anni)
§ dormire meno di 10.5 ore per notte (fino a 3 anni)
§ aumentare velocemente di peso dopo la nascita
§ un peso elevato alla nascita
§ guadagnare molto peso durante il primo anno di vita
Anche il fumo materno tra il settimo e l'ottavo mese di gravidanza si assocerebbe ad
un aumento di peso del nascituro.
Nell’ultimo ventennio, l’obesità è triplicata nei paesi in via di sviluppo che hanno adottato stili di vita occidentali (riduzione dell’attività fisica e aumento del consumo di cibo
ipercalorico). Anche i ragazzi hanno modificato il loro stile di vita, con il risultato di un
aumento del sovrappeso infantile dal 10 al 25 per cento e dell’obesità dal 2 al 10 per
cento.
Nell'ultimo decennio, la percentuale di persone in sovrappeso oppure obese è di fatto
raddoppiata a livello mondiale. A questa crescita hanno contribuito in diversa misura fattori ambientali e genetici. Tra questi ultimi, potrebbe avere un ruolo importante il genotipo 'risparmiatore', che per secoli ha rappresentato un vantaggio selettivo, soprattutto
nelle aree del mondo colpite da gravi e lunghe carestie, in quanto favoriva le persone in
grado di utilizzare meglio le risorse alimentari. Con l’aumento della disponibilità di cibo, le
persone con questo genotipo sarebbero predisposte a maggiore rischio di andare incontro a obesità e malattie associate.
Il 6° rapporto sull’obesità già citato mette in luce gli aspetti neurobiologici legati a questa condizione, sottolineando l’esistenza di complessi meccanismi neurendocrini, anche
geneticamente determinati, che regolano l’equilibrio tra calorie introdotte e spese. I circuiti di trasmissione tra centro (aree ipotalamiche) e periferia coinvolgono numerosi ormoni e neurotrasmettitori. In evidenza soprattutto il sistema degli oppioidi e dei cannabi-
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noidi endogeni e alcune proteine, come la grelina e la leptina, coinvolte nella trasmissione di messaggi fame/sazietà. La grelina è un ormone prodotto dallo stomaco ed implicato nell’eziologia dell’obesità attraverso la stimolazione dell’appetito. Le concentr azioni di questo ormone sono correlate inversamente con le variazioni di peso, assunzione
di cibo, variazioni del bilancio energetico e appetibilità del pasto.
La leptina è normalmente prodotta dalle cellule adipose dopo un pasto ed agisce
nell’ipotalamo dove induce, attraverso una cascata di reazioni, senso di sazietà. Fu identificata nel 1994 nei topi in cui mutazioni del gene ob, che portano ad una totale mancanza di questa proteina, provocavano una grave obesità: quando agli animali veniva
somministrata leptina essi diminuivano l’introito di cibo, il loro metabolismo aumentava e
perdevano il 40% del peso in un mese. Ma la speranza che questa proteina potesse costituire una cura per l’obesità è stata vanificata dalla scoperta che il 99,9% degli obesi
produce sufficienti (o anche eccessive) quantità di leptina, ma risulta resistente ad essa.
Nel 1996 è stato pubblicato sul NEJM uno studio sull’uomo che dimostrava come al
contrario dei topi geneticamente modificati, gli uomini obesi avevano livelli di leptina
quattro volte maggiori dei soggetti non obesi. Una porzione del cervello chiamata nucleo arcuato è particolarmente sensibile all’azione della leptina e risente negativamente
del suo eccesso. In realtà quando la leptina viene iniettata, alcune cellule del cervello
rispondono ad essa mentre altre si oppongono alla sua azione. L’obesità deriverebbe da
uno squilibrio in questo sistema di controllo che vede implicate diverse citochine. Una
persona gravemente obesa potrebbe avere un feedback più compromesso rispetto ad
un soggetto con obesità lieve/moderata. Ricercatori americani hanno individuato una
proteina che potrebbe agire bloccando l’azione della leptina e costituire un nuovo bersaglio farmacologico.
Uno studio pubblicato sugli Archives of Disease in Childhood ha dimostrato che dormire
meno di otto ore abbassa i livelli di leptina e fa innalzare quelli di grelina (Taheri S. Arch
Dis Child. 2006 Nov; 91(11):881-4). L’alterazione dell’equilibrio di questi ormoni che regolano l’appetito potrebbe spiegare l’aumento di BMI che si riscontra negli adulti ma soprattutto nei bambini che dormono poco. Il soprappeso a sua volta peggiora la qualità
del sonno, instaurando un circolo vizioso da cui diventa sempre più difficile uscire. La leptina è stata anche implicata nell’associazione tra sovrappeso in età infantile e pubertà
precoce delle bambine. Un recente studio americano ha mostrato che in bambine con
un indice di massa corporea ben al di sopra dei livelli di guardia il rischio di pubertà precoce diventava triplo.
Misure terapeutiche
È bene considerare che l’obiettivo di ogni trattamento è mirare non al raggiungimento
del peso ideale, ma di quello cosiddetto "ragionevole", intendendo, con tale termine, il
peso mantenuto senza sforzo che permette buone condizioni di salute fisica, psichica e
sociale. È dimostrato che una perdita anche solo del 5-10% del peso iniziale si accompagna ad una significativa riduzione di mortalità e morbilità.
Vi è poi un limite fisiologico alla entità di percentuale di peso che può essere persa in
un singolo ciclo terapeutico, che deve sempre comprendere un adeguato periodo di
mantenimento del peso. Il mantenimento di un peso corporeo ad un livello del 10% inferiore al livello iniziale si associa nei soggetti obesi ad una riduzione adattativa del meta-
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bolismo energetico. Vi è dimostrazione del fatto che l’“adipostato” ipotalamico conservi
memoria del peso massimo raggiunto sino a otto anni dal dimagramento. Dal punto di
vista clinico, il rischio di recupero ponderale è massimo nei due anni e significativamente
presente sino a cinque anni dopo il dimagrimento.
L’elevata complessità dei meccanismi di regolazione del peso corporeo rendono improbabile un approccio farmacologico che coinvolga una singola molecola od un singolo circuito nervoso o via metabolica sia risolutivo della malattia dell’obesità. È quindi
probabile che una cura efficace a lungo termine richieda un approccio multidimensionale, con più farmaci che agiscano a diversi livelli su diversi meccanismi, e multidisciplinare, in combinazione con terapie nutrizionali, motorie, psicologiche e chirurgiche.
La ricerca farmacologica è indirizzata allo studio di molecole che possano agire sul dispendio energetico e/o sull’assunzione dei nutrienti (grassi e/o carboidrati).
I farmaci approvati in Italia per il trattamento dell’obesità sono:
§ Sibutramina - un inibitore del reuptake delle amine simpaticomimetiche, aumenta
l’attività adrenergica, serotoninergica e dopaminergica cerebrale. Agisce inducendo senso di sazietà e promuovendo il consumo di calorie (stimolo della termogenesi). Il suo uso richiede uno stretto monitoraggio per il rischio di effetti cardiov ascolari e per le numerose interazioni farmacologiche.
§ Orlistat - un inibitore delle lipasi pancreatiche ed intestinali presenti nel lume intestinale, impedisce l’idrolisi dei trigliceridi introdotti con la dieta in acidi grassi e monogliceridi assorbibili dalla mucosa intestinale. L’assunzione di questo farmaco ai pasti
permette l’inibizione dell’assorbimento sino al 30% dei lipidi della dieta. Inizialmente
approvato nel 1999 come farmaco per trattare l’obesità, recentemente la FDA ne
ha consentito l’uso a dosi ridotte (60 mg invece di 120 mg) come farmaco da banco e lo ha indicato in programmi che ne contemplano l’uso associato a dieta ed
esercizio fisico. Gli unici effetti collaterali sono a livello gastrointestinale (steatorrea).
§ Rimonabant - un farmaco approvato in altri Paesi che sarà disponibile a breve anche in Italia. Esso è il capostipite di una nuova classe di farmaci per la cura
dell’obesità e delle patologie associate (diabete, dislipidemia) chiamati bloccanti
selettivi dei recettori dei cannabinoidi CB1. Bloccando in modo selettivo i recettori
CB1 sia a livello centrale sia periferico, in modo particolare nelle cellule adipose e
in quelle epatiche, rimonabant contrasta l’iperattivazione del sistema degli endocannabinoidi, tipico dei pazienti con obesità addominale. L’interesse medico verso
queste sostanze nasce dalle diverse osservazioni scientifiche che evidenziano come la sovrastimolazione del sistema di cannabinoidi porti non solo all’aumento del
peso corporeo ma anche e principalmente a disfunzioni metaboliche che aumentano il rischio cardiovascolare.Come farmaco anti-obesità è già approvato per i
paesi dell'Unione Europea. L’approvazione è stata ottenuta grazie ai risultati del RIO
Clinical Trial Programme, che ha coinvolto più di 6.600 pazienti nel mondo, 4.500
dei quali sono stati studiati fino a 2 anni. I risultati del programma hanno dimostrato
che una dose di 20mg al giorno riduceva in modo significativo il peso corporeo e la
circonferenza-vita, l’emoglobina glicosilata (HbA1c) ed il livello di trigliceridi, ed
aumentava i livelli di colesterolo HDL. I più comuni eventi avversi che hanno comportato l’interruzione della terapia sono stati nausea, alterazioni dell’umore con disturbi depressivi, ansia e capogiri.
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Esistono poi altri farmaci, approvati per altre indicazioni, il cui uso nel trattamento
dell’obesità deve essere considerato criticamente:
§ Metformina: ipoglicemizzante per il trattamento del diabete di tipo II, che ha effetti
anoressizzanti;
§ Bupropione: antitabagico. Ha azione anticompulsiva ed è associato ad una modesta perdita di peso;
§ Fluoxetina: ansiolitico;
§ Fendimetrazina: anfetaminosimile e unico anoressizzante ad azione centrale disponibile in Italia (dispensazione soggetta a ricetta non ripetibile e piano generale di
trattamento);
§ Clorazepato di potassio: ansiolitico
§ Topiramato, zonisamide: farmaci antiepilettici e stabilizzanti il tono dell’umore che
mostrano effetti anti-fame e antibulimia;
§ Acido deidrocolico: azione lassativa;
§ Ormoni tiroidei: stimolanti del metabolismo;
§ Piruvato di calcio, carnitina: integratori, stimolanti del metabolismo.
Il trattamento con farmaci si può considerare non efficace se il paziente dopo tre mesi
non ha perso almeno ili 10% del peso iniziale.
Recentemente si è discusso su Lancet del ruolo dei farmaci antiobesità (sibutramina,
orlistat e rimonabant) nel ridurre effettivamente il rischio di malattie cardiovascolari e
diabete attraverso la riduzione del peso corporeo. Dagli studi pubblicati passati in rassegna emerge ad esempio che la sibutramina, sebbene associata con un miglioramento
di alcuni fattori di rischio cardiovascolare, in alcuni pazienti aumenta la pressione arteriosa. Sono in corso studi per stabilire l’efficacia a lungo termine di questi farmaci, ma occorreranno anni per arrivare a qualche conclusione. Finora la storia dei farmaci antiobesità non è stata molto incoraggiante. Sibutramina e orlistat hanno potenzialmente gravi
effetti collaterali, efficacia limitata e azione che termina al cessare dell’assunzione. Per il
rimonabant gli studi suggeriscono che il suo effetto possa diminuire nel tempo e gli effetti
collaterali sono ancora poco noti.
David L. Katz, Professore associato e direttore del Prevention Research Center, Yale
University School of Medicine, sostiene che l’obesità, più che essere il risultato di
un’azione sbagliata del nostro corpo, è il risultato di un effetto sul nostro organismo di un
ambiente completamente inadatto. Il prezzo da pagare nel tentativo di modificare il nostro metabolismo con una terapia farmacologica è esporre l’organismo a tossicità ed effetti collaterali.
Secondo le linee guida NIH i farmaci non dovrebbero essere mai la prima scelta terapeutica, ma andrebbero riservati ai soggetti nei quali altri trattamenti non si siano dimostrati efficaci. Il loro uso deve sempre integrarsi a modificazioni alimentari e comportamentali che rendano possibile una modificazione dello stile di vita, condizione fondamentale per ottenere risultati a lungo termine.
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Prevenzione
In Italia, la lotta all’obesità è uno dei principali obiettivi di salute del Piano nazionale
della prevenzione 2005-2007 (www.ccm.ministerosalute.it) del Ministero della Salute per il
quale l’Intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005 ha stanziato 440 milioni di euro.
Il 16 novembre 2006 tutti i 53 Stati membri della Regione europea dell’OMS hanno firmato una Carta europea per la lotta all’obesità che invita a programmare interventi
specificamente rivolti ai bambini, fra i quali l’epidemia di obesità è in continua crescita.
Tra le altre azioni chiave suggerite, il pacchetto di misure preventive include:
§ riduzione delle pressioni del mercato, particolarmente nei confronti dei bambini;
§ promozione dell’allattamento al seno;
§ assicurare la disponibilità e l’accesso a cibi salutari, inclusi frutta e verdure;
§ misure economiche che facilitino la scelta di cibi salutari;
§ offerta di strutture per l’attività ricreazionale/fisica;
§ riduzione dei grassi, zuccheri e sale nei prodotti confezionati, adeguata etichettatura dei prodotti;
§ politiche di trasporti e urbane che promuovano gli spostamenti in bicicletta e a
piedi;
§ creazione di opportunità nell’ambiente urbano che incoraggino l’attività fisica;
§ sviluppo e miglioramento delle linee guida nazionali sulla dieta e l’attività fisica.
L’OMS Europa ha definito una strategia europea, in cui la nutrizione, l’attività fisica e
l’obesità rientrano come priorità chiave della politica di sanità pubblica e sono incluse
nel programma di azioni 2003-2008. Questa strategia ha fatto seguito all’adozione, da
parte della Comunità europea, della Strategia globale su dieta, attività fisica e salute
(www.who.int/dietphysicalactivity/strategy/eb11344/strategy_english_web.pdf) elaborata dallo stesso organismo nel maggio 2004.
Siti internet di riferimento
www.ministerosalute.it
www.xagena.it
www.cardiometabolica.org
www.emedicinehealth.com
www.obesity.org
www.euro.who.int
www.obesita.org
www.nlm.nih.gov
www.associazioneitalianaobesita.it
www.nhlbi.ih.gov
www.bmiweightloss.co.uk
www.cdc.gov
www.dica33.it
www.healthierus.gov
Tabelle di riferimento per la diagnosi di obesità
www.siedp.org nazionali (vedi anche European J Clin Nutr 2002;56:171-180)
www.iotf.org internazionali (vedi anche BMJ 2000;320:1240-1243).
www.epicentro.iss.it
www.ccm.ministerosalute.it: è scaricabile “Dieci cose da sapere sull’obesità” versione italiana
dell’opuscolo pubblicato da OMS Europa nell’agosto 2006.
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